no, proprio non mi adeguo!

 

 

analfabeta politico

 

Anch’io non mi adeguo.

Non mi adeguo a questo governo dei rinvii.

Non mi adeguo allo status quo.

Non mi adeguo alla pigrizia conservatrice.

Dobbiamo avere la capacità di incidere nel futuro, anche un piccolo pezzo di futuro, e di immaginarlo più equo, e migliore.

La paura del cambiamento — qualunque sorpresa, qualunque incognita possa riservarci il futuro — è un indugio mortale.

Compresa la paura di sbilanciarsi, di dire cose azzardate, di sembrare stravaganti o ingenui o imprecisi.

Dobbiamo ricominciare a rischiar.

Chi si ferma è perduto.

E chi tace acconsente.

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politica arrogante

 

 

 

analfabeta politico

Mario Mauro alla Camera: gli armamenti? Sono cose per grandi!

 decidono solo il governo e i generali!

qui sotto una ricostruzione giornalistica di Toni de Marchi dell’incontro di Mauro con la Commissione Difesa della Camera: 

 

Il Parlamento vuol decidere sui sistemi d’arma? Non ci pensate proprio, non è affar vostro ha detto citando leggi e costituzioni ma significativamente omettendone passaggi decisivi. In assoluta continuità con il verbo quirinalizio secondo cui la destinazione delle spese militari è una riserva di caccia del Governo, Mario Mauro ha martedì preso a sonori schiaffoni la commissione Difesa della Camera che ha osato metter in piedi una indagine conoscitiva sui sistemi d’arma.

La storia è nota: dopo il disastro delle mozioni sugli F-35, la strana maggioranza che regge questo Paese ha deciso di vederci chiaro sui costi degli armamenti facendo una indagine conoscitiva. Naturalmente tutti sanno che le indagini conoscitive non servono a nulla, al massimo a raccogliere qualche documento che poi viene rilegato in un bel documentone finale. Ma tant’è. Rassicurato forse dagli esagerati complimenti che gli ha tributato il tremebondo presidente della commissione, il pidiellino Elio Vito, il cattolicissimo Mauro ha parlato per oltre un’ora per dire in sostanza che non c’è motivo che il Parlamento si interessi di armamenti. Le responsabilità sono sue, solo sue, al massimo anche dei generali. I parlamentari, al più, possono leggere le relazioni che, bontà sua, il ministro gli fa avere. E poi non scherziamo: questa è roba per grandi. Ci sono i trattati: la NATO, l’Europa (per inciso: la difesa è esclusa dalle materie di competenza comunitaria). Casomai gli americani.

Non una parola sulle spese per armamenti, se non per ribadire che noi spendiamo sempre poco, troppo poco. Anzi, il signor ministro (quello che vorrebbe mandare l’esercito a difendere la libertà religiosa dei cristiani in Africa) si è anche arrabbiato quando Donatella Duranti, di Sel, ha osato chiedere conto dell’F-35. “Già sapete tutto” ha sbottato, e ha citato una “intervista” al generale Esposito, direttore generale degli armamenti aeronautici, pubblicata sul sito della Difesa (intervista è tra molte virgolette perché l’intervistatore del mega-generale è Giuseppe Lupoli, un altro generale, suo dipendente tra l’altro). Questa è l’idea che Mauro ha dell’informazione al Parlamento: leggetevi il nostro house organ.

Un discorso, quello del ministro, molto criticato dalla deputata del Pd Rosa Villecco Calipari perché nel suo fervore filo-generali ha commesso una serie di forzature che la dice lunga sull’idea che ha del ministero della guerra: nel processo di acquisizione degli armamenti non ha mai citato ad esempio il segretario generale della Difesa che ha la responsabilità primaria dell’acquisto dei sistemi d’arma mentre e si è sempre e solo riferito al capo di stato maggiore della Difesa. In soldoni, il primo rappresenta la struttura ministeriale che fa capo al ministro, l’altro invece le forze armate vere e proprie. Come dire, Mauro si è persino spogliato di sue prerogative per escludere la politica dalle scelte militari del Paese.

Che il devoto ministro l’abbia fatta, come si dice, fuori dal vaso alla fine glielo ha rinfacciato anche il pd Giampiero Scanu, il papà delle mozioni inciuciste sull’F-35: “La sua relazione è fuori tema non mi pare che oggi dovessimo parlare di queste cose: dovevamo discutere dei programmi di armamento, di cui invece lei non ha assolutamente parlato”. Come dire: quanta ingratitudine dopo tutto quello che ho fatto per te.

Alla fine Mauro è riuscito in un’operazione politica magistrale: M5S, Sel e Pd uniti in un inusuale fronte comune. Forse la prossima volta potrebbe direttamente recitargli il Belli: Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo,/sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto./Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:/pòzzo vénneve ]a ttutti a un tant’er mazzo.

