il vangelo della domenica cmmentato da p. Maggi

CONVERTITEVI: IL REGNO DEI CIELI È VICINO! 

commento al vangelo della seconda domenica di avvento (4 dicembre 2016) di p. Alberto Maggi Maggi

Mt 3,1-12

In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaia quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!». E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico. Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

Il capitolo 3 del vangelo di Matteo si apre con la formula, che appare soltanto qui, unica volta in tutto il vangelo: “In quei giorni”. Con questa formula, l’evangelista intende richiamare il capitolo 2 del libro dell’Esodo, dove si legge: ”In quei giorni Mosè, cresciuto in età, si recò dai suoi fratelli e notò i lavori pesanti da cui erano oppressi”. Quindi è quando Mosè comincia a prendere coscienza della situazione del suo popolo, che poi lo porterà a liberarlo. Allora con il richiamo, ripeto unica volta in cui nel vangelo di Matteo c’è questa formula, “in quei giorni”, l’evangelista apre l’azione di Giovanni, che poi verrà portata avanti e completata da quella di Gesù, in chiave di esodo, in chiave di liberazione e vedremo da cosa. “In quei giorni venne Giovanni”, il nome Giovanni significa “il Signore è misericordia”, “il Battista”, è già conosciuto per la sua attività di battezzatore, di cui poi vedremo il significato, “… e predicava nel deserto della Giudea”, il deserto della Giudea è quella zona che da Gerusalemme arriva fino al mar Morto, non è un deserto di sabbia, è un deserto di roccia, montagnoso, “dicendo:”, ed  è all’ imperativo, l’annunzio che fa Giovanni Battista: “Convertitevi”. Questo verbo significa un cambio di mentalità che poi si riflette nel comportamento. Giovanni si rifà a quello che era stato già l’annuncio del profeta Isaia: ”Cessate di fare il male e fate il bene, e i vostri peccati saranno perdonati”. Quindi Giovanni Battista invita ad un cambiamento di mentalità, ad orientare la propria vita per il bene degli altri. ”…perché il regno dei Cieli è vicino”. Per la prima volta appare nel vangelo di Matteo questa formula, che è usata esclusivamente da questo evangelista. “Regno dei cieli” da non confondere con un “regno nei cieli”, che significa regno di Dio. L’evangelista Matteo, che scrive per una comunità di Giudei, è attento alla loro sensibilità, e, tutte le volte che può, evita di usare la parola Dio, che, come sappiamo, gli Ebrei non scrivono e non pronunziano. Allora “regno dei Cieli” non significa un regno nell’aldilà, ma il regno di Dio, Dio che governa i suoi. “Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaia quando disse”, e qui l’ evangelista cita il profeta Isaia, ma modificandolo, perché nel capitolo 40 del profeta Isaia, al versetto 3 si legge: ”una voce grida: nel deserto preparate la via del Signore”, ed era l’ annuncio della fine della deportazione da Babilonia, con l’editto di Ciro, e l’inizio della liberazione, e quindi “nel deserto preparate la via del Signore”. L’evangelista modifica il brano di Isaia: “voce di uno che grida nel deserto: ”, quindi dal deserto, dalla rottura con la società, arriva questo annunzio: “… preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”. Poi l’ evangelista passa a descrivere la figura di Giovanni, dando dei chiari riferimenti: “portava un vestito di peli di cammello”, era l’ abito tipico dei profeti, ma con un particolare: ”ed una cintura di pelle attorno ai fianchi”. Gli evangelisti sono sempre parchi di esempi, di annotazioni, quando le mettono è perché hanno un significato chiaramente teologico. La