il Dio di Gesù, un Dio totalmente nuovo

 

Più scopriremo e capiremo la figura di Gesù, più scopriremo e capiremo la figura del Padre

Un Dio talmente nuovo, talmente sconvolgente, che farà sì che poi Gesù verrà assassinato in nome di questo Dio.”

Alberto Maggi

Maggi

 

La frase che Giovanni scrive nel prologo al suo vangelo “Dio nessuno l’ha mai conosciuto, soltanto Gesù ne è stata la spiegazione” afferma che tutte le immagini di Dio che ci sono state presentate, sono tutte immagini parziali, immagini a volte false.

Tutto quello che c’è da vedere di Dio, si può vedere in Gesù. E ricordo la famosa domanda che Filippo ha fatto a Gesù: “Adesso mostraci il Padre e ci basta”. E Gesù gli dirà: “Filippo, chi vede me, vede il Padre”.

Che significa? Che non Gesù è come Dio, ma Dio è come Gesù.

Più scopriremo e capiremo la figura di Gesù, più scopriremo e capiremo la figura del Padre. Un Dio talmente nuovo, talmente sconvolgente, che farà sì che poi Gesù verrà assassinato in nome di questo Dio. […]

L’uomo non è creato a immagine e somiglianza di Dio, ma la creazione è qualcosa di esterno da Dio : l’uomo è generato dal Padre come figlio. Ma questa figliolanza non può essere imposta, è una proposta. Figli di Dio non si nasce, ma si diventa. So che nella espressione popolare comunemente si dice che siamo tutti figli di Dio. Non è vero. Figli di Dio non lo si è per nascita, ma per una scelta.

E qual è questa scelta?

L’accoglienza nell’esistenza di Gesù, la sua figura e il suo messaggio. Questo è il progetto di Dio sull’umanità. […]

Le prime battute del vangelo di Giovanni si aprono con una immagine stupenda. Un Dio talmente innamorato dell’umanità, talmente entusiasta della creazione che dice: è troppo poco questa vita che hanno, io li voglio innalzare e dare loro la mia dignità divina.

Il progetto di Dio sull’umanità, la sua volontà – non esistono altre volontà – è che ogni uomo diventi suo figlio, attraverso la pratica di un amore simile al suo.

Questa è la volontà di Dio. Non il Dio – basta leggere certi salmi, il salmo 14 – che si affaccia dalle nuvole e guarda la terra disgustato: tutti sono traviati, tutti compiono il male. Ma un Dio che guarda l’umanità e dice: che meraviglia, guarda come sono belli, ma che peccato che abbiano questa vita che si conclude con la morte. Io li voglio innalzare e regalare a loro la mia stessa condizione divina, dare a loro la qualità di figli di Dio.

Questo è il progetto di Dio sull’ umanità. Un progetto pienamente positivo, un progetto nel quale si intravede tutto l’ottimismo di Dio sull’umanità.  La volontà di Dio sull’umanità, che Gesù Cristo ci ha fatto conoscere, è che l’uomo è importante, tanto importane al punto che Dio lo vuole innalzare al suo livello e dargli la sua condizione divina.

Il progetto di Dio sull’umanità è che ogni uomo diventi Signore. Signore non significa avere dei sudditi a cui comandare. Signore significa non aver nessuno a cui obbedire. Il progetto di Dio sull’umanità è trasmetterci la sua stessa qualità divina in modo che come lui, noi non abbiamo nessuno a cui dover obbedire.

Il verbo obbedire, o il termine obbedienza, non ha diritto di cittadinanza nei Vangeli. E’ assente. C’è 5 volte il verbo obbedire, ma sempre riferito a elementi contrari all’uomo: il vento, il mare. Mai Gesù chiederà ai suoi discepoli di obbedirgli, mai Gesù chiederà ai discepoli di obbedire a Dio. Figuratevi se chiede ai discepoli di obbedire a qualcuno degli apostoli o dei discepoli.

L’obbedienza non fa parte del lessico evangelico, ma al posto dell’obbedienza Gesù inaugura la SOMIGLIANZA.

Noi non obbediamo né a Gesù Cristo, né a Dio, perché Gesù non ci chiede di obbedire né a lui, né al Padre, ma ci chiede insistentemente di assomigliargli. Nel Vangelo non troviamo mai l’invito di Gesù “obbedite al Padre”, ma abbiamo sempre quello di “siate come il Padre vostro”.

L’uomo realizza la sua condizione divina e quindi diventa Signore nella pratica di un amore simile al suo .

Il prologo del vangelo di Giovanni si conclude con questa espressione: “Dio nessuno l’ha mai visto, l’unico che ce l’ha fatto conoscere è Gesù”. Da questo momento tutta l’attenzione deve essere rivolta su Gesù.

Soltanto conoscendo Gesù si arriva a comprendere, a conoscere chi è Dio. Non bisogna partire da una immagine che abbiamo di Dio filosofica o religiosa e poi arrivare a Gesù. Ma eliminiamo ogni idea religiosa, filosofica di Dio, centriamoci su Gesù e tutto quello che crediamo di Dio e non corrisponde in Gesù, va eliminato.[…]

Gesù si presenta con l’attributo divino: “IO SONO…  il cammino, la verità e la vita” (Gv 14,6).

1. Il primo di questi tre aspetti, il cammino, è un termine di movimento, dinamico, non un termine statico. Gesù non si presenta come una realtà statica, ferma, immobile, da adorare, ma come un cammino da percorrere in un crescendo di verità e di vita. Gesù dice: “Io sono il cammino”. Camminiamo con Lui, camminiamo sulle sue tracce.

2. Camminando con Gesù si conosce cos’è la verità. La verità , nel vangelo di Giovanni, è la verità su Dio e sull’uomo. Chi è Dio? E’ un Dio innamorato dell’uomo. Chi è l’uomo? E’ l’oggetto di questo amore di Dio che lo rende suo figlio per la vita.

3. Camminando in questa pienezza della verità si scopre anche la vita e si diventa figli di Dio.

E continua Gesù: “Se voi mi conosceste, conoscereste anche il Padre” (Gv 14,7).

Non c’è una conoscenza del Padre che precede la conoscenza di Gesù, ma la conoscenza di Gesù – l’unica conoscenza – permette la conoscenza del Padre.

Il dramma, almeno della mia esperienza, il dramma di noi cristiani è che non conosciamo Gesù. Il dramma di noi cristiani è che ci hanno imbottito di catechismi, con regole, obblighi, osservanze, ma non ci hanno fatto fare l’esperienza della persona di Gesù.[…]

Nei Vangeli abbiamo un dato sconvolgente, sconcertante. Più le persone sono immerse in un ambito religioso, più le persone vivono di devozioni, di pie pratiche, di atteggiamenti irreprensibili nei confronti della legge di Dio, e più hanno difficoltà a percepire Dio quando si manifesta nella loro esistenza. Più le persone sono lontane da Dio, sia dal punto di vista religioso e sia dal punto di vista morale, e più riescono per primi a percepire la presenza di Dio nella loro vita. Verrebbe quasi da dire: allontaniamoci dalla religione, perché, chi vive in un ambito religioso, è impossibilitato a fare l’esperienza di Dio. Qui c’è Filippo, un ebreo, un giudeo, un praticante che sta con Gesù, ma ancora non ha capito che in Gesù si manifesta il volto del Padre, perché il Dio della religione è un Dio imbalsamato, non un Dio vivo. E’ un Dio da venerare, ma non è un Dio con cui camminare.

Gesù dice: “Da tanto tempo io sono con voi e tu non mi hai conosciuto?”. Ed ecco l’importante dichiarazione di Gesù: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9). Non chi conosce il Padre, conosce me. Chi ha visto me – dice Gesù – ha visto il Padre.

Cosa significa?

Come già si è espresso nel prologo, Gesù è l’unica fonte per conoscere Dio. Il Padre è  esattamente come Gesù: non Gesù è come Dio, ma Dio è come Gesù.

