il commento al vangelo della domenica

LA PIANTAGIONE PREFERITA

il commento di E. Ronchi al vangelo della quinta domenica di pasqua:

La bibbia è un libro pieno di olivi, di fichi e di viti. Pieno di uomini di cui Dio si prende cura e dai quali riceve un vino di gioia. Con le parole di oggi Gesù ci comunica Dio, cose da capogiro, attraverso lo specchio delle creature più semplici.

Ci porta a scuola in un vigneto, a lezione dalla sapienza della vite e da un Dio contadino, profumato di sole e di terra.

All’inizio della primavera mio padre mi portava nella vigna dietro casa. Sui tralci potati affiorava, in punta, una goccia di linfa che tremava e luccicava al vento di marzo. E mi diceva: guarda, è la vite che va in amore!

C’è un amore che muove il sole e le altre stelle, che ascende lungo i ceppi di tutte le viti del mondo, e l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire.

Dobbiamo salvare la linfa di Dio, il cromosoma divino in noi.

Che Dio sia descritto come creatore non ci sorprende, l’abbiamo sentito. Ma Gesù afferma oggi una cosa mai udita prima: io sono la vite, voi i tralci. Io e voi la stessa cosa! Stesso tronco, stessa vita, unica radice, una sola linfa.

E mentre nei profeti antichi Dio appariva piantatore, coltivatore, vendemmiatore, ma sempre altro rispetto alle viti, oggi ascoltiamo una parola inaudita: Dio e io siamo la stessa vite; lui tronco, io tralcio; lui mare, io onda; lui fuoco, io fiamma. Il creatore si è fatto creatura. Dio è in me, non come padrone, ma come linfa vitale. E’ in me, per meglio prendersi cura di me.

Rimanete in me e io in voi. Non è da conquistare l’unione con Dio, è cosa di cui prendere consapevolezza: siamo già in Dio, ci avvolge con il suo affetto, lo respiri, lo urti! E Dio è in noi, è qui, è dentro, scorre nelle vene della vita. Dio che vivi in me, nonostante tutte le distrazioni e i miei inverni, e tutte le forze che ci trascinano via. Ma via da lui non c’è niente.

Questa comunione precede ogni liturgia, è energia che sale, cromosoma divino che scorre in noi.

Ed ogni tralcio che porta frutto, egli lo pota perché porti più frutto.

Il grande e coraggioso dono della potatura! Potare non è sinonimo di amputare ma di dare vita, ogni contadino lo sa. Togliere il superfluo equivale a fare molto frutto.

Il filo d’oro che cuce il brano e illumina ogni dettaglio è “frutto”. Sei volte viene ribadito ribadisce, perché sia ben chiaro: il vangelo sogna mani di vendemmia e non mani perfette, magari pulite ma vuote, che non si sono volute mischiare con la materia incandescente e macchiante della vita.

Per il vangelo la santità non risiede nella perfezione ma nella fecondità. Dov’è mai questa perfezione nei discepoli di Gesù, pronti alla fuga e alla bugia, duri a capire…

La morale evangelica ha la colonna sonora delle canzoni della vendemmia, di una festa sull’aia; sogna fecondità e non osservanze. Più generosità, più pace, più coraggio.

E mi piace tanto il Dio di Gesù, che si affatica attorno a me perché io porti frutto, che non impugna lo scettro ma la zappa, non siede sul trono ma sul muretto della vigna. A contemplarmi, con occhi belli di speranza.

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salvare vite in mare non è reato …

la nave delle Ong

giustizia per chi soccorre i migranti: salvare vite non è reato

di Diego Motta

Una sentenza non può cambiare il corso della storia, ma può aiutare a riscriverla. Un fatto di sette anni fa, l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina con relativo sequestro di una nave impegnata nei soccorsi, si è trasformato ieri, dopo la decisione dei giudici di Trapani, in un clamoroso proscioglimento di massa: tutti assolti, il fatto non sussiste. Perché salvare vite non è un reato.