cintura di pelle attorno ai fianchi era il distintivo di quello che è stato considerato il più grande dei profeti, il profeta Elia, che, si credeva, doveva venire per preparare la strada del Messia. Quindi l’evangelista sta identificando nella figura di Giovanni il profeta Elia. “… e il suo cibo erano cavallette e miele selvatico”, quello che presentava il deserto, l’ alimentazione tipica dei beduini. É clamoroso quello che l’ evangelista scrive: ”Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui“. Giovanni ha predicato un cambiamento di vita, e tutta l’attesa del popolo che è riflettuta da questo “Gerusalemme”, “Giordano”, accorre a lui. Hanno capito che gli strumenti che l’ istituzione religiosa offriva loro, non erano adeguati, ed accorrono a lui . “… e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano”: battezzare era un rito conosciuto, era un’immersione, con la quale si significava la morte al proprio passato, per iniziare una vita nuova. “… nel fiume Giordano”: è importante l’indicazione che fa l’evangelista, e la ripete. Il Giordano era stata la tappa finale dell’esodo per entrare nella terra promessa, adesso è la tappa iniziale per uscire dalla terra promessa, perché la terra della libertà, in mano ai sommi sacerdoti, gli scribi, i farisei, a tutta la casta sacerdotale, all’istituzione religiosa, si era trasformata in una terra di oppressione, dalla quale occorre uscire, e quindi Giovanni annunzia l’esodo che poi porterà a compimento Gesù. “… confessando i loro peccati”: il verbo confessare non deve far pensare a quello che noi intendiamo per confessione. Era un gesto, quello di immergersi nell’acqua, con il quale ci si riconosceva di essere peccatori. All’arrivo della casta sacerdotale al potere, dell’elite religiosa rappresentata da farisei e sadducei, Giovanni Battista non li accoglie bene, li accoglie con parole di fuoco, perché sa che questi vengono a fare un rito. Ma Giovanni dice: no, dovete fare “frutto degno della conversione”, cioè è un cambiamento di vita che si deve vedere nel comportamento, ma poi vedremo avanti nel vangelo che questi mai crederanno all’azione di Giovanni Battista. Per concludere il brano, che è molto ricco, Giovanni dice: “Io vi battezzo nell’acqua per la conversione”, quindi il gesto offerto da Giovanni è un cambiamento di vita, che si fa attraverso questa immersione, ma la forza poi per portare avanti questo cambiamento di vita, lui non la può dare. Dice ci sarà qualcuno che sarà “più forte di me … egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”. Il battesimo nell’acqua significa essere immersi in un liquido che è esterno all’uomo. Il battesimo nello Spirito, lo Spirito è la vita di Dio, è l’ amore di Dio, significa essere inzuppati, impregnati della stessa vita di Dio. Sarà questo che darà la forza poi di portare avanti questa conversione, questo cambiamento. Solo che Giovanni Battista dice: ”… e fuoco”: lo Spirito Santo per quanti accolgono questo invito alla conversione, e fuoco, secondo la mentalità tradizionale, era il castigo di Dio per quelli che lo rifiutavano. Infatti conclude Giovanni: “Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile”. Quindi Giovanni Battista, erede della tradizione dell’Antico Testamento, presenta un giudizio di Dio, e questo giudizio di Dio poi verrà corretto da Gesù. Quando negli Atti Gesù si riferirà a questo battesimo, dirà: ”Voi sarete battezzati in Spirito Santo”. Da parte di Gesù, che è la presenza di Dio nell’umanità c’è soltanto un annuncio, un’ offerta di pienezza di vita, in lui è assente qualunque forma di castigo.

