Doi è nella fragilità umana

confida … nonostante tutto …

Quando stai per fare l’ultimo passo verso il baratro,

quando la disperazione sembra l’unica realtà non solo possibile ma anche immaginabile,

quando ti rendi conto che l’oppressione è imbattibile perché trova molti alleati soprattutto tra gli ipocriti,

quando comprendi che solo i vincitori hanno amici e che le relazioni sono malate di funzionalismo,

quando scopri che dentro di te abita anche il nulla e non trovi qualcosa a cui aggrapparti,

quando vedi soffrire l’innocente e festeggiare l’iniquo,

quando senti uomini esultare in uno stadio di calcio mentre accadono tragedie immani che non fanno neanche più notizia,

quando vivi in Paese molto democratico e molto cattolico in cui governano impunemente le élite e che investe in un anno 23,4 miliardi di euro per le forze armate,

quando vedi passare le Frecce Tricolori al G7 mentre i migranti devono arrivare fino a Napoli per poter sbarcare,

confida sempre nel Signore*

Non chiedermi cosa significhi e come si faccia di preciso. So però che Lui è nel baratro, nella disperazione, con gli sconfitti, nella gratuità, nel nulla, nella sofferenza, nelle tragedie, nella pace, con i migranti, e con tutti quelli che lo ospitano in questo mondo senza vita.

*Isaia 26,4

pubblicato da ‘altranarrazione’

 

“a immagine di Dio li creò”

ad immagine di Dio

«E Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra a nostra immagine, a nostra somiglianza»

Genesi 1,26

Non siamo fatti ad immagine del denaro che infatti non può fare nulla per la nostra miseria morale, la precarietà esistenziale e l’irrinunciabile ricerca di senso.
Non siamo fatti ad immagine della competizione che infatti ci deforma rendendoci estranei a noi stessi ed oppressori degli altri.
Non siamo fatti ad immagine del lavoro che infatti è uno strumento e non un fine.

Non siamo fatti ad immagine del potere che infatti ci manipola convincendoci a servire interessi iniqui.
Non siamo fatti ad immagine del possesso che infatti ci rende sospettosi.
Non siamo fatti ad immagine dell’ipocrisia che infatti ci lascia divisi e mai riconciliati.
Non siamo fatti ad immagine di una dottrina che infatti pur conoscendola non ci impedisce di essere indifferenti nei confronti dei poveri.
Non siamo fatti ad immagine degli idoli che infatti esistono solo nella nostra mente e svaniscono come vapore nell’ultimo giorno.

pubblicato da ‘altranarrazione’

per capire Dio occorre diventare le sue mani nel mondo

immagini di Dio

dall’Altissimo al papà

 da: Adista Segni Nuovi n° 39 del 11/11/2017
 
 “Non sarebbe bello un Dio di cui ci accorgiamo dì essere mani, che, per esistere fra noi ha bisogno delle nostre mani, che vive nel ‘condividere’ il necessario alla vita e nella ‘gioia’ che ha la sua radice nel servire e nel saziare ogni vivente?”

Tenetevi pure, cari cultori del Dio-Altissimo, il vostro Altissimo Dio! È un Dio che vuole essere adorato perché si vede che gli manca qualcosa che deve venire dalle proprie creature, che sono tenute a farlo; che vuole essere ringraziato per quello che le sue creature ricevono non da Lui, ma dalle altre sue creature; che vuole essere placato perché le creature create da Lui non gli sono riuscite bene e ne combinano di tutti i colori; che vuole essere pregato per inchinarsi verso di loro quando esse non ne hanno bisogno, ma quando esse hanno bisogno di Lui, eccolo zitto, a far raccontare ai suoi galoppini-sacerdoti che l’aiuto arriverà quando loro guarderanno l’erba dalla parte delle radici.

Io, di questo Dio, non so cosa farmene: è lontano, freddo; con tutta l’onnipotenza che Gli viene attribuita, riesce a lasciare nella sofferenza, nel dolore, uno sterminato numero di sue creature. Mi dicono che, oltre ad essere onnipotente, è anche buono. Sarà vero, ma io non me ne sono accorto, soprattutto quando nella mia esperienza incontro il dolore innocente, i piccini seguiti dalla Lega del Filo d’Oro; le vittime del nostro ordine costituito, che lascia morire migliaia di piccini ogni giorno mentre lo spread sale e scende; la violenza blasfema che i ricchi impongono legalmente ai poveri e che gli uomini in generale praticano sulle bestioline, delle quali si sentono padroni e che straziano, dimenticando che anch’esse sono esposte al dolore… Questo Dio dicono anche che sia un Dio geloso, che esige di essere scelto fra tutti gli altri Dio concorrenti; e che non disdegna il fatto che delle Sue creature, a causa della loro fedeltà a Lui, debbano subire il martirio da parte di altre Sue creature che hanno scelto la concorrenza!

Questo era il Dio che mi era stato raccontato, e dal quale sto ancora cercando di liberarmi, e ci sono quasi riuscito. Sono andato a scuola dai portatori delle malattie genetiche; ho preso lezioni nelle aule di oncologia pediatrica; mi sono tenuto in contatto con quelle creature che stanno sperimentando sulla loro pelle i frutti sia del capitalismo che della fantasia creativa del Creatore, che si è degnato di creare, oltre a loro, i virus, il cancro, la lebbra, i bacilli della Tbc, della meningite e via di seguito, per far sperimentare loro le delizie dell’esistere.

Allora mi sono convertito ad un altro Dio, ho creduto in quello che mi ha detto Gesù, e mi sono trovato un Padre, un Papà. Questo Papà, col quale rifletto ogni tanto, abita dentro me stesso; dell’adorazione, del ringraziamento non Gliene cale niente; vuole che noi ringraziamo coloro che ci hanno fatto del bene; che chiediamo perdono a coloro che noi abbiamo offeso, e che ripariamo al danno; che ci vogliamo bene fra noi come Lui ci ama. Mi sembra di aver capito che Lui sia più felice quando io non penso a Lui, ma alle creature che incrocio intorno a me, alle quali Lui vuol far arrivare il Suo amore. Questo succede perché, se io non mi faccio mano del suo amore per loro, loro sperimentano il Suo silenzio e l’inferno della Sua assenza. Questo Papà, infatti, non è affatto onnipotente; direi quasi che è onnidebole! Quando io soffro vedendo soffrire le altre creature, le minime incluse, io voglio pensare di averlo accanto a me a soffrire. Quando mi scandalizzo per la tragedia di un Creato che è tutta una lotta, una violenza, una ingiustizia blasfema, nella quale gli uni per vivere devono far morire altre vite; quando mi è insopportabile vedere la crudeltà indifferente degli uomini sulle bestioline e delle bestioline fra di loro; quando mi sento soffocare in questo nostro mondo che può servire da modello per costruire l’inferno, dato che esso è ancora pieno di viventi che torturano altri viventi, che violentano, rapinano, lasciano morire gli scarti del sistema e i piccini della favela; quando io provo tutto questo penso che esso sia condiviso anche da Lui, dal mio Papà, dato che i figli assomigliano ai padri, e che sono anche la continuità dei padri stessi.

Quando io non mi voglio rassegnare al fatto che la morte sia strutturale alla vita, che la vita sia una lotta per la vita, che, per vivere, sia necessario distruggere altra vita, mi viene di pensare che questi siano anche i Suoi pensieri ed i Suoi desideri.

Mi sento un atomo del Suo pensiero e della Sua volontà. Mi sento che Lui c’è dove c’è, e non c’è dove non c’è. Mi sento che dove non c’è è necessario darGli esistenza perché ci sia. Quando mi lascio prendere dalla malinconia per il procedere inesorabile del tempo, per l’esistenza che si spegne, che sfiorisce, che ci abbandona o per il tutto o per il nulla, io penso che questa sia anche una Sua esperienza.

Quando mi trovo ostaggio della compassione per il dolore, la sofferenza, la miseria universali, spero di essere, di far parte del pensiero e del cuore di un Padre che, se non fosse come Lo penso, andrebbe creato e fatto esistere come io lo penso.

E non sarebbe bello se fossero anche gli atei, se fossero persino gli atei, però quelli che vivono l’amare e il condividere nella dimensione del gratuito, a dare vita a Dio e a vedere in Lui il loro Papà, a vedere in Lui la radice della loro compassione, che include il sentirsi compagni delle vittime, e l’impegnarsi perché ogni vivente possa avere il necessario e la gioia?

Non sarebbe bello un Dio di cui ci accorgiamo dì essere mani, che, per esistere fra noi ha bisogno delle nostre mani, che vive nel “condividere” il necessario alla vita e nella “gioia” che ha la sua radice nel servire e nel saziare ogni vivente?