Cosa significa questo? Se io dico: Gesù è come Dio, significa che in qualche maniera ho un’idea di Dio. No, non Gesù è come Dio. Noi Dio non lo conosciamo. Ma Dio è come Gesù. Tutto quello che noi vediamo in Gesù e nelle sue azioni e nel suo insegnamento, questo è Dio . […]

Gesù allora dice: “Non credi che io sono nel Padre e il Padre in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me, ma il Padre che dimora in me compie le sue opere” (Gv 14,10).

Ecco il criterio sul quale ci soffermeremo : LE OPERE .

Non importa se non credete alle parole, perché le parole possono ingannare, bisogna guardare le opere. L’unico criterio di verità che c’è nei vangeli per stabilire se Gesù viene veramente da Dio o no, e se noi siamo in sintonia con lui o no, non sono le parole, le attestazioni di ortodossia e di fedeltà, ma le opere. E tutte le opere compiute da Gesù sono opere che comunicano e trasmettono vita.

Gesù,  è l’immagine di un Dio esclusivamente buono e ogni rapporto che ha con le persone, è esclusivamente quello della bontà.

Nota:

Il testo è tratto dalla  conferenza di Alberto Maggi dal titolo “Il Dio Impotente” del 15/01/2003 .

Il testo completo può essere scaricato da : http://www.studibiblici.it/index.html

 Dio è come Gesù ! – p. Alberto Maggi OSM

“lo racconterò a Dio stesso quello che mi hanno fatto”

“dirò cosa mi hanno fatto a Dio, gli dirò tutto”

le ultime parole di un bambino siriano

bambino siriano

“Dirò cosa mi hanno fatto a Dio, Gli dirò tutto” con queste parole strazianti è morto un bambino siriano di tre anni, vittima dei bombardamenti e della guerra che martirizza da anni il suo paese.
Nello scorrere le notizie del mondo, spesso ho guardato questa immagine e sono passata oltre, ma lui tornava e mi guardava e mentre scappavo da questa notizia, la sua frase mi straziava il cuore.
Ma sono tornata, e ancora oggi dopo qualche anno, è giusto urlare di nuovo il suo pianto, è giusto urlare al mondo quante atrocità hanno subito questi bambini e subiscono ancora oggi, sempre di più, tutti i bambini coinvolti nelle guerre.
Bambini che non hanno più niente, che non hanno più genitori, che hanno visto cose che occhi non dovrebbero mai vedere, che hanno sentito sulla loro tenera carne dolori atroci, nessuno più ha potuto abbracciarli, difenderli, calmarli, salvarli….e se ne sono andati così, tra le lacrime, tra l’ingiustizia, tra i sogni rubati…certi che, un giorno, una giustizia per tutto questo male… arriverà.

fonte qui 

i giovano guardano a papa Francesco come a un modello di riferimento

Dio a modo mio

un’inchiesta sulla religiosità giovanile su “La Civiltà Cattolica” mostra come il Papa sia modello di riferimento per una fede autentica ed essenziale

How to pray?

Acuto, intelligente, originale, il saggio di Padre Gian Paolo Salvini pubblicato su ‘La Civiltà Cattolica’ (quaderno 3985 9 luglio 2016). Padre Salvini fa riferimento alle ricerche e agli studi Sulla religiosità giovanile, in particolare “Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia”, a cura di R. Bichi – P. Bignardi, Milano, (Vita e Pensiero, 2016) e “I giovani di fronte al futuro e alla vita, con e senza fede”, il rapporto dell’Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori

Lo studio “Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia” si basa su 150 interviste a giovani di tutta l’Italia, divisi tra grandi e piccoli centri, tutti compresi in due fasce di età ben precise: 76 (metà uomini e metà donne) tra i 19-21 anni, cioè nell’età in cui si è determinato per quasi tutti un certo distacco dalla pratica religiosa e dalla Chiesa, e circa altrettanti (74)  compresi tra i 27-29 anni, cioè in un’età nella quale un certo per corso religioso si è generalmente definito o in forma di riavvicinamento o in forma di distacco dalla fede.

Tutti gli intervistati erano stati scelti fra battezzati, in modo che fosse più omogeneo se non il percorso, almeno il punto di partenza religioso nelle rispettive famiglie di origine.

Secondo l’Istituto Toniolo, nel 2013 i giovani che si proclamano credenti nella religione cattolica sono il 55,9%, mentre si dichiara ateo il 15,2% dei giovani e agnostico il 7,8%.

Il 10% afferma di credere in un’entità superiore, ma senza fare riferimento a una divinità specifica. Solo il 15,4% dei giovani dice di partecipare a un rito religioso ogni settimana. Anche tra coloro che si dichiarano cattolici soltanto il 24,1% è un praticante settimanale.

Inquietante è il fatto che, l’anno successivo, la percentuale di coloro che si dichiarano cattolici, è diminuita di 3,4 punti percentuali, scendendo al 52,5%. Anche altri dati confermano questo continuo calo dei giovani che vanno a Messa la domenica. L’atteggiamento nei confronti della Chiesa rimane critico.

Il voto medio dato alla Chiesa su una scala da 1 a 10 è di 4,0 (4,2 per gli uomini, 3,8 per le donne).

A proposito di questi e altri studi ha scritto Padre Salvini:

“Colpisce anzitutto il fatto che i giovani in maggioranza vivono la loro fede in modo molto problematico, più con riserve e distacco che con interesse e adesione. Valutano la loro storia religiosa con molto disincanto e sono assai critici nel relazionarsi con la Chiesa come istituzione.

Le interviste, prolungate e attente, impediscono delle conclusioni affrettate. «Non è un caso che, nel travagliato rapporto con la Chiesa come istituzione, emerga con forza la figura di Papa Francesco, a cui i giovani guardano come modello di riferimento per una fede autentica, semplice ed essenziale e come figura in grado di promuovere un cambiamento radicale nel linguaggio e nella vita della Chiesa».

Verrebbe da dire che i giovani hanno con la fede un rapporto che la fa considerare un aspetto marginale o comunque non in grado di incidere sulle loro scelte e sugli orientamenti della loro vita.

Ma questo non significa che i giovani non abbiano più fede.

«È una generazione alle prese con una nuova forma di ateismo, non più ideologico, ma esistenziale», eppure la fede appare come una dimensione tutt’altro che estranea. I giovani non si ritrovano più con la fede dell’infanzia, che però non è cresciuta con loro.

Occorre capire come mai la crescita non sia stata accompagnata da quella della fede con altrettanto impegno, in modo proporzionato alle varie età. È mancata l’arte dell’accompagnamento.

Ciò di cui, nel loro racconto, i giovani lamentano la carenza è la vicinanza di testimoni, cioè di persone di qualità che li avessero accompagnati nel cammino e nella crescita.

Sono le persone incontrate che fanno la differenza, purché abbiano rappresentato modelli cui ispirarsi.

Oltre che figure di riferimento credibili, sembra mancare ai giovani la dimensione comunitaria della fede. In parte questo accade perché ci si adegua a un sentire ampiamente veicolato dalla pubblicistica e dalla cultura mediale in cui essi sono immersi.

L’impressione che si ricava è che essi non percepiscano più la Chiesa come un ambiente accogliente e interessante. «Non sono i giovani che si sono allontanati dalla Chiesa, ma è la Chiesa che non ha del tutto mantenuto fede alle promesse, non riuscendo di fatto a rimanere al passo con i cambiamenti e con le nuove sfide che rapidamente si sono susseguite».

I giovani riflettono indubbiamente la cultura individualistica del nostro tempo, e questo vale anche per la fede, che diventa un fatto soggettivo e in parte evanescente. Ma proprio per questo si evidenzia la domanda di ancoraggi forti e di riferimenti significativi che rendano più solida l’esperienza religiosa.