Non è vero, però, che nel frattempo non sia successo nulla. Il caso della Iuventa, dal nome dell’imbarcazione della Ong tedesca rimasta ferma dal 2017 a oggi nel porto di Napoli, svela molto in realtà di quello che siamo diventati in questi anni: eravamo un popolo di santi, navigatori e poeti, ora di quell’anima profonda cosa è rimasto?

Basta andare a rileggersi le copertine dei principali giornali dell’epoca per ritrovare i titoli sui “taxi del mare” e sull’alleanza “tra Ong e scafisti”. Questo giornale, voce abbastanza isolata nel panorama di allora, parlò invece di “reato umanitario”. Iniziava una stagione nuova, con nuove parole d’ordine: basta con la solidarietà a buon mercato, via all’offensiva mediatica contro il Terzo settore e la società civile impegnata. All’eccesso di buonismo, che c’era, così come c’erano storture che andavano combattute (più in terra che in mare, basti pensare al caso “Mafia capitale”) si sostituiva silenziosamente il sentimento del cinismo, pronto a speculare sulle paure crescenti dell’opinione pubblica. In un contesto del genere, non potevano mancare, in perfetto stile italico, le “manine” degli 007, i veleni dei servizi e più in generale quella robusta dose di complottismo richiesta dallo spirito del tempo, emersa a tal punto nell’inchiesta da portare la Procura stessa a chiedere due mesi fa di archiviare il caso.

Cosa ha portato tutto questo? A un incattivimento complessivo del Paese, alla stigmatizzazione del povero in quanto tale, al ribaltamento dei ruoli con la criminalizzazione della solidarietà. Non c’è alcun assolto, in questo caso. Non è un dettaglio che quella fase, apertasi in Italia con il giro di vite anti-organizzazioni non governative voluto dal governo di Paolo Gentiloni, con Marco Minniti ministro dell’Interno, abbia raggiunto l’apice due anni dopo con la guida di Matteo Salvini al Viminale (e Giuseppe Conte premier) e continui ancora oggi, con provvedimenti di sequestro per le navi “colpevoli” di aver prestato soccorsi ripetuti (o non concordati) in mare, con viaggi della speranza che durano settimane avendo per destinazione i porti del nord Italia, con accordi fragilissimi stretti con i Paesi di frontiera. La disumanità, spiace dirlo, sembra essere divenuta la regola e non l’eccezione, mentre assistiamo a un governo dell’immigrazione affidato più a militari e forze dell’ordine che a sindaci e volontari.

C’è come la sensazione che qualcosa si sia rotto, in questo periodo, e che il tempo della ricucitura e del rammendo, davvero cruciale, non sia ancora arrivato: troppo profonda è la frattura che si è creata nel Paese, troppo pochi sono coloro che si stanno impegnando per far prevalere legalità, sicurezza e integrazione. Certamente, la sentenza Iuventa può essere un’occasione per ripensare a un sistema più a misura d’uomo, quando si parla di migranti. Questo non vuol dire non essere rigorosi con chi tenta di entrare illegalmente nel nostro Paese, né abbassare la guardia (ci mancherebbe) nei confronti degli spregiudicati trafficanti di uomini.

Basterebbe ripartire dall’osservazione del fenomeno, riconoscendo che avere più occhi in mare per salvare vite – negli ultimi dieci anni più di sei persone al giorno sono morte o disperse nel Mediterraneo – fa gioco anche alle autorità pubbliche preposte al controllo, mentre le intese con i discussi guardacoste nordafricani non stanno dando risultati. Lasciare in panchina la solidarietà per altro tempo, adesso, sarebbe un controsenso.

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i partigiani della resistenza rom e sinti, una storia poco nota