* Mario Mariotti è da oltre 40 anni attivista sociale e studioso dei rapporti tra Nord e Sud del mondo

l’omsessualità come dono – parola di vescovo

monsignor Antonio Carlos Cruz Santos:

«l’omosessualità è un dono di Dio»

 

«Considerato il fatto che l’omosessualità non è una scelta, che l’Organizzazione Mondiale della Sanità non lo considera più come una malattia, nella prospettiva della fede noi abbiamo solo una risposta: se non è una scelta, se non è una malattia, nella prospettiva della fede solo può essere un dono, e un dono è dato da Dio. Non c’è verso, se non è scelta, non è malattia, è dono, è dono dato da Dio; ma forse i nostri preconcetti non permettono di comprenderlo come dono di Dio. Così come i preconcetti nei confronti dei neri, e si diceva che i neri non avevano l’anima, il nostro preconcetto non permette di percepire questo dono».

È quanto affermato da monsignor Antonio Carlos Cruz Santos, vescovo di Caicó (Brasile).

Pare dunque in costante crescita il numero di vescovi che contestano l’integralismo di chi difende il mero pregiudizio, spesso con modalità che li dovrebbe portare a sostenere che se un tempo la Chiesa si diceva certa che la Terra fosse piatta, il buon cristiano dovrebbe continuare rifiutarsi di accettare che sia sferica.

a una Chiesa invecchiata, paralizzata dalla routine il compito arduo di annunciare un Dio sempre giovane

è Dio la buona notizia

a proposito dell’ultimo libro di Pagola:

José Antonio Pagola, Annunciare Dio come buona notizia

di Bruno Scapin
in “Settimana-News” – www.settimana.it – del 21 aprile 2017

Abbiamo fra mano l’edizione italiana dell’ultimo libro di José Antonio Pagola, prete basco, già docente di cristologia presso la Facoltà teologica di Vitoria. Queste pagine rispondono all’invito di papa Francesco a dare impulso a un rinnovato annuncio del Vangelo. Tale annuncio deve avere però una connotazione specifica, dev’essere segnato «dalla gioia di Gesù». Tutti i capitoli del libro sono interessanti e offrono un’indagine acuta della situazione attuale connotata da «una crisi senza precedenti». Ma il cuore di tutto è racchiuso nel capitolo quinto. Vedremo perché. La crisi di fede c’è, è innegabile. Il vento della secolarizzazione prima e i tanti mutamenti sopravvenuti negli ultimi tempi (pensiamo solo alle nuove modalità di comunicazione), il disinteresse per il discorso religioso, la crisi dell’autorità, sono solo alcuni aspetti di questa crisi profonda.

Bisogna accogliere Dio «nella notte», avverte Pagola. E bisogna accettare che la ragione incontri il mistero, sia affacci sulla vertigine del nichilismo, avverta il vuoto del “non senso”. Allora si potrà fare la proposta di un Dio che, senza sfoggiare onnipotenza e onniscienza, si fa compagno di strada condividendo ogni sofferenza. Questo Dio è chiamata ad annunciare la Chiesa, ma percorrendo anch’essa le strade degli uomini. «Solo una Chiesa samaritana, vicina ai crocifissi, può pronunciare il nome di questo Dio» (p. 39).
Un Dio amico dell’uomo Le nostre comunità cristiane – dichiara il teologo basco – vivono di Dio «un’esperienza impoverita». «Tutti soffriamo oggi i limiti di una Chiesa invecchiata, paralizzata dalla routine, bloccata da un cristianesimo tradizionale, sotto l’impulso di presbiteri e credenti logorati dall’età» (pag. 67). Si vive di convinzioni, credenze e riti. Una pastorale senza interiorità, destinata a produrre mediocrità spirituale. Occorre invece promuovere e incentivare un’esperienza personale di Dio. Senza di essa – ammonisce Pagola – «in un futuro già prossimo, non vi saranno credenti». Ed eccoci al capitolo quinto. «In un mondo dove si soffre tanto per la mancanza di amore», siamo chiamati ad annunciare «la buona notizia di un Dio amico dell’uomo». «Non sapremo aprire vie che avvicinino gli uomini e le donne di oggi al mistero di Dio se non viviamo e comunichiamo l’esperienza di un Dio percepito come il miglior amico dell’essere umano» (p. 81). Le pagine di questo capitolo sono ritmate dalle parole «amore», «amico», «amicizia», «affetto». Recuperano le tenerezze di Dio e di Gesù suo figlio. Dio è coinvolto fino alla compassione e alle lacrime nella vicenda umana. Questo Dio può vincere l’indifferenza e la sordità del nostro tempo. È davvero una gioia leggere queste pagine: intense, garbate, appassionate, ricche di citazioni gustose e appropriate. E assai utili per impostare un efficace cammino di evangelizzazione. Dopo la lettura non si capisce proprio perché qualcuno abbia portato l’autore davanti alla Congregazione per la dottrina della fede affinché ne fosse verificata l’ortodossia.

José Antonio Pagola, Annunciare Dio come buona notizia, EDB, Bologna 2017, pp. 158, € 14,50

i poveri, i nostri maestri …

i poveri sono la porta santa

 

I poveri sono la porta santa 
di Tolentino Mendonça José,
teologo e scrittore porteghese

 

è vice rettore dell’Università Cattolica di Lisbona e Consulente del Pontificio Consiglio della Cultura. E’ autore e curatore editoriale di vari saggi e studi teologici

relazione tenuta ad Assisi il 19 settembre 2016 in occasione del meeting “SETE DI PACE – Religioni e Culture in dialogo” organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino e dalle Famiglie Francescane ,”Panel 12: Religioni e poveri”povero2

Quando penso al contributo che l’esperienza religiosa dà nel presente e potrà dare, in un futuro prossimo, alla cultura, al tempo e al modo dell’esistenza umana, penso all’immenso patrimonio spirituale che nasce dall’amicizia con i poveri. I poveri spesso si siedono alle porte delle chiese. In realtà, essi non sono seduti davanti alla porta, ma sono loro la porta per arrivare a Dio, questo Dio che ci chiede sempre: “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9). I poveri ci mostrano Dio. Essi sono testimoni e maestri della fede nella sua forma più concreta, perché sono gli ultimi, i piccoli, gli emarginati, i dimenticati, le vittime, quelli che senza voce gridano per la giustizia, gli affamati, quelli che possono contare solo su Dio. Le religioni non possono dimenticare mai la centralità dei poveri nella sua missione. I poveri sono la porta santa. Sono la più santa delle porte sante.  
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I poveri ci insegnano tanto sulla vita spirituale. Ci insegnano l’ascolto. L’ascolto non è soltanto apprendere il discorso verbale. Prima di tutto, è atteggiamento, chinarsi verso l’altro, è dedicargli la nostra attenzione, è disponibilità ad accogliere quello che è stato detto e non detto. Ascoltare significa offrire una spalla dove l’altro possa poggiare la mano, per alzarsi rapidamente. Poter essere ascoltati ci rilancia nel cammino. Uno dei testi che più impressionano sul valore dell’ascolto è il racconto Tristezza di Čechov. Descrive la storia di un vetturino, Iona, che ha perso un figlio e non trova, tra gli umani, nessuno disposto a confortarlo. «Sente il bisogno di raccontare come si è ammalato il figlio, le sue sofferenze, cosa disse prima di morire e come è morto … Sente il bisogno di descrivere il funerale, di raccontare quando è andato all’ospedale a cercare i vestiti del defunto. Nel villaggio è rimasta la figlia, Anissia… Vuole parlare anche di lei … » ma nessuno ascolta. Il vetturino si rivolge allora al suo cavallo e, mentre gli dà da mangiare comincia ad esporgli, in un lungo e dolente monologo, tutto quello che ha vissuto. Le ultime parole del racconto di Čechov sono queste: «Il cavallo continuò a masticare, mentre sembrava che ascoltasse, perché soffiava nella mano del suo padrone… Allora Iona, il vetturino, si animò e gli raccontò tutto ».  
I poveri ci insegnano la forza terapeutica della presenza: un semplice tocco aiuta a dissipare i turbamenti, tranquillizza un animo agitato e trasmette un conforto che nessuna macchina o farmaco può dare. Gesù, per esempio, va a toccare l’intoccabile. Tende la mano a coloro che è proibito toccare. Un uomo malato di lebbra spezza il cordone sanitario e si avvicina a Gesù per dire: “Signore, se vuoi, puoi sanarmi” (Lc 5,12). A quell’epoca i lebbrosi avevano l’obbligo di vivere lontano dagli abitati, separati dalla famiglia, in un distacco che serviva a evitare il contagio. Ebbene, Gesù non si limita alle parole: «Lo voglio», ma tende la mano e lo tocca (cfr. Lc 5,13). Preferisce correre il rischio del contagio, nel desiderio di toccare la ferita dell’altro; volendo condividere, come solo attraverso il tocco si condivide, quella sofferenza; aiutando a vincere l’ostracismo, interiorizzato con la separazione forzata. Cos’è che cura l’uomo? Cos’è che cura la donna che, in un altro punto del Vangelo, segue Gesù e lo tocca (cfr. Lc 8,43-48)? A curarli è certamente il potere di Dio che si manifesta in Gesù, ma in un processo dove la forma non è affatto indifferente. Li cura il fatto di sapersi toccati, e toccati nel senso di trovati, assunti, accettati, riconosciuti, riscattati, abbracciati. La mistica non è uno stato di impermeabilità, ma esattamente il suo contrario: una radicale porosità nei confronti della vita e degli altri. Una pelle, una presenza, un battito del cuore, un incontro, un’allegria condivisa con i poveri.povero

I poveri ci insegnano l’accoglienza di Dio.

