l’hotel gestito dai rom che diventa laboratorio di pace

Pristina

l’hotel dei Rom dove si costruisce la pace

Hotel Gracanica

nell’albergo lavorano insieme persone di etnie diverse: un simbolo di convivenza in una regione dal passato difficile

 

Un albergo gestito da Rom, persone ritenute nomadi e marginali, che in questo caso sono riusciti a trasformarsi in imprenditori stanziali in una parte d’Europa dove i Rom sono ancor meno amati e tollerati che altrove. Parliamo di Gracanica, alle porte della capitale del Kosovo Pristina, in una zona con splendidi monasteri da visitare. Ecco il sogno impossibile che due kosovari Rom, Hisen Gashnjani e Atlan Gidzic, aiutati da Andreas Wormser, un ex funzionario svizzero che ha lasciato la carriera per inseguire il sogno dell’albergo rom, e dallo scrittore ed ex pugile americano Paul Polansky. Insieme, stanno trasformando un sogno in realtà: scommettono sul futuro e rischiando in prima persona.

“Non so ancora se l’impresa riuscirà”, dice Gashnjani alla Sueddeutsche Zeitung, che all’albergo ha dedicato un ampio reportage multimediale. “Forse Andreas ha scelto me e Atlan, che pure non siamo manager alberghieri di professione, per dare un esempio. Per mostrare al governo del Kosovo e al mondo che uno svizzero, due rom, e dipendenti locali di etnia serba e albanese, possono lavorare insieme. Che la convivenza può funzionare, fino a trasformarsi in un buon affare”.

Hotel Gracanica1

L’albergo si chiama semplicemente Hotel Gracanica. E’un gioiello architettonico, modernista ed evocativo, in stile futurista. Wormser, con l’aiuto di Polansky, ha lanciato l’idea dopo aver lavorato per l’Onu in Kosovo. E si è deciso a rinunciare alla carriera e perfino ad affrontare un matrimonio a distanza visto che la moglie è rimasta a Berna. Certo, si tratta di una scommessa difficile: in Kosovo il turismo non è ancora decollato e finora l’albergo è occupato in media al 20 per cento delle sue capacità. Ma quest’estate, Gashnjani, Gidzic e il loro amico svizzero contano in più arrivi e pernottamenti, sperando di pareggiare il bilancio. I finanziamenti li hanno messi insieme alla meglio, indebitandosi.Hotel Gracanica2

Un destino che sembrava impensabile per Gashnjani e Gidzic, passati attraverso le guerre jugoslave/postjugoslave. Odiati in quanto rom, considerati nemici di tutti e perfino accusati di essere collaborazionisti subendo perfino incursioni e demolizioni di case. Tanto che ancora oggi, Gashnjani non entra nella vicina cittadina di Pomazatin, dove pure i suoi genitori avevano vissuto per 40 anni. Adesso lui, Gidzic e i loro due amici imprenditori, lo svizzero e l’americano sognano, di dare un segnale differente.

Sì, perché dei 125mila rom che vivevano in Kosovo prima della guerra, ne sono rimasti in loco appena un quarto. Ma ora l’Hotel Gracanica potrebbe dare un segnale diverso: quello di un luogo dove la gente può incontrarsi e dare vita a qualcosa di completamente diverso.

 

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“siete trattati da far vergogna!”

Rom

la denuncia di Vallini:

“Una vergogna come vi trattano”

il Cardinale vicario del Papa lo dice nella visita all’insediamento romano al 26° km della via Pontina

«Il riscatto parte da di chi vive qui, ma bisogna liberarsi dai pregiudizi»

il cardinale Vallini

«Sento il dovere di sollecitare le istituzioni a superare al più presto questa vergogna»

Com queste parole, una denuncia ma anche una promessa, si è conclusa la visita del cardinale vicario di Roma, Agostino Vallini, all’insediamento al 26° chilometro della via Pontina, tra fango, topi e baracche rattoppate con legno e nastro adesivo. Il Cardinale vicario parla di «vergogna» e «abbandono» da superare: «Il riscatto parte dall’impegno di chi vive qui, ma i cittadini devono liberarsi dai pregiudizi», afferma a «Roma 7», il supplemento di Avvenire per la diocesi di Roma.  

«Provo una grande sofferenza nel vedere tante persone, genitori e soprattutto bambini, in una condizione di degrado inaccettabile. Ho visto però anche la volontà di riscatto e il loro desiderio di superare questa condizione. Si sentono abbandonati e lo sono. Quindi, dobbiamo prenderci carico di loro». 

Il racconto della visita di ieri, durata più di tre ore, all’insediamento al 26° chilometro della via Pontina, a poco più di venti chilometri dal centro di Roma, fotografa la drammatica situazione del campo, tra «”vie” fangose, topi e baracche rattoppate con legno e nastro adesivo». «Una situazione che fa vergogna al mondo, indegna di una città come Roma – afferma il Cardinale vicario – neanche dopo la guerra ho visto una cosa simile». Vallini, che ha parlato con molte famiglie del campo e si è informato sulla loro condizione, era accompagnato da monsignor Pierpaolo Felicolo, direttore dell’Ufficio diocesano per la pastorale delle migrazioni, e da alcuni volontari (Comunità di Sant’Egidio e parrocchie) impegnati accanto alle famiglie rom del campo. 

«Il riscatto – conclude il Vicario del Papa – parte dall’impegno di chi vive in questi campi, facendo in modo che non si trasformino in discariche, ma le istituzioni e i cittadini devono liberarsi dai preconcetti e dai pregiudizi».  