la storia segreta dei partigiani rom e sinti

di Giulia Boero in “la Repubblica” del 22 aprile 2024

C’è una storia poco nota. Di giovani rom e sinti, partigiani della Resistenza. Dimenticati, non riconosciuti. Tenuti ai margini, anche dopo la Liberazione e nella democrazia restaurata. Di loro restano i ricordi narrati dagli eredi. Di loro, ne sopravvive soltanto una. Erasma Pevarello è l’ultima staffetta sinta rimasta. Novantasei anni, conosciuta con il nome di Vincenzina, oggi vive nella camera da letto della sua roulotte a pochi chilometri da Castelfranco Veneto, in un piccolo campo fatto di qualche casa mobile, verande di legno e molta tranquillità. Aveva 17 anni quando nel 1944, incinta del suo primo marito – Renato Zulin Mastini, anche lui partigiano sinto – scappò dai soldati fascisti, mentre lui veniva catturato. «Mi buttai in un fosso ricoprendomi di foglie secche. Prima di scappare, un fascista che chiamavano gamba di legno mi colpì nel fianco con il calcio del fucile. Sento ancora quel dolore, non è mai passato del tutto». Mirka è l’unica figlia di quell’unione. Nata in carovana al chiaro di candela, mentre fuori igagi (i non-rom) mitragliavano la kumpania delle famiglie sinte itineranti. Oggi ha ottant’anni. Apre la porta della roulotte, attraversata a metà pomeriggio da fitti raggi di luce invernale. Fa segno di entrare con la mano, Erasma aspetta seduta sul letto. È la sola rimasta tra quindici fratelli: «La radice della stirpe dei Pevarello» dice di sé sorridendo. Famiglia dedita allo “spettacolo viaggiante”, di artisti e saltimbanchi, suonatori di violino e partigiani. Racconta, fa un salto indietro nel tempo. Erasma cercherà invano il marito per giorni. A piedi, un comando di polizia alla volta. Da Vicenza a Padova e ritorno. Verrà fermata da un uomo coperto in volto: «Mi mise qualcosa in mano e mi chiese di andare a San Giorgio. Lì, all’altezza del campanile, avrei trovato qualcuno a cui consegnare ciò che mi aveva dato. E lo feci». Una storia che si ripeterà più volte. «Avevo paura, fare la staffetta era pericoloso. Se i fascisti mi avessero trovato, sarei stata la prima a essere uccisa. Ancora oggi non so dire perché l’abbia fatto. Sentivo solo che era la cosagiusta, che dovevo». Renato Mastini verrà fatto prigioniero nel carcere di Camposampiero, vicino a Padova. Fucilato l’11 novembre di quell’anno durante “l’eccidio del Ponte dei marmi”.