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ricordando Charles de Foucauld a 100 anni dalla sua uccisione

 

Charles de Foucauld, il «fratello» di tutti


giovedì 1 dicembre il centenario della morte

il vicepostulatore

fulcro del suo carisma è la quotidianità di Nazareth come testimonianza del Vangelo

Charles de Foucauld, il «fratello» di tutti

A cento anni dalla sua morte, avvenuta il 1° dicembre 1916 nel deserto algerino di Tamanrasset, il beato Charles de Foucauld ha ancora un messaggio attualissimo da comunicare: «Anzitutto, il fulcro del suo carisma, che è la vita quotidiana di Nazarethh come testimonianza del Vangelo nella semplicità, nell’impegno del lavoro, mantenendo sempre al centro l’umanità che ci lega gli uni agli altri, perché siamo tutti fratelli», ricorda padre Andrea Mandonico, 61 anni, della Società delle Missioni africane, istituto missionario nato nel 1856 a Lione.

Dal 2012 è vicepostulatore della causa di canonizzazione di frère Charles, a cui lo lega una profonda sintonia: «Mentre frequentavo il liceo in Seminario a Crema, un compagno mi passò un libretto su di lui. Rimasi colpito: la sua esperienza mi suggeriva come vivere la fede. Su di lui è incentrata la mia tesi di dottorato in teologia spirituale». Il secondo aspetto del beato che parla agli uomini e alle donne del terzo millennio «è la vicinanza al prossimo.

Amare Dio e il prossimo sono due aspetti inscindibili. Lui si è fatto vicino al popolo tuareg in Algeria, emarginato e povero, e suggerisce a noi oggi una vicinanza agli ultimi per vedere in loro la presenza di Gesù e in chiunque si affaccia alla nostra porta la presenza di Gesù. Fra l’altro, anche i musulmani vivono la regola dell’elemosina e dell’amore al povero». In terzo luogo, Charles de Foucauld «ci ha lasciato l’eredità del dialogo: è stato un uomo che ha dialogato con tutti, perché il dialogo smonta i pregiudizi reciproci e avvicina fino a trasformarsi in amicizia per vivere la fraternità.

Lui l’ha vissuto fino alle estreme conseguenze: venne ucciso in una razzia. Ma era convinto dell’urgenza di stringere rapporti di fraternità e vincere la paura che ci separa gli uni dagli altri». Il bisogno di dialogo e amicizia emerge costantemente anche nelle oltre 7mila lettere (pubblicate quasi tutte in francese, non in italiano) scritte dal Beato Charles, che voleva essere «fratello universale e vivere in amicizia con tutti: giudei cristiani e musulmani», rimarca padre Mandonico, che sta tenendo per il secondo anno consecutivo un seminario su de Foucauld al Centro studi dialogo interreligioso della Pontificia Università Gregoriana, sul tema “Cristianesimo e islam: una fraternità possibile?”.

A dare il via libera alla beatificazione, il 13 novembre 2005, la guarigione inspiegabile della signora Giovanna Pulici, originaria di Desio. «Aveva un tumore osseo in fase terminale, alla fine degli anni Settanta. Curata a Milano, fu mandata a casa dai medici perché non c’era più nulla da fare. Il marito, grande devoto di frère Charles, gli disse: “Pensaci tu”. La donna guarì improvvisamente, il giorno di Pasqua era in chiesa a ringraziare il Signore con sua famiglia». Molti anni dopo, nel 2000, il marito con le figlie era a Roma per l’Anno Santo: «Ha visto passare una piccola sorella di Gesù per strada e l’ha fermata chiedendole: “Quando vedremo fratel Carlo canonizzato?”. Lei rispose che ancora non era beato, perché per far andare avanti la causa occorreva la certificazione di un miracolo. E lui: “Il miracolo ce l’ho io”».

Lo stesso padre Andrea è stato impegnato nella raccolta della testimonianza, del dossier medico di Giovanna e della sua cartella clinica. E riferisce che proprio in occasione del centenario della morte di frère Charles «dalla Francia alcuni vescovi hanno inviato al Santo Padre lettere per chiedergli la canonizzazione anche senza un secondo miracolo, per la fama di santità». Oggi circa 20 associazioni e congregazioni fanno parte della famiglia spirituale del beato e si ispirano al suo carisma.

Laura Badaracchi su l’Avvenire

«io, Foucauld, un’anima alla ricerca di Dio»


 

il 1° dicembre di cent’anni fa il martirio in Algeria

ora il sacerdote-scrittore Pablo d’Ors immagina un suo «diario» in prima persona

«Io, Foucauld, un'anima alla ricerca di Dio»