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lo ‘stile informale’ di papa Francesco

 

il papa bacia il bambino

sicuramente non si era mai visto un papa così: non perché faccia delle cose straordinarie ma perché fa cose ordinarissime con assoluta normalità

questo la dice lunga sulle nostre tradizionali rappresentazioni della figura del papa più costruzione di culto della personalità che espressione di spirito evangelico

ciò è importante per un ripensamento globale non solo del modo di essere chiesa nel mondo e del potere spirituale delle gerarchie religiose, ma anche dell’uso del potere politico nella nostra società

una bella riflessione in merito da parte di A. Serra nella sua ‘amaca’ odierna:

 

Se fa tanta impressione lo “stile informale” di Bergoglio, che sale sull’aereo con la sua valigetta in mano, è perché fin qui il Papa è stato assai più un re che un prete. Lo sfarzo e la pompa controriformista hanno tracciato un segno ininterrotto, e dagli abiti paludatissimi al protocollo sempre solenne ogni Papa è apparso al popolo come un’altissima autorità secolare anche quando tentava di esercitare la sua funzione spirituale. Anche a queste ragioni è dovuta la simpatia quasi “a prescindere” che il Dalai Lama e altri esponenti delle religioni e delle filosofie orientali riscuotono in Occidente da molti anni: un capo spirituale che mostra semplicità di modi e di abbigliamento è meno confondibile con i potenti e con i ricchi (l’abito fa il monaco…).
Anche per i non credenti diventa piuttosto appassionante capire se e quanto questa rivoluzione formale potrà incidere sulla Chiesa di Roma, smantellarne almeno in parte la greve presenza secolare e gli enormi interessi economici. È comunque una lezione per la politica, che deve molta della sua impopolarità all’incauto uso del potere e alla distanza dagli umili.

Da La Repubblica del 23/07/2013.

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aboliamo il reato di clandestinità

 

barbone

 

Corriere Immigrazione rilancia la petizione di Famiglia Cristiana.

Sergio Bontempelli, di Pisa, ne approfitta per intervistare in modo intelligente il direttore del settimanale cattolico Famiglia Cristiana:

Dal pacchetto sicurezza al pacchetto accoglienza. E’ la proposta lanciata proprio in questi giorni dal settimanale cattolico. In redazione ne abbiamo parlato e ci siamo trovati d’accordo sull’opportunità di questa iniziativa. Soprattutto in un momento come questo, in cui della Bossi-Fini e dei suoi obbrobri originali e derivati (il pacchetto sicurezza, per esempio), non si parla più. Abbiamo deciso quindi di sostenerla apertamente, attraverso il giornale, e invitiamo i nostri lettori e sostenitori a fare altrettanto (Corriere Informazione)

Bontempelli intervista don Sciortino:

Come e perché è nata questa iniziativa?
«Da tempo ci occupiamo degli immigrati che arrivano o che vivono nel nostro Paese a fronte di una politica che non sa o non vuole governare questo fenomeno. Anzi, l’ha affrontato nel modo peggiore, affidandolo a una forza politica, la Lega, che ha lucrato consensi elettorali sulla pelle di questi “poveri cristi” la cui unica colpa è d’essere nati nel “posto sbagliato” della terra.
In questi anni, abbiamo contestato leggi e provvedimenti ispirati più dal principio dell’indesiderabilità e dell’esclusione che dell’accoglienza e dell’integrazione, sia pure nel rispetto della legalità e della sicurezza. Gli stranieri, che oggi in Italia sono circa sei milioni, non sono solo una “scomodità” e un problema, sono soprattutto una grande risorsa economica e demografica di cui l’Italia non può fare a meno. Basterebbe adottare una politica più umana, più civile e, per chi crede, anche più cristiana».

C’è un nesso c’è tra questa iniziativa e la visita del Papa a Lampedusa?
«E’ significativo che il primo viaggio dopo la sua elezione papa Francesco abbia voluto farlo a Lampedusa, “periferia geografica e dell’esistenza”, dove arrivano migliaia di immigrati in cerca di speranza e futuro per sé stessi e le loro famiglie, fuggendo da guerre, persecuzioni, fame e carestie.
Papa Francesco ha voluto richiamare l’attenzione del mondo su questo immenso dramma, scuotere le coscienze sulle tante vittime (più di ventimila), che hanno trovato la morte nella traversata del Mediterraneo sulle carrette del mare. La sua denuncia sulla “globalizzazione dell’indifferenza” che ha “anestetizzato le coscienze” ci ha spinti a sollecitare, ancora una volta, l’opinione pubblica sul reato di clandestinità, perché sia abolito, ma anche su tutta la legislazione sull’immigrazione perché sia rivista, a cominciare dai ricongiungimenti familiari e dal riconoscimento della cittadinanza ai bambini nati e cresciuti sul nostro territorio, che sono già “italiani di fatto” e che solo una politica miope non vuole riconoscere».