Probabilmente è necessario ricreare un reticolato di comunità nelle quali ciascuno si ponga al servizio degli altri, ritrovando nelle comunità parrocchiali, «in quanto luogo primario della convergenza eucaristica», la realtà della sintesi.

Una prima osservazione è che molti giovani sembrano essere dei «cattolici anonimi», che nutrono cioè una fede che vuole restare entro la tradizione cristiana solo per quel tanto che serve, ma senza assumere obblighi o impegni. Però, in momenti di crisi, essi riattivano un contatto con la tradizione cristiana, rimasta finora latente.

Ma ciò avviene secondo modalità decise dall’individuo. I contenuti, come pure le pratiche, i valori e le regole, vengono decisi dal singolo, che attinge alla tradizione prendendo ciò che gli è utile, lasciando ciò che sente lontano o estraneo.

«Ognuno si costruisce in questo modo la propria fede e il proprio cattolicesimo, dentro una tradizione di fede ufficiale che gli serve come contenitore, ma con la quale non si identifica».

Questa è una caratteristica che appare molto diffusa nelle interviste.

La fede non segue più un processo lineare secondo l’età e lo sviluppo della persona, ma assume il modello di una curva a «U», che conosce un momento di forte socializzazione nell’infanzia, per vivere poi momenti di latenza alternati a momenti di ritorno, fino ad esiti possibili di maturazione.

Ma il modello lineare, oggi in crisi, è proprio quello su cui la Chiesa ha investito molte energie e ha sviluppato i suoi percorsi pedagogici. A un momento di forte esperienza religiosa pare segua sempre — secondo i giovani intervistati — un momento di distacco critico e di rimessa in discussione.

Questo fa parte di un cammino di affezione alla propria identità, che chiede di decostruire e ricostruire tutto ciò che ha appreso dalla tradizione.

Lo esprime bene una ragazza, che dichiara: «Io mi sento di vivere la mia fede come piace a me, nel senso che io sono assolutamente certa che non sia necessario andare in chiesa tutte le domeniche per credere, è necessario il pensiero di un minuto e mezzo nella giornata, mi basta il pensiero. Mi capita di andare in chiesa a delle ore in cui non c’è nessuno”.

Nelle osservazioni conclusive, ha scritto Padre Salvini: “I giovani non conoscono più l’alternativa Cristo sì, Chiesa no, che era di moda alcuni decenni fa. Non sono più in fase di opposizione, ma di distacco dalla Chiesa. Vanno ricreate le relazioni all’interno della comunità cristiana, pensando, come suggerisce Paola Bignardi, a un’educazione cristiana che avvenga in età e in luoghi diversi dagli attuali e che sappia partire dall’ascolto delle domande dei giovani”

Dio non va lasciato in cielo quando lui stesso ha deciso di scendere sulla terra

 incarnazione1

Questo non significa abbassare Dio, ma rispettare Dio presente, visibile e tangibile in ogni essere umano.migranti bambini1

Quando rispettiamo ogni essere umano come rispettiamo Dio, in questo giorno noi ci siamo resi conto della genialità di Gesù e del cristianesimo.

povertà

La cosa negativa e terribile è che ci va meglio sulla terra se teniamo Dio in cielo. Ciò fa comodo a troppi, che pur si dicono cristiani.  Così rispettiamo Dio nei templi (anticamere del cielo). povertà

E questo (noi crediamo) ci dà il diritto di disprezzarlo, di maltrattarlo e persino di odiarlo in tanti esseri umani.

“perché Dio rimane silenzioso davanti a un popolo che si uccide? ” la tremenda fatica di credere!

“scegliere a ogni alba di restare”

intervista a padre Jihad Youssef

a cura di Chiara Pellegrino

in “Oasis” del 1 giugno 2016

monastero

 

padre Jihad Youssef è un monaco della comunità al-Khalîl , insediata dal 1991 nel monastero di  Mar Musa al-Habashi (San Mosé l’Abissino) in Siria, ottanta chilometri a nord di Damasco. L’esistenza di questo antico luogo di eremitaggio fu scoperta nel 1982 da padre Paolo Dall’Oglio, rapito in Siria a luglio 2013, che decise di avviarne i restauri. La tradizione vuole che Mosè l’Abissino, figlio di un re etiope, rifiutò di succedere al trono del padre e scelse la via dell’eremitaggio. Arrivato in Siria, racconta ancora la tradizione, trovò riparo in una grotta sulle montagne dove oggi sorge il monastero. Mosè l’Abissino morì martire alcuni anni dopo per mano dei soldati dell’Impero bizantino.

monastintervista a padre Jihad Youssef

padre Jihad Youssef

Come è cambiata la vita a Mar Musa dal 2011 oggi?

Ormai non ci sono più visitatori, noi monaci dormiamo in città e andiamo a trovare gli sfollati nelle città vicine di Nebek e Homs. Ci alterniamo a mantenere il monastero aperto con la presenza di un solo monaco a rotazione e degli operai per la manutenzione e quando riusciamo, saliamo per celebrare la messa, pregare assieme e riposare. Dal 2011 abbiamo vissuto quattro anni di vita contemplativa vera, eravamo sempre soli e pregavamo di più. Quando all’inizio del 2015 Isis ha preso Qaryatayn, a pochi chilometri dal monastero, ci siamo dedicati alla pastorale, andando a visitare le persone nelle loro case. Da monaci contemplativi siamo diventati diocesani e missionari.

Nel dicembre 2013 i militanti di Jabhat al-Nusra hanno assediato per 25 giorni la città di Nebek, a pochi chilometri da Mar Musa. Come avete vissuto quei giorni al monastero?

Ci siamo sentiti soffocare, per tutto il periodo in cui la città era bombardata siamo stati chiusi nel monastero. Tra gli abitanti della città, chi ha potuto si è rifugiato in quei pochi sotterranei presenti. A Nebek la comunità cristiana conta 250 anime. Poco prima di Natale la battaglia è finita, noi allora siamo scesi in città e abbiamo scoperto che il quartiere cristiano era praticamente distrutto. Con l’aiuto di tre organizzazioni cattoliche europee abbiamo lavorato a un progetto di restauro e ricostruzione e in pochi mesi abbiamo restaurato 63 case di cristiani e cinque case di famiglie musulmane povere.

Come avete vissuto la vostra fede nel momento in cui la situazione è degenerata in Siria?

Io e gli altri monaci ci siamo sempre chiesti se rimanere o partire. La tribolazione è stata grande. Siamo stati messi alla prova per verificare se la nostra fede era fatta d’oro o di qualcosa che brucia e si consuma fino a esaurirsi. Ci siamo chiesti perché accadeva tutto questo. Perché Dio rimane silenzioso davanti a un popolo che si uccide? Non è stato facile, a ogni alba abbiamo dovuto decidere se credere oppure no. Abbiamo scelto di credere, ogni giorno. Abbiamo scelto di andare al di là del silenzio di Dio.

monastero1

Pensa che i cristiani siriani dovrebbero restare o fuggire?

Tutti parlano della necessità che i cristiani rimangano nei loro Paesi, dove è nata la Chiesa. Anch’io fino al 2013 pensavo che bisognasse incoraggiare i cristiani a non partire, ad aggrapparsi alle loro radici perché vivevano in quelle terre già ben prima del musulmani. Ma forse dimentichiamo che c’è sempre stato qualcuno prima di noi. Adesso non sono più di questo parere. Noi stiamo lavorando per aiutare chi vuole partire ad andarsene e chi vuole restare a rimanere. I ricchi o i privilegiati, come noi monaci, sono già scappati o possono andar via quando vogliono, ma la povera gente è condannata a rimanere. In Siria restano solo i cristiani convinti, che sanno di avere una missione, anzi che sono una missione, perché ogni battezzato lo è.

Che ruolo possono avere i cristiani orientali nel costruire un dialogo con l’Islam?