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i censori di papa Francesco

critica alla ‘amoris laetitia’ di 45 teologi e filosofi cattolici di tutto il mondo

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 Un gruppo di 45 teologi, filosofi e pastori di anime di diverse nazionalità ha consegnato nei giorni scorsi al Cardinale Angelo Sodano, Decano del Sacro Collegio, una forte critica dell’Esortazione Apostolica post-sinodale Amoris laetitia . Nelle prossime settimane il documento, in diverse lingue, sarà fatto pervenire ai 218 Cardinali e ai Patriarchi delle Chiese Orientali, chiedendo loro di intervenire presso Papa Francesco per ritirare o correggere le proposizioni erronee del documento.

La notizia è stata diffusa da Edward Pentin

Nel descrivere l’esortazione come contenente “una serie di affermazioni che possono essere comprese in un senso contrario alla fede e alla morale cattoliche“, i firmatari hanno presentato insieme all’appello una lista di censure teologiche applicabili al documento, specificando “la natura e il grado degli errori che potrebbero essere imputati ad Amoris laetitia”.

Tra i 45 firmatari vi sono prelati cattolici, studiosi, professori, autori e sacerdoti di varie università pontificie, seminari, collegi, istituti teologici, ordini religiosi e diocesi di tutto il mondo.  Essi hanno chiesto al Collegio dei Cardinali che, nella loro veste di consiglieri ufficiali del Papa, rivolgano al Santo Padre la richiesta di respingere “gli errori elencati nel documento, in maniera definitiva e finale e di affermare con autorità che Amoris Lætitia non esige che alcuna di esse sia creduta o considerata come possibilmente vera“.

“Non accusiamo il papa di eresia“, ha detto il portavoce degli autori, “ma riteniamo che numerose proposizioni in Amoris lætitia possano essere interpretate come eretiche sulla base di una semplice lettura del testo. Ulteriori affermazioni ricadrebbero sotto altre censure teologiche precise, quali, fra l’altro, “scandalosa”, “erronea nella fede” e “ambigua”.”

Il Codice di Diritto Canonico del 1983 afferma che “In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi [i fedeli] hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa; e di renderlo noto agli altri fedeli” (CIC, can. 212 §3).

Il documento di 13 pagine cita 19 passaggi dell’esortazione che sarebbero in contrasto con le dottrine cattoliche. Queste dottrine includono la reale possibilità con la grazia di Dio di ubbidire a tutti i comandamenti; il fatto che alcune specie di atti sono errati in ogni circostanza; l’autorità maritale; la superiorità della verginità consacrata sulla vita coniugale; la legittimità della pena capitale in determinate circostanze. Il documento sostiene anche che l’esortazione pontificia mina l’insegnamento della Chiesa secondo il quale i cattolici divorziati e risposati che non s’impegnano a vivere in continenza non possono essere ammessi ai sacramenti finché permangono in quello stato.

Secondo gli autori, la vaghezza o l’ambiguità di molte affermazioni della Amoris laetitia permettono interpretazioni il cui significato naturale sembra essere contrario alla fede o alla morale. Per questo, il portavoce ha dichiarato:

“È nostra speranza che chiedendo al nostro Santo Padre una condanna definitiva di quegli errori possiamo aiutare a dissipare la confusione che Amoris laetitia ha già provocato tra i pastori e i fedeli laici. Tale confusione infatti può essere efficacemente dissipata solo da un’affermazione esplicita di autentico insegnamento cattolico da parte del Successore di Pietro .”

Le censure dei 45 teologi e filosofi non pretendono di elencare una lista esaustiva degli errori contenuti nella Amoris laetitia ma di identificare nel documento quelle che appaiono essere le peggiori minacce alla fede e morale cattoliche.

L’iniziativa si presenta come la più importante  critica fin qui espressa nei confronti dell’Amoris laetitia , dopo la sua promulgazione il 19 marzo 2016.

di Emmanuele Barbieri

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il commento al vangelo della domenica

MARTA LO OSPITO’. MARIA HA SCELTO LA PARTE MIGLIORE  

il  commento al vangelo della sedicesima domanica del tempo ordinario (17 luglio 2016) di p. Alberto Maggi:

Maggi

Lc 10,38-42

In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò.
Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi.
Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

