il vescovo e la provocazione: il missionario radicale o i poveri radicali?

Palermo

il vescovo Lorefice:

Biagio Conte, una provocazione per noi

oltre 4mila firme in meno di 24 ore alla petizione per i senzatetto, che nel capoluogo siciliano sono più di 400

L’arcivescovo Lorefice porge l’Eucarestia a fratel Biagio Conte

l’arcivescovo Lorefice porge l’Eucarestia a fratel Biagio Conte

Alessandra Turrisi

La Chiesa di Palermo è con Biagio Conte. In realtà lo è sempre stata, visto che la missione ‘Speranza e Carità’, che ospita da oltre 25 anni mille persone senza più nulla, è una testimonianza viva dell’amore preferenziale per i poveri.

Ma ieri questa vicinanza si è resa più visibile con l’arcivescovo di Palermo, monsignor Corrado Lorefice, in ginocchio accanto al missionario laico, mano nella mano, in ascolto reciproco, in preghiera. È durato 40 minuti l’incontro tra Lorefice e Biagio sotto il colonnato delle Poste centrali di via Roma, a Palermo. Il missionario col saio verde, avvolto nelle coperte, è prostrato da sei giorni di digiuno, di veglia, di freddo e intemperie. L’arcivescovo gli ha portato l’eucaristia e Biagio si è commosso fino alle lacrime.

Nessuna parola a caldo per commentare l’insolita forma di protesta che, da quasi una settimana, ha schiaffeggiato l’indifferenza della città verso chi muore per strada da solo, chi non ha una casa, chi non ha un lavoro. «Custodiamola nel cuore», dice sulle prime l’arcivescovo. Poi, dopo aver metabolizzato i contenuti dell’incontro, don Corrado ammette l’importanza dell’azione di fratel Biagio che «pro-voca e interpella tutti, anche noi cristiani, le nostre comunità, il vescovo, non solo le istituzioni e l’amministrazione comunale. Ci vorrebbero veri cristiani e uomini e donne di buona volontà impegnati in politica unicamente per il bene comune, preparati e audaci, liberi da altri interessi come il pozzallese Giorgio La Pira, veramente determinati a guardare la città dal basso. Un piano lavoro. Un piano case. Un piano pane da condividere dignitosamente nelle famiglie. Spazi di confronto per risolvere i veri problemi lontani dalla demagogia o dalle beghe agitate per distogliere dai bisogni della gente».

La vicinanza della Chiesa a fratel Biagio non è mai mancata. La presenza continua di sacerdoti, gruppi di laici, religiose, anche l’arrivo silenzioso del cardinale Paolo Romeo, arcivescovo emerito di Palermo, sabato sera. Domenica è passato don Elisée Ake Brou, sacerdote della diocesi di Monreale che trovò proprio nella missione Speranza e Carità il primo approdo dopo la fuga dalla Costa d’Avorio, tanti anni fa. È stata lanciata una raccolta firme su Change.org per unirsi all’appello di Biagio e impegnare tutte le istituzioni a dare corso ad azioni concrete in favore di famiglie e persone senza alloggio: oltre 4 mila firme in meno di 24 ore.

Ma Biagio Conte resta lì, al freddo. I senzatetto di tutta la città hanno appreso che il missionario ha deciso di vivere come loro, disteso a terra sui cartoni, senza il minimo vitale, e lo vanno a trovare, gli raccontano le loro storie. Le critiche, anche aspre sui social, non mancano; le accuse di esibizionismo e fanatismo. Molti chiedono: ma insomma, cosa vuole ottenere questa volta Conte? Niente in particolare e tutto. Lo sintetizza uno dei volontari storici, il medico Francesco Russo: «Potremmo dire che fratel Biagio chiede che nella società e nel mondo aumentino la bontà e la tenerezza verso Dio, verso se stessi e verso il prossimo, e il mondo possa essere così un posto migliore».

«Tutti sappiamo che c’è tanta gente che dorme per strada, a Palermo sono più di 400 – dichiara il senatore di Mdp Francesco Campanella –. Biagio Conte, come usa fare, rompe gli schemi e, con il suo forte gesto di andare a dormire per strada come un senzatetto, ci mette di fronte al fatto che quelle persone sono fatte di carne e di sangue come noi. Come i nostri cari».

il povero rompe, occorre farlo tacere con le buone o con le cattive!

fate tacere il povero

o, almeno, il suo odore

di don Cristiano Mauri in Pensiero Artigiano, Vita.