Sul sito di Famiglia Cristiana sono indicati cinque validi motivi per abolire il reato di clandestinità. Uno di questi è «l’inumanità» del reato. Non le sembra un’espressione molto forte? Perché avete scelto di utilizzarla?
«Un fenomeno così complesso come l’immigrazione lo si affronta solo a partire da un principio semplice ma fondamentale: gli immigrati sono esseri umani come noi, con uguali diritti e doveri. La dignità della persona e l’uguaglianza di tutti gli esseri umani sono a fondamento della civile convivenza tra i popoli. Il mondo è una sola famiglia umana. Non possiamo discriminare nessuno in base al colore della pelle, della provenienza e del credo religioso.
Per questo non è giusto che una semplice condizione, senza che si sia commessa alcuna azione delittuosa, venga considerata un reato. Oltre tutto, prima di ogni respingimento, occorrerebbe sempre verificare chi ha diritto all’asilo umanitario e allo status di rifugiato, secondo le convenzioni internazionali che l’Italia ha firmato. Cosa che non sempre è stata fatta».

Il reato di clandestinità era stato introdotto per contenere l’immigrazione irregolare. Ma l’obiettivo non è stato raggiunto…
«Intanto vorrei ricordare che tanti nostri connazionali sono entrati in molti Paesi da clandestini prima d’essere regolarizzati. Noi abbiamo la memoria corta e dimentichiamo che un tempo gli “albanesi” o i “marocchini” eravamo noi italiani, e che da quando, nel secolo scorso, è cominciato il massiccio fenomeno migratorio, abbiamo mandato nel mondo milioni di nostri connazionali.
Il reato di clandestinità, inoltre, risponde a una logica solo di paura e di difesa, che non servono per affrontare in modo civile e solidale l’immigrazione. Sulla paura non si costruisce nulla di buono. Per ragioni politiche, in Italia si sono enfatizzate come gravissime emergenze sbarchi o ingressi di clandestini che in altre nazioni hanno affrontato e risolto con meno clamore. Vedi la Germania con i profughi delle guerre balcaniche.
I risultati del reato di clandestinità sono stati un fallimento: sono calate le espulsioni; è quasi impossibile chiedere il pagamento dell’ammenda da cinquemila a diecimila euro a poveracci entrati illegalmente nel Paese; si sono per lo più intasati i tribunali dei giudici di pace cui compete l’espulsione.
Va rivisto tutto. Il “pacchetto sicurezza” di Maroni, che chiedeva più cattiveria contro gli immigrati, va sostituito con il “pacchetto accoglienza”, con norme più umane e civili. Non dimentichiamo che diversi provvedimenti del “pacchetto sicurezza” sono stati dichiarati illegittimi o bocciati dalla Corte costituzionale e dalla Corte di giustizia dell’Unione europea».

Un’obiezione “classica” a queste posizioni è che, abolendo il reato di clandestinità, si rischia di incoraggiare flussi incontrollati di irregolari.
«Governare il fenomeno migratorio vuol dire anche intervenire e agire nei Paesi da cui partono questi flussi di disperati. Questi non lasciano i loro Paesi e le loro famiglie, rischiando spesso la vita, per fare un viaggio di piacere. Fuggono dalla miseria, dalla fame o da guerre. Un dato, questo, che spesso ci sfugge. Una più equa distribuzione delle risorse nel mondo, una più efficace cooperazione internazionale globalizzerebbero la solidarietà e la giustizia, piuttosto che l’egoismo. Altrimenti, come ricordava Paolo VI, «i popoli della fame verranno sempre a bussare alle nostre porte, alle porte del mondo dell’opulenza», e non ci saranno barriere, muri e vedette in mare che potranno fermarli e respingere».

Un’altra obiezione molto diffusa si potrebbe riassumere così: «se gli immigrati vogliono venire in Italia, lo facciano rispettando le regole». Gli irregolari, invece, entrano e soggiornano in violazione delle leggi. Monsignor Francesco Montenegro, sul sito di Famiglia Cristiana, dice invece che «essere clandestini non è una colpa». Come stanno le cose, a suo parere?
«Non si può trasformare un illecito o un’irregolarità in una colpa e in un reato. Lo dice non solo monsignor Montenegro, ma anche la Corte costituzionale che afferma che non si può punire penalmente lo straniero che si trova in “estremo stato di indigenza”. Certo, le leggi vanno rispettate, ma vanno anche riviste soprattutto se sono ispirate dal principio dell’indesiderabilità e non dell’accoglienza. Noi consideriamo gli stranieri solo come una “forza lavoro” necessaria per lo sviluppo e la crescita del nostro Paese, ma ignoriamo che hanno una loro storia personale e familiare. Vorremmo sfruttarli a “costo zero” per accrescere il nostro benessere. Ci servono ma non li vogliamo. Così rendiamo loro difficile la vita con una serie di provvedimenti xenofobi e discriminatori. E questo non è da Paese civile.