Sinto tra i “dieci martiri di Vicenza”, come sinti erano Walter Catternato, Lino Festini e Silvio Paina. Anche loro musicisti, circensi, giostrai. Un impegno partigiano comune a molte famiglie rom e sinte italiane che i discendenti tengono a rivendicare. Il contributo delle comunità romanès alla resistenza al nazifascismo assunse diverse forme. Staffette e combattenti attivi, scappati soprattutto dai campi di concentramento italiani dopo l’armistizio dell’ 8 settembre 1943. Uniti aiciriklè ( i passeri, i partigiani), dopo aver trovato rifugio nelle campagne e sulle montagne. Costretti alla macchia nei boschi contro i fascisti, ikashtengere , quelli con il manganello. Per molti era un modo per non essere catturati di nuovo e deportati in Germania. Altri speravano di liberare i propri familiari ancora prigionieri. Per alcuni era il modo di contribuire alla liberazione d’Italia e partecipare alla costruzione di uno stato democratico. Tutti combattevano per imulé ,i propri morti. I partigiani erano gli unici a garantire loro protezione. Nessuno conosceva i luoghi meglio dei sinti. Nessuno meglio di loro sapeva orientarsi senza mappe, bussole o cartine. Spesso staffette, perché in grado di correre più velocemente di chiunque altro (come Osiride Tarzan Pevarello, fratello di Erasma, scelto da Tina Anselmi, partigiana con il nome di Gabriella). In questa storia sommersa, soltanto uno negli anni ’80 riceverà dal presidente Pertini, suo compagno d’armi, il Diploma d’Onore di Combattente per la Libertà d’Italia: Amilcare Taro Debar. Prima come vedetta, corriere e addetto all’approvvigionamento di armi nel cuneese. Poi, combattente attivo nelle Langhe con il nome di Corsaro, contribuendo alla liberazione di Torino nel ’45. C’erano i partigiani sinti e c’era l’intera comunità, le storie di chi durante la guerra venne considerato “inferiore” alla razza ariana, gli Untermenschen. Si stima che tra il ’40 e il ’43 furono deportati nei campi di sterminio più di mezzo milione tra rom e sinti europei. Accusati di «comportamenti antinazionali» e «implicazioni in gravi reati». Segnalati come «asociali» o «vagabondi» e quindi difficili oggi da individuare nelle liste dei deportati. «Eterni randagi privi di senso morale e socialmente pericolosi» verranno etichettati sulla rivista La difesa della razza . Dei 25 mila rom presenti in Italia tra gli anni ’20 e gli anni ’30, circa seimila vennero internati nei campi di reclusione italiani. Lo chiamano Samudaripen (tutti morti) o Porrajmos (grande divoramento). Un genocidio ancora oggi non riconosciuto, nemmeno nella legge del 2000 che istituì la Giornata della Memoria in ricordo delle vittime dell’Olocausto. La famiglia Lucchesi vive a due passi da Reggio Emilia. Giostrai, anche in tempo di guerra. Seduti attorno al tavolo della loro roulotte, i fratelli Massimo, Bruno (Cino) e Ivos (Popunino) raccontano tessere della vita del padre Fioravante. Partigiano a 16 anni, il più giovane d’Italia tra i sinti. «Era contento del contributo dato da combattente per la Resistenza. Ma tornato dalla guerra si svegliava di notte, impugnava la scopa o quello che trovava come se volesse sparare. Una volta ci buttò giù dal letto, in mezzo alla neve. Avevaancora paura». «La guerra che facevano all’epoca non ci apparteneva», spiega Manolo De Bar, sfogliando alcune foto di famiglia. «Oggi farei la stessa scelta di mio nonno Armando, a cui diedero del disertore. Non porterei quella divisa ». Manolo e suo fratello Johnny sono i figli di Giacomo Gnugo De Bar, sinto di professione saltimbanco come amava definirsi. Rinchiuso da bambino nel campo di Prignano sulla Secchia, nel modenese. Ma sono anche i discendenti dei Leoni di Breda Solini, battaglione sinto attivo al confine tra l’Emilia e la Lombardia. Considerati eroi, per il fatto di usare la violenza solo se necessario. Il disinteresse per la deportazione di rom e sinti, e per la loro presenza nella Resistenza, fu culturale e istituzionale. Durò decenni e le loro testimonianze (per la maggior parte orali) non vennero ascoltate. Quello che rimane è una «conoscenza “mutilata” di nomi e azioni di molti partigiani rom e sinti rimasti sconosciuti » scrive Angelo Arlati inRom e sinti nella resistenza europea (Upre). Una condizione che resta di esclusione. «La nostra cultura è parte del tessuto italiano ben prima che l’Italia esistesse come concetto» sottolinea Santino Spinelli, musicista, docente, autore di Le verità negate(Meltemi). «Siamo ancora condannati a nascondere la nostra differenza culturale. Dopo ottant’anni per i rom è cambiato poco o niente». Nemmeno per chi, come Virgilio De Bar (fratello di Armando) riuscirà a tornare dopo essere stato deportato ad Auschwitz, con la colpa di essere sinto. Lavoratore di giorno, saltimbanco per il divertimento dei nazisti la sera. Soprannominato “uomo- gomma”. Segnato per sempre dall’esperienza del campo di concentramento. A casa tornerà a fare il giostraio. A volte, ubriaco, si travestirà da Hitler. Per raccontare, finto nazista tra i luna park, la sua storia. Quella di un popolo tenuto in disparte, non solo ieri. In questa vicenda sommersa, solo uno negli anni ’80 riceverà dal presidente Pertini il Diploma d’Onore di Combattente

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il commento al vangelo della domenica