I cristiani in Siria non sono gli unici a essere perseguitati: siamo perseguitati come tutti gli altri siriani. L’Isis distrugge i nostri monasteri ma anche le moschee e le tombe dei santi musulmani. I loro militanti rapiscono e uccidono i nostri confratelli, ma hanno anche sgozzato migliaia di musulmani sunniti come loro. Certo noi cristiani siamo molto più fragili perché siamo un piccolo gregge. Ma se il Signore ci ha fatti cristiani in questa terra un motivo c’è. Il nostro dialogo non ha lo scopo di convincere l’altro che ha torto, ma è un “andare verso l’altro” con curiosità positiva, evangelica, disarmati, con la faretra vuota. Dal dialogo oggi non si può prescindere, né in Medio Oriente né in Occidente. Dobbiamo pregare molto anche per l’unità dei musulmani, che sono più divisi di noi cristiani. Nella loro unità c’è il bene per loro e per noi.

Che cosa direbbe all’Italia dove arrivano ogni giorno migliaia di profughi?

I profughi arrivano, e voi non potete impedirlo né costruire muri. Se li accogliete con dignità, forse un giorno saranno buoni cittadini; altrimenti saranno cattivi cittadini, saranno un cancro. Penso che anche voi dovreste impegnarvi nel dialogo. I musulmani ce li avete sotto casa, i vostri figli vanno a scuola con bambini musulmani, abbiate il coraggio di bussare alla porta del vostro vicino  musulmano, portare lì Cristo con la vostra semplice presenza. San Francesco diceva nella regola non bollata: “I frati che vanno tra gli infedeli possono vivere e comportarsi con loro, spiritualmente, in due modi: un modo è che non suscitino liti o controversie, ma siano soggetti, per amore di Dio, a ogni umana creatura, e confessino di essere cristiani; l’altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annuncino la Parola di Dio”. L’iniziativa è di Dio, è lui a fare il primo passo, non noi. padre Jihad Youssef 1

Quando finirà la guerra, come si potrà ricostruire il tessuto sociale e restaurare la fiducia tra cristiani e musulmani?

Sarà possibile solo se ciascuno si impegna nella sua fede. Io, da cristiano, mi impegno a vivere il Vangelo. Il Vangelo ricostruisce, e se ricostruisco in me forse riuscirò a ricostruire nell’altro. Non sarà facile, anche perché le ferite e le offese subite restano nel tempo. I cristiani di Maalula, per esempio, difficilmente riusciranno a riacquistare fiducia nei musulmani perché sono stati traditi. Oppure Padre Jacques Mourad, il nostro confratello: è stato rapito da una persona che conosceva, con cui aveva preso il tè il giorno prima e che lo ha consegnato a Isis. È restato in prigionia per sei mesi, prima di riuscire a fuggire. Ma per fortuna anche il buon esempio rimane. Durante l’assedio a Nebek, i cristiani temevano che le loro donne sarebbero state prese in bottino e gli uomini fatti schiavi. I vicini musulmani si sono offerti di accogliere le ragazze cristiane nelle loro case spacciandole per loro figlie, sottraendole così ai militanti di Jabhat al-Nusra. Quanto a noi monaci, viviamo tra la Siria e l’Europa per coltivare lo studio. Quando finirà la guerra la Siria avrà bisogno di persone ben formate che possano predicare il Vangelo dell’amicizia, dell’armonia e del dialogo, per superare divisioni e odio.

Lei tornerà in Siria?

Non sono mai andato via.

dicono che credere in Dio cambia il cervello … e in meglio

credi in Dio?

ecco come cambia il tuo cervello

Credi in Dio? Ecco come cambia il tuo cervello
in parole povere si dice che “chi crede in Dio è più buono”. Convinzione che ora pare suffragata anche da uno studio scientifico pubblicato sulla rivista Plos One riportata dal quotidiano britannico The Indipendent

I ricercatori hanno condotto otto esperimenti su un numero di persone-cavia variabile tra 159 e 527 e hanno riscontrato che le persone che si dichiarano convintamente religiose sono più empatiche rispetto a quelle che non credono. Ossia tendono a reprimere un’area usata per il pensiero analitico e ad attivare quella responsabile dell’empatia, cioè del “sentire sociale” che consente una maggiore comprensione e accettazione dell’altro. Secondo gli autori dello studio, il cervello umano usa abitualmente due diverse “reti” di neuroni: una “analitica”, che permette di pensare in modo critico, e una “Rete” sociale, che invece permette una maggior comprensione delle cose dal punto di vista emotivo.

Dio è umiltà e misericordia

Misericordia e umiltà di Dio

Dio, il potere dell’amore, presente “in ogni caos di questo mondo”

suor Ilia Delio ci parla di un Dio che “è con noi in ogni momento a braccia aperte, ridendo quando noi ridiamo, piangendo quando noi piangiamo, gioendo quando noi gioiamo”

 da: Adista Documenti n° 8 del 27/02/2016

è inutile cercare “in alto” e “fuori” ciò che invece è dentro di noi, al centro del nostro essere, nascosto nelle mani e negli occhi di ogni buon samaritano che ci ha soccorso lungo la strada. È qui, appunto, che incontriamo Dio, se intendiamo Dio non come un concetto astratto, ma come «sorgente colma d’amore», come il «potere dell’amore di trasformare la morte in vita». È quanto sostiene la teologa francescana suor Ilia Delio, direttrice del programma di Studi cattolici alla Georgetown University e autrice di libri come From Teilhard to Omega: Cocreating an Unfinished Universe e The Unbearable Wholeness of Being: God, Evolution and the Power of Love. Quello di cui parla Delio è un Dio «così assurdamente vicino, così incredibilmente vicino da costringerci a scoprire il suo volto in ogni caos di questo mondo: ingiustizia razziale, terrorismo, povertà, riscaldamento climatico». Un Dio che «è con noi in ogni momento a braccia aperte, ridendo quando noi ridiamo, piangendo quando noi piangiamo, gioendo quando noi gioiamo

Misericordia e umiltà di Dio

suora Ilia

(…). A metà novembre, mentre correvo per prendere la metro, sono inciampata nella mia valigia atterrando di faccia. A dire il vero è stato il mio mento a sostenere l’impatto. I miei piani per quel giorno hanno subìto un brusco arresto. Sono rimasta stesa a terra, pensando per un momento di essermi rotta la mascella e che non sarei mai più riuscita a parlare. Ero lì sdraiata da neanche un minuto quando ho alzato gli occhi e ho visto il volto di un giovane uomo i cui occhi scuri guardavano intensamente il mio mento ferito. “Signora, sta bene? Posso aiutarla?”. Mi ha preso per il braccio e mi ha sollevato (solo per realizzare che ero ferita anche al ginocchio). Ha avvertito subito la polizia metropolitana e poi mi ha accompagnato nella sala d’attesa della stazione.

Ciò che mi ha più profondamente colpito è stato lo sguardo di quell’uomo gentile. Ricordo di aver alzato gli occhi da terra e di aver visto il suo viso scuro incorniciato da un paio di occhiali neri. I suoi occhi dicevano tutto. Mi ha guardato e ha chiesto: “È ferita?”. Non è stato tanto ciò che ha detto ma il modo in cui lo ha detto: come se in quel momento io fossi l’unico pensiero della sua intera vita. Mi sono sentita profondamente toccata dalla sua compassione e dalla sua premura.

Mi è venuto in mente il passaggio evangelico del buon samaritano (…). Il mio buon samaritano ha aspettato con me finché non è arrivata l’ambulanza, assicurandosi che si prendessero adeguatamente cura di me. Ha saltato tutti i suoi impegni, aspettando 45 minuti prima che venissero a prendermi per mettermi i punti necessari. È vero: ho chiamato subito suor Lisa la quale è venuta immediatamente in mio soccorso ma questo giovane uomo, che non avevo mai incontrato e di cui tuttora non conosco il nome, è stato per me come un fratello. Una volta certo che sarei stata curata adeguatamente ha ripreso la sua strada.

Non so se fosse cattolico, musulmano o di nessuna confessione. Né ha importanza. Nel bel mezzo del mio incidente, nel volto di quell’uomo ho visto Gesù. (…).