«La visita di papa Francesco a Lampedusa ha messo a nudo l’indifferenza se non l’ostilità della nostra politica nei confronti degli immigrati e del loro dramma. Indirettamente è stata una denuncia di tanti provvedimenti xenofobi. Il grido del Papa «mai più morti, per favore, nel mare» è stato una sferzata contro i respingimenti e la scarsa umanità con cui si affronta questo dramma.
Dalla destra politica si sono levate delle critiche, come la bacchettata dell’onorevole Cicchitto che ha detto al Papa di pensare a celebrare la Messa e pregare, perché governare è compito dei politici. Mi ha molto meravigliato il silenzio dei cattolici di destra che non hanno speso una sola parola a difesa del Papa. Eppure, gli stessi Lupi, Gelmini, Mauro, Formigoni… – tanto per fare qualche nome – sono più che solerti ogni volta che si tratta di correre in difesa del loro padre-padrone Berlusconi. Evidentemente, la disciplina di partito conta più del Vangelo e delle parole di verità e di misericordia. Una sudditanza vergognosa: da ciò è scaturita l’indignazione».

Che reazioni sta suscitando la campagna?
«Ha avuto un impatto molto positivo. Hanno aderito e continuano a farlo molte persone, gruppi e movimenti, cattolici e non. Speriamo di coinvolgerne ancora di più».

Come si può contribuire alla campagna? Cosa possono fare associazioni, volontari, parrocchie o singoli cittadini?
«Si può contribuire alla nostra iniziativa intanto firmando l’appello sul sito famigliacristiana.it e poi rilanciando la petizione anche tramite Facebook e Twitter invitando amici, gruppi e conoscenti a fare altrettanto. Più se ne parla e più firme raccogliamo, più possibilità abbiamo per abolire il reato di clandestinità e rivedere la legislazione sugli immigrati».

Sergio Bontempelli

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l’importanza delle vacanze

perché si va in vacanza? chiaramente per ‘staccare’, perché si è stanchi e si ha bisogno di operare un distacco con ciò che la quotidianità ti offre in modo monotono logorandoti nella tua creatività e voglia di nuovo

andare in vacanza è quindi un modo per migliorarsi, per scoprire nuovi aspetti di noi, per fare nuovi progetti innovativi per la nostra vita, sempre che la vacanza sia vissuta in modo significativo e liberante

il sito di psicologia ‘pollicino era un grande’ offre una bella riflessione in questo senso che merita leggere

(vedi link qui sotto?

Il Bisogno di “staccare” – Psicologia del “Sì” alla Vacanza e alla Natura!.

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i poveri e la teologia

 

croce

La Teologia della Liberazione di fronte al povero

Dio si è incarnato come povero. E questo ha un significato teologico molto chiaro: non é che Gesù sia un ricco che si maschera da povero, ma Dio ha voluto incarnarsi come povero perchè questo è il suo modo di essere. Nella povertà, infatti, ci sono dei valori intrinseci che sono quelli che costruiscono il Regno: essenzialità, solidarietà, generosità, fiducia e abbandono in Dio, condivisione, etc.
In quest’ottica, la principale differenza fra la Teologia della Liberazione e un certo modo di intendere la Dottrina Sociale della Chiesa, è che per quest’ultima i poveri sono sopprattutto un problema sociale e etico, che interpella la nostra coscienza. Per la Teologia della Liberazione, invece, prima ancora di essere un problema sociale, i poveri hanno uno status teologale: Gesù si identifica con loro (Mt 25,31-46), cioè è lì che ci incontriamo con Dio, e quindi è a partire dai valori dei poveri che Dio vuole costruire il suo Regno. Detto in altri termini, i poveri ci evangelizzano, nel senso che sono i depositari di quei misteri che Dio ha nascosto ai sapienti e ai potenti di questo mondo (Mt 11,25). È questa la intuizione fondamentale della Teologia della Liberazione, una intuizione che è profondamente radicata nel Vangelo, e che quindi rappresenta una ricchezza per tutta la Chiesa universale.