Ricordo sempre questa storia:
C’era una volta un uomo devoto che, nella sua preghiera, chiese a Dio una cosa smisurata, ma che Dio immediatamente soddisfò. L’uomo chiese che Dio venisse a visitarlo nella sua casa. Avendo ottenuto il sì di Dio, l’uomo diede il via a grandi preparativi (pulizia, riparazioni, ornamenti…) per ricevere il suo Ospite. Nel giorno stabilito della visita, l’uomo si mise sulla soglia della porta di casa in attesa di Dio. La mattina presto venne un ragazzino che cercò, dalla finestra, di rubargli una mela sul tavolo, ma lui glielo impedì rimproverandolo duramente. A mezzogiorno un mendicante venne a disturbarlo con le sue richieste, ma lui gli spiegò che stava aspettando una visita illustre, di ritornare un altro giorno. Nel pomeriggio, un viaggiatore stanco gli chiese ospitalità, che lui gli negò, perché aspettava Dio. Soltanto Dio non venne. Per questo, quando scese la notte, anche l’uomo cadde in un grande sconforto. E durante la sua preghiera protestò con Dio che non aveva mantenuto la parola. Ma Dio gli rispose: “Per tre volte ho cercato di entrare in casa tua, ma tu stesso me l’hai impedito”.

Dio è innocente di fronte alla grande sofferenza del mondo? qualche spiegazione comunque ce la dovrà dare – intanto è utile affrontare in altro modo il problema

oltre il mito di un mondo senza male

 

la realtà della sofferenza e la bontà di Dio

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Claudia Fanti   

da: Adista Documenti n° 31 del 17/09/2016

È una domanda – forse “la” domanda – a cui non è dato sfuggire: come conciliare l’esistenza di un Dio d’amore con la presenza del male e della sofferenza nel mondo? Una domanda che, per esempio, ha indotto il grande teologo Karl Rahner ad affermare che la bontà divina «non può essere dichiarata innocente davanti al nostro tribunale» o che ha spinto un altro celebre teologo, Romano Guardini, a confidare, sul letto di morte, che avrebbe avuto anche lui qualche domanda da porre al Giudice divino: «domande sul dolore dei bambini innocenti».

Ed è proprio a questo tema capitale – “La sofferenza e Dio” – che è dedicato l’ultimo numero della rivista internazionale di teologia Concilium (3/2016), edita dalla Queriniana di Brescia, nella convinzione, espressa dai curatori (Luiz Carlos Susin, Solange Lefebvre, Daniel FranklinPilario e Diego Irarrázaval) sulla scia del filosofo Paul Ricoeur, che «la sofferenza è divenuta la più grande e quasi l’unica sfida alla teologia e alla filosofia contemporanee». Ma anche nella consapevolezza che «si tratta di un oscuro mistero al quale non è bene accostarsi dando risposte» e che «solo con un’attenzione e una fiducia radicale possiamo avvicinarci alla sofferenza, sia la nostra che quella altrui».

Una riflessione, quella della rivista, che non a caso inizia con il racconto di una perdita, di un dolore radicale e di un difficile perdono, riportato dalla teologa presbiteriana Pamela R. McCarroll: il percorso interiore di sofferenza e rinascita di Nora Melara-López, moglie del giornalista e attivista per i diritti umani honduregno José Eduardo López, arrestato e selvaggiamente torturato nel 1981, fuggito dal Paese un anno più tardi ma costretto a farvi ritorno dopo il rifiuto da parte del Canada della sua domanda di riconoscimento dello status di rifugiato («non essendovi timore fondato di persecuzione») e nuovamente sequestrato nel 1984 dalle forze di sicurezza, torturato per giorni, giustiziato e sepolto in un cimitero clandestino. È l’esperienza di una «disconnessione da Dio che li aveva abbandonati, che aveva dato via libera al male e aveva punito il bene», di un disorientamento disperato rispetto all’evidenza di qualcosa di profondamente sbagliato nel mondo: «le brave persone minacciate, torturate, assassinate, messe a tacere e il male che può accrescersi incontrollato». L’esperienza degli immancabili “perché” che, come commenta McCarroll, frantumano «i concetti dell’inevitabilità della giustizia, del bene e del senso della vita», scagliandosi «contro la fede in un Dio onnipotente che ci ama», al punto da generare a volte un «ateismo rabbioso», ma che possono anche aiutare a far emergere «una conoscenza più vera della presenza divina e del suo operato», una «Presenza santa che piange e il cui potere è sempre e soltanto riconoscibile nel potere dell’amore di trasformare dal di dentro le vite umane e le relazioni». È la transizione dal “Dio onnipotente”, morto dinanzi all’evidenza schiacciante del male e dell’ingiustizia, al “Dio piangente”, presente «proprio nel mezzo della vita vera, richiamandola ad azioni redentrici e a vedere di nuovo la bellezza dell’esistenza»: la stessa transizione che segna il percorso umano di Nora, indotta dalle parole del marito dopo il primo sequestro – «Non possiamo odiare i miei aguzzini. Sono solo dei prodotti di questa società» – a perdonare i torturatori di suo marito, accettando anche di incontrare uno di loro, forte della convinzione che l’eredità lasciata dalla vita di Eduardo «valesse molto più della sua morte». E che è possibile cogliere anche nella vicenda del giornalista Antoine Leiris, il quale, dopo aver perso la moglie Hélène nell’attentato terroristico al Bataclan, il 13 novembre 2015, ha scritto una lettera, dal titolo “Non avrete il mio odio”, in cui, rivolgendosi agli assassini, afferma: «Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore». Una vicenda da cui parte la teologa brasiliana Maria Clara Bingemer per evidenziare come, «in mezzo al male e alla violenza, l’amore non può vendicare o rispondere al male con il male: può soltanto soffrire, morire, resistere». E come pertanto, «davanti alla sofferenza dell’innocente, non c’è altro luogo per l’amore, e pertanto per Dio, se non immergersi dentro la sofferenza, al fianco del più debole e oppresso, soffrendo con lui».

Ma, più ancora che la morte del Dio onnipotente, è il superamento del presupposto mitico premoderno di un mondo-senza-male la chiave che consente di accostarsi in modo nuovo al problema della sofferenza nel mondo, sfuggendo alla trappola del paradosso di Epicuro – se Dio non vuole impedire il male, non è buono; se non può, non è onnipotente -, una trappola che si ripropone ad ogni catastrofe naturale e ad ogni disgrazia individuale. Solo interpretando la presenza del male e della sofferenza come conseguenza inevitabile dell’autonomia di un mondo finito, infatti, Dio non apparirà più, come mostra mirabilmente in questo numero di Concilium il teologo Andrés Torres Queiruga, chi permette quando potrebbe evitare o chi non vuole intervenire potendo farlo (quando non, addirittura, chi causa direttamente il male): «Pensare un mondo-senza-male sarebbe come pensare un mondo-infinito; ma infinito può essere solo Dio». Ed è solo così che si riscatta in maniera piena «la tenerezza infinita della bontà divina»: «Poiché, creando per amore, Dio crea esclusivamente cercando il nostro bene, qualunque nostro male si oppone parimenti a lui. Ancor di più, prioritariamente a lui, poiché anche una madre può sentire come più propri i dolori che colpiscono il figlio». E se l’unica questione diventa allora quella di «creare o non creare», è facile rispondere che, se ha deciso di farlo, «è perché – nonostante Epicuro – vuole e può finalmente» vincere il male. È qui, infine, che si incontra il significato autentico della croce, in quanto «in Gesù si rivela definitivamente il comune destino umano: per lui, come per noi, il male è risultato inevitabile; ma parimenti, per noi, come per lui, Dio ha l’ultima parola risuscitandolo/ci».