DISARMATO AMORE
il commento di E. Ronchi al vangelo della quarta domenica di pasqua
Gv 10,11-18
Io sono il pastore buono: il titolo più disarmante e disarmato che Gesù dà a se stesso. Eppure pieno di coraggio, contro lupi e predatori.
In che cosa consiste la sua bontà? Nell’essere pastore mite, gentile, paziente, delicato? No, per ben 5 volte il vangelo oggi lo spiega con il gesto di dare, offrire, donare, porre in gioco la propria vita.
Il lavoro di Dio è offrire vita, alimentare la vita del gregge. Un Dio pastore che non chiede, ma offre; che non prende niente e dona tutto; non toglie vita, offre la sua anche a coloro che gliela tolgono. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre. Non un comando ma “il” comando, l’unico, l’essenziale.
Io sono il pastore bello, dice il testo originario. E noi capiamo che ‘bellezza’ è un nome di Dio; non estetica ma forza di seduzione; forza che crea ogni comunione.
«Il mercenario vede venire il lupo e fugge perché non gli importa delle pecore».
Al pecoraio salariato Gesù oppone parole che amo e che sorreggono la mia fede: “a me, pastore vero, le pecore importano, tutte, l’una e le novantanove”.
A ciascuno ripete: tu mi importi. Verbo bellissimo: importare, essere importanti per Dio!
Signore, non ti importa che moriamo? Gridano li apostoli spaventati dalla tempesta. E il Signore risponde placando il mare, sgridando il vento, per dire: Sì, mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante. Non temere!
Lo ripete a ciascuno: mi importano i passeri del cielo ma tu vali di più. Mi importano i gigli del campo ma tu conti più di tutti i gigli del mondo.
Ti ho contato i capelli in capo, e tutta la paura che ti oscura il cuore.
Per te do la mia vita. E non so domandare migliore avventura.
A questo ci aggrappiamo, anche quando non capiamo, soffrendo per l’assenza di Dio, o turbati per il suo silenzio.
Il comandamento che impariamo dal pastore bello è che la vita è dono. “Dare vita” significa contagiare d’amore, libertà e coraggio chi avvicini, di vitalità ed energia chi incontri. Significa trasmettere le cose che ti fanno vivere, che fanno lieta, generosa e forte la tua vita, bella la tua fede, contagiosi i motivi della tua gioia.
Se non dai vita attorno a te, entri nella malattia. Se non dai amore, un’ombra invecchia il cuore.
Che cosa ha rivelato Gesù ai suoi? Non una dottrina, ma il racconto della tenerezza ostinata e mai arresa di Dio. E di questo Dio io mi fido, a lui mi affido, credo in lui come un bambino, mi metto nelle sue mani e gli affido tutti gli agnellini del mondo.
Nel fazzoletto di terra che abitiamo, anche noi, pastori tutti di un pur minimo gregge, siamo chiamati a diventare racconto della tenerezza di Dio, della sua combattiva tenerezza.
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il commento al vangelo della domenica