Il “Buon Samaritano” in America Latina
E’ a partire da questa intuizione che i Teologi della Liberazione leggono la Bibbia. E così, letta in America Latina, la Parabola del Buon Samaritano assume una valenza particolare, come ci insegna Jon Sobrino.
L’uomo che si trova “mezzo morto” al lato della strada che va da Gerusalemme a Gerico non si trova lí per caso o per fatalitá: sta morendo perchè dei “briganti” l’hanno “spogliato” e “percosso”. Oggigiorno i briganti sono un intero sistema, il sistema neoliberale che spoglia milioni di poveri dei loro diritti fondamentali e poi li lascia mezzi morti al bordo della strada.
Il sacerdote e il levita vedono il ferito ma “passano oltre”, non si fermano per aiutarlo: perchè? La principale ragione é che hanno paura: i briganti, forse, sono ancora lì nascosti da qualche parte, e potrebbero attaccare ancora. Ma non è solo questo; anche se i briganti se ne sono già andati via, il sacerdote e il levita non vogliono far niente che possa dar loro fastidio: fermarsi presso il moribondo e ridargli vita è una cosa che non fa piacere ai briganti, perché il moribondo potrebbe averli riconosciuti e potrebbe denunciarli. Il sacerdote e il levita, pii israeliti, preferiscono non immischiarsi in queste cose ‘politiche’ e “passano oltre”. Le questioni politiche sono questioni di vita o di morte per la gente. E noi spesso vi “passiamo oltre”.
Arriva poi il Buon Samaritano, che ha “compassione” del moribondo: gli “fascia le ferite”, e lo porta a una locanda perchè possa recuperare pienamente la salute. La compassione del Samaritano sfida i briganti probabilmente nascosti lì vicino da qualche parte: la misericordia implica la disponibilità ad affrontare i ladroni e gli oppressori di questo mondo. Senza questo coraggio di affrontare il peccato strutturale che produce la morte di tanti nostri fratelli non è possibile nessuna misericordia, e si “passa oltre”.
Il sacerdote e il levita frequentavano il Tempio tutti i giorni (oggi si potrebbe dire che andavano a messa quotidianamente). Noi siamo abituati a vedere il Samaritano come una figura molto positiva, peró allora il Samaritano – per il pio israelita – era uno ‘scomunicato’, un nemico di Israele, una persona spregevole, una figura pericolosa, escluso dalla salvezza che Dio riserva ai suoi figli. Attualizandolo all’oggi, si potrebbe chiamarlo il “Buon sovversivo” o il “Buon comunista” o il “Buon Islamico”. Ebbene, dice Sobrino, la Chiesa – se questo é necessario per difendere i poveri e gli oppresssi – deve avere il coraggio di farsi chiamare ‘samaritana’, comunista o filoislamica. Mons. Romero molte volte fu accusato d’essere comunista solo perché difendeva la vita dei poveri. Una Chiesa che fascia le ferite degli oppressi moribondi sa che sará perseguitata, calunniata, minacciata, sa che la chiameranno ‘samaritana’, ‘sovversiva’. Ma non per questo si arrende o cede alle minacce dei potenti. Come dice mons. Romero, “Noi riconosciamo Gesú come unico Re: Lui solo vogliamo amare e seguire, a Lui solo ci inginocchiamo… Anche padre Octavio Ortiz voleva seguire Gesú, e per questo l´hanno ucciso: gli hanno schiacciato la faccia, non é stato possibile ricomporla. Ma proprio in questo periodo in cui i nostri sacerdoti sono perseguitati e uccisi crescono le vocazioni sacerdotali; molti giovani entrano nei nostri seminari e, come l’apostolo Tommaso, vogliono seguire Gesú e dicono: ‘Andiamo con Lui, e moriamo con Lui!’ ” (Gv11,18).

La teologia como espressione d’amore
Tanti anni fa invitarono Gustavo Gutierrez, il fondatore della teologia della liberazione, a un Convegno internazionale su Giovanni della Croce. Molti si meravigliarono: cosa c’entra un teologo della liberazione – impegnato sui problemi sociali – con la figura di una grande mistico come Giovanni della Croce? E Gutierrez spiegò: ‘C’entra molto. Tutta l’opera di Giovanni della Croce ci descrive un Dio innamorato di noi. Attraverso i suoi scritti Giovanni della Croce vuole convincerci che Dio ci ama. Ebbene, quando viviamo tra poveri che devono affrontare ogni giorno problemi legati all’ingiustizia, alla corruzione, all’oppressione, alla violenza, alla povertà, davvero si domandano: ma Dio ci ama? Per cui il problema centrale della Teologia della liberazione è: come dire al povero ‘Dio ti ama’? Come rendere credibile per i poveri la Buona Novella in un contesto di ingiustizia e violenza?’

Per molto tempo si è pensato che la teologia ha una finalità di tipo eminentemente intellettuale: dimostrare, fin dove è possibile, l’esistenza di Dio e spiegare – in un linguaggio razionale – le verità della fede. Ma in termini biblici non è assolutamente evidente che la priorità della teologia sia dare una spiegazione razionale della nostra fede.
Il popolo d’Israele non sentiva la necessità di dare una spiegazione razionale dell’esistenza di Dio, perchè per loro Dio era una realtà evidente, Qualcuno che sperimentavano tutti i giorni della loro vita. Il problema, per il popolo d’Israele, non era sapere se Dio esiste ma verificare se Dio continua ad amare il suo popolo o si è stancato di lui. Il punto centrale della rivelazione non è la trasmissione di verità o dogmi. Gesù non si è incarnato per insegnarci dei dogmi, ma per farci sapere che Dio “ci ama fino alla fine” ed è disposto a dare la sua vita per amor nostro. Per cui la prima risposta che Dio si aspetta da noi non è una risposta di tipo intellettuale: Dio non ci chiede – come prima cosa – di accettare i dogmi di fede, ma di accogliere la sua chiamata amando i nostri fratelli come Lui ha amato noi. Il comandamento di Gesù è: Amatevi come io vi ho amato!
Anche la teologia, come attività cristiana, deve rispondere a questo comandamento: è un’espressione d’amore e non deve ridursi ad essere una mera riflessione razionale sulla Parola. La finalità della vita cristiana è la carità, la costruzione del Regno. Anche la teologia, dunque, dev’essere orientata alla costruzione del Regno e alla trasformazione della società.
Non sempre i teologi sono stati consapevoli di questo. Perciò Jon Sobrino parla di ‘peccaminosità’ della riflessione teologica: quando la teologia rimane ad un livello astratto e si disinteressa completamente della sofferenza in cui vivono milioni di esseri umani, sta commettendo peccato, il peccato di cinismo. E’ quindi urgente che la teologia si converta al Vangelo della pace, della giustizia e dell’amore.