Nella classica biografia del 1921 – ora disponibile nel catalogo delle Paoline – René Bazin lo evocava come «esploratore del Marocco, eremita nel Sahara». A «un ufficiale dissipato e festaiolo, della specie più volgare» si riferiva invece trent’anni dopo Paul Claudel in apertura del suo poetico ritratto del «visconte de Foucauld », ovvero fratel Carlo, come solitamente è chiamato in Italia il beato Charles de Foucauld. Definizioni ineccepibili, nessuna delle quali può essere isolata dalle altre, specie alla vigilia del primo centenario della morte – o, meglio, del martirio – di quest’uomo che si ritrovò a essere tutto, ma solo per scoprire di voler essere nulla. In occasione dell’anniversario arrivano in libreria riproposte suggestive (come un’altra biografia d’epoca, Charles de Foucauld. Esploratore mistico di Michel Carrouges, traduzione di Francesco Calvesi, Castelvecchi, pagine 228, euro 17,50) e utili antologie dagli scritti (le Pagine da Nararet curate da Natale Benazzi per Edizioni di Terrasanta, pagine 154, euro 14,00, oppure le meditazioni sui Vangeli proposte da San Paolo con il titolo Dio di misericordia, pagine 204, euro 12,00). E arriva, molto atteso, il romanzo che il sacerdote-scrittore spagnolo Pablo d’Ors ha dedicato a fratel Carlo, L’oblio di sé (traduzione di Simone Cattaneo, Vita e Pensiero, pagine 414, euro 20,00).

Charles de Foucauld, in effetti, era già stato protagonista di un altro libro di D’Ors, L’amico del deserto, pubblicato lo scorso anno da Quodlibet nella versione di Marino Magliani. Ma si trattava, in quel caso, di un protagonismo per absentiam, dato che l’intero racconto ruotava sì intorno al desiderio di nascondimento e contemplazione caratteristico di fratel Carlo, il cui nome affiorava però in modo intermittente, quasi a convincere il lettore della struttura eccentrica e pressoché iniziatica del libro. In apparenza L’oblio di sé assume un andamento più convenzionale. Quello che D’Ors ci presenta questa volta è addirittura il diario che fratel Carlo avrebbe redatto su richiesta del suo padre spirituale (e vero padre nella fede), l’abate Henri Huvelin. Proprio perché scritto dallo stesso Charles de Foucauld, il resoconto è privo del drammatico finale, che coincide con l’uccisione del religioso francese da parte dei predoni senussiti.

Era il 1° dicembre 1916, fratel Carlo aveva 58 anni e da ormai quindici conduceva un’esistenza da eremita nel Sahara algerino. La chiesa-fortino di Tamanrasset, obiettivo della razzia che gli costò la vita, era stata pensata e costruita come avamposto spirituale nel cuore del deserto. Prima di cadere, l’evangelizzatore dei tuareg aveva messo in salvo l’Eucaristia, che rappresentava il centro della sua spiritualità. È una storia nota, eppure non smette di impressionare, di apparire talmente straordinaria da sembrare inventata da un romanziere. Perché Charles de Foucauld nasce nobile il 15 settembre 1858, presto si ritrova orfano e benestante, passa per svogliato a scuola e per buontempone nell’esercito, dove pure dà prova di coraggio e perfeziona la tecnica del travestimento, che gli tornerà utile da lì a poco, quando – tra il 1883 e il 1884 – compirà il lungo viaggio nel Marocco interno al quale è legata la sua fama di esploratore. La conversione risale al 1886, inizialmente Charles viene ammesso nella Trappa di Nostra Signora delle Nevi, nel-l’Ardèche, ma la sua vocazione è troppo inquieta per conformarsi del tutto alla regola monastica.

Gli anni decisivi sono quelli trascorsi a Nazaret, appunto, tra il 1897 e il 1900. Fratel Carlo lavora come giardiniere nel convento delle Clarisse, inoltrandosi sempre di più nella ricerca spirituale e abbozzando i lineamenti di quella che diventerà in seguito la comunità dei Piccoli fratelli e delle Piccole sorelle del Sacro Cuore. Ordinato sacerdote, si stabilisce in Algeria nel 1901, prima presso l’oasi di Beni Abbes e da ultimo a Tamansarret, dedicandosi tra l’altro alla compilazione del primo, fondamentale dizionario berbero-francese. Una vita che sembra già un romanzo, dicevamo, ma che Pablo d’Ors riesce a ricostruire senza mai insistere sugli elementi più eclatanti, scegliendo di concentrarsi piuttosto sull’interiorità di fratel Carlo. Se la sua entrata in scena può infatti ricordare l’esagitazione del giovane Rimbaud, il titolo scelto per uno dei capitoli finali, La messa sul mondo, riprende alla lettera un’espressione cara al cristocentrismo cosmico di Pierre Teilhard de Chardin, a ribadire la continuità anzitutto spirituale di cui fratel Carlo è testimone. Allo stesso modo, nelle epigrafi che introducono ciascuna sezione del libro, D’Ors si mantiene fedele allo stile di fratellanza universale del suo Charles de Foucauld, che non fa mistero di aver riscoperto il Vangelo dopo aver conosciuto il Corano.