Cosicché, come sottolinea il teologo brasiliano Alberto da Silva Moreira, «la grande domanda per i cristiani non è sapere dov’è Dio nella sofferenza, ma perché mai le persone non si ribellano contro l’ingiustizia e il male che le colpiscono, poiché avrebbero Dio dalla loro parte».

proponiamo ampi stralci dell’intervento di Torres Queiruga.

Ripensare la teodicea

ripensare la teodicea 

Andrés Torres Queiruga 

 

da: Adista Documenti n° 31 del 17/09/2016

 

La teodicea attuale non può evitare il duro interrogativo della sofferenza. Ma, prigioniera com’è del suo retaggio culturale, sembra incapace di dare risposte. Il suo orizzonte è confuso, fino alla contraddizione. Di fronte alla sfida moderna, essa condivide con la critica atea un presupposto mitico, premoderno: dare per scontata la possibilità di una creazione senza sofferenza, di un mondo-senza-male. Nascosto nel dilemma di Epicuro, tale presupposto continua ad alimentare la sua forza devastatrice. Una volta smascherato criticamente, diventa evidente il suo anacronismo, viene disciolta la sua logica e smontata la sua validità.

Allora risulta possibile una teodicea veramente attuale, che a) colloca il problema all’interno delle esigenze e delle possibilità della cultura laica o secolare, b) preserva il “mistero”, mostrando il suo vero posto nella risposta religiosa, c) riscatta la coerenza della fede in un Dio buono e onnipotente e d) recupera l’intenzione centrale del messaggio biblico e la logica profonda che, nonostante tutto, ha sempre abitato la teologia tradizionale.

I/ IL DILEMMA DI EPICURO, UNA SFIDA PREMODERNA

Il dilemma di Epicuro – «Se Dio può evitare il male e non lo fa perché non vuole, allora non è buono; se vuole e non lo fa perché non può, allora non è onnipotente …» – è antico quasi quanto la filosofia e ha rappresentato sempre una dura sfida per la religione. È sorto in una cultura precedente la rivoluzione della Modernità. Allora era normale dare per scontati tanto la possibilità mitica di un mondo paradisiaco e senza male, quanto i continui interventi divini o demoniaci. La scoperta dell’autonomia del mondo, che obbliga a studiare i problemi analizzando la sua struttura e il suo funzionamento, mostra che la finitudine (…) implica due fondamentali conclusioni: 1) che il paradiso è impossibile, per la stessa ragione per cui lo è un cerchio-quadrato o un triangolo-rettangolo-equilatero su una superficie piana; 2) che è necessario cercare all’interno del mondo le cause di quanto in esso avviene. La conclusione fondamentale risulta evidente: il dilemma contiene un pregiudizio che lo rende assurdo. Sarebbe come argomentare che Dio non è buono perché, potendo, non vuole fare cerchi-quadrati; o che non è onnipotente perché, volendo, non può fare ferri-di-legno (l’esempio del triangolo dimostra che vedere il non senso può risultare difficile all’interno di realtà complesse; per cui può passare inosservato che un mondo-senza-male sarebbe un mondo-finito-infinito).

L’Antichità ha potuto fare suo quel dilemma, perché il pregiudizio non era avvertito culturalmente e in quel contesto la fede religiosa era pacificamente accettata: il pagano Epicuro, che lo ha proposto, continuava ad ammettere gli dèi; e Lattanzio, che lo ha divulgato, rimaneva cristiano. Nella Modernità invece la situazione risulta paradossalmente ambigua. La sensibilità culturale moderna percepisce con forza la contraddizione; Bayle e Voltaire, pur non divenendo atei, hanno preannunciato la crisi; Hume si è spinto oltre, e Büchner pronuncerà infine la sentenza: la sofferenza è la “roccia dell’ateismo”. Anche la sensibilità religiosa percepisce la contraddizione, e nasce la “teo-dicea”.

Lasciare irrisolto il dilemma costituisce una evidente incongruenza. Di più per la fede, che lo accetta, ma cerca di eluderne la logica: come credere che Dio sia infinitamente buono e potente, se, essendo possibile, non vuole o non può creare un mondo-senza-male? Incongruente lo è parimenti per l’ateismo moderno: con quale logica quest’ultimo dà per scontata la possibilità di un mondo-senza-male? E come fa a rispettare l’autonomia del mondo, se nega Dio a motivo del fatto che non interviene interrompendo le leggi fisiche durante il terremoto di Lisbona oppure annullando la libertà umana durante la Shoah?

II/ UNA PARTENZA GIUSTA, FATALMENTE SPRECATA

È curioso: proprio all’apice della sfida si è intuito l’inganno e si è cominciato a dare la vera risposta. Gottfried W. von Leibniz (1646-1716) e il vescovo William King (1650-1729) – costui ingiustamente poco studiato, sebbene già elogiato da Leibniz – hanno percepito la contraddizione e hanno proposto un’impostazione culturalmente laica. Prima di andare a cercare la spiegazione in cielo, hanno cominciato a osservare la terra: il male è inevitabile a motivo della costituzione finita del mondo. Pensare un mondo-senza-male sarebbe come pensare un mondo-infinito; ma infinito può essere solo Dio. Essi hanno denunciato, pertanto, un’impossibilità essenziale e costitutiva. Nell’Essai de Théodicée Leibniz argomenta che il male nasce da una impossibilità creaturale: «Dio attribuisce tanta perfezione alle creature, quanta ne può ricevere l’universo» (§ 335); «Dio infatti non poteva darle [alla creatura] tutto senza fare di essa un Dio» (§ 31).

All’epoca era inevitabile la contaminazione teologica del linguaggio. Oggi invece risulta possibile – ed ermeneuticamente obbligato – riscoprire, al di là dei limiti del testo, la forza laica del significato, che avviava – anche assegnando il nome di teodicea – una nuova tappa. Purtroppo, la critica di ciò che era accessorio ha impedito la percezione di ciò che era fondamentale: la teologia ha continuato a rimanere ancora prigioniera del fondamentalismo biblico e tradizionale (…). È stata un’autentica catastrofe culturale: sprecata questa occasione, il presupposto mitico del rnondo-senza-male ha continuato a rimanere vigente.

Non del tutto però (…). Sono apparse teorie che, come quelle ireneane (dal filosofo e teologo del II secolo Ireneo,  secondo cui la crescita spirituale richiede il libero arbitrio e l’esperienza del male, ndr), difese da John Hick (1922-2012), e quelle del processo, a partire da Alfred North Whitehead (1861-1947), ne riconoscono l’“impossibilità” e cercano nuove strade. Significativamente, Whitehead, senza far riferirnento a Büchner, parla del male come “roccia” del problema, anziché dell’ateismo. E Schubert M. Ogden (n. 1928) arriva a definirlo “pseudoproblema”, poiché «nasce soltanto sul presupposto di alcune premesse del teismo cristiano classico, che sono incoerenti anche al di fuori del problema del male».

Il compito attuale consiste nel rendere tematicamente esplicita la portata di questa intuizione fondamentale, evitando che la persistenza implicita del fantasma del mondo-senza-male continui a contaminare il problema.

III/ LA TEODICEA NEL MARASMA DELLE INCONGRUENZE

Come il rivelatore in un processo chimico, non appena si scopre il presupposto del mondo-senza-male, si chiarisce il quadro teodiceico: la confusione appare come conseguenza inevitabile. Schematizzando, bisogna distinguere due orientamenti fondamentali: teorie che riconoscono espressamente la logica del dilemma e teorie che, pur senza dirlo, la presuppongono.

Le prime, per rigettare l’ateismo, modificano radicalmente l’idea di Dio. Tre casi riferiti all’Olocausto lo dimostrano in modo esemplare, e la loro chiarezza logica ci risparmia tanti discorsi. Hans Jonas nega l’onnipotenza, poiché Dio non ha potuto impedirlo; David Blumenthal nega la bontà, poiché, potendo, non volle impedirlo (è buono, ma crudele e non “onnibenevolente”); Jean-Pierre Jossua, evitando conclusioni tanto estreme, nega la comprensibilità. (…).