da giovaniemissione.it

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maria ha scelto la parte migliore …

 

 

il commento di p. Maggi al brano evangelico di domani 21 luglio,16° domenica del tempo ordinario: Lc 10,38-42

MARTA LO OSPITO’. MARIA HA SCELTO LA PARTE MIGLIORE 

In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò.
Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi.
Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».
Quando leggiamo il Vangelo dobbiamo evitare il rischio di, e in passato è accaduto, di interpretare i brani secondo la nostra mentalità occidentale. Oggi abbiamo il brano conosciuto di Marta e Maria, che è sempre stato interpretato come l’elogio di Maria, la vita contemplativa, a discapito della povera Marta, la vita attiva.
Quindi come se ci fosse una élite di persone che possono scegliere una vita contemplativa, mentre la gran parte delle persone rimane in una vita di lavori quotidiani.
Nulla di tutto questo. Vediamo il brano, capitolo 10 di Luca, dal vers. 38. “Mentre erano in cammino”, il cammino è verso Gerusalemme dove Gesù si va a scontrare, “egli entrò in un certo villaggio”. Qui l’evangelista nota il contrasto: mentre essi erano in cammino, Gesù e i suoi discepoli, solo lui entra in un villaggio. Perché i discepoli vengono lasciati fuori?
Perché i discepoli hanno ancora una mentalità per cui non riescono a comprendere la novità portata da Gesù , la novità che Gesù vuole portare proprio nel villaggio. Quando nei Vangeli abbiamo il termine ‘villaggio’ è sempre in senso negativo; il villaggio è il luogo della tradizione, è il luogo del passato, è il luogo dove le novità vengono viste con sospetto. Quindi ogni volta che troviamo il villaggio è sempre un ambiente negativo di ostilità o incomprensione verso il messaggio di Gesù.
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“Ed una donna di nome Marta”, il nome Marta in aramaico ha un significato che è tutto un programma, “signora/padrona della casa”, “lo ospitò”, quindi la casa è la sua. “Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore”, ecco, questo fatto di stare seduta ai piedi del Signore non va interpretato in una concezione occidentale come segno di contemplazione, di adorazione.
Nulla di tutto questo; nella casa Mediorientale, nella casa palestinese non esistono le sedie, si sta seduti per terra, allora essere seduti ai piedi di qualcuno significa ‘ascoltarlo, accoglierlo’. Ad esempio c’è s. Paolo che dice che è stato istruito “ai piedi di Gamaliele”, oppure nel Talmud si dice “sia la tua casa un luogo di convegno per i dotti; impolverati della polvere dei loro piedi e bevi con sete le loro parole”.
Qui l’atteggiamento di Maria non è né di adorazione, né di contemplazione. Accoglie Gesù e ascolta il suo insegnamento. E’ l’atteggiamento della discepola nei confronti del maestro. “E ascoltava la sua parola”, il termine ‘parola’ è Logos in greco e significa non soltanto un insegnamento occasionale, ma tutto il messaggio di Gesù.
“Marta invece era distolta per i molti servizi”. E’ normale nella tradizione ebraica che la donna sia confinata in cucina, è l’uomo che fa gli onori di casa. La donna no, è invisibile e fa i molti servizi. Maria è stata capace di trasgredire il tabù della religione e della morale e fa il ruolo proprio del maschio e questo Marta non lo sopporta.
“Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla …»”, quindi Marta rimprovera Gesù per la libertà che si è presa la sorella. E notiamo come qui tutto per Marta è centrato su sé stessa. “«… MIA sorella, MI abbia lasciato da sola a servire? Dille dunque che MI aiuti»”, è imperativo, non è una richiesta.
Mia sorella, mi abbia, mi aiuti … tutta centrata su se stessa. E’ la perfetta osservante, la perfetta obbediente delle regole, che però si permette di giudicare la condotta degli altri. Quindi incolpa Gesù dell’assenza della sorella.
Ma Gesù a sua volta rimprovera Marta. “Ma il Signore rispose: «Marta, Marta …»”, quando c’è il raddoppio di un nome o di un termine, ha sempre un significato di rimprovero, come quando Gesù dice “Gerusalemme, Gerusalemme” e pianse su Gerusalemme. “«… tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una sola c’è bisogno»”. Qual è questa unica cosa di cui c’è bisogno?
Ce lo dice Gesù. “«Maria ha scelto la parte buona»” – letteralmente – “«che non le sarà tolta»”. Che cos’è che non può essere tolto ad una persona e perché Maria l’ha scelto? Maria ha scelto di ascoltare il messaggio di Gesù; ebbene il frutto del messaggio di Gesù in chi lo accoglie è un crescendo traboccante di libertà, ma non un libertà che viene data, perché la libertà che viene data poi può essere anche tolta, ma una libertà che è frutto di una conquista interiore.
Anche a scapito – come abbiamo visto qui – del rimprovero e dell’incomprensione degli altri. Quando la libertà è frutto di una conquista interiore nessuno la potrà più togliere. Questa è la parte buona che Gesù elogia in Maria e che invita tutti quanti ad accogliere.

