il ‘Dio’ dei nostri ragazzi è un ‘Dio a modo mio’

il Dio «a modo mio» dei Millennials

di Paolo Foschini
in “Corriere della Sera” del 15 febbraio 2016

giovani

«Ci credo perché spero che ci sia»

«E che alla fine metterà tutto a posto

«Ci credo perché Dio è la risposta»

«Io ci credevo, poi non ci ho più creduto, ma ora forse ci credo di nuovo»

naturalmente non è facile, se vuoi farlo sul serio, riassumere la ricerca di un senso della vita in una ricerca sociologica. Figurarsi in un sondaggio. Eppure eccoli, i credenti under 30. Quelli per i quali il «cristianesimo» è più un volersi bene che una religione, ma proprio per questo piace. Gli stessi per cui il «cattolicesimo» invece è un’istituzione e stop, pure un po’ noiosa, mentre «cattolico» è sinonimo di chi non salta una messa e buonanotte: alla larga, dicono. Ma poi dicono anche un’altra cosa. E cioè che però, nonostante tutto, anche loro, come miliardi di esseri umani da sempre, alla fine «ci credono». In Dio, in una speranza, in qualcosa. Fosse anche solo (solo?) un «Dio a modo mio». Appunto

 

È questo il titolo del volume che a cura di Rita Bighi e Paola Bignardi raccoglie i risultati di un’indagine promossa dall’Istituto Toniolo, quello che fondò e tuttora governa l’Università Cattolica, su Giovani e fede in Italia : che poi è anche il sottotitolo del lavoro. La pubblicazione (editrice Vita e pensiero) viene presentata oggi a Milano e costituisce un approfondimento del più vasto «Rapporto giovani» sostenuto da Fondazione Cariplo e Intesa Sanpaolo, partito nel 2013 con novemila interviste sulle aspettative dei 18-30enni e via via proseguito con altre analisi su cose tipo il lavoro, le istituzioni, la felicità.

Questa volta l’indagine è basata su colloqui anche piuttosto lunghi. Con 23 intervistatori per 150 intervistati, tutti battezzati, presi tanto in paesini minuscoli quanto in grandi città da un capo all’altro d’Italia e divisi in due categorie di età, 19-21 e 27-29 anni. Ne è venuto fuori un ritratto fatto di storie più che di numeri, ma con alcune costanti. L’avvicinamento alla religione per tradizione familiare, il catechismo vissuto soprattutto come un elenco di comandamenti, la prima comunione fatta perché si doveva e poi la fuga dopo la cresima («non ne potevo più»), a dispetto del «bel ricordo» dell’oratorio. Finché più avanti, sui 25 anni, a volte ritornano. Magari perché capita un fatto doloroso, o l’incontro con un prete giusto. Così come un prete sbagliato poteva averli fatti allontanare. Quel che è cambiato, rispetto agli anni del catechismo, è che oggi Dio per loro è un’altra cosa: «Credo nel mio Dio ma non nel loro », dicono. Anche quando a messa ci vanno. Perché vivono la faccenda non come religione ma come sistema di valori. Un’etica. Fatta di «amore, rispetto, eguaglianza». Altra cosa dalla istituzione «Chiesa», che associano a «clero corrotto», «esteriorità», «regole». Per questo, al contrario, son praticamente zero quelli a cui non piace papa Francesco. E se potrebbe apparire facile liquidare come «comoda» l’idea di questo che una definizione ormai non recente qualifica come un Dio-fai-da-te, la ricerca sottolinea invece l’importanza che sia proprio la Chiesa, oggi, a dover rinnovare il suo linguaggio: che «non passa per un più abile uso dei media — scrivono le curatrici — ma per una maggiore coerenza tra dire e fare». Forse la cosa più bella — quella che se bastasse dirla per crederci convertirebbe il mondo intero — è la risposta di uno degli intervistati alla domanda su cosa ci trova nel credere in Dio: «Ci trovo che Lui ti fa sentire amato, speciale, nonostante magari tu non sia il meglio o creda di non esserlo. Ci trovo che Lui non fa cose nuove, diciamo, ma fa nuove tutte le cose». Sarà anche Dio a modo mio, ma qualche teologo ha qualcosa da dire su un Tizio del genere?

Alcune testimonianze raccolte da Elena Tebano

La studentessa

«Vado a messa ma sono critica verso la Chiesa» «Sono credente, cattolica praticante e in ricerca». Francesca Minonne, 26 anni,
di Lecce, studentessa di lettere a Milano, si definisce così: «Vado a messa la domenica, mi riconosco nei valori cristiani (come l’analisi di coscienza, la ricerca personale, la famiglia, l’apertura al prossimo) — spiega —. Però vedo criticamente la Chiesa come istituzione». Per Francesca, come per molti della sua generazione, i «Millenials», la spiritualità è un bisogno profondo che però scarta di lato di fronte alla sua organizzazione terrena: «La difficoltà è soprattutto calare i dogmi nel mondo che ci circonda — dice —. Continuo a cercare risposte e questo mi ha fatto capire che la fede per me è importante, ma se non fosse stato per le suore del mio vecchio oratorio e un parroco a casa, forse me ne sarei allontanata».

Il dirigente

«Ogni giorno trovo lo spazio per pregare» Alberto Ratti, 28 anni, di Milano, ha scelto di lavorare come amministratore di un’isti-tuzione cristiana, l’Università Cattolica. «Per me è importante vivere la fede quotidianamente — spiega —. Ogni giorno mi ritaglio uno spazio di preghiera». Il suo rapporto con la religione è diventato più profondo alle superiori ed è un cammino intellettuale oltre che spirituale: «Le mie figure di riferimento più importanti sono Giuseppe Lazzati, che ha insistito sul ruolo del laicato nel cattolicesimo, e poi il Cardinal Martini. Mi riconosco nella Chiesa come “ospedale da campo” di Papa Francesco». Che non significa rinunciare alle domande: «Cerco di seguire il magistero, ma mi interrogo su molti temi. Come le unioni civili: mi sembra una richiesta condivisibile su cui noi cattolici dovremmo riflettere».

La scout

«Lo incontro nella natura e nel volontariato» «Quando partecipo ai sacramenti ci credo fermamente, ma non mi riconosco nella Chiesa: è troppo rigida, limitante, ristrettiva. Per me il rapporto con Dio è più individuale». Carola Costanza, 20 anni, di Licata, in Sicilia, è scout, e prima dell’Agesci ha girato varie associazioni cattoliche. Le ha lasciate perché «spesso la mediazione dei sacerdoti è eccessiva — spiega —. Il mio momento di svolta: avevo 16 anni e in un viaggio con il gruppo fummo rimproverati perché in autobus cantavamo Albachiara». Ha a che vedere come vive la religione: «Non credo che debba esserci solo negazione e senso di colpa. Fede speranza e carità per me sono valori fondamentali. Ma sento Dio soprattutto quando sono nella natura o faccio servizio agli altri». (Testi a cura di Elena Tebano)

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