il commento al vangelo della domenica

un padre dà sempre cose buone ai figli

il commento di E. Bianchi al vangelo della domenica diciassettesima del tempo ordinario
Lc 11,1-13
 

¹In quel tempo Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». ²Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: 

Padre,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;

³dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
e perdona a noi i nostri peccati,
anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione». 

Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: «Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli», e se quello dall’interno gli risponde: «Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani», vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. ¹⁰Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. ¹¹Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? ¹²O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? ¹³Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

 

Il brano del vangelo di questa domenica è in realtà composto di tre parti: la preghiera di Gesù (vv. 1-4), la parabola dell’amico insistente (vv. 5-8) e infine la sua applicazione (vv. 9-13). Tutto il brano si regge sull’informazione dataci da Luca a proposito degli atteggiamenti di Gesù durante il viaggio verso Gerusalemme (cf. Lc 9,51). Anche in questo camminare Gesù si fermava, sostava e pregava: i discepoli lo vedevano impegnato in questa azione fatta certamente in un modo che li colpiva e li interrogava.

Proprio alla fine di una di queste soste in preghiera, non sappiamo in quale ora della giornata, se al mattino o alla sera, un discepolo gli chiede di insegnare a tutta la comunità come pregare, sull’esempio di ciò che aveva fatto Giovanni il Battista con quanti lo seguivano. In risposta, Gesù consegna una preghiera breve, essenziale che Luca e Matteo (cf. Mt 6,9-13) ci hanno trasmesso in due versioni. Quella di Luca è più breve, costituita innanzitutto da due domande che hanno un parallelo nella preghiera giudaica del Qaddish: la santificazione del Nome e la venuta del Regno. Seguono poi tre richieste riguardo a ciò che è veramente necessario al discepolo: il dono del pane di cui si ha bisogno ogni giorno, la remissione dei peccati e la liberazione dalla tentazione. Preghiera semplice quella del cristiano, senza troppe parole, ma piena di fiducia in Dio – invocato come Padre – nel suo Nome santo, nel suo Regno che viene. Avendo commentato più volte il “Padre nostro”, vorrei qui sostare piuttosto sui versetti seguenti, quelli che contengono la parabola e la sua applicazione. 

Questa parabola è riportata solo da Luca, il quale vuole presentare la preghiera di domanda come preghiera insistente, assidua, che non viene meno ma che sa mostrare davanti a Dio una determinazione e una perseveranza fedele. Gesù intriga gli ascoltatori, li coinvolge e per questo, invece di raccontare una storia in terza persona, li interroga: “Chi di voi…?”. È una parabola che narra ciò che può accadere a ciascuno degli ascoltatori: 

Chi tra voi, se ha un amico e va a casa sua a mezzanotte e gli dice: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”, lo sente rispondere dall’interno: “Non procurarmi molestie! La porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me! Non posso alzarmi per darteli”?  Vi dico: anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua insistenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. 

Parabola semplice, che vuole mostrare come l’insistenza di una domanda provochi la risposta anche da parte di chi, pur essendo amico, sulle prime non è disposto a esaudirla. Sì, è l’insistenza (persino noiosa!) dell’amico e non il sentimento dell’amicizia a causare l’esaudimento e il conseguente dono: con la sua ostinata domanda un amico importuno può fare cambiare parere a un altro amico importunato. 

Proprio perché le cose vanno così, Gesù allora commenta: 

Chiedete e vi sarà dato,

cercate e troverete,

bussate e vi sarà aperto. 

È vero che non si usa esplicitamente il verbo “pregare”, ma è evidente che Gesù si riferisce sempre alla preghiera, proprio in risposta alla domanda iniziale del discepolo. Chiedete – raccomanda Gesù – cioè non abbiate paura di chiedere a Dio che è Padre, chiedete con semplicità, sicuri di essere esauditi da chi vi ama, e chiedete senza stancarvi mai. Si tratta di cercare con la convinzione della necessità della ricerca, con la convinzione che c’è qualcosa che vale la pena di essere cercato, a volte faticosamente, a volte lungamente, ma occorre essere certi che prima o poi si giungerà a trovare. Dove c’è una promessa, si tratta di attendere vigilanti, di cercarne l’esaudimento. Si tratta anche di bussare a una porta: se si bussa, è perché c’è speranza che qualcuno dal di dentro apra e ci accolga, ma a volte occorre bussare ripetutamente… 

Di conseguenza, ci poniamo subito la domanda: perché Dio ha bisogno di essere più volte supplicato, perché vuole essere cercato, perché vuole che bussiamo ancora e ancora? Ne ha così bisogno? No, siamo noi che abbiamo bisogno di chiedere, perché siamo dei mendicanti e non vogliamo riconoscerci tali; siamo noi che dobbiamo rinnovare la nostra ricerca di ciò che è veramente necessario; siamo noi che dobbiamo desiderare che ci sia aperta una porta, in modo da poter incontrare chi ci accoglie. Dio non ha bisogno della nostra insistente preghiera, ma siamo noi ad averne bisogno per imprimerla nelle fibre della nostra mente e del nostro corpo, per aumentare il nostro desiderio e la nostra attesa, per dire a noi stessi la nostra speranza. 

Ma a questa parabola e al suo primo commento Gesù aggiunge un’altra applicazione, sempre breve e sempre in forma interrogativa: 

Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà forse una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà forse uno scorpione? O se gli chiede un pane, gli darà forse un sasso (quest’ultima aggiunta è presente solo in una parte della tradizione manoscritta)? 

Ecco, questo non avviene tra un padre e un figlio, perché il legame di sangue impedisce un simile comportamento paterno, anche in caso di scarso affetto. A maggior ragione – dice Gesù – se questo non avviene tra voi che siete cattivi, eppure sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre che è nel cielo darà lo Spirito santo a quelli che glielo chiedono. 

Quest’ultima parola di Gesù è stata meditata poco e con poca intelligenza dagli stessi cristiani negli ultimi secoli. Gesù sa, e per questo lo dice con franchezza, che noi