Ogni volta che leggiamo il vangelo dobbiamo sempre inserirlo nel contesto culturale del tempo. Se non lo facciamo rischiamo di prendere fischi per fiaschi e dare un’interpretazione che non è assolutamente nelle intenzioni dell’evangelista, come in questo brano, il capitolo 10 di Luca, versetti 38-42. Un brano dal quale è nata la distinzione tra la vita attiva, quelle delle persone comuni, normali, e la vita contemplativa, quelle che scelgono una vita monacale, la clausura, con una netta preferenza di Gesù per quest’ultima.
Nulla di tutto questo. Leggiamo. Mentre erano in cammino (Gesù e i discepoli), Gesù entrò … Ecco la prima incongruenza. Sono in cammino e soltanto Gesù entra. Perché? Gesù esclude i discepoli perché non sono ancora in grado di comprendere la lezione che ora starà dando.   Entrò in un villaggio. Quando nei vangeli troviamo l’espressione “villaggio” è una chiave di lettura che gli evangelisti ci danno per indicare resistenza, incomprensione oppure ostilità all’annunzio di Gesù, alla novità che Gesù porta, perché il villaggio è il luogo attaccato alla tradizione, al passato. Il villaggio è dove vige l’imperativo “Perché cambiare? Si è sempre fatto così!” 
Questo villaggio non ha nome appunto perché era rappresentativo di una mentalità attaccata al passato, che vede con sospetto ogni novità. E una donna, di nome Marta… Il nome è tutto un programma, Marta significa “signora, padrona di casa” …  lo ospitò.
Da qui si comprende che è lei la proprietaria della casa. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Ecco questa immagine che l’evangelista ci dà di Maria, seduta ai piedi del Signore, va compresa nel contesto culturale dell’epoca. Non significa adorazione da parte di Maria o contemplazione o venerazione nei confronti del Signore. Maria si mette nella posizione del discepolo verso il maestro. C’è per esempio San Paolo che dice negli Atti che dice di essere stato istruito ai piedi di Gamaliele. Quindi sedersi ai piedi di qualcuno significava riconoscerlo come maestro.
E nel Talmud, il libro sacro si legge: Sia la tua casa un luogo di convegno per i dotti, impolverati della polvere dei loro piedi e bevi con sete la loro parola.
Allora l’atteggiamento di Maria non è un atteggiamento di adorazione, ma di ascolto, come un discepolo nei confronti di un maestro. Ma è qualcosa di strano quello che compie Maria, perché lei non può. E’ una donna e le donne non hanno gli stessi diritti e gli stessi privilegi degli uomini. La donna deve stare in cucina, deve rendersi invisibile. Sempre nel Talmud si legge che le parole della legge vengono distrutte dal fuoco piuttosto che essere insegnate alle donne. I rabbini si vantavano dicendo che Dio  mai aveva rivolto la parola ad una donna.
L’aveva fatto una volta sola, a Sara, ma poi si era pentito, per la bugia di Sara, e da quella volta non aveva più rivolto la parola ad una donna. Quindi Maria qui sta facendo qualcosa di scandaloso. Trasgredisce il ruolo dove la tradizione ha sempre confinato le donne e prende l’atteggiamento del maschio, dell’uomo, del discepolo.
Invece Marta è la fedele della tradizione. Marta invece era distolta per i molti servizi.
Marta addirittura arriva a rimproverare Gesù, ritenendolo responsabile dell’assenza della sorella. Allora si fece avanti e disse: “Signore, non t’importa nulla…. “ E qui è un moltiplicarsi del pronome personale “me, a me”, lei è tutta centrata su se stessa. “Non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire?” E poi, col verbo all’imperativo: “Dille dunque che mi aiuti”. Marta non sopporta che la sorella abbia trasgredito le regole, le norme che la tradizione e la morale hanno assegnato alle donne, che Maria faccia il ruolo di un uomo, di un discepolo, e chiede a Gesù di ricacciarla nel ruolo dove da sempre la tradizione ha posto le donne.
Ma Gesù, anziché rimproverare Maria, rimprovera la sorella.
Ma il Signore le rispose: “Marta, Marta…” La ripetizione del nome significa rimprovero, come quando Gesù vedendo la città dirà: “Gerusalemme, Gerusalemme”. Quindi è un’espressione di rimprovero. “Tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno”. Letteralmente di una sola c’è bisogno. Ed ecco la sentenza: “Maria ha scelto la parte migliore, (letteralmente la parte buona) che non le sarà tolta”.
Allora c’è da comprendere che cos’è che non può essere tolto. Cosa non può essere tolto a una persona? Perché può essere tolta ad una persona anche la vita. Perché Gesù dice che Maria ha scelto una parte che non può esserle tolta? Perché Maria ha scelto la libertà, attraverso la trasgressione delle regole e delle norme di comportamento. Un conto è la libertà quando ci viene concessa – quando viene concessa può anche essere ritirata – un contro è quando la libertà è frutto di una conquista personale, avendo il coraggio di trasgredire le regole della tradizione e le regole della religione.
Allora quando uno conquista questa libertà nessuno gliela può togliere. Allora quella di Gesù – come abbiamo detto all’inizio – non è una preferenza per una vita contemplativa a scapito di quella attiva, ma è un invito a fare la scelta della libertà. Ed è interessante che per fare questa scelta della libertà l’evangelista non ci ponga un uomo, ma una donna.

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“ti chiediamo perdono”

venerdì 8 luglio 2016

“Caro Emmanuel, ti chiediamo perdono …”

la preghiera rivolta da don Albanesi al giovane nigeriano ucciso a Fermo

la barbara morte di Emmanuel Chidi Namdi, nigeriano 36enne, richiedente asilo, aggredito martedì 5 luglio, da un ultrà di Fermo, mentre camminava non lontano dal seminario arcivescovile dov’era ospite insieme alla compagna Chinyery


 
“Caro Emmanuel, ti chiediamo perdono”. Inizia così la preghiera rivolta da don Vinicio Albanesi al giovani nigeriano ucciso a Fermo, letta durante la veglia che si è tenuta ieri al seminario arcivescovile per ricordarlo. Emmanuel Chidi Nnamdi era ospite del seminario insieme alla sua compagna Chimiary, da otto mesi, nel progetto di accoglienza gestito dalla Fondazione Caritas in veritate di don Albanesi.
 Fermo

“Non siamo stati capaci di garantirti un futuro insieme alla tua amata Chimiary – recita la preghiera – . Ti avevamo accolto con rispetto. Tu eri particolarmente attento, sorridente, sperando di vivere una vita finalmente gioiosa. Ti chiediamo perdono anche a nome di chi ti ha fatto del male. Sono nostri concittadini e purtroppo noi stessi soffriamo la loro aggressività”. “Venivi da sofferenze indicibili: la famiglia dispersa, i bambini non nati, la violenza gratuita, la solitudine e la povertà per sopravvivere. Ti hanno dato la morte, ma hanno anche rovinato la loro vita e la vita delle loro famiglie. Che Dio li perdoni. Ricordiamo con gioia i momenti belli trascorsi insieme, soprattutto il tuo matrimonio. Eravate felici quel giorno, vestiti come fiori, insieme a tutti gli amici. Abbiamo fatto festa, una festa desiderata dopo le lunghe sofferenze dell’inferno della guerra”. Così si conclude la preghiera: “Tu che sei vittima e martire, guardaci dal cielo. Proteggi Chimiary, proteggi tutti i ragazzi in Italia. E non dimenticarti di noi”.

mancini



Don Vinicio Albanesi che non esclude collegamenti 
con precedenti episodi di intolleranza in città
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Servizio TG2000

 
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“mi fanno ribrezzo gli articoli di Libero, Il Giornale, il Tempo, le dichiarazioni di Salvini”

Giacomo Russo Spena Headshot

 nel Paese serpeggia un nuovo dilagante razzismo e l’episodio di Fermo non va sottovalutato in nessun modo

Emmanuel

C’è da allarmarsi. Lo dico senza mezzi termini. Non tanto per il gesto di Amedeo Mancini ma per l’humus culturale che gli gravita intorno. Nel Paese serpeggia un nuovo dilagante razzismo e l’episodio di Fermo non va sottovalutato in nessun modo. Siamo all’epifenomeno in un’Italia attanagliata dalla crisi e che vede nello “straniero” il capro espiatorio di tale situazione. Siamo al ritorno di una strisciante xenofobia.