DIO È AMORE

In un’omelia sulla natività del Signore, il teologo medievale Bonaventura descrive l’Incarnazione come «il Dio eterno che si inginocchia umilmente e solleva la polvere della nostra natura nell’unione con la sua persona». L’amore divino non è un concetto astratto; è profondamente personale, rivelato a noi nell’umile nascita di un bambino. (…). Non possiamo afferrare totalmente cosa sia Dio perché trattiamo Dio come un concetto, anziché come una profondamente personale «sorgente colma» d’amore, come diceva Bonaventura.

Il cristianesimo vede il mistero dell’amore divino in un modo particolare, come saggezza e Parola espresse nella persona di Gesù Cristo. L’amore divino è auto-espressione e dono di sé: la Parola diventa carne e sangue in mezzo a noi. Le parole d’ordine sono “carne” e “noi”, il Dio “sopra di noi” è “dentro di noi”: il Cielo è venuto sulla Terra.

Guardandoci intorno attraverso Google, potremmo pensare che questo Dio cristiano sia qualcosa di eccessivamente pietistico o di puramente immaginario, considerando la dose quotidiana di guerra, violenza, miseria e corruzione che i media ci dispensano. Un Dio come sorgente colma d’amore è tra noi? Dov’è questo Dio che si è fatto carne? (…). Come potremmo fare una simile affermazione con tanta facilità e sicurezza? Di più: dov’è la prova? Eppure questo è il mistero del Natale: l’amore si inginocchia così tanto da essere nascosto nel volto tuo e mio.

Ugo di San Vittore, della scuola medievale di Chartres, ha scritto che «l’amore va oltre la conoscenza»; l’amore ci porta al di là del visibile nell’esperienza invisibile e ineffabile della vita unitiva. Conosciamo di più attraverso l’amore che attraverso la conoscenza, perché l’amore è basato sulla relazione e sull’esperienza personali. Dire “Dio è amore” e “chi sta nell’amore dimora in Dio” (1Gv 4,16) significa dire che l’esperienza e l’incontro sconfiggono l’idea concettuale del divino. (…). Che cosa questa Parola divina fatta carne ci invita a vedere? Che il mistero dell’amore divino assoluto è assolutamente dato a noi; che la divinità è abbandonata nell’umano (e l’evoluzione della vita conduce all’umano). Il dono è in ciò che è dato, la fonte di Tutto, Amore incondizionato, l’Alfa e l’Omega, è al centro di te e me.

L’AMORE DIMORA ALL’INTERNO

Il filosofo tedesco Martin Heidegger parla di Essere non come argomento concettuale per Dio, ma come attività immanente in questo mondo, una presenza che si dà anziché un Dio creatore trascendente. A suo giudizio, siamo «immersi in un mondo di cose materiali finite che proviamo a controllare per i nostri scopi individuali ma che in definitiva controllano noi, perché abbiamo perso la prospettiva di trattare con queste in un modo che abbia senso».

Accettiamo senza pensare i doni del mondo che ci circonda e la maggior parte delle cose che lo costituiscono. Ci vuole un’“emergenza”, una pausa nella nostra consapevolezza quotidiana per farci rendere conto di ciò che è sempre stato lì in attesa di una nostra risposta. Che potrebbe essere (…) un risveglio della coscienza a ciò che è già presente. (…).

Raimon Panikkar ha scritto che «c’è nell’essere umano un bisogno, un’aspirazione alla conoscenza della fonte della conoscenza, e conoscendo questo tutto diviene conosciuto». Dio è il potere assoluto e la profondità di colui o colei che cerca se stesso. (…). Cerchiamo fuori da noi stessi il senso, mentre dovremmo cercare sempre più dentro di noi. Nel movimento totale del nostro essere, e diventando coscienti di esso, raggiungiamo la consapevolezza della realtà di Dio che dimora tra noi e dentro di noi.

Riflettendo (…) sul potere dell’amore divino in mezzo a noi ci si spalancano gli occhi; l’amore che muove le stelle e i pianeti è lo stesso che dà vita a te e a me. È l’amore al centro del nostro essere e che ci tiene in vita. Questo amore è potente e incondizionato e anche perfettamente libero. Dio è con noi in ogni momento a braccia aperte, ridendo quando noi ridiamo, piangendo quando noi piangiamo, gioendo quando noi gioiamo. Dio condivide nella rovina di questo mondo un’abbondanza di amore divino. È perché Dio è sorgente colma di amore che può condividere le sofferenze delle nostre vite e attraverso queste condurci a nuova vita.

FEDE, AMORE E SOFFERENZA

L’amore di Dio è il potere dell’amore di trasformare la morte in vita. Avere fede in un Dio di amore incondizionato è realizzare quanto Dio sia intimamente vicino. Così vicino che le nostre gioie e i nostri dolori, le nostre tristezze e le nostre angosce sono strettamente avvolte dall’umile abbraccio di Dio. Così vicino che addirittura ci dimentichiamo della presenza di Dio.

Ai suoi tempi, Gesù era immerso in una cultura violenta, una cultura di conflitto. Ma era anche a conoscenza della verità profonda nascosta sotto la superficie del giudizio umano, vale a dire che questo mondo in rovina trasuda Dio. Ci ha chiesto di avere fede, di credere che il Regno di Dio è tra noi e in noi.

Il gesuita Patrick Malone ha scritto: «La fede è più di una formula magica per sconfiggere la preoccupazione, la vergogna, il rammarico, il risentimento che offuscano il nostro sguardo e ci rendono scoraggiati e stanchi. Avere fede non cancella ogni traccia di egocentrismo e di dubbio. Queste cose fanno parte della condizione umana. La fede è ciò che ci conduce alla più profonda verità che siamo fatti a immagine di un amore illimitato e inimmaginabile. E, quando lo dimentichiamo, come Gesù ha ricordato alle autorità religiose del suo tempo, la religione diviene uno scudo, una stampella, un rifugio chiuso anziché un modo per lanciare coraggiosamente noi stessi in un mondo difficile, sapendo che è proprio lì che scopriamo un Dio generoso».

Diceva Bonaventura che non c’è altra strada per il cuore di Dio che quella dell’amore bruciante del Cristo crocifisso. Forse questo non ha molto senso per noi, specialmente nell’epoca di violenza che viviamo. Ma la mia amica Cynthia Bourgeault coglie l’intuizione di Bonaventura nel suo libro The Wisdom Jesus quando scrive: «Può essere che questo regno terreno, non malgrado ma proprio per i suoi spigoli, offra le condizioni affinché si esprimano alcuni aspetti dell’amore divino che non possono diventare reali in altro modo? Questo mondo mostra in effetti cosa questo amore è in un modo particolarmente intenso. Ma quando guardiamo a questo processo in maniera più approfondita, possiamo vedere che questi spigoli di cui facciamo esperienza come di una costrizione evocano allo stesso tempo le più squisite dimensioni dell’amore, le quali richiedono una condizione di finitezza allo scopo di dare un senso, qualità come fermezza, tenerezza, impegno, tolleranza, fedeltà e perdono. Chiarisco. Non sto dicendo che la sofferenza esiste affinché Dio si riveli. Sto solo dicendo che laddove la sofferenza esiste ed è accettata con consapevolezza, lì l’amore divino risplende in tutta la sua luce».

Una volta Dorothee Sölle ha detto che chi non ama non può soffrire (…). Trovare nella sofferenza umana la liberazione dell’amore e amare accettando la sofferenza umana è il percorso dell’amore salvifico, in cui la sofferenza è vinta dalla sofferenza, le ferite guarite dalle ferite. Soffriamo le pene della sofferenza quando viviamo la mancanza d’amore, il dolore dell’abbandono e l’isolamento dell’incredulità. La sofferenza del dolore e dell’abbandono è vinta dalla sofferenza dell’amore che non ha paura di ciò che è malato e brutto ma lo accoglie e lo guarisce. Non è questa la via della misericordia e della compassione? Chiunque entri nell’amore e attraverso l’amore sperimenti l’inestricabile sofferenza della fragile umanità, entra nella storia umana di Dio.