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i primi segni di una chiesa italiana che cambia?

 

altare

Lavoro e diritti, pace e disarmo, mafia e antimafia: su questi temi sociali, nelle ultime settimane, i vescovi di diverse diocesi italiane si sono schierati pubblicamente, assumendo posizioni coraggiose e “di frontiera”.

Mons. Depalma: dalla parte dei lavoratori

Il caso più noto, che ha trovato ampio spazio anche nelle cronache nazionali, è stato quello che ha avuto come protagonista il vescovo di Nola, mons. Beniamino Depalma, che lo scorso 15 giugno ha partecipato ad una manifestazione degli operai dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco (Na) – da anni alle prese con la cassa integrazione – per contestare i sabati lavorativi di “recupero produttivo”.

Il vescovo si è collocato «dalla parte dei violenti e dei prevaricatori», ha affermato il responsabile dello stabilimento di Pomigliano, Giuseppe Figliuolo, in una lettera indirizzata al vescovo nel giorni successivi alla manifestazione. Nella missiva Figliuolo ha criticato la presenza del vescovo davanti ai cancelli dello stabilimento «per portare la sua solidarietà ad alcuni manifestanti che con azioni violente e minacce hanno tentato di impedire l’ingresso in fabbrica ai lavoratori della Fiat». «La sua scelta di essere dalla parte dei violenti e prevaricatori – aggiunge – è stata involontaria e causata dalle mistificazioni veicolate da alcuni organi di informazione che hanno volutamente travisato la realtà dei fatti», omettendo che «era stato sottoscritto un accordo sindacale tra azienda e legittimi rappresentanti dei lavoratori».

«No, dottor Figliuolo, io non sto dalla parte dei violenti, né volontariamente né, come dice lei, “involontariamente”», ha replicato il vescovo – che più volte, in passato, è intervenuto su questioni sociali che riguardavano il suo territorio, dalle lotte degli operai della Fiat al problema rifiuti e discariche abusive (v. Adista nn. 5/08; 34 e 52/09) – in una lettera pubblicata dal quotidiano napoletano Il Mattino (7/7). «Bisogna provare in ogni circostanza, anche la più burrascosa, a mettere le persone intorno allo stesso tavolo. Un vescovo, un pastore, non è un dirigente di un’azienda: quando vede e sente uomini gridare, ha l’obbligo morale di andare a vedere e sentire con i suoi occhi e con le sue orecchie. Credo che oggi, in questo tempo così difficile, i complici dei violenti siano tutti coloro che stanno rinchiusi nei loro fortini sperando che la burrasca passi senza bagnarli. Opera davvero violenza chi nega la speranza negando prospettive di futuro alle persone e alle famiglie. La Chiesa ha una sola preoccupazione: che le famiglie non perdano il salario». «Ha difeso i deboli, ha parlato in favore del diritto al lavoro. La sua è stata l’espressione di un pastore e non dovrebbe essere sindacata, e tantomeno censurata da parte di un’azienda», difende il suo vescovo don Peppino Gambardella, parroco di San Felice in Pincis a Pomigliano, anche lui da sempre schierato accanto agli operai della Fiat (v. Adista n. 25/09). «Ancora una volta i vertici Fiat hanno dimostrato arroganza e anche poco rispetto della dignità del pastore della Chiesa. Probabilmente a loro, che vivono una vita staccata dalla gente, sfugge il valore morale che il vescovo rappresenta per i lavoratori. A lui arriva il grido di aiuto dei poveri, la loro disperazione. Tutto questo purtroppo sfugge ai dirigenti della Fiat. Forse sono abituati a comandare e ad avere gente che deve solo obbedire. Sono poco adusi alla democrazia».

Intanto Depalma ha fatto sapere di aver accettato l’invito di Figliuolo a visitare lo stabilimento di Pomigliano: mi pare un modo «per avere l’opportunità di un confronto franco e diretto», ha motivato la sua decisione il vescovo.

Mons. Pizziol: l’unico valore è la pace

Ha invece declinato l’invito a partecipare all’inaugurazione della nuova base militare Usa all’aeroporto Dal Molin di Vicenza il vescovo della città, mons. Beniamino Pizziol, come peraltro gli aveva chiesto il Coordinamento cristiani per la pace di Vicenza e altre associazioni (v. Adista Notizie n. 23/13), evidenziando quindi un atteggiamento ben diverso da quello del suo predecessore, mons. Cesare Nosiglia, sempre piuttosto disponibile verso il Dal Molin.