Col passare delle ore, la verità sta emergendo: quel Mancini né di destra, né di sinistra e che non faceva politica è ritratto in alcune foto insieme all’organizzazione di Casa Pound, i cosiddetti Fascisti del Terzo Millennio – quelli che flirtano con la Lega di Matteo Salvini. Nel novembre 2013 Mancini è con un giubbetto rosso a sventolare un tricolore nelle primissime file di una manifestazione.

Un “allegrone”, come l’ha definito il fratello Simone, che ama gettare le noccioline alle persone di colore. “Scimmia africana”, così ha apostrofato la moglie di Emmanuel. Siamo al ritorno del razzismo biologico, oltre la narrazione (distorta) del migrante causa del proprio disagio economico. Siamo al negro che è brutto, puzza e assomiglia, appunto, ad una scimmia.

Emmanuel avrebbe reagito alle accuse di Amedeo Mancini, sarebbe nata una colluttazione. I due super testimoni – che dovrebbero rafforzare la tesi di Mancini – confermano in realtà l’assurdità di una “legittima difesa” sposando la posizione del procuratore che da subito ha parlato di un colpo sferrato a Emmanuel successivamente, mentre stava andando via e con la guardia abbassata. Quindi la morte sarebbe avvenuta in un secondo momento, a rissa finita. Mancini avrebbe inseguito l’uomo e colpito con un pugno.

Fermo

Legittima difesa, in legge, è altro. Ben altro. Qui siamo di fronte ad un assassinio di sfondo razziale. Non mi sembra difficile capirlo. Un Paese civile così l’avrebbe subito stigmatizzato. Non in questa Italia dove il razzismo è ormai introiettato nel Dna di molti. Troppi.
In questi giorni, il giornale Libero è riuscito a partorire titoli che vanno oltre il concetto di inciviltà. Oltre. Incredibile che l’Ordine non sia stato in grado di spendere una parola. Il Tempo intanto oggi pubblica l’articolo “E se a Fermo non fosse razzismo?”. E cos’altro allora? I media – di solito indaffarati a foraggiare l’imprenditoria della paura – si ingegnano ora per far passare il carnefice per vittima. E giù fiumi di inchiostro e arrampicate di specchi. Su Twitter impazza persino l’hastag #iostoconAmedeo. Gente che sta con un assassino. Fermiamoci. Tutti. Siamo perdendo ogni soglia di razionalità e umanità.

Anni a parlare di “invasione dei clandestini”, ad associare i profughi ai terroristi dell’Isis, a trattare l’immigrazione solo come una questione di sicurezza, anni nei quali i media hanno fomentato timori per il diverso e invitato Matteo Salvini con le sua sparate populiste ovunque per motivi di share.

E allora oggi non ci sorprendiamo dell’uccisione di Emmanuel a Fermo o del migrante picchiato e deriso nella spiaggia delle Riviera perché pretende di essere pagato, dopo un tatuaggio. La campagna martellante di questi anni sta producendo i suoi frutti. Ovvie conseguenze di un humus culturale creato ad arte. L’immigrato considerato un reietto. Un criminale.

Ed ecco che i “giornaloni” di destra oggi sviscerano i dati sull’alta percentuale straniera nella popolazione carceraria. A parte che le galere sono da sempre contenitori dell’esclusione sociale e nei penitenziari tendono a finirci le classi meno abbienti e gli “emarginati” e non i colletti bianchi o i ceti abbienti, ma a parte questo, che significa? Che collegamento esiste con Fermo? Siccome (alcuni) migranti delinquono è giusto appellarli come “scimmie” o ucciderli con un pugno?

Il problema è profondo e non è si può stigmatizzare come il gesto di un singolo. Come scrive Cinzia Sciuto, mia collega su MicroMega, “la violenza razzista è un’altra di quelle forme di violenza che affonda le sue radici nella cultura e nell’immaginario collettivo. Così come non basta condannare la violenza maschile contro le donne e i femminicidi senza mettere in discussione l’impianto ancora patriarcale, misogino e sessista del nostro sistema sociale e culturale, così non basta oggi indignarsi per l’omicidio razzista di Emmanuel Chidi Namdi senza rendersi conto della xenofobia strisciante che pervade la nostra società e che costituisce il terreno fertile in cui poi simili aggressioni possono aver luogo”.mancini

Qui il punto. A me più di Amedeo Mancini, preoccupano i mandanti morali. La difesa ad oltranza di una parte, purtroppo, pure consistente del Paese. Mi fanno ribrezzo gli articoli di Libero, Il Giornale, il Tempo, le dichiarazioni di Salvini. Allarmano persino più del militante di Casa Pound. Il razzismo va arginato nelle scuole le quali devono tornare a formare i cittadini del futuro, cosa che – causa tagli draconiani e recenti riforme – non fanno più da anni. Sono necessarie nuove narrazioni egemoniche che individuano i responsabili della crisi nel cosiddetto 1 per cento di super paperoni e nelle politiche di austerity imposte dall’Europa, non nei migranti.