Il secondo orientamento, meno radicale, evita conseguenze così drastiche. Ma il suo disagio risulta evidente: nega la conseguenza, ma non può spezzarne la logica. E le risposte manifestano la tipica ambiguità delle “soluzioni insoddisfatte”: tendono logicamente verso uno dei poli estremi, ma rimangono a metà strada.

Al suo interno, la reazione più emotiva riconosce l’impasse, negando la legittimità della teodicea in tre modi. 1) È impossibile e non necessaria, per inconsistenza logica e perché Dio non ha bisogno di difesa (senza avvertire che non si tratta di giustificare la realtà di Dio, ma la nostra idea: non si giustifica il sole quando si rifiuta il geocentrisrno). 2) È smobilitante, poiché la comprensione “giustifica” il male e paralizza l’azione (mentre la diagnosi, lungi dal giustificare la malattia, incoraggia a lavorare per la terapia). 3) È nociva e anche “eretica”, “blasfema” e “diabolica”, insistendo su ciò che conduce a una visione teista, complice o colpevole delle disgrazie naturali e dei crimini umani (rendendo tale concetto una caricatura realmente offensiva per coloro che continuano – per noi che continuiamo – a parlare di un Dio creatore, libero, amorevole e salvatore).

Più numerosa è la posizione di chi, sforzandosi di mantenere integra la fede biblica, modifica i termini della questione senza arrivare alla negazione. Ma glielo impedisce il presupposto del mondo-senza-male.

1) Si afferma l’onnipotenza, ma si parla di un Dio “sofferente”: posizione rispettosa e corretta, quando nega l’impassibilità divina; ma inconsistente, quando cerca di giustificare il male, includendo Dio in esso. Poiché, in tal caso, o si trascendentalizza ed eternizza il male in Dio, come è stato argomentato contro Moltmann, oppure si include Dio nella nostra miseria, rendendolo incapace di salvarci, come hanno evidenziato Rahner e Metz. Il ricorso, così antico, alla kénosis incorre nella stessa ambiguità (se è funzionale, implicherebbe “non vuole”; se ontologica, porterebbe al “non può”). Lo stesso avviene quando si argomenta con la croce (non sempre distinguendo dovutamente tra Gesù e Dio), esponendosi all’accusa cinica che non ha senso condividere il dolore che era possibile evitare in precedenza.

2) Mettere in discussione la bontà risulta più difficile; ma, con un certo sostegno fondamentalista, si può arrivare a parlare del “lato oscuro” di Dio o a mantenere categorie come “ira” o “castigo”; come pure si cerca un equilibrio impossibile, affermando energicamente la bontà e l’onnipotenza nel momento in cui, prendendo alla lettera determinati testi biblici, si attribuisce a Dio anche causalità diretta nel male.

3) La incomprensibilità è un argomento frequente e molte volte giustificato, ma non sempre sfugge al rischio di coprire con il “mistero” divino contraddizioni logiche molto umane. Inoltre, permane latente l’influenza di un biblicismo diffuso che, basato soprattutto sul libro di Giobbe, tratta con lo stesso valore testi di epoche diverse. Talvolta serve da argomento per delegittimare la teodicea, interpretando come definitivo il “silenzio” finale di un libro che si sviluppa negando certamente il retribuzionismo deuteronomico, ma che non raggiunge ancora la pienezza evangelica.

Forse però niente spiega l’enorme influsso del pregiudizio meglio di due esempi che, provenendo da grandi teologi come reazioni profondamente rispettose, risultano dei sintomi molto rivelatori. Il primo, citatissimo, è di Romano Guardini, che sul proprio letto di morte confidò a un amico: «Sono pronto a presentarmi al cospetto del Giudice divino e a rispondere alle sue dornande sulla mia vita; ma anch’io avrei da porre alcune domande al Giudice: domande sul dolore dei bambini innocenti». Il secondo è di Karl Rahner che, ponendo espressamente la domanda: «Perché Dio permette (lässt) che soffriamo?», finiva col rispondere che la bontà divina «non può essere dichiarata innocente davanti al nostro tribunale».

IV/ ATTUALIZZARE LA TEODICEA

Partire dall’impossibilità di un mondo-senza-male non solo chiarisce le difficoltà, ma ci permette anche di rinnovare l’impostazione.

Prima di tutto, situa la domanda al suo giusto livello, eliminando il falso problema (Ogden) di porla immediatamente all’interno della religione. Ripeto: sarebbe come mettere in discussione la bontà o l’onnipotenza di Dio perché non vuole o non può fabbricare ferri-di-legno. L’unica dornanda sensata non è: perché Dio non elimina il male? Bensì: perché crea il mondo nonostante il male inevitabile? Detto più concretamente: vale la pena esistere? Hanno senso la storia e il mondo? Come si vede, è una domanda pre-religiosa, radicalmente umana, perché il male – fisico o morale, attivo o passivo – costituisce una sfida per tutti, credenti o non credenti.

Questo ci obbliga a compiere un ulteriore passo, che ristruttura l’intero approccio: prima della teodicea propriamente detta, tutti dobbiamo affrontare la sfida comune. Allora ogni posizione appare come risposta particolare a una domanda universale. Il discorso teodiceico esige così una triplice struttura.

1) La ponerologia (dal greco ponerós, “male”), una trattazione sull’origine del male, che elabora sistematicamente la conclusione, qui solo indicata: la finitudine rende impossibile un mondo-senza-male, svelando il carattere inevitabile della sua apparizione, come sfida per tutte le risposte.

2) La pistodicea (da pístis, “fede” in senso ampio, e dikein, “giustificare”) è il riconoscimento della comunità generica di tutte le posizioni, trasformate in risposte specifiche, che devono “rendere ragione” di se stesse (…). Tutte sono discutibili e “misteriose”; propriamente chiamate ad affrontare insieme la sfida comune, sostituendo lo spirito di polemica con quello di dialogo, critica e collaborazione.

3) La teodicea tradizionale appare nella sua specificità di “pistodicea cristiana”: una tra le altre, con uguale onere di prova e identico diritto di difesa. Ritengo che allora, debitamente attualizzata, non solo può negare il “fallimento” sentenziato ed evitare il marasma reale; ma può anche garantire la sua logica, senza rinunciare al mistero, e può ripensare la tradizione, recuperandone i valori.

V/ LA LOGICA DELLA TEODICEA

Nel constatare la fattualità assoluta del male come possibilità inerente alla finitudine, essendo la condizione (…) della stessa esistenza, l’interrogativo posto alla religione non può essere perché Dio non elimina il male – significherebbe negare il mondo -, ma come Dio lo affronta e lo combatte. Si chiariscono così questioni estremamente decisive.

1) Si ristabiliscono nella loro piena luce tutti gli attributi divini: lungi dal metterli in discussione, il male – smascherato come inevitabile – sottolinea la tenerezza infinita della bontà divina, basata sulla fedeltà incrollabile della sua onnipotenza. Poiché, creando per amore, Dio crea esclusivamente cercando il nostro bene, qualunque nostro male si oppone parimenti a lui. Ancor di più, prioritariarnente a lui, poiché anche una madre può sentire come più propri i dolori che colpiscono il figlio. Sostenuta dall’onnipotenza, la creazione smentisce l’obiezione superficiale di una qualche “irresponsabilità” divina, poiché fonda una speranza realista la quale, rispettando l’autonomia creaturale e supportando il lavoro della storia, assicura che Dio ha l’ultima parola: la stessa morte è vinta… (1Cor 15,26). (…).

Ciò non significa che il ristabilimento della coerenza dispensi la pistodicea cristiana – come pure quella atea o agnostica! – dall’affrontare le sue difficoltà specifiche. (…). Come (…) l’obiezione radicale: se la liberazione piena risulta possibile escatologicamente, perché non ora? (…). La fede deve affrontarla. E io credo che possa farlo mostrando come, dopo la rottura della “finitudine-storica” dopo la morte, si possa realizzare pienamente la dialettica dell’amore, dove il “tuo” di Dio si fa “mio” della creatura. La teodicea trova qui – come tutta la teologia – il mistero della pienezza escatologica.