«La decisione se presenziare o meno a detta inaugurazione – scrive il vescovo al colonnello David W. Buckingham, comandante della guarnigione dell’esercito Usa a Vicenza – è stata fonte di un sereno e condiviso discernimento sul significato della presenza di un vescovo in questa struttura che, al di là della buona coscienza delle persone che vi operano, resta il segno che siamo ancora lontani dalla realizzazione di quel progetto di pace, che tutti portiamo nel cuore come un “anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi” (Giovanni XXIII, Pacem in Terris, n. 1)».

La lettera del vescovo al colonnello Usa si conclude con una «speranza», che però pare piuttosto un auspicio di improbabile realizzazione: che la base di Vicenza – dove verranno collocate alcune attività di Africom, il comando militare Usa per l’Africa – «possa essere trasformata in un centro di formazione e di azione per promuovere lo sviluppo del Continente africano, a servizio della vera libertà e della democrazia».

Mons. Morosini: via i condannati dalle associazioni ecclesiali

Tornando a sud, il vescovo di Locri, mons. Giuseppe Morosini (nel frattempo nominato nuovo arcivescovo metropolita di Reggio Calabria), ha emanato un decreto molto severo nei confronti di chi è stato rinviato a giudizio in un procedimento penale: non può far parte delle associazioni ecclesiali presenti nella diocesi, compresi i Consigli pastorali parrocchiali. Morosini parla in generale dei rinviati a giudizio, ma è abbastanza chiaro – data la specificità del territorio della Locride – che il provvedimento sia diretto ad escludere dalla vita delle associazioni ecclesiali le persone coinvolte in indagini sulla ‘ndrangheta.Gli indagati, è scritto nel decreto, devono subito informare il responsabile dell’associazione del procedimento aperto a loro carico e autosospendersi dall’associazione. Se non lo fanno, interviene d’ufficio il capo dell’associazione o il vescovo. Il quale può anche sciogliere l’associazione nel momento in cui ravvisasse che è stata messa in atto una copertura dell’associato sotto indagine. L’esclusione dall’associazione resta in vigore fino alla fine del procedimento penale ed è definitiva in caso di condanna.

Il provvedimento del vescovo Morosini segue di qualche giorno quello del vescovo di Acireale, mons. Antonino Raspanti, che ha vietato, nel territorio della sua diocesi, i funerali ai condannati per mafia (v. Adista Notizie n. 25/13).
Don Diana: laurea post mortem

A Napoli, la Facoltà teologica dell’Italia meridionale – la sezione San Luigi, quella gestita dai gesuiti – ha deliberato di concedere la licenza in Teologia biblica a don Peppe Diana, il parroco di Casal di Principe ucciso dalla camorra nel 1994, come peraltro era stato proposto da diversi docenti e studenti della facoltà nel 2011, al termine della Giornata di studio “Martiri per la giustizia, martiri per il Sud. Livatino, Puglisi, Diana, uccisi non per errore” (v. Adista n. 35/11).

«Alcuni anni fa – spiega Sergio Tanzarella, docente di Storia del cristianesimo alla Facolta teologica, fra i principali promotori dell’iniziativa – ricostruendo la carriera universitaria di don Peppe, si è deciso di riconoscere il titolo che il parroco di Casale non aveva potuto conseguire. Don Diana era arrivato quasi alla fine dei suoi studi teologici, ma non riuscì a completarli perché fu ucciso dalla camorra il 19 marzo del 1994. Era una persona che amava studiare. Si era laureato in filosofia, ed era quasi arrivato alla conclusione degli studi in teologia biblica quando fu assassinato. Così il Consiglio di Facoltà ha deciso di riconoscere a don Diana la laurea nonostante non abbia concluso il corso di studi. Nel mese di ottobre avrà luogo la cerimonia di assegnazione». Sul fronte del processo di beatificazione di don Diana – anche su questo punto, in occasione della stessa Giornata di studio, era stata inviata una sollecitazione al vescovo di Aversa, mons. Angelo Spinillo – invece, nulla di fatto. «In diocesi non è presente nessuna forma di culto nei confronti del parroco di Casal di Principe», dicono ad Adista fonti vicine alla Curia aversana. Un appello a proclamare martiri anche dei laici che si sono impegnati fino alla fine per la giustizia arriva invece dal vescovo emerito di Caserta, mons. Raffaele Nogaro, che propone la beatificazione del magistrato ucciso dalla mafia Rosario Livatino: «Mi piace una Chiesa che ricosce anche la laicità della santità”, perché “i santi non sono quelli con l’aureola”».

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Lucca, la città a misura di straniero

s. martino

non può che far piacere leggere che la propria città, in cui vivi e che ami, accanto a tante disfunzioni, esprime sensibilità e offre possibilità di integrazione a quanti vivono di più il disagio di questi tempi

(vedi link qui sotto)

Lucca, la città a misura di straniero. E’ la prima in Italia per ‘radicamento’ e la decima nella classifica dell’integrazione: qua 3.856 immigrati hanno trovato lavoro :: LoSchermo.it.

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