Ecco perché è così difficile spiegare in modo logico una religione che presenta un Dio così assurdamente vicino, così incredibilmente vicino da costringerci a scoprire il suo volto in ogni caos di questo mondo: ingiustizia razziale, terrorismo, povertà, riscaldamento climatico. Troppo spesso vogliamo un Dio che ascolti il nostro grido e sistemi le cose per noi, forte abbastanza da spazzare via le nostre esperienze dolorose. (…). Non è che Dio sia sordo al grido del povero. Piuttosto, Dio è povero. Non è che Dio non veda le nostre lacrime. Piuttosto, anche Dio piange. (…).

Dio non ha altro luogo in cui dimorare che in noi, il che significa che la salvezza richiede la nostra partecipazione. La giovane ebrea olandese Etty Hillesum giunse a questa consapevolezza in una cella di prigione, dove scrisse: «Siamo responsabili di tutte le catastrofi. Perché c’è questa guerra? Forse perché ogni tanto ho l’inclinazione a trattare in malo modo il prossimo. Perché io e il mio vicino e noi tutti non abbiamo abbastanza amore nel profondo… Eppure possiamo sconfiggere la guerra, ogni giorno, ogni istante, sprigionando l’amore che abbiamo dentro». Etty ha aperto il suo cuore alla divinità e, nel mezzo della Shoah, ha trovato Dio che abitava nell’umanità.

COMPASSIONE: LE BRACCIA DELLA MISERICORDIA

Questo “piegarsi” di Dio, questa “folle vicinanza” di Dio, ci dice che Dio vive nel cuore degli esseri umani. La compassione di Dio ha bisogno di mani, occhi e tocco umani. (…). Abbiamo l’enorme potere di guarire questo mondo ferito attraverso l’amore misericordioso, accogliendo lo straniero e accettando la sofferenza dell’altro come nostra.

Ecco perché l’Anno della Misericordia di papa Francesco può essere un anno assiale di cambiamento verso un mondo di pace e giustizia, se lasciamo cadere le nostre gabbie intellettuali, decostruiamo le nostre vite guidate dal consumo e apriamo i nostri cuori al divino girovagando come un mendicante in mezzo a un’umanità sofferente. Il teologo ortodosso Vladimir Lossky ha detto che Dio è come un mendicante di amore che bussa alla porta della nostra anima; ognuno di noi deve scegliere se aprire o meno. Recentemente ho incontrato un giovane uomo che deve aver lasciato entrare Dio, consapevolmente o meno. Mi ha guardato con occhi di amore e sono sicura che, in quel momento, ho visto il volto di Dio

il ‘Dio’ dei nostri ragazzi è un ‘Dio a modo mio’

il Dio «a modo mio» dei Millennials

di Paolo Foschini
in “Corriere della Sera” del 15 febbraio 2016

giovani

«Ci credo perché spero che ci sia»

«E che alla fine metterà tutto a posto

«Ci credo perché Dio è la risposta»

«Io ci credevo, poi non ci ho più creduto, ma ora forse ci credo di nuovo»

naturalmente non è facile, se vuoi farlo sul serio, riassumere la ricerca di un senso della vita in una ricerca sociologica. Figurarsi in un sondaggio. Eppure eccoli, i credenti under 30. Quelli per i quali il «cristianesimo» è più un volersi bene che una religione, ma proprio per questo piace. Gli stessi per cui il «cattolicesimo» invece è un’istituzione e stop, pure un po’ noiosa, mentre «cattolico» è sinonimo di chi non salta una messa e buonanotte: alla larga, dicono. Ma poi dicono anche un’altra cosa. E cioè che però, nonostante tutto, anche loro, come miliardi di esseri umani da sempre, alla fine «ci credono». In Dio, in una speranza, in qualcosa. Fosse anche solo (solo?) un «Dio a modo mio». Appunto

 

È questo il titolo del volume che a cura di Rita Bighi e Paola Bignardi raccoglie i risultati di un’indagine promossa dall’Istituto Toniolo, quello che fondò e tuttora governa l’Università Cattolica, su Giovani e fede in Italia : che poi è anche il sottotitolo del lavoro. La pubblicazione (editrice Vita e pensiero) viene presentata oggi a Milano e costituisce un approfondimento del più vasto «Rapporto giovani» sostenuto da Fondazione Cariplo e Intesa Sanpaolo, partito nel 2013 con novemila interviste sulle aspettative dei 18-30enni e via via proseguito con altre analisi su cose tipo il lavoro, le istituzioni, la felicità.

Questa volta l’indagine è basata su colloqui anche piuttosto lunghi. Con 23 intervistatori per 150 intervistati, tutti battezzati, presi tanto in paesini minuscoli quanto in grandi città da un capo all’altro d’Italia e divisi in due categorie di età, 19-21 e 27-29 anni. Ne è venuto fuori un ritratto fatto di storie più che di numeri, ma con alcune costanti. L’avvicinamento alla religione per tradizione familiare, il catechismo vissuto soprattutto come un elenco di comandamenti, la prima comunione fatta perché si doveva e poi la fuga dopo la cresima («non ne potevo più»), a dispetto del «bel ricordo» dell’oratorio. Finché più avanti, sui 25 anni, a volte ritornano. Magari perché capita un fatto doloroso, o l’incontro con un prete giusto. Così come un prete sbagliato poteva averli fatti allontanare. Quel che è cambiato, rispetto agli anni del catechismo, è che oggi Dio per loro è un’altra cosa: «Credo nel mio Dio ma non nel loro », dicono. Anche quando a messa ci vanno. Perché vivono la faccenda non come religione ma come sistema di valori. Un’etica. Fatta di «amore, rispetto, eguaglianza». Altra cosa dalla istituzione «Chiesa», che associano a «clero corrotto», «esteriorità», «regole». Per questo, al contrario, son praticamente zero quelli a cui non piace papa Francesco. E se potrebbe apparire facile liquidare come «comoda» l’idea di questo che una definizione ormai non recente qualifica come un Dio-fai-da-te, la ricerca sottolinea invece l’importanza che sia proprio la Chiesa, oggi, a dover rinnovare il suo linguaggio: che «non passa per un più abile uso dei media — scrivono le curatrici — ma per una maggiore coerenza tra dire e fare». Forse la cosa più bella — quella che se bastasse dirla per crederci convertirebbe il mondo intero — è la risposta di uno degli intervistati alla domanda su cosa ci trova nel credere in Dio: «Ci trovo che Lui ti fa sentire amato, speciale, nonostante magari tu non sia il meglio o creda di non esserlo. Ci trovo che Lui non fa cose nuove, diciamo, ma fa nuove tutte le cose». Sarà anche Dio a modo mio, ma qualche teologo ha qualcosa da dire su un Tizio del genere?

Alcune testimonianze raccolte da Elena Tebano

La studentessa

«Vado a messa ma sono critica verso la Chiesa» «Sono credente, cattolica praticante e in ricerca». Francesca Minonne, 26 anni,
di Lecce, studentessa di lettere a Milano, si definisce così: «Vado a messa la domenica, mi riconosco nei valori cristiani (come l’analisi di coscienza, la ricerca personale, la famiglia, l’apertura al prossimo) — spiega —. Però vedo criticamente la Chiesa come istituzione». Per Francesca, come per molti della sua generazione, i «Millenials», la spiritualità è un bisogno profondo che però scarta di lato di fronte alla sua organizzazione terrena: «La difficoltà è soprattutto calare i dogmi nel mondo che ci circonda — dice —. Continuo a cercare risposte e questo mi ha fatto capire che la fede per me è importante, ma se non fosse stato per le suore del mio vecchio oratorio e un parroco a casa, forse me ne sarei allontanata».