Sfogo semi-immaginario di un povero cristiano perseguitato dal Povero Cristo.
Quel povero va fatto tacere. Subito.

La sua voce è insopportabile e indecente. Rabbonitelo, calmatelo, dissuadetelo. Accontentatelo se non c’è altro modo, dategli tutto quel che chiede.
Non si può vivere con uno così tra i piedi.
Non c’è più verso di metter in fila un discorso, finire un lavoro o godersi una chiacchierata. Con quello che sta sempre a chiedere, sotto agli occhi e in mezzo ai piedi non è più vita! Non è più la mia vita.
Ti sembra una cosa decente? Ma dico li hai visti? E il decoro, dove lo mettiamo il decoro? E l’odore? Uuuh, l’odore!!! Uno schifo.
Cosa ne sarà dell’immagine della nostra città? E la sicurezza? Perché questi poi mica si limitano a essere poveri, che ti credi? Se uno facesse il povero e basta, in fondo… Ma questi poi finisce che si mettono rubare e chissà cos’altro.
Una volta i poveri sì che erano brava gente. Oggi anche i poveri… Non ci si può più neanche fidare dei poveri. Roba da matti.
Basta, bisogna intervenire e senza andare troppo per il sottile. Mi urtano, mi inquietano, mi mettono un’ansia poi! Mi fanno quasi male. Anzi, diciamolo: sono un male.
Sai cosa facciamo? Leviamoli di torno. Ecco sì, mandiamoli via. Tutti. Li prendiamo e li portiamo in un bel posto dove saranno curati, accuditi, lavati, nutriti. Ci sarà pur qualcuno disponibile a fare un lavoro del genere, no? Lo paghiamo bene, certo.
Che ci vuole, dai. Costituiamo un’associazione, magari più di una. Oppure una bella fondazione. Cerchiamo dei finanziamenti, mettiamo giù un bel progetto, una cosa fatta bene. E poi delle strutture – all’avanguardia, certamente – dove possiamo piazzarli. Possibilmente lontano da qui. Ovvio.
Magari in un altro paese. Italiani, stranieri: tutti insieme, certo. Mica che ci accusino di discriminazione. Scherzi? Noi non si vuole discriminare nessuno, solo stare un po’ tranquilli, giusto?
Un momento però, non fraintendermi. A me i poveri interessano, sia chiaro. Io sono un buon cristiano, ci tengo a loro, ci tengo tantissimo e voglio che stiano meglio. Dico tutto questo per loro, mica per altro.
D’altronde cosa pretendi? Che mi metta io a far tutto? Sono forse io responsabile di tutto il male del mondo? Ma poi se ti metti a curarne qualcuno non te ne liberi più. Finisci con uno ed eccone un altro.
Sembra che ti inseguano, che si passino parola. Vengono a scovarti anche quando pensi di esserti perfettamente nascosto. Il povero è una persecuzione.
E io ho già un sacco di altre cose di cui occuparmi. Devo forse passare la vita a curarmi dei poveri? Per certi lavori, oltretutto, ci vogliono dei professionisti, non puoi affatto improvvisare.
Parliamoci chiaro: mi sono sbattuto per costruirmi una posizione, non ho forse il diritto di godermela? E come si fa se ce li hai sempre tra i piedi?
No, non lo so perché mi urtano così, in effetti non me lo spiego. Però mi ricordo quando tutto è cominciato.
Una volta – quando ero ancora ingenuo – feci fare a un senzatetto la doccia in giardino. Dopo la doccia non sembrava più lui. Sembrava… Sembrava me.
Da allora, ogni volta che li vedo è come se mi strappassero da me stesso e mi portassero in un terreno che non conosco, costringendomi a lasciare tutto quello che ho costruito.
Non mi aspettavo che la distanza tra me e un povero fosse lo spazio di una doccia.
Un povero non può essere così vicino. Non voglio essere così vicino alla povertà. Non voglio essere povero. Voglio poter continuare a credere di non essere povero, un povero anch’io!
Fateli tacere, i poveri. Mandateli via. Ne va della mia vita.