2) Quando l’impossibilità del mondo-senza-male viene presa realmente sul serio, si produce una specie di kehre o capovolgimento di tutta la questione. Di fronte alla “logica-per”, si instaura una rigorosa “logica-nonostante”: nonostante le apparenze, Dio è presente; nonostante il male, il mondo vale la pena. Segnaliamo tre conseguenze di particolare rilievo.

a) Permette di eliminare la tenace “contaminazione teleologica” che tocca anche le teodicee che, come quella “ireneana”, pur riconoscendo la inevitabilità del male, tendono a ricadere nella logica-per: per rendere possibile la libertà o la realizzazione umana (…).

b) Risponde all’obiezione dei mali “orrendi” o senza-senso (grandi catastrofi, morte di bambini innocenti). La sua umanissima forza emotiva è indubitabile, ma essa poggia su un’occulta congiunzione tra il presupposto del mondo-senza-male e la contaminazione teleologica. (…). Ogni male è ingiustificabile e privo di senso, non per questo o quell’aspetto, ma in se stesso, semplicemente come male: una crepa nella creazione (Büchner), alla stregua di un genocidio. Se fosse possibile, nessun male dovrebbe esistere; e certamente Dio non potrebbe volerlo. Dio vuole il mondo per se stesso, unicamente per il suo bene e nonostante il male. Il male, qualunque male, è pura fattualità senza giustificazione esterna; compare solo perché la sua possibilità coincide con la possibilità stessa del mondo. Creare o non creare: questa è l’unica questione. Poiché ha creato per amore, ogni azione di Dio è salvifica, di lotta contro il male. E se ha deciso di creare, è perché – nonostante Epicuro – vuole e può finalmente vincerlo.

c) Chiarisce il fenomeno particolarmente grave della denuncia contro Dio. Partendo dal giustissimo principio che nella preghiera si può esprimere di tutto, esiste – a volte quasi come una moda teologica – una diffusa tendenza a giustificare la denuncia e la protesta, non solo “di fronte” a Dio, ma anche “contro” Dio. La giustezza dell’indignazione, però, non deve nascondere – per quanto si invochi Giobbe – la sua profonda ambiguità, non solo perché logicamente svia e spreca contro “Dio” l’energia della protesta contro il male, ma soprattutto perché sul piano teologico risulta insopportabilmente ingiusta di fronte all’infinito amore divino. Protesta il bambino contro la madre che passa notti al suo capezzale o l’adulto ammalato contro il medico che si sacrifica cercando di curarlo? L’espressione con cui Karl Barth, per temi meno delicati, deplorò in Silesius alcune «pie insolenze (frommen Unverschämtheiten)», rappresenta un sano avvertimento di fronte a espressioni che possono oscurare l’unica certezza: che Dio è sempre al nostro fianco contro qualsiasi tipo di male. La liturgia del Venerdì santo contiene la migliore teologia: «Popolo mio, che male ti ho fatto? In che ti ho provocato? Dammi risposta!».

VI/ RECUPERARE I VALORI DELLA BIBBIA E LA TRADIZIONE

I rinnovamenti possono essere visti come negazione o sottovalutazione del passato. Non è sempre così, e certamente non lo è in questo caso. Al contrario: quanto da noi proposto permette di recuperare valori che, essendo, propriamente evidenti nella Bibbia e nella tradizione, sono rimasti nascosti a causa di fattori culturali.

1) Anzitutto,  fa risplendere l’intenzione più evidente ed elementare della Bibbia, il cui filo rosso è la compassione divina per le sofferenze umane, con l’appello – di Dio a noi, non di noi a Dio! – a collaborare contro il male: «Non è forse questo che significa conoscermi?» (Ger 22,16), dicono i profeti; «Siate misericordiosi come il Padre vostro celeste» (Lc 6,36), dice Gesù. In effetti, l’ipotesi che Dio, se volesse, potrebbe eliminare il male, non risulta soltanto incongruente: è qualcosa di molto più grave, poiché priverebbe di senso il nucleo del messaggio biblico, puntandolo tutto su qualcosa che si sarebbe potuto conseguire semplicemente volendolo prima.

2) Precisa il significato autentico della croce, troppe volte interpretata “al rovescio”, isolando il destino di Gesù dal nostro, come se il suo fosse un mezzo per dimostrare la compassione divina. La verità è più semplice e più divinamente realista. In Gesù si rivela definitivamente il comune destino umano: per lui, come per noi, il male è risultato inevitabile; ma parimenti: per noi, come per lui, Dio ha l’ultima parola risuscitandolo/ci. Le teologie che parlano di “castigo”, “pagamento del riscatto” o di “conflitto tra Dio e Dio” dimostrano un’ambiguità pressoché teologicamente intollerabile.

3) Riscopre e legittima la logica implicita della tradizione quando confessa la bontà e l’onnipotenza, nonostante il dilemma irrisolto accompagni come un’ombra d’insoddisfazione logica la teodicea tradizionale. Lo ha potuto fare perché la (sub) coscienza di una logica più profonda perpetuava la certezza che “doveva pur esistere” una spiegazione. Questa logica esiste ed è rigorosa, poiché poggia sulla fiducia: se Dio è amore infinito, profondamente compassionevole verso la nostra sofferenza, il male “dev’essere” inevitabile, sebbene (ancora) non sappiamo spiegarlo. Vedere una madre curva sul suo bambino malato dimostra, con logica rigorosa, che lo curerebbe se solo fosse possibile. (…). Isaia lo ha intuito: anche se la madre dimenticasse il suo figlio, Dio no (Is 49,15). (…).

Ho chiamato tale processo “via corta della teodicea”. L’astrazione del ragionamento non dovrebbe dimenticare la sua umanissima profondità, che ha alimentato e continuerà ad alimentare le valli oscure della vita (Sal 22). Quando vengono meno i ragionamenti, rimane sempre lo sguardo verso la croce; quando l’angoscia o la colpa minacciano, vi è la fiducia, poiché (…) quando la sofferenza sembra prevalere, né morte né vita, né altezza né profondità… potranno separarci dall’amore di Dio (Rm 8,35-39). (…).

Confesso che questa via mi stupisce ogni giorno di più, e sicuramente sarà sempre l’ultima risorsa nelle grandi crisi. A differenza del passato, però, il crollo dell’evidenza socio-culturale e la comparsa dell’obiezione atea obbligano oggi a completarla con la “via lunga”. Questo lavoro è in corso, incoraggiando numerosi tentativi. (…).

4) Il recupero di valori non si limita a questo aspetto fondamentale, ma permette di rivisitare temi assai decisivi. Cominciando dalla struttura stessa della storia della salvezza. Tradizionalmente, suppone una cosa fondamentale: il male non viene da Dio. Ma la possibilità del “paradiso” svia l’interpretazione, (…) presentando il Dio del perdono come un giudice ingiustamente e smisuratamente implacabile, che castiga una mancanza umana con tutto l’orrore del male.

Avendo più spazio, si potrebbero riesaminare temi del tutto decisivi, come (…) il modo di interpretare la provvidenza, l’elezione, il miracolo, la preghiera di domanda. Quest’ultima, in particolare, proprio per i grandi valori a cui si associa, possiede un’efficacia terribile nell’alimentare l’immaginazione che Dio può, ma non sempre vuole; che abbiamo bisogno di ricordarglielo, di convincerlo, a volte con sacrifici e per mezzo di intercessori… e non sempre otteniamo. La conseguenza è un’immagine rimpicciolita di Dio e, spesso, culturalmente scandalosa (mentre scrivo queste righe, leggo di una convocazione di preghiera per chiedere la pioggia).

VII/ DIO CONTRO LA SOFFERENZA: DALLA “ROCCIA DELL’ATEISMO” AL DIO ANTI-MALE

(…). Dal momento che il grande volto del male è la sofferenza, una teodicea viva deve educare la sensibilità, plasmando le reazioni emotive e le abitudini linguistiche, per imprimere nelle coscienze e nella cultura il volto vero di Dio: sempre a nostro fianco contro la sofferenza. Deve eliminare i fantasmi blasfemi di un “dio” che determina la morte, manda o permette la malattia (ha senso dire che una madre “permette” la malattia di suo figlio?) o anche le catastrofi o i genocidi: non solo gli atei hanno domandato dov’era Dio ad Auschwitz e perché ha taciuto o consentito! Ricordare queste cose è ingiusto per molti credenti, e certamente duro per tutti; ma più duro e ingiusto sarebbe continuare senza affrontare tali questioni che toccano il cuore stesso della fede.

La teologia è oggi in condizioni di farlo. Interrotta l’ipoteca premoderna (…), è possibile una teodicea religiosamente autentica e culturalmente legittima. Dio è il go’el, l’avvocato della causa umana in un mondo tormentato dalla sofferenza individuale e dalla tragedia collettiva. La teodicea deve mostrare che la sofferenza, dall’essere “roccia dell’ateismo”, può trasformarsi in rivelazione di Dio come l’Anti-male.

Dio si è sbagliato? un bel problema!