Nell’Oblio di sé appaiono dunque citazioni dai Racconti di un pellegrino russo e dal canzoniere sufi di Yunus Emre, dai maestri del buddhismo zen e dalle poesie del mistico contemporaneo Dag Hammarskjöld, dalle lettere di san Paolo e dal diario di Etty Hillesum. Non è una generica esibizione di sincretismo, ma la consapevolezza di quanto l’avventura di fratel Carlo sia, in realtà, l’avventura di qualunque anima alla ricerca di Dio. Di qualunque corpo, andrà aggiunto, dato che uno degli aspetti più convincenti del libro di D’Ors – autore fra l’altro della magnifica Biografia del silenzio edita da Vita e Pensiero nel 2014 – consiste proprio nell’insistenza sul legame inscindibile tra materiale e immateriale, tra visibile e invisibile. Si comincia a credere quando ci si mette in ginocchio, avverte il fratel Carlo dell’Oblio di sé, e si inizia a progredire nell’imitazione di Cristo quando si impara a praticare il digiuno. Non è un caso, del resto, che tra le pagine più belle ci siano proprio quelle nelle quali gli oggetti della quotidianità, illuminati dalla luce sovrannaturale dell’Eucaristia, rivelano al protagonista la silenziosa vastità della Rivelazione: «Le cose non pretendono nulla da noi: stanno, sono. E così è Dio, pensavo: Colui che sta, Colui che è, Colui che si offre in tutto e in tutti». Il Rimbaud di Vocali non è lontano, il Teilhard de Chardin del Cristo nella materia è già alle porte.

Alessandro Zaccuri su l’Avvenire

 Charles de Foucault

contemplazione, condivisione, universalità

di Antonella Fraccaro
in “Avvenire” del 30 novembre 2016
contemplazione, condivisione, universalità: tre condizioni di vita, tre espressioni di cura. È così che desideriamo raccontare l’esperienza al seguito di frère Charles
Nate circa 40 anni fa, nella diocesi di Treviso, in ascolto degli appelli del Concilio Vaticano II, abbiamo voluto rispondere ai bisogni del tempo, formate dalla Parola e dai documenti della Chiesa. Una delle prime scelte che hanno segnato la nostra vita di donne religiose è stata quella di lavorare all’esterno della fraternità, per condividere “con” la gente la fatica e la bellezza della vita ordinaria (cercare casa, lavoro, far quadrare i conti a fine mese). Dalla spiritualità di Charles de Foucauld abbiamo assunto tre aspetti: la preghiera e la contemplazione, l’accoglienza e la condivisione, l’evangelizzazione secondo lo spirito di Gesù a Nazareth, vissuti in comunione con la Chiesa locale. Nel 2007 il nostro istituto religioso è stato riconosciuto come il ventesimo gruppo della grande Famiglia spirituale Charles de Foucauld. Siamo attualmente presenti con 11 fraternità locali in alcune Chiese del nord Italia e in Francia. La prima espressione di cura ereditata in questi anni dall’esperienza di frère Charles è la contemplazione. La meditazione del Vangelo e l’adorazione eucaristica silenziosa ci aiutano a guardare con gli occhi di Dio i piccoli e grandi eventi che accadono ogni giorno. Così scriveva Charles: la fede «fa vedere tutto sotto un’altra luce: gli uomini come immagini di Dio, che bisogna amare e venerare come ritratti del Beneamato… e le altre creature come cose che devono tutte quante, senza eccezione, aiutarci a ritrovare il cielo». Viviamo le nostre giornate animate da questo spirito, nel confronto fraterno, per discernere la volontà di Dio nelle diverse situazioni della vita, perché le nostre scelte siano il più possibile a servizio dei poveri. Lo sguardo contemplativo diventa motivo di fede e di speranza anche per quanti incontriamo, nel posto di lavoro o nelle comunità cristiane in cui siamo inserite. Guardare l’altro come un’immagine di Dio ci permette di vedere in lui o in lei una persona amata e salvata da Dio, da amare anzitutto così com’è. La condivisione è la seconda espressione che ereditiamo dall’esperienza di frère Charles. Quante volte, negli scritti, egli ringrazia per essere stato accolto: dalla vita, anche se essa si è mostrata presto ostile con la perdita precoce di entrambi i genitori; dalla fede, grazie alla religiosità dei familiari e dei fratelli musulmani incontrati nel Sahara e in Marocco. È stato accolto più volte e in diverse situazioni da figure ecclesiali, da amici militari, dal popolo tuareg. A sua volta, Charles ha praticato assiduamente l’accoglienza: in Trappa, a Nazareth e nel deserto, dedicando tutto se stesso, fino al termine della sua vita. Giunto da poco a Beni Abbès scriveva: «Questa sera, per la festa del santo Nome di Gesù, ho una grande gioia: per la prima volta dei viaggiatori poveri ricevono l’ospitalità sotto l’umile tetto della Fraternità del Sacro Cuore. Gli indigeni cominciano a chiamarla Khaoua (la Fraternità) e a sapere che i poveri hanno qui un fratello; non solo i poveri, ma tutti gli uomini». Le nostre fraternità sono aperte all’accoglienza, quotidiana e temporanea, e anche quando sono di modeste dimensioni, uno spazio per accogliere persone, di ogni cultura e nazionalità si trova sempre. In alcune nostre fraternità in Italia, dallo scorso anno, in seguito al ripetuto appello di papa Francesco, abbiamo aperto l’accoglienza anche a donne migranti, richiedenti asilo. Sono giovani, provenienti da varie parti dell’Africa, soprattutto dalla Nigeria (Benin City). Sono piene di forza di vita, ma nello stesso tempo ferite nella loro esistenza e fecondità, perché cresciute in contesti poveri culturalmente, in condizioni di violenza, di abuso, di sfruttamento. Vivere con loro, condividere la stessa mensa, gli stessi spazi, ha allargato gli orizzonti della nostra accoglienza e ci ha aperto a
nuove forme di collaborazione e di gratuità, incoraggiandoci a sviluppare, insieme ad altre realtà civili ed ecclesiali, riflessioni e iniziative volte a offrire a queste donne prospettive di vita e di speranza. L’esperienza di una nostra fraternità, in un quartiere di Marsiglia, a prevalenza musulmano e multietnico, ci fa sperimentare che cosa significa essere “straniere tra stranieri”. Tocchiamo con mano la bellezza della reciproca ospitalità, dell’ascolto e dell’accoglienza della ricchezza dell’altro, nei gesti di bontà e di cura donati e ricevuti. Sono vie quotidiane, piccole e nascoste, segni di speranza e di pace tra persone di diversa cultura e religione. Fin dalla sua presenza nel Sahara, Charles de Foucauld si era proposto di «abituare tutti gli abitanti, cristiani, musulmani, ebrei, idolatri» a considerarlo «come loro fratello, il fratello universale». Egli voleva essere «il fratello di tutti gli uomini senza eccezione né distinzione » e desiderava che quanti lo avvicinavano, credenti e non credenti, diventassero, a loro volta, fratelli di altri uomini e donne. L’universalità è la terza prospettiva di vita ereditata al seguito di frère Charles. Per noi, la “fraternità universale” ha trovato, nel corso degli anni, diverse forme di espressione. Frequentare ambiti lavorativi diversi, essere inserite in ambienti sociali, culturali e religiosi differenti (quartieri popolari, rurali e cittadini), vivere in comunione con le comunità cristiane di appartenenza, sono manifestazioni della creatività e originalità dell’esperienza spirituale foucauldiana. L’incontro con la vicenda di frère Charles, fratello universale al seguito di Gesù di Nazareth, sia per ciascuno concreta possibilità per vivere relazioni di cura e benevolenza verso quanti incontriamo: relazioni pienamente umane poiché autenticamente evangeliche. (A cura delle “Discepole del Vangelo”)
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