Sì il povero fa male, veramente male. Ti strappa via costringendoti a rimanere in esodo dal quel te stesso che ti sei costruito.
Il povero fa male perché ti sbatte in faccia chi sei, come sei, al netto di una doccia, di una manciata di soldi, di un po’ di salute, dell’età, dell’intelligenza… Al netto di tutto ciò che, prima o dopo, puoi sempre perdere.
Li avremo sempre con noi, grazie a Dio. Ed è proprio il caso di dirlo. Li avremo sempre con noi a liberarci da noi stessi per ricordarci chi siamo.
Questa è la prova più vera che il Povero è “presenza reale” di Cristo.
C’è un modo di occuparsi dei poveri che si trucca di Carità ma è solo la maniera elegante per sbarazzarsi di loro, con la scusa di farli star meglio.
Non ci capiti di passare la vita provando, sottilmente, ad allontanare il povero. Finiremmo stoltamente per privarci di Lui.

guardare al povero con sguardo ‘teologale’

 

ama

 

LA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE DI FRONTE AL POVERO

Dio si è incarnato come povero. E questo ha un significato teologico molto chiaro: non é che Gesù sia un ricco che si maschera da povero, ma Dio ha voluto incarnarsi come povero perchè questo è il suo modo di essere. Nella povertà, infatti, ci sono dei valori intrinseci che sono quelli che costruiscono il Regno: essenzialità, solidarietà, generosità, fiducia e abbandono in Dio, condivisione, etc.
In quest’ottica, la principale differenza fra la Teologia della Liberazione e un certo modo di intendere la Dottrina Sociale della Chiesa, è che per quest’ultima i poveri sono sopprattutto un problema sociale e etico, che interpella la nostra coscienza. Per la Teologia della Liberazione, invece, prima ancora di essere un problema sociale, i poveri hanno uno status teologale: Gesù si identifica con loro (Mt 25,31-46), cioè è lì che ci incontriamo con Dio, e quindi è a partire dai valori dei poveri che Dio vuole costruire il suo Regno. Detto in altri termini, i poveri ci evangelizzano, nel senso che sono i depositari di quei misteri che Dio ha nascosto ai sapienti e ai potenti di questo mondo (Mt 11,25). È questa la intuizione fondamentale della Teologia della Liberazione, una intuizione che è profondamente radicata nel Vangelo, e che quindi rappresenta una ricchezza per tutta la Chiesa universale.

Il “Buon Samaritano” in America Latina
E’ a partire da questa intuizione che i Teologi della Liberazione leggono la Bibbia. E così, letta in America Latina, la Parabola del Buon Samaritano assume una valenza particolare, come ci insegna Jon Sobrino.
L’uomo che si trova “mezzo morto” al lato della strada che va da Gerusalemme a Gerico non si trova lí per caso o per fatalitá: sta morendo perchè dei “briganti” l’hanno “spogliato” e “percosso”. Oggigiorno i briganti sono un intero sistema, il sistema neoliberale che spoglia milioni di poveri dei loro diritti fondamentali e poi li lascia mezzi morti al bordo della strada.
Il sacerdote e il levita vedono il ferito ma “passano oltre”, non si fermano per aiutarlo: perchè? La principale ragione é che hanno paura: i briganti, forse, sono ancora lì nascosti da qualche parte, e potrebbero attaccare ancora. Ma non è solo questo; anche se i briganti se ne sono già andati via, il sacerdote e il levita non vogliono far niente che possa dar loro fastidio: fermarsi presso il moribondo e ridargli vita è una cosa che non fa piacere ai briganti, perché il moribondo potrebbe averli riconosciuti e potrebbe denunciarli. Il sacerdote e il levita, pii israeliti, preferiscono non immischiarsi in queste cose ‘politiche’ e “passano oltre”. Le questioni politiche sono questioni di vita o di morte per la gente. E noi spesso vi “passiamo oltre”.
Arriva poi il Buon Samaritano, che ha “compassione” del moribondo: gli “fascia le ferite”, e lo porta a una locanda perchè possa recuperare pienamente la salute. La compassione del Samaritano sfida i briganti probabilmente nascosti lì vicino da qualche parte: la misericordia implica la disponibilità ad affrontare i ladroni e gli oppressori di questo mondo. Senza questo coraggio di affrontare il peccato strutturale che produce la morte di tanti nostri fratelli non è possibile nessuna misericordia, e si “passa oltre”.
Il sacerdote e il levita frequentavano il Tempio tutti i giorni (oggi si potrebbe dire che andavano a messa quotidianamente). Noi siamo abituati a vedere il Samaritano come una figura molto positiva, peró allora il Samaritano – per il pio israelita – era uno ‘scomunicato’, un nemico di Israele, una persona spregevole, una figura pericolosa, escluso dalla salvezza che Dio riserva ai suoi figli. Attualizandolo all’oggi, si potrebbe chiamarlo il “Buon sovversivo” o il “Buon comunista” o il “Buon Islamico”. Ebbene, dice Sobrino, la Chiesa – se questo é necessario per difendere i poveri e gli oppresssi – deve avere il coraggio di farsi chiamare ‘samaritana’, comunista o filoislamica. Mons. Romero molte volte fu accusato d’essere comunista solo perché difendeva la vita dei poveri. Una Chiesa che fascia le ferite degli oppressi moribondi sa che sará perseguitata, calunniata, minacciata, sa che la chiameranno ‘samaritana’, ‘sovversiva’. Ma non per questo si arrende o cede alle minacce dei potenti. Come dice mons. Romero, “Noi riconosciamo Gesú come unico Re: Lui solo vogliamo amare e seguire, a Lui solo ci inginocchiamo… Anche padre Octavio Ortiz voleva seguire Gesú, e per questo l´hanno ucciso: gli hanno schiacciato la faccia, non é stato possibile ricomporla. Ma proprio in questo periodo in cui i nostri sacerdoti sono perseguitati e uccisi crescono le vocazioni sacerdotali; molti giovani entrano nei nostri seminari e, come l’apostolo Tommaso, vogliono seguire Gesú e dicono: ‘Andiamo con Lui, e moriamo con Lui!’ ” (Gv11,18).