Dio non fa errori

l’identità transgender vista da una prospettiva cristianatrans

by Giacomo

Riflessioni di H. Adam Ackley* pubblicate sullo Huffington Post (Stati Uniti) il 10 giugno 2014, liberamente tradotte da Silvia Lanzi

L’imminente proposta di proibire il riconoscimento dell’identità transgender (inclusa quella intersessuale) da parte della Convenzione Battista del Sud, sebbene avanzata da un collegio di professori di etica, non è educativa né comprensiva della complessa biologia del genere, né tanto meno etica. Le persone transgender o intersessuali spesso sono accusate falsamente – semplicemente perché esistono – di sottintendere che Dio ha fatto un errore riguardo al loro genere.trans1
Queste angherie portano spesso le mie sorelle e i miei fratelli transgender e intersessuali non alla “conformità di genere” ma semplicemente all’ateismo o all’isolamento dagli altri “credenti”. Tutto ciò si basa non solamente su una scienza fallace (molti di noi hanno una condizione medica verificabile, che rende il nostro genere più complesso di quello della maggioranza) ma, ancora peggio, su una teologia imperfetta. Come pastore cristiano, teologo e professore universitario io stesso (intersessuale, ma a cui non è stato permesso di vivere apertamente fino ai recenti cambiamenti nelle diagnosi mediche e psichiatriche e nei trattamenti per persone come me) voglio correggere tutti questi fraintendimenti della teologia del genere, che sono fin troppo comuni.

Le persone transgender non sono un “errore di Dio”! Sebbene altre forme di diversità umana siano state ingiustamente portate all’oppressione dalla maggioranza privilegiata (differenze di razza, etnia, classe socio-economica), esse non sembrano causare l’indignazione morale/teologica che causano le persone dal gender diverso: come se solamente con la loro esistenza bestemmiassero Dio. Ma essere nati fuori dal genere binario non è per niente differente dall’essere nati con un’altra forma di diversità. Spiegare agli altri che siamo transgender non suggerisce intrinsecamente che Dio ha fatto qualche errore creandoci così. Anche se cerchiamo qualche trattamento medico che ci aiuti a superare la disforia di genere (che in molti casi è una reazione alle aspettative di conformità alle regole eteronormative del genere binario maschile/femminile) non stiamo suggerendo che Dio ha fatto un errore creandoci, come chiunque altro si sottoponga ad un trattamento medico a causa di una certa condizione.trans2
Per esempio, molte persone religiose non pensano di costringere chi nasce con la palatoschisi, che ha bisogno della chirurgia correttiva, a difendere a livello teologico la loro vita, come se la loro esistenza sul pianeta fosse una specie di ammissione blasfema dell’incompetenza di Dio. Gli attacchi religiosi, che sono ormai una routine, attaccano appunto le persone transgender non solo sulle basi del genere ma anche come eretici, cosa che molti di noi considerano assai doloroso.

Alcune persone sono chiaramente ambigue e non è un ossimoro. “Chiaramente ambiguo” piuttosto può essere una descrizione accurata di alcuni di noi transgender, abbastanza da fare un discorso senza ignorare la grande diversità della differenza delle identità trans* o costringere tutti a rendere nota la loro storia clinica (Janet Mock, LaVerne Cox e gli altri ci ricordano che non è giusto aspettarsi una cosa simile), che le identità transgender, qualunque sia la loro origine, sono reali.
Le esperienze di chi ha un genere ambiguo della malasanità e dell’emarginazione sociale pongono domande significative riguardo al trattamento sbagliato di tutte le persone transgender, perché, per esempio, come si è discusso a spese della mia carriera e della mia capacità di aiutare i miei figli, è stato visto come più “naturale” costringere un uomo intersessuale a prendere ormoni femminili dalla pubertà all’età matura per femminilizzarlo, anche quando facendo in questo modo lo si rendeva cronicamente depresso e portato al suicidio, in modo che terapie e medicine non potevano nulla per farlo stare meglio.

Per amore della mia Chiesa e della mia famiglia umana transessuale mi spaventa che letteralmente nessun cristiano abbia dubitato dei trattamenti medici di femminilizzazione che hanno ritardato la mia naturale pubertà maschile fino all’età matura per motivi teologici o morali. Chiaramente la transfobia non ha nulla a che vedere con il fatto che si prendano o meno ormoni sessuali, come se prendere estrogeni o testosterone implichi la mancanza di controllo di Dio sul corpo di qualcuno ed Egli avesse fatto un errore permettendo a qualcuno di invecchiare in modo naturale o funzionare per la riproduzione. (Sono abbastanza certo che alcuni uomini cristiani cisgender – cioè a loro agio con il proprio sesso – possano aumentare il loro testosterone per varie ragioni e che donne cristiane cisgender facciano terapie sostitutive a base di ormoni o usino metodi di controllo delle nascite sempre a base ormonale)

Il fatto che esisto sicuramente non implica che Dio abbia fatto un errore nel crearmi quando mi sono reso conto che, sebbene fin dall’infanzia esternamente apparissi una bambina, la mia particolare configurazione transgender è tale che durante la pubertà ho sviluppato qualità fisiche di entrambi i generi e ci sono voluti trentacinque anni di trattamenti con dosi massicce di ormoni femminili per funzionare passabilmente come una donna cisgender e che la mia ambiguità fisica si è riaffermata quando mi è stato permesso di vivere come me stesso, un uomo, dai recenti cambiamenti in campo medico, diagnostico e dei trattamenti.
Senza il trattamento ormonale sono ambiguo, complesso, androgino e capisco di essere maschio. Credo davvero che Dio mi abbia creato così, spaventosamente, meravigliosamente e con propositi infinitamente e incondizionatamente amorevoli e non ho rimpianti. Ciò di cui mi rammarico è la transfobia delle altre persone, un odio e una paura indescrivibili e incomprensibili verso ciò che non capiscono essere la gloriosa e creativa immaginazione di Dio quando ci ha creati sessuati: le molte espressioni di genere e di sessualità che troviamo tra gli uomini ci sono in tutte le specie. La diversità nella creazione è divina e negarlo è mettere in dubbio il potere dello Spirito Santo, che Gesù una volta ha insegnato essere il solo peccato imperdonabile (Matteo 12:31-32).trans3

Come pastore ed educatore cristiano cerco di usare ogni occasione per insegnare, predicare, scrivere o parlare per aiutare le persone a capire che nulla nella Bibbia nega l’esistenza dei transgender o li qualifica moralmente o teologicamente (come “peccato”). Infatti, i passaggi sugli “eunuchi nati così” in Isaia, Matteo e Atti, come l’originario essere umano bigenere (ha-adam) che Dio dichiara buono (il genere binario non è creato fino al versetto 22 del secondo capitolo della Genesi) sembrano suggerire l’accettazione di Dio delle identità transgender, sebbene esse non siano poi così comuni.
In entrambi i casi sono sicuro che Dio non odia né mette in dubbio l’esistenza di qualcuno o qualcosa che ha creato, non importa quanto possa essere inusuale tale creazione. Come mi ha ricordato recentemente un amico transgender, noi sappiamo che un albero con un un ramo innestato non è odioso perché “innaturale” o blasfemo; per esempio, quando innestiamo insieme un lime e un limone, entrambi possono fare frutti. Questa diversità, sebbene insolita, può essere un dono grande e gradito. Così mi sento come un uomo che ha partorito e allattato due bambini. Cos’altro posso vedere se non che la creazione di me e degli altri con un genere poco comune, che altro non è se non un dono prezioso di Dio, per quanto strano possa essere?

* H. Adam Ackley, attualmente è responsabile della formazione per una hotline di aiuto per persone transgender ed è un agente di sicurezza privata. Un tempo era un professore di Studi Religiosi e ministro ordinato, attualmente insegna yoga. Prima di ritirarsi dal lavoro universitario, era un professore ordinario, direttore di dipartimento e di una facoltà. E’ stato politicamente impegnato ed ha pubblicato diversi libri, capitoli e articoli con editrici universitari e in riviste accademiche, ed è un blogger sullo Huffington Post USA per la sezione Religione e Voci gay dal 2013.