Il dirigente

«Ogni giorno trovo lo spazio per pregare» Alberto Ratti, 28 anni, di Milano, ha scelto di lavorare come amministratore di un’isti-tuzione cristiana, l’Università Cattolica. «Per me è importante vivere la fede quotidianamente — spiega —. Ogni giorno mi ritaglio uno spazio di preghiera». Il suo rapporto con la religione è diventato più profondo alle superiori ed è un cammino intellettuale oltre che spirituale: «Le mie figure di riferimento più importanti sono Giuseppe Lazzati, che ha insistito sul ruolo del laicato nel cattolicesimo, e poi il Cardinal Martini. Mi riconosco nella Chiesa come “ospedale da campo” di Papa Francesco». Che non significa rinunciare alle domande: «Cerco di seguire il magistero, ma mi interrogo su molti temi. Come le unioni civili: mi sembra una richiesta condivisibile su cui noi cattolici dovremmo riflettere».

La scout

«Lo incontro nella natura e nel volontariato» «Quando partecipo ai sacramenti ci credo fermamente, ma non mi riconosco nella Chiesa: è troppo rigida, limitante, ristrettiva. Per me il rapporto con Dio è più individuale». Carola Costanza, 20 anni, di Licata, in Sicilia, è scout, e prima dell’Agesci ha girato varie associazioni cattoliche. Le ha lasciate perché «spesso la mediazione dei sacerdoti è eccessiva — spiega —. Il mio momento di svolta: avevo 16 anni e in un viaggio con il gruppo fummo rimproverati perché in autobus cantavamo Albachiara». Ha a che vedere come vive la religione: «Non credo che debba esserci solo negazione e senso di colpa. Fede speranza e carità per me sono valori fondamentali. Ma sento Dio soprattutto quando sono nella natura o faccio servizio agli altri». (Testi a cura di Elena Tebano)

si fa presto a dire Dio …

IL DIO IN CUI NON CREDO 

di Carlo Molari


“CHE DIO MI LIBERI DA DIO”

otto immagini di Dio “in cui non credere”

di Carlo Molari

prego Dio che mi liberi da Dio: sembra una contraddizione perché se preghi Dio credi in Lui e non puoi chiedere di fare senza di Lui. La formula viene da un mistico, un teologo domenicano vissuto a cavallo tra il secolo XIII e XIV, nato nel 1260 e morto nel 1327, Meister Eckhart. Eckhart come credente ha detto: Prego Dio che mi liberi da Dio per superare tutte le immagini di Dio, per giungere a quella esperienza profonda dove Dio si fa presente nel fondo dell’anima, come lui dice

 