La teologia como espressione d’amore
Tanti anni fa invitarono Gustavo Gutierrez, il fondatore della teologia della liberazione, a un Convegno internazionale su Giovanni della Croce. Molti si meravigliarono: cosa c’entra un teologo della liberazione – impegnato sui problemi sociali – con la figura di una grande mistico come Giovanni della Croce? E Gutierrez spiegò: ‘C’entra molto. Tutta l’opera di Giovanni della Croce ci descrive un Dio innamorato di noi. Attraverso i suoi scritti Giovanni della Croce vuole convincerci che Dio ci ama. Ebbene, quando viviamo tra poveri che devono affrontare ogni giorno problemi legati all’ingiustizia, alla corruzione, all’oppressione, alla violenza, alla povertà, davvero si domandano: ma Dio ci ama? Per cui il problema centrale della Teologia della liberazione è: come dire al povero ‘Dio ti ama’? Come rendere credibile per i poveri la Buona Novella in un contesto di ingiustizia e violenza?’

Per molto tempo si è pensato che la teologia ha una finalità di tipo eminentemente intellettuale: dimostrare, fin dove è possibile, l’esistenza di Dio e spiegare – in un linguaggio razionale – le verità della fede. Ma in termini biblici non è assolutamente evidente che la priorità della teologia sia dare una spiegazione razionale della nostra fede.
Il popolo d’Israele non sentiva la necessità di dare una spiegazione razionale dell’esistenza di Dio, perchè per loro Dio era una realtà evidente, Qualcuno che sperimentavano tutti i giorni della loro vita. Il problema, per il popolo d’Israele, non era sapere se Dio esiste ma verificare se Dio continua ad amare il suo popolo o si è stancato di lui. Il punto centrale della rivelazione non è la trasmissione di verità o dogmi. Gesù non si è incarnato per insegnarci dei dogmi, ma per farci sapere che Dio “ci ama fino alla fine” ed è disposto a dare la sua vita per amor nostro. Per cui la prima risposta che Dio si aspetta da noi non è una risposta di tipo intellettuale: Dio non ci chiede – come prima cosa – di accettare i dogmi di fede, ma di accogliere la sua chiamata amando i nostri fratelli come Lui ha amato noi. Il comandamento di Gesù è: Amatevi come io vi ho amato!
Anche la teologia, come attività cristiana, deve rispondere a questo comandamento: è un’espressione d’amore e non deve ridursi ad essere una mera riflessione razionale sulla Parola. La finalità della vita cristiana è la carità, la costruzione del Regno. Anche la teologia, dunque, dev’essere orientata alla costruzione del Regno e alla trasformazione della società.
Non sempre i teologi sono stati consapevoli di questo. Perciò Jon Sobrino parla di ‘peccaminosità’ della riflessione teologica: quando la teologia rimane ad un livello astratto e si disinteressa completamente della sofferenza in cui vivono milioni di esseri umani, sta commettendo peccato, il peccato di cinismo. E’ quindi urgente che la teologia si converta al Vangelo della pace, della giustizia e dell’amore.