Dio non scaglia fulmini e non manda terremoti

 

la fede davanti al terremoto

“nessun castigo divino. Dio crea, non  distrugge”

di Alberto Maggi Maggi

 

 

“È una bestemmia pensare che Dio, che ha inviato il suo unico Figlio per salvare il mondo, poi lo voglia distruggere a forza di cataclismi. Gesù esclude tassativamente qualunque relazione tra le disgrazie che colpiscono gli uomini e il castigo divino”. Dopo la tragedia del terremoto nel Centro-Italia, su ilLibraio.it la riflessione del biblista Alberto Maggi

il castigo di Dio …

Puntuali, a ogni calamità emergono i tenebrosi necrofori. Sembra che non aspettino altro che le disgrazie, sono il loro abietto alimento. I necrofori sanno che le loro argomentazioni, tremende quanto ridicole, spietate quanto disumane, non hanno alcun fondamento, ma approfittano del momento in cui le persone sono stordite dal dolore e affogate nella disperazione per scagliare le loro inappellabili sentenze, e il verdetto è sempre quello: è il castigo di Dio! E di motivi a Dio per castigare l’umanità non ne mancano, ha solo da scegliere. C’è del sadico piacere in queste persone nell’affondare il coltello sulla piaga del dolore per rivendicare che avevano ragione: l’immoralità della società, la depravazione dei costumi, l’abbandono della pratica religiosa, che cosa altro potevano portare se non terribili castighi divini?

Pur rifacendosi a Dio questi beccamorti mostrano di non conoscerlo minimamente. Dio è Amore (1 Gv 4,8), e nell’amore non c’è alcuna parvenza di castigo. Nel ritratto di Dio che l’apostolo Paolo fa nella Lettera ai Corinti si legge che “l’amore non si adira, non tiene conto del male ricevuto”, che “tutto scusa” (1 Cor 13,5.7), e la buona notizia di Gesù non contiene alcuna minaccia di castighi divini. Il Padre non castiga, perdona, lui è un Dio che nel suo amore arriva a essere “benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35). In nessun brano del vangelo si annunziano castighi per i peccatori, ma si afferma che “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”(Gv 3,17). È una bestemmia pensare che Dio, che ha inviato il suo unico Figlio per salvare il mondo, poi lo voglia distruggere a forza di cataclismi. 

Gesù esclude tassativamente qualunque relazione tra le disgrazie che colpiscono gli uomini e il castigo divino. Nel vangelo di Luca il Signore, commentando il crollo della torre di Siloe sotto le cui rovine morirono diciotto individui, e nel quale le persone religiose erano certe di aver visto il giudizio di Dio, afferma: “Credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?” (Lc 13,4). Ugualmente nell’episodio del cieco nato, Gesù esclude qualunque relazione tra la cecità e il peccato dell’individuo (Gv 9,3). A quanti vedono una relazione tra peccato e castigo, Gesù annuncia che l’azione di Dio con i peccatori non è punitiva, ma vivificante, e in polemica con Giovanni Battista che aveva annunciato sicuro che “ogni albero che non porta buon frutto, sarà tagliato e buttato nel fuoco” (Lc 3,9), Gesù risponde che lui presta tutte le cure all’albero sterile, e zappa attorno per far prendere ossigeno alle radici, lo concima.

Dio crea, non distrugge …

Nel mondo primitivo ogni cataclisma era considerato sicuramente un castigo da parte della divinità offesa, e ogni dio aveva la sua specializzazione, c’era il dio dei fulmini (Zeus) e quello delle tempeste (Baal), il dio dei vulcani (Vulcano) e quello dei terremoti (Poseidone). Ma già nel Libro della Genesi viene smentita l’idea del castigo divino. Con la narrazione del diluvio, infatti,l’autore vuole correggere la credenza che metteva in relazione fenomeni atmosferici con l’ira divina, e il Signore stesso assicura che “Non sarà più distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio, né più il diluvio devasterà la terra”(Gen 9,12). A riprova della verità della sua dichiarazione, il Signore depone le armi: l’arco di guerra, lo strumento che serviva a Dio per lanciare le saette e punire gli uomini, viene definitivamente deposto. L’arco del Signore non solo non servirà più per punire le persone, ma diventerà il segno dell’alleanza tra Dio e l’umanità: “Pongo il mio arco sulle nubi ed esso sarà il segno dell’alleanza tra me e la terra”(Gen 9,13).

Pertanto non c’è da temere alcun castigo da parte di Dio, ma collaborare con la sua azione creatrice per rendere il creato sempre più espressione del suo amore, ponendo il bene dell’uomo come unico valore supremo.

l’autore– Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» (www.studibiblici.it) a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri: Roba da preti; Nostra Signora degli eretici; Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede); Parabole come pietre; La follia di Dio e Versetti pericolosi. E’ in libreria con Garzanti Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita.

cosa c’entra Dio con i terremoti? ma allora che fa?

il Dio “onnidebole” dei terremotati

Vitaliano Della Sala

Tratto da: Adista Notizie n° 30 del 10/09/2016

Vitaliano

Il teologo Karl Rahner giustamente affermava che la più grande eresia del nostro tempo è quella di riconoscere Dio solo in quei casi in cui ci aiuta.

Perciò, non so voi, ma io provo sempre un senso di disagio quando ascolto certe prediche e certe frasi demagogiche e di circostanza che, vescovi e preti, pronunciano con leggerezza dopo catastrofi come il sisma che ultimamente ha colpito alcune zone dell’Italia centrale. Più che al Vangelo, assomigliano alle parole che potrebbe pronunciare qualsiasi antico stregone o moderno mago.

La frase peggiore che si sente dire in queste tragiche circostanze è “Dio lo ha permesso”. Come se Dio fosse un burattinaio che si diverte a vederci soffrire e, anzi, ci mette alla prova, con dolori atroci, per saggiare la nostra fede in lui: gioca a mandarci le disgrazie per vedere come reagiamo noi poveri esseri umani; un dio sadico, prigioniero della sua onnipotenza, impotente perché onnipotente; un dio vampiro che vuole ancora sacrifici umani per placare un’ira provocata da non si sa bene cosa, sempre arrabbiato per causa nostra e non sappiamo perché, visto che è stato lui ad averci creati così.Amatrice

Uno degli interpreti di questo dio disincarnato e lontano è stato mons. Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno e personaggio noto al grande pubblico per aver calcato le scene di alcuni programmi televisivi, finito al centro di inchieste giornalistiche sulla gestione dei fondi per la ricostruzione in un altro terremoto, quello dell’Aquila, dove ha svolto il proprio ministero pastorale prima di essere trasferito. Nell’omelia ai funerali delle vittime marchigiane, il monsignore ci ha proposto la domanda antica quanto l’essere umano, con quel pizzico di demagogia che non guasta mai – come insegnano i peggiori politici – «Signore, c’è chi ha perso tutto…. Dove stai? Apparentemente nessuna risposta, ma se guardate oltre scorgerete qualcosa di più profondo. Potete testimoniare che il terremoto può togliere tutto, tranne il coraggio della fede». Insomma una grande “supercazzola”, se non fosse per la tragicità del contesto in cui l’ha posta.Vitaliano della Sala

In alcuni momenti è consigliabile il silenzio. Ma se non si può fare a meno di parlare, noi cristiani dovremmo avere il coraggio di testimoniare evangelicamente il Padre, il Dio di Gesù e quindi dei “perdenti”; il Dio dei crocifissi e delle vittime; un Dio che ci “scandalizza” perché mentre noi ci ostiniamo a volerlo vedere e invocare come l’Onnipotente, lui ci disobbedisce e si presenta come l’“onnidebole”. Il Padre che Gesù ci svela disobbedisce all’idea tutta umana di Dio e, caparbiamente, continua a immedesimarsi nella nostra vita, testardamente si incarna nella storia reale, nelle storie piccole, quotidiane e concrete, tra le pieghe, nei frammenti e negli scarti della Storia.

Invece noi abbiamo addolcito e smussato la provocazione, lo “scandalo” del nostro Dio. Abbiamo tentato una conciliazione impossibile tra il Padre e la nostra idea di un dio magico. Abbiamo nascosto la provocazione evangelica del Dio incarnato e crocifisso, sotto le prediche fervorose e le elemosine di circostanza che spacciamo per condivisione. Che Gesù, figlio di straccioni, sia anche il figlio di Dio urta contro la nostra sensibilità pelosa e contro la nostra troppo unilaterale idea di Dio. In fondo è più comodo considerarci a “immagine e somiglianza” di un dio potente che del Dio Straccione e Terremotato, e forse proprio per questo facciamo tanta fatica a vedere Dio nel povero, nell’emarginato, nel sofferente, nell’escluso.amatrice1

Senza ipocrisia dovremmo ammettere che ci manca il coraggio di restituire il Padre alla gente, a quella gente povera, vittima del terremoto e delle speculazioni, senza casa, senza futuro, senza speranza; dobbiamo restituire il Padre a quelle persone che non sanno più o non sanno ancora che Dio appartiene soprattutto a loro, che sta dalla loro parte, terremotato come loro, schiacciato dalle tIl Dio “onnidebole” dei terremotati

Vitaliano Della Sala 02/09/2016

Tratto da: Adista Notizie n° 30 del 10/09/2016

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