Va dato un segnale forte e chiaro. In primis culturale. Ma poi, nell’immediato, anche politico. Si ha ormai paura di essere etichettati come “buonisti”, termine inventato da qualche razzista e totalmente senza senso. E invece spero venga dedicata una via a Fermo ad Emmanuel “vittima del razzismo” – gesto simbolico importante – o che il governo prenda una posizione netta. Non è più tempo per gli equivoci e le mezze parole. Se vogliamo evitare che nel Paese torni un razzismo di massa, bisogna intervenire. Prima di subito.

Iera sera ho spiegato i fatti di Fermo alle mie figlie di 7 e 4 anni. La più grande, Maya, non si capacitava anche perché la sua miglior amica è di origine africana. La futura società, di fatto, sarà più meticcia. Per fortuna. “Da che Paese viene?” le ho chiesto, incuriosito. Lei con candore mi ha risposto: “Non lo so papà, vive qui da tre anni. Per me è di Roma”.

Una lezione quel “è di Roma”, mentre in Europa si mettono barriere e si innalzano muri, i bambini ti raccontano un altro mondo. Un altro punto di vista. Forse quello giusto, quello che ad esempio ci parla di ius soli per ottenere la cittadinanza

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un commento al ‘padre nostro’

 

“il Padre nostro  come programma di preghiera quotidiana” 

di Robert Cheaib,
docente di teologia,
 laico, sposato e padre di tre figli

Nuova serie di catechesi “Commento al Padre Nostro”. In questo incontro viene presentato il Padre Nostro, non tanto come preghiera, quanto come un programma di preghiera che feconda e orienta la nostra giornata

Appena svegli, iniziamo ad elevare il cuore a Dio, la giornata acquista un gusto diverso, un peso diverso, …”Padre nostro” iniziare con il riconoscimento, sei figlio! Non sei orfano in questo mondo. Iniziare con un segno della croce sapendo che sei abbracciato, dalla testa, dal cuore alle spalle, dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo, cambia la nostra vita …
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il volto ‘politico’ della misericordia e del giubileo

il giubileo non deve essere fatto di devozioni e di porte sante

la misericordia deve avere una dimensione “politica” e mobilitare il popolo cristiano contro il disordine e l’iniquità diffuse nel mondo

papa Lesbo

 

le riflessioni delle associazioni cattoliche Comunità ecclesiale di S.Angelo, Noi Siamo Chiesa, Il Graal, la Rosa Bianca,  Centro Helder Camara, Coordinamento 9 marzo sui problemi attuali della chiesa e dell’attualità:

tempo di Giubileo : la misericordia deve avere un volto e una pratica politica, deve costruire reti, mobilitare l’opinione pubblica e le Chiese, fare cultura ed educazione 

Nell’incontro del 16 aprile le associazioni firmatarie di questo documento hanno messo a fuoco alcune constatazioni:
– anzitutto, che il Giubileo della misericordia non può che essere un tempo aperto e permanente, non provvisorio nè limitato all’emergenza, ma continuo e puntuale,
– che l’agire con, per e nella misericordia, nel drammatico e minaccioso contesto attuale assume un aspetto deliberato ed esige concordia e fermezza,
– che alla base di ogni comportamento ci deve essere il riconoscerci tutti, provenienti da un’unica famiglia umana,
– e che di fronte ad un essere umano, la cui vita è minacciata, esiste una obbligazione primaria nei confronti della cura dell’altro.

Per questo, più che risposte o ulteriori approfondimenti sulle tematiche, ci sembra utile ed interessante proporre delle domande su cui confrontarci nella concretezza ed anche nella realizzazione delle molteplici iniziative; le domande infatti presuppongono una ricerca, un coinvolgimento, una prospettiva di senso.

papa lesbo 2

Domande che partono da alcune sottolineature forti emerse dall’incontro del 16 aprile:

1) la responsabilità collettiva della misericordia, su cui bisogna insistere, nel proporla e praticarla, superando i sottili steccati dei particolarismi e delle personali empatie verso chi soffre, per giungere ad una denuncia pubblica delle indifferenze e delle riserve, e ad una pubblica, concorde assunzione di responsabilità al fine di snidare le inadempienze, le corruzioni, le ipocrisie, i privilegi che, come dovremmo sapere, contribuiscono a rendere sempre più ricche e prepotenti le classi dominanti e sempre più povere e vessate le parti deboli delle popolazioni.

Ma, proprio per andare oltre il sapere e il parlare, il blaterare improduttivo, le domande sono:

se e che cosa siamo disposti a rinunciare e a mettere in gioco insieme per creare una mentalità comune e un comune cammino di crescita in umanità tale da superare indifferenze, cautele, barriere e recinti?
c’è e qual è una comune visione di futuro, che tenga presente non interessi e privilegi particolari, anche benefici, ma l’accorata globale situazione del mondo, in cui la maggior parte della popolazione è in balia di chi la sfrutta e la massacra costringendola alla fame, ai soprusi e ai forzati esodi di massa, in un contesto di sfruttamento incontrollato delle risorse e di un eco-sistema sbilanciato e pericolante?
ce la sentiamo di iniziare un cammino di responsabilità collettiva, in ogni ambito sociale e comunitario? E di provocarci su questo, come persone, cittadini, credenti?

2) Il volto politico della misericordia: se misericordia è coinvolgimento, lotta, occorre che assuma un deciso risvolto sociale, disturbando i poteri ai vari livelli, individuando e focalizzando alcune situazioni forti di risonanza nazionale e mondiale, come il commercio di esseri umani, la vendita di armamenti, le ondate di profughi, le mafie –tra noi il caporalato-, la violenza sulle donne e i bambini, ecc., senza desistere dal denunciare e intervenire concretamente in situazioni specifiche. Il volto politico della misericordia dovrebbe fondarsi su una comune concezione del bene comune, cioè di quel bene plurale cui può e deve accedere ogni persona, perché comporta la dignità e il rispetto per ogni uomo e ogni donna, come soggetti portatori di diritti umani e capaci di laicità, cioè di autonomia critica, responsabilità e libertà decisionale.