i poveri e la teologia

 

croce

La Teologia della Liberazione di fronte al povero

Dio si è incarnato come povero. E questo ha un significato teologico molto chiaro: non é che Gesù sia un ricco che si maschera da povero, ma Dio ha voluto incarnarsi come povero perchè questo è il suo modo di essere. Nella povertà, infatti, ci sono dei valori intrinseci che sono quelli che costruiscono il Regno: essenzialità, solidarietà, generosità, fiducia e abbandono in Dio, condivisione, etc.
In quest’ottica, la principale differenza fra la Teologia della Liberazione e un certo modo di intendere la Dottrina Sociale della Chiesa, è che per quest’ultima i poveri sono sopprattutto un problema sociale e etico, che interpella la nostra coscienza. Per la Teologia della Liberazione, invece, prima ancora di essere un problema sociale, i poveri hanno uno status teologale: Gesù si identifica con loro (Mt 25,31-46), cioè è lì che ci incontriamo con Dio, e quindi è a partire dai valori dei poveri che Dio vuole costruire il suo Regno. Detto in altri termini, i poveri ci evangelizzano, nel senso che sono i depositari di quei misteri che Dio ha nascosto ai sapienti e ai potenti di questo mondo (Mt 11,25). È questa la intuizione fondamentale della Teologia della Liberazione, una intuizione che è profondamente radicata nel Vangelo, e che quindi rappresenta una ricchezza per tutta la Chiesa universale.

Il “Buon Samaritano” in America Latina
E’ a partire da questa intuizione che i Teologi della Liberazione leggono la Bibbia. E così, letta in America Latina, la Parabola del Buon Samaritano assume una valenza particolare, come ci insegna Jon Sobrino.
L’uomo che si trova “mezzo morto” al lato della strada che va da Gerusalemme a Gerico non si trova lí per caso o per fatalitá: sta morendo perchè dei “briganti” l’hanno “spogliato” e “percosso”. Oggigiorno i briganti sono un intero sistema, il sistema neoliberale che spoglia milioni di poveri dei loro diritti fondamentali e poi li lascia mezzi morti al bordo della strada.
Il sacerdote e il levita vedono il ferito ma “passano oltre”, non si fermano per aiutarlo: perchè? La principale ragione é che hanno paura: i briganti, forse, sono ancora lì nascosti da qualche parte, e potrebbero attaccare ancora. Ma non è solo questo; anche se i briganti se ne sono già andati via, il sacerdote e il levita non vogliono far niente che possa dar loro fastidio: fermarsi presso il moribondo e ridargli vita è una cosa che non fa piacere ai briganti, perché il moribondo potrebbe averli riconosciuti e potrebbe denunciarli. Il sacerdote e il levita, pii israeliti, preferiscono non immischiarsi in queste cose ‘politiche’ e “passano oltre”. Le questioni politiche sono questioni di vita o di morte per la gente. E noi spesso vi “passiamo oltre”.
Arriva poi il Buon Samaritano, che ha “compassione” del moribondo: gli “fascia le ferite”, e lo porta a una locanda perchè possa recuperare pienamente la salute. La compassione del Samaritano sfida i briganti probabilmente nascosti lì vicino da qualche parte: la misericordia implica la disponibilità ad affrontare i ladroni e gli oppressori di questo mondo. Senza questo coraggio di affrontare il peccato strutturale che produce la morte di tanti nostri fratelli non è possibile nessuna misericordia, e si “passa oltre”.
Il sacerdote e il levita frequentavano il Tempio tutti i giorni (oggi si potrebbe dire che andavano a messa quotidianamente). Noi siamo abituati a vedere il Samaritano come una figura molto positiva, peró allora il Samaritano – per il pio israelita – era uno ‘scomunicato’, un nemico di Israele, una persona spregevole, una figura pericolosa, escluso dalla salvezza che Dio riserva ai suoi figli. Attualizandolo all’oggi, si potrebbe chiamarlo il “Buon sovversivo” o il “Buon comunista” o il “Buon Islamico”. Ebbene, dice Sobrino, la Chiesa – se questo é necessario per difendere i poveri e gli oppresssi – deve avere il coraggio di farsi chiamare ‘samaritana’, comunista o filoislamica. Mons. Romero molte volte fu accusato d’essere comunista solo perché difendeva la vita dei poveri. Una Chiesa che fascia le ferite degli oppressi moribondi sa che sará perseguitata, calunniata, minacciata, sa che la chiameranno ‘samaritana’, ‘sovversiva’. Ma non per questo si arrende o cede alle minacce dei potenti. Come dice mons. Romero, “Noi riconosciamo Gesú come unico Re: Lui solo vogliamo amare e seguire, a Lui solo ci inginocchiamo… Anche padre Octavio Ortiz voleva seguire Gesú, e per questo l´hanno ucciso: gli hanno schiacciato la faccia, non é stato possibile ricomporla. Ma proprio in questo periodo in cui i nostri sacerdoti sono perseguitati e uccisi crescono le vocazioni sacerdotali; molti giovani entrano nei nostri seminari e, come l’apostolo Tommaso, vogliono seguire Gesú e dicono: ‘Andiamo con Lui, e moriamo con Lui!’ ” (Gv11,18).