LE PORTE CHIUSE DI GESU’
il commento di E. Ronchi al angelo della seconda domenica di pasqua
La sera di quel giorno mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Tommaso, uno dei Dodici, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo il segno dei chiodi io non credo». (…)
Gv 20,19-31
Aria di paura in quella casa.
Paura dei Giudei ma anche e soprattutto paura di se stessi, della propria viltà nella notte del tradimento.
Venne Gesù a porte chiuse.
La sua prima venuta sembra senza effetto, e otto giorni dopo tutto è come prima.
Eppure lui è di nuovo lì, ad aprire le porte della paura nonostante i cuori inaffidabili: venne Gesù e stette in mezzo a loro.
Secoli dopo è ancora qui, irremovibile davanti alle mie porte chiuse.
La fede non è nata dal ricordo del Risorto. Il ricordo non basta a rendere viva una persona, al massimo può far nascere una scuola. La Chiesa è nata da una presenza, e non da una rievocazione: “e stette in mezzo a loro”.
Il Vangelo parla di ferite che Gesù non nasconde, che a Tommaso quasi esibisce: il foro dei chiodi, toccalo! Il costato, puoi entrarci con la mano!
Piaghe che non ci saremmo aspettati, convinti che la risurrezione avrebbe rimarginato, cancellato per sempre il dolore del venerdì santo.
E invece no.
Perché la Pasqua non è il superamento festoso della Passione, ne è la continuazione, il frutto maturo, la conseguenza.
Le piaghe restano, per sempre. Ed è proprio a causa di quelle che Cristo è risorto.
L’amore ha scritto la sua storia sul corpo del Nazareno con la scrittura delle ferite, indelebili, come l’amore. Dalle piaghe non sgorga più sangue ma luce, le ferite non sfigurano ma trasfigurano.
Allora capiamo che proprio attraverso i colpi duri della vita diventiamo capaci di aiutare altri attraversando le stesse tempeste, nella condivisione.
La nostra debolezza, come quella di Pietro, dei discepoli, di Maddalena, non è un ostacolo, ma una risorsa per meglio seguire il Signore. La debolezza non è più un limite, perché nonostante i nostri dubbi si trasfigura in un’opportunità da cogliere.
Per tre volte il Vangelo parla di pace donata da Gesù.
Ed è a questa esperienza di pace che Tommaso alla fine si arrende, e neppure sappiamo se abbia toccato o meno il corpo del Risorto.
Si arrende non al toccare, non ai suoi sensi, ma alla pace, passando dall’incredulità all’estasi, si arrende a questa parola che da otto giorni lo accompagna e che ora dilaga: Pace a voi!
La pace è una voce silenziosa, non grida, non si impone, si propone, come il Risorto; con piccoli segni umili, un brivido nell’anima, una gioia che cresce, sogni senza più lacrime. E ad essa ci consegniamo anche se appare come poca cosa, perché «se in noi non c’è pace non daremo pace, se in noi non è ordine non creeremo ordine» (G.Vannucci).
Non un augurio, ma una certezza: la pace è qui, è in voi, è iniziata.
Cerca aiuto per scendere su ogni cuore stanco, sulle nostre guerre, su ogni storia di dubbi e sconfitte.
Scende come benedizione gioiosa, immeritata e felice che mi spinge a osare di più; così inizia la mia sequela, la mia porta che si spalanca al rischio di essere felice.
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con Gesù cambia il concetto di ‘sacro’

a proposito del sacro

di Enzo Bianchi

in “www.ilblogdienzobianchi.it” del 21 marzo 2024

cercare e fissare il sacro in un oggetto, in uno spazio, è fare un passo verso l’idolatria. È cercare Dio dove non c’è!

Il sacro, il sacro tanto invocato oggi nella chiesa! Ma il sacro a cui si fa riferimento è ancora quello dell’Antico Testamento e delle religioni, è il sacro che sta nello spazio del tempio, del culto, dei sacrifici. Gesù invece ci ha rivelato che il sacro sta al cuore della vita degli uomini, sta nelle relazioni con gli altri. Il sacro non è più ciò che appartiene a un luogo sacro come il tempio, che è inviolabile, intangibile e suscita timore. Per Gesù il sacro, il luogo della presenza di Dio, non è più né il tempio né il sacrificio, né l’olocausto, né il sabato, ma è lo spazio delle nostre relazioni, là dove un volto incrocia un volto, una mano è tesa alla mano, una guancia si offre alla guancia. È l’incontro tra i corpi che sono anche anima e spirito. Per questo Gesù mostra con le sue parole e con i suoi gesti che ormai è lui la dimora di Dio e che attraverso le relazioni umane questo corpo di Cristo può accrescersi nella storia perché ogni cristiano diventa corpo di Cristo, diventa dimora di Dio, tempio dello Spirito santo. Cercare e fissare il sacro in un oggetto, in uno spazio, è fare un passo verso l’idolatria. È cercare Dio dove non c’è! È cercare la sua immagine dove lui non l’ha deposta perché l’ha fissata soltanto negli umani, nell’uomo e nella donna creati a sua immagine e a sua somiglianza. Certi spazi, come lo spazio della chiesa, certi oggetti richiedono rispetto, devono essere riconosciuti con un vero discernimento, ma non sono “sacro”.