È un discorso difficile, lui stesso ne era consapevole e infatti afferma: “vi prego per amor di Dio di comprendere se potete questa verità. Se poi non la comprendete non vi affliggete per questo, perché io parlo di una verità tale che solo poche persone buone la comprenderanno” (ib. p. 131). Dice ancora: “Chi non comprende questo discorso non affligga il suo cuore, perché l’uomo non può comprendere questo discorso finché non diventa uguale a questa verità”, cioè finché non la vive al punto da essere questa verità. “Infatti si tratta di una verità senza veli, che giunge immediatamente al cuore di Dio. Dio ci aiuti a vivere in modo da poterla conoscere in eterno. Amen” (ib. p. 139). Il luogo interiore dove Dio si incontra, per Eckhart, è il fondo dell’anima: là non c’è nessuna immagine perché è il luogo dove prendi contatto con la forza creatrice, con l’azione di Dio che ti rende figlio. Eckhart utilizza questa espressione: “Dio genera in te il figlio”. Vuol dire “la parola che un giorno in Gesù si è espressa, in te ora viene generata”, tu cresci come figlio. E in quel luogo non c’è nessuna immagine. Tudiventa l’immagine e non avrai bisogno di nessun’altra immagine, sarai luogo dove Dio si rivela. Non dove Dio fa qualcosa per te, dove Dio fa teimmagine sua.
Vorrei aggiungere un’altra breve riflessione preliminare sul significato del confronto con gli atei. Oggi molti cominciano a parlare di Dio, se si va nelle librerie laiche si trovano moltissimi libri che parlano di Dio scritti da atei o agnostici, che però sentono il dovere, la necessità di parlare di Dio. Si potrebbe dire che oggi i teologi si stanno avviando al silenzio, nel senso che scoprono che è meglio non parlare troppo di Dio, perché tutto quello che diciamo o è senza senso o, se ha un senso, conduce al silenzio, cioè all’adorazione, a liberarci da tutte le parole e da tutte le immagini; mentre gli atei si stanno avviando nella direzione di parlare di Dio. Per dire che non c’è. E siccome quel Dio che negano è spesso il Dio che anche noi neghiamo, succede che ci troviamo a camminare insieme. Il cammino che noi stiamo facendo anche nel confronto con gli atei è un cammino comune di credenti e non credenti, per un nuovo umanesimo, perché l’umanità risponda alle esigenze attuali. Infatti la situazione in cui oggi ci troviamo è quella di una svolta epocale, nel senso che la forza creatrice, la forza della vita, i processi evolutivi richiedono un salto qualitativo. Mentre nei passaggi precedenti – fisici, chimici e biologici – c’erano leggi ben determinate ora il salto sta avvenendo nell’ambito culturale e spirituale, dove qualcosa di nuovo sta sorgendo, ma non sappiamo che cos’è, non sappiamo che forma assumerà. Dobbiamo essere consapevoli che insieme lo possiamo far nascere, desiderandolo, attendendolo e accogliendolo, cioè diventando noi luogo di questa emergenza.
Il tema Dio è un ambito attraverso il quale la riflessione e l’attesa del nuovo acquista una efficacia straordinaria. Non semplicemente per l’apporto dei credenti, bensì anche dei non credenti, di coloro che soffrono, che lavorano per la giustizia, che giungono ad amare in modalità corrispondenti alle esigenze della nostra stagione storica. Dopo queste premesse esamino gli dei in cui non credo: otto immagini di Dio che non sono efficaci.
1. Il Dio della pura ragione: in questo Dio non credo, non merita fede, non merita fiducia, non è sufficiente. C’è un ateo convertito, morto nell’aprile scorso, un filosofo molto noto, Anthony Flew, che a quindici anni aveva fatto la scelta dell’ateismo. Quando nel 2004 fu chiamato negli Stati Uniti in un grande teatro per confrontarsi come ateo con tre teologi, prima di cominciare il dialogo dichiarò di aver cambiato idea. Successivamente ha giustificato il suo cammino razionale. In realtà Flew è giunto alla credenza in Dio attraverso la riflessione filosofica, ma non è giunto alla fede in Dio, cioè a considerare Dio come riferimento delle proprie decisioni, per giungere a conoscere e ad amare in un modo nuovo. Se non scopri che è un Dio che ti ama e che ti consente di giungere ad una forma nuova di vita, un Dio che salva a che ti serve? Anche il Cardinale Ruini, nel dicembre 2009 dopo aver proposto diversi argomenti per dimostrare l’esistenza di Dio, ha detto: “La difficoltà dell’approccio metafisico nel contesto culturale contemporaneo, aggiungendosi all’aporia derivante dall’esistenza del male nel mondo, sono le ragioni di fondo di quella «strana penombra (sono parole di Ratzinger che egli cita) che grava sulla questione delle realtà eterne». Perciò l’esistenza di un Dio personale, pur solidamente argomentabile, non è oggetto di una dimostrazione apodittica, ma rimane (e qui cita ancora Ratzinger) «l’ipotesi migliore, che esige da parte nostra di rinunciare ad una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile»”. L’atteggiamento dell’umile ascolto serve appunto per creare il silenzio interiore, per pervenire al ‘fondo dell’anima’ dove la forza creatrice sta alimentando il nostro cammino. Questa è l’esperienza da compiere in ordine alla fede. Per questo il Dio della ragione non è sufficiente.
2. Non credo nel Dio che opera nella creazione e nella storia inter-venendo, modificando le situazioni, completando le creature, rimettendo in funzione i meccanismi della creazione e della storia quando si inceppano. L’azione di Dio è un’azione creatrice che offre possibilità, che alimenta il processo, ma che non si sostituisce mai alle creature, proprio perché fa esistere ed operare le creature. La storia umana è fatta solo di azioni umane, come il processo cosmico è costituito solo da meccanismi di creature fisiche, biologiche, alimentate e sostenute dalla potenza divina. Siccome Dio molti praticanti pensano ancora che Dio intervenga all’interno dei processi, credo sia urgente chiarire l’inconsistenza di un tale modo di immaginare Dio. È un passaggio difficile ma necessario. Dobbiamo diffondere una immagine libera da queste ipoteche della ‘provvidenza’. Dio è provvidente non nel senso che risolve tutti i problemi, ma nel senso che, ovunque l’uomo si venga a trovare, il suo amore è tale che può condurlo al suo compimento. Dio perché non può risolvere alcun problema storico se non ci sono creature che aprendosi alla sua azione indicano e realizzano la soluzione. Il “dio tappabuchi” non può essere il Dio della fede.
3. Non credo nel Dio che punisce i peccati, che manda le pestilenze per far ravvedere gli uomini. Per moltissimo tempo si è pensato così. San Carlo Borromeo, in occasione di una pestilenza a Milano, organizzò una grande processione. Il santo portava la pesante croce di legno col sacro chiodo davanti a tutti invocando la misericordia di Dio. Scrisse poi al cardinale di Bologna esprimendo la sua gioia perché le chiese non erano mai state piene come in quei giorni. La peste, a suo giudizio, era stata lo strumento di Dio per il ravvedimento del popolo. Il segno chiaro che questa interpretazione era giusta stava nel fatto che “nonostante l’assembramento numeroso della gente che si era raccolta a pregare, non si era verificato nessun altro caso di peste”.
4. Non credo nel Dio che cambia atteggiamento per la preghiera degli uomini. Come se noi pregando sollecitassimo Dio a fare qualcosa di nuovo. È una pretesa insensata, un modello antropomorfico. La preghiera ha un grande valore perché mette in moto in noi dinamiche di novità e di cambiamento, non perché modifica l’atteggiamento di Dio. Noi pregando acquistiamo la capacità di vedere in modo più profondo il reale, e di amare in modo inedito. Quando giungiamo a sperimentare attraverso la preghiera le qualità nuove che fioriscono in noi, comprendiamo che la forza della vita contiene ricchezze ancora non espresse, qualità umane che possono fiorire e che domani avranno forme per noi ora non immaginabili. Il silenzio interiore, l’atteggiamento di ascolto e di accoglienza sono essenziali per l’efficacia della preghiera. Ma non perché diciamo a Dio di fare qualcosa di nuovo, ma perché noi accogliamo la sua azione in modo molto più profondo e ricco.
5. Non credo in un Dio che può fare le cose perfette dall’inizio, perché la creatura è tempo e può accogliere il dono solo a frammenti, nella successione. Dio è eterno, è pienezza di vita, è perfezione compiuta, ma la creatura è tempo e non può accogliere l’offerta divina tutta in un solo istante. Non ci può essere una creatura perfetta all’inizio. Nella prospettiva evolutiva si capisce bene che Dio alimenta il processo continuamente, cioè la creazione continua tuttora. Il compimento è il traguardo del cammino, la perfezione piena è solo alla fine.
6. Non credo nel Dio che vuole la riparazione del male attraverso la croce di Cristo o per mezzo di coloro che si uniscono alla sua sofferenza. Dio non vuole che gli uomini siano nel dolore, e quando qualcuno soffre Dio è dalla sua parte per sostenerlo nel suo cammino, perché possa giungere ad amare anche in quella condizione. I santi che hanno attraversato grandi sofferenze si sono santificati per l’amore a cui sono pervenuti. Lo stesso Gesù è giunto ad un amore supremo sulla croce e per questo è risorto. Amando Gesù ci ha salvato: è redentore non perché ha sofferto, ma perché la sofferenza è stata l’ambito in cui l’amore è fiorito in forme sublimi.
7. Non credo al Dio che parla all’uomo con parole umane. Dio parla nel silenzio perché non pronuncia parole umane, bensì divine, per noi silenziose. La sua Parola però alimenta la nostra vita come forza creatrice. Il contatto con Lui ci rigenera. Ma questo contatto non diventa parola, non diventa idea, non diventa immagine, bensì diventa esperienza vitale, evento di storia. Certo, l’esperienza può essere narrata, ma quando viene tradotta in parole umane viene anche in parte tradita, modificata, confusa, per cui la Parola divina è sempre da cercare oltre le parole umane. Quando diciamo che la Scrittura è ‘parola di Dio’ dobbiamo intendere la formula in senso analogico cioè di relazione. La Parola è quella forza di vita che ha suscitato gli eventi di salvezza, narrati dagli uomini secondo i modelli con cui li hanno vissuti e interpretati, e trascritta secondo i modelli culturali del tempo. Il processo che ci consente di cogliere il senso della Parola è rivivere le esperienze di fede che hanno caratterizzato l’evento narrato, coglierne la trama divina, e percepire nel silenzio la presenza che le ha rese possibili.
8. Non credo nel Dio del Progetto intelligente (Intelligent Design), come lo presentano i gruppi statunitensi che si battono per introdurre nelle scuole l’insegnamento alternativo all’evoluzionismo neo-darwinista. Dio della fede non è semplicemente il Dio delle origini ma del processo nella sua interezza. Le cause dei processi cosmici sono imperfette e il male accompagna sempre lo sviluppo della vita sulla terra. Il caos e la complessità caratterizzano molti eventi, perché Dio non interviene con azioni puntuali nelle situazioni della storia. L’azione divina in ogni circostanza offre molte possibilità per cui la casualità ha una parte importante nel divenire cosmico e negli eventi della storia. Il progetto salvifico si può realizzare anche attraverso fallimenti, vicoli ciechi, eventi casuali e imprevedibili che costellano il cammino evolutivo.

in quale Dio credi? questo il vero problema!

Dio

Cosa volete che gliene importi, a Dio, della vostra obbedienza?
Pensate davvero che vi sia riconoscente se credete in lui?
Se gli portate rispetto o meno?
Credete seriamente che si compiaccia delle vostre preghiere, degli onori che gli riservate, dei vostri sacrifici o dei templi che innalzate per lui?
Siete convinti che Dio gioisca del sangue che spargete per lui?
Del sangue di chi non crede in lui, ma che lui ha creato?
Siete convinti che vi abbia eretto a giudici della vita altrui, quando lui per primo non se ne cura?
Siete convinti che sia questo ciò che sta a cuore a Dio?
Quanto e come pregate?
Cosa mangiate o non mangiate?
Come vi vestite?
Cosa leggete?
Cosa pensate?
In quale Dio credete?
Vi siete fatti un Dio a vostra immagine e somiglianza, Ecco cos’é!
Un Dio che s’arrabbia e maledice.
Un Dio che vuole il controllo che dovrebbe già avere.
Un Dio che vuole la guerra, il sangue, il dolore e la disperazione per il suo creato.
Un dio che Odia.
Questo non è un Dio.
Questo siete Voi.
Con tutte le vostre frustrazioni, le vostre insicurezze, i vostri rancori e la vostra incommensurabile paura. La paura di voi stessi. La paura di sparire.
Dio non è grande, Dio è di più: infinito, immenso, totale.
Dio è tutto.
Dio è ovunque.
Dio è chiunque.
Dio è sopra qualsiasi cosa.
Sopra l’odio, sopra il rancore e sopra la vendetta.
Dio è Amore.
Solo chi Ama compie la volontà di Dio.
Gli altri seguono solo la propria.
Convertitevi all’Amore e lasciate andare voi stessi.
 
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