La teologia como espressione d’amore
Tanti anni fa invitarono Gustavo Gutierrez, il fondatore della teologia della liberazione, a un Convegno internazionale su Giovanni della Croce. Molti si meravigliarono: cosa c’entra un teologo della liberazione – impegnato sui problemi sociali – con la figura di una grande mistico come Giovanni della Croce? E Gutierrez spiegò: ‘C’entra molto. Tutta l’opera di Giovanni della Croce ci descrive un Dio innamorato di noi. Attraverso i suoi scritti Giovanni della Croce vuole convincerci che Dio ci ama. Ebbene, quando viviamo tra poveri che devono affrontare ogni giorno problemi legati all’ingiustizia, alla corruzione, all’oppressione, alla violenza, alla povertà, davvero si domandano: ma Dio ci ama? Per cui il problema centrale della Teologia della liberazione è: come dire al povero ‘Dio ti ama’? Come rendere credibile per i poveri la Buona Novella in un contesto di ingiustizia e violenza?’

Per molto tempo si è pensato che la teologia ha una finalità di tipo eminentemente intellettuale: dimostrare, fin dove è possibile, l’esistenza di Dio e spiegare – in un linguaggio razionale – le verità della fede. Ma in termini biblici non è assolutamente evidente che la priorità della teologia sia dare una spiegazione razionale della nostra fede.
Il popolo d’Israele non sentiva la necessità di dare una spiegazione razionale dell’esistenza di Dio, perchè per loro Dio era una realtà evidente, Qualcuno che sperimentavano tutti i giorni della loro vita. Il problema, per il popolo d’Israele, non era sapere se Dio esiste ma verificare se Dio continua ad amare il suo popolo o si è stancato di lui. Il punto centrale della rivelazione non è la trasmissione di verità o dogmi. Gesù non si è incarnato per insegnarci dei dogmi, ma per farci sapere che Dio “ci ama fino alla fine” ed è disposto a dare la sua vita per amor nostro. Per cui la prima risposta che Dio si aspetta da noi non è una risposta di tipo intellettuale: Dio non ci chiede – come prima cosa – di accettare i dogmi di fede, ma di accogliere la sua chiamata amando i nostri fratelli come Lui ha amato noi. Il comandamento di Gesù è: Amatevi come io vi ho amato!
Anche la teologia, come attività cristiana, deve rispondere a questo comandamento: è un’espressione d’amore e non deve ridursi ad essere una mera riflessione razionale sulla Parola. La finalità della vita cristiana è la carità, la costruzione del Regno. Anche la teologia, dunque, dev’essere orientata alla costruzione del Regno e alla trasformazione della società.
Non sempre i teologi sono stati consapevoli di questo. Perciò Jon Sobrino parla di ‘peccaminosità’ della riflessione teologica: quando la teologia rimane ad un livello astratto e si disinteressa completamente della sofferenza in cui vivono milioni di esseri umani, sta commettendo peccato, il peccato di cinismo. E’ quindi urgente che la teologia si converta al Vangelo della pace, della giustizia e dell’amore.

da giovaniemissione.it

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