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contro il “si vis pacem para bellum”

“si vis pacem, para pacem”  l’intervento di Emiliano Manfredonia, presidente delle Acli

Si vis pacem, para pacem | L’intervento di Emiliano Manfredonia, presidente delle Acli
l’intervento del presidente nazionale Acli, Emiliano Manfredonia, in occasione delle festività pasquali: “Cominciamo a far sentire la nostra voce almeno sulle politiche di disarmo. Richiamiamo la politica al suo compito: le Europee sono l’occasione per far sentire la nostra voce”
Si vis pacem, para pacem. Perché il detto attribuito agli antichi romani, “si vis pacem, para bellum”, è un clamoroso fake. Il senso è più banale di quel che sembra: convincere il popolo che la guerra è il male minore, o che è l’unica alternativa, l’unica speranza. Ma sarebbe meglio dire: “Se vuoi la guerra, preparati ad andarci tu, in prima linea!”. Il conflitto armato è sempre voluto dai vecchi, che mandano a morire, però, i giovani. Viviamo un tempo segnato da conflitti, divisioni, sentimenti nazionalisti, contrapposizioni.Quando abbiamo pensato che la Guerra Fredda risolvesse, almeno, il problema del conflitto armato, non ci siamo accorti che questa, però, ci ha abituati alla paura. Ma la paura non è un sentimento in grado di cronicizzare: la paura è diventata la principale strategia per gestire i mercati economici, per indirizzare gli elettori alle urne, per imporre le proprie idee. Ma noi, verso la paura, vogliamo alzare bandiera bianca: pensiamo alla vita dei nostri giovani, sconvolta dapprima dal terrore del Covid, oggi da quella della guerra. Negli adolescenti la paura sta attivando due meccanismi opposti: il ritiro sociale e le fobie da un lato, il senso di sprezzo del pericolo dall’altro, per quelli che pensano di non aver più nulla da perdere, dato il clima di terrore a cui li abbiamo abituati.

Spesso diciamo di essere nati nel periodo di pace più lungo della storia, ma questo significa non vedere che la Guerra Fredda, in questi anni, non ha affatto evitato decine di sanguinosi conflitti in diverse parti del mondo. La pace che viviamo è una “pace negativa”, cioè una parentesi di apparente tranquillità che ci ha preparato al prossimo conflitto. La contaminazione dei germi di guerra, prima o poi, prenderà il sopravvento. Vogliamo dire, allora, che è giunto il momento di alzare bandiera bianca, per una pace vera. Sfortunatamente la pace è oggetto del “politically correct” per eccellenza. Affermare i valori pacifisti ci fa stare dalla parte giusta, certo, ma non ci fa fare nemmeno un passo verso l’effettiva conquista di una condizione di pace stabile e duratura.

Noi non siamo utopisti e quindi non vogliamo affidarci al buon cuore degli uomini. No, anche la pace, come la guerra, si può ottenere per via impositiva. Come? Solo chi ha il potere di governo sui popoli e le nazioni può imporre la pace e usare sistemi nuovi per regolare i conflitti sociali e tra Stati. Fare la pace richiede sforzi e sofferenza, forse quanto la guerra: perché, allora, preferire la seconda? Non possiamo restare in silenzio di fronte alla dichiarazione del Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel: chi gli ha dato mandato di pronunciare quelle parole? Senz’altro non ci rappresenta, come Associazione e nemmeno come cittadini europei.

La logica del “prepararsi alla guerra per ottenere la pace” è pericolosa e fallace. Ricordiamo che le stesse parole furono usate dalla nostra Presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel 2022, allora semplicemente Presidente di Fratelli D’Italia, al CPAC di Orlando, in Florida: “In politica estera, quando si tratta di difendere interessi strategici e valori fondamentali, una dimostrazione di debolezza non è un’opzione. Gli antichi romani dicevano: ‘Si vis pacem, para bellum, se vuoi la pace, prepara la guerra’”. Queste dichiarazioni ci preoccupano.

Cominciamo a far sentire la nostra voce almeno sulle politiche di disarmo. Difendiamo la Legge 185/90, che oggi rischia di essere svuotata. Richiamiamo la politica al suo compito: queste elezioni europee sono la nostra occasione per far sentire la nostra voce. Chiediamo direttamente ai candidati e alle candidate la loro posizione sulla guerra e votiamo di conseguenza. La matita dell’urna è l’unica “arma di pace” che abbiamo a nostra disposizione: usiamola.

Emiliano Manfredonia
Presidente nazionale ACLI

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