Le domande sono:

ci sentiamo di operare per il bene comune? Che significato vi diamo come prospettiva comune da condividere? Ci rendiamo conto che il bene comune oggi non è più qualcosa da garantire e tutelare a priori, ma è un dato di partenza di ogni ricerca e azione sociale, politica ed economica, su cui verificarci e orientarci in una visione globale concorde?

3) La misericordia e l’opinione pubblica
Occorre sfatare i luoghi comuni della misericordia, quelli che la limitano alla devozione e alla pratica rituale, alla beneficienza e alle campagne martellanti che tranquillizzano le coscienze, per esprimere invece a voce alta le denunce di tutto ciò che sfigura l’umano, ribadendo la necessità di un cambiamento di mentalità e di stili di vita.

Le domande sono:

Dove e con chi parliamo e testimoniamo che la misericordia comporta un capovolgimento di comportamenti e di prospettive?
Ci interessa renderci e rendere conto che non si possono vivere superficialmente o in disparte i problemi e le emergenze che toccano tutti gli umani, di cui facciamo parte anche noi? Che ciò che siamo ed abbiamo appartiene a tutti?
Ce ne prendiamo a cuore insieme?

4) La necessità di costruire reti, non soltanto di comunicazione, ma di solidarietà.
E’ importante e necessario trovare i modi e le sedi per farlo; ad esempio, stabilendo e pubblicizzando contatti, non settorialmente o sporadicamente, ma permanenti, con le diverse iniziative di misericordia, e intrecciando reti visibili di conoscenze e di interventi, di solidarietà e azioni comuni dirette o di sostegno, richiami pubblici e condivisi a nuovi modelli di vita.Ci vuole una nuova lingua, che capiscano tutti, che esprima un nuovo modo di guardare l’altro, la stessa sete e ricerca del bene comune, e parole e gesti che abbiano la sostanza del presente e il respiro del futuro.

Le domande sono:

Siamo convinti che sia importante, anzi necessario, abbattere i canali a senso unico per allargarci ad una rete espansiva e condivisa di misericordia, in tutte le sue manifestazioni di creatività e di azione?
Stiamo valorizzando il patrimonio collettivo e individuale di un bene comune attuato nelle sue molteplici sfaccettature, di competenze, di sapienze, di tempo e risorse disponibili che le diverse reti particolari possono mettere a disposizione?
C’è spazio per far emergere limiti e potenzialità della ricchezza di culture e di vissuti, pur consapevoli della fatica della mediazione culturale, sociale e politica richiesta?

5) La mobilitazione delle Chiese: la comunità dei credenti cristiani, declinata in tutte le sue forme e confessioni storiche, chiamata a vivere più consapevolmente la misericordia, che è il perno dell’evangelo, deve ritrovarsi più unita e manifestarsi più apertamente e visibilmente in questo denominatore comune della misericordia, rivedersi nei suoi rapporti con i poteri e usare più decisamente e ampiamente le sue istituzioni, per essere in prima linea nella lotta per la costruzione di un mondo basato su nuovi rapporti di umanità riconciliata.

Le domande sono:

c’è il coraggio di superare le confessionalità (liberandoci da pregiudizi storici tuttora esistenti) per far diventare solidarietà comune le singole iniziative, che pur ci sono e anche numerose?
C’è la volontà di mettere globalmente (e non lasciate a livello di decisioni laterali) a disposizione dell’accoglianza istituzioni risorse, spazi, organizzazioni, competenze, ecc.?
C’è la consapevolezza di dare delle priorità e delle scelte, senza voler conciliare a tutti i costi aspetti diversi, alla concretezza della misericordia, anche a scapito della ritualità e della pratica devozionale?

6) L’importanza del fattore culturale ed educativo
A nessuno dovrebbe sfuggire quanto sia importante ed impellente creare canali culturali capaci di contrastare l’analfabetismo e la scivolosa mentalità indotta da modelli legati all’economia, al consumismo e al predominio del denaro, per coltivare la dignità e intelligenza umana per tutti, specialmente per coloro a cui viene sistematicamente lesa o tolta.

Le domande sono:

ci sta veramente a cuore lo sviiuppo delle capacità umane e il superamento dell’analfabetismo non solo letterale, ma soprattutto mentale ed interiore?
In un mondo i cui criteri a livello di mentalità comune e di opinione circolante sono prevalentemente quelli del divertimento, del piacere, dell’evasione, di un eventuale successo di immagine ottenuto con ogni mezzo, quanto conta sostenere il valore della scuola e dello studio?


Comunità ecclesiale di S.Angelo, Noi Siamo Chiesa, Il Graal, la Rosa Bianca,
Centro Helder Camara, Coordinamento 9 marzo

Milano, 29 giugno 2016

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i giovano guardano a papa Francesco come a un modello di riferimento

Dio a modo mio

un’inchiesta sulla religiosità giovanile su “La Civiltà Cattolica” mostra come il Papa sia modello di riferimento per una fede autentica ed essenziale

How to pray?

Acuto, intelligente, originale, il saggio di Padre Gian Paolo Salvini pubblicato su ‘La Civiltà Cattolica’ (quaderno 3985 9 luglio 2016). Padre Salvini fa riferimento alle ricerche e agli studi Sulla religiosità giovanile, in particolare “Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia”, a cura di R. Bichi – P. Bignardi, Milano, (Vita e Pensiero, 2016) e “I giovani di fronte al futuro e alla vita, con e senza fede”, il rapporto dell’Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori

Lo studio “Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia” si basa su 150 interviste a giovani di tutta l’Italia, divisi tra grandi e piccoli centri, tutti compresi in due fasce di età ben precise: 76 (metà uomini e metà donne) tra i 19-21 anni, cioè nell’età in cui si è determinato per quasi tutti un certo distacco dalla pratica religiosa e dalla Chiesa, e circa altrettanti (74)  compresi tra i 27-29 anni, cioè in un’età nella quale un certo per corso religioso si è generalmente definito o in forma di riavvicinamento o in forma di distacco dalla fede.

Tutti gli intervistati erano stati scelti fra battezzati, in modo che fosse più omogeneo se non il percorso, almeno il punto di partenza religioso nelle rispettive famiglie di origine.

Secondo l’Istituto Toniolo, nel 2013 i giovani che si proclamano credenti nella religione cattolica sono il 55,9%, mentre si dichiara ateo il 15,2% dei giovani e agnostico il 7,8%.

Il 10% afferma di credere in un’entità superiore, ma senza fare riferimento a una divinità specifica. Solo il 15,4% dei giovani dice di partecipare a un rito religioso ogni settimana. Anche tra coloro che si dichiarano cattolici soltanto il 24,1% è un praticante settimanale.

Inquietante è il fatto che, l’anno successivo, la percentuale di coloro che si dichiarano cattolici, è diminuita di 3,4 punti percentuali, scendendo al 52,5%. Anche altri dati confermano questo continuo calo dei giovani che vanno a Messa la domenica. L’atteggiamento nei confronti della Chiesa rimane critico.

Il voto medio dato alla Chiesa su una scala da 1 a 10 è di 4,0 (4,2 per gli uomini, 3,8 per le donne).

A proposito di questi e altri studi ha scritto Padre Salvini:

“Colpisce anzitutto il fatto che i giovani in maggioranza vivono la loro fede in modo molto problematico, più con riserve e distacco che con interesse e adesione. Valutano la loro storia religiosa con molto disincanto e sono assai critici nel relazionarsi con la Chiesa come istituzione.

Le interviste, prolungate e attente, impediscono delle conclusioni affrettate. «Non è un caso che, nel travagliato rapporto con la Chiesa come istituzione, emerga con forza la figura di Papa Francesco, a cui i giovani guardano come modello di riferimento per una fede autentica, semplice ed essenziale e come figura in grado di promuovere un cambiamento radicale nel linguaggio e nella vita della Chiesa».

Verrebbe da dire che i giovani hanno con la fede un rapporto che la fa considerare un aspetto marginale o comunque non in grado di incidere sulle loro scelte e sugli orientamenti della loro vita.

Ma questo non significa che i giovani non abbiano più fede.

«È una generazione alle prese con una nuova forma di ateismo, non più ideologico, ma esistenziale», eppure la fede appare come una dimensione tutt’altro che estranea. I giovani non si ritrovano più con la fede dell’infanzia, che però non è cresciuta con loro.

Occorre capire come mai la crescita non sia stata accompagnata da quella della fede con altrettanto impegno, in modo proporzionato alle varie età. È mancata l’arte dell’accompagnamento.

Ciò di cui, nel loro racconto, i giovani lamentano la carenza è la vicinanza di testimoni, cioè di persone di qualità che li avessero accompagnati nel cammino e nella crescita.

Sono le persone incontrate che fanno la differenza, purché abbiano rappresentato modelli cui ispirarsi.

Oltre che figure di riferimento credibili, sembra mancare ai giovani la dimensione comunitaria della fede. In parte questo accade perché ci si adegua a un sentire ampiamente veicolato dalla pubblicistica e dalla cultura mediale in cui essi sono immersi.

L’impressione che si ricava è che essi non percepiscano più la Chiesa come un ambiente accogliente e interessante. «Non sono i giovani che si sono allontanati dalla Chiesa, ma è la Chiesa che non ha del tutto mantenuto fede alle promesse, non riuscendo di fatto a rimanere al passo con i cambiamenti e con le nuove sfide che rapidamente si sono susseguite».

I giovani riflettono indubbiamente la cultura individualistica del nostro tempo, e questo vale anche per la fede, che diventa un fatto soggettivo e in parte evanescente. Ma proprio per questo si evidenzia la domanda di ancoraggi forti e di riferimenti significativi che rendano più solida l’esperienza religiosa.

Probabilmente è necessario ricreare un reticolato di comunità nelle quali ciascuno si ponga al servizio degli altri, ritrovando nelle comunità parrocchiali, «in quanto luogo primario della convergenza eucaristica», la realtà della sintesi.

Una prima osservazione è che molti giovani sembrano essere dei «cattolici anonimi», che nutrono cioè una fede che vuole restare entro la tradizione cristiana solo per quel tanto che serve, ma senza assumere obblighi o impegni. Però, in momenti di crisi, essi riattivano un contatto con la tradizione cristiana, rimasta finora latente.

Ma ciò avviene secondo modalità decise dall’individuo. I contenuti, come pure le pratiche, i valori e le regole, vengono decisi dal singolo, che attinge alla tradizione prendendo ciò che gli è utile, lasciando ciò che sente lontano o estraneo.

«Ognuno si costruisce in questo modo la propria fede e il proprio cattolicesimo, dentro una tradizione di fede ufficiale che gli serve come contenitore, ma con la quale non si identifica».

Questa è una caratteristica che appare molto diffusa nelle interviste.

La fede non segue più un processo lineare secondo l’età e lo sviluppo della persona, ma assume il modello di una curva a «U», che conosce un momento di forte socializzazione nell’infanzia, per vivere poi momenti di latenza alternati a momenti di ritorno, fino ad esiti possibili di maturazione.

Ma il modello lineare, oggi in crisi, è proprio quello su cui la Chiesa ha investito molte energie e ha sviluppato i suoi percorsi pedagogici. A un momento di forte esperienza religiosa pare segua sempre — secondo i giovani intervistati — un momento di distacco critico e di rimessa in discussione.

Questo fa parte di un cammino di affezione alla propria identità, che chiede di decostruire e ricostruire tutto ciò che ha appreso dalla tradizione.

Lo esprime bene una ragazza, che dichiara: «Io mi sento di vivere la mia fede come piace a me, nel senso che io sono assolutamente certa che non sia necessario andare in chiesa tutte le domeniche per credere, è necessario il pensiero di un minuto e mezzo nella giornata, mi basta il pensiero. Mi capita di andare in chiesa a delle ore in cui non c’è nessuno”.

Nelle osservazioni conclusive, ha scritto Padre Salvini: “I giovani non conoscono più l’alternativa Cristo sì, Chiesa no, che era di moda alcuni decenni fa. Non sono più in fase di opposizione, ma di distacco dalla Chiesa. Vanno ricreate le relazioni all’interno della comunità cristiana, pensando, come suggerisce Paola Bignardi, a un’educazione cristiana che avvenga in età e in luoghi diversi dagli attuali e che sappia partire dall’ascolto delle domande dei giovani”

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Italia razzista’?

l’Italia non è razzista ma i razzisti ci sono

di Paolo Lambruschi
in “Avvenire”

la vera Italia non è razzista. Lo pensiamo anche noi, perché lo abbiamo verificato tante volte e continuiamo ad averne conferme

Emmanuel nigeriano

Non ci fa cambiare idea neanche il pestaggio mortale di Emmanuel, nostro fratello nato in Nigeria. Non ci fa mutare avviso neanche il gesto orribile di un ultrà della locale squadra di calcio, fermato per «omicidio preterintenzionale con l’aggravante della finalità razziale» e, a quanto pare, non nuovo a intemperanze e violenze. Non è razzista l’Italia, né lo è la popolazione marchigiana e crediamo sia sincero chi oggi si commuove ed è addolorato per quello che è accaduto. L’Italia accogliente di Lampedusa e di Ventimiglia ha molto in comune con le Marche solidali. Questa profonda convinzione non consente, comunque, di abbassare la guardia, perché i segnali di allarme sono numerosi. E i cinici e i razzisti purtroppo ci sono. Per anni li abbiamo visti sistematicamente sottovalutati. Infatti, accanto ai grandi gesti di solidarietà e accoglienza compiuti dalla parte sana del Paese in tante emergenze gestite in modo altalenante dalla pubblica amministrazione, cattivi maestri hanno potuto imperversare diffondendo impunemente in tv, per radio, attraverso giornali compiacenti e sul web fior di menzogne pur di parlare alla ‘pancia’ della gente e guadagnare consensi, popolarità, voti. Come non ricordare, per esempio, chi in Senato ha dato dell’«orango» ad avversari politici nati in Africa, portando l’insulto da osteria nella sede più alta della rappresentanza popolare? E soprattutto come dimenticare chi ha continuato a gridare su tutti i mass media all’«invasione» dei migranti – incurante di ogni smentita dei numeri – ad alimentare sentimenti xenofobi e a predire la «violenza nelle strade»? Questi cinici ‘profeti di sventura’ l’hanno azzeccata. Alcuni si preoccupano di offrire pubblica solidarietà alla fidanzata della persona uccisa. Non è mai troppo tardi, ma non basta. Troppi veleni e troppo male sono stati messi in circolo. Davvero troppi, per non farci altrettanto pubblicamente i conti. È importante, adesso, non sottovalutare più alcun segnale d’allarme.Emmanuel

A cominciare, ad esempio, dagli attentati alle chiese di Fermo compiuti nei mesi scorsi, come ha ricordato più volte don Vinicio Albanesi, e dalle continue intimidazioni ai danni di diverse Caritas diocesane che praticano l’accoglienza (in Romagna non è stato risparmiato neppure un convento di clausura). Gesti compiuti da estremisti di destra. Comunque sia andata l’aggressione mortale (sarà l’autopsia a stabilirlo) anche l’uomo che ha ucciso Emmanuel ha fama di essere di quella brutta scuola e di quegli oscuri manipoli. L’opinione pubblica italiana – che, insistiamo, non è razzista – ha un grosso problema che si potrà risolvere soltanto nel lungo periodo: è il Paese più «ignorante» dell’area Ocse in materia di immigrazione. E la colpa è soprattutto dei giornalisti e dei politici che disinformano o distorcono la realtà dei fatti per mediocri tornaconti. Per di più, storie come quella del giovane nigeriano pestato a sangue, e stavolta a morte, per aver difeso la propria donna, la propria madre, la propria sorella da chi la oltraggia o la chiama «scimmia africana» sono sconosciute ai più, anche se sono purtroppo dannatamente comuni. Raccontiamola di nuovo, in breve. Emmanuel, 36enne richiedente asilo, era un profugo dalla Nigeria, un cristiano che in un assalto compiuto dai terroristi jihadisti di Boko Haram contro la sua chiesa aveva perso i genitori e una figlioletta. Con la sua promessa sposa Chinyery aveva raggiunto la Libia e anche lì i due erano stati aggrediti e picchiati da trafficanti, lei aveva anche subito un aborto durante la traversata. Da settembre la coppia viveva nel seminario vescovile di Fermo, che accoglie profughi e migranti in attesa di documenti, avevano di recente celebrato il rito della benedizione degli anelli. Un
fidanzamento davanti a Dio e alla comunità. È la storia semplice di un amore profondo, di due persone che avevano deciso di condividere la vita e che hanno avuto il torto di nascere e amarsi in una terra dalla quale i cristiani sono costretti a fuggire per sopravvivere. Emmanuel aveva chiesto asilo, Chinyery l’ha ottenuto ieri mentre cantava straziata il dolore per l’amato ucciso. Non si torna indietro, ma se si vuole avere davvero rispetto di quest’uomo e di questa donna e della loro speranza infranta, questa volta non possiamo dimenticare nulla, non possiamo farci riprendere dall’indifferenza. La vera malattia da cui dobbiamo difenderci per non lasciare che i professionisti della paura e della menzogna narcotizzino le nostre coscienze e preparino altre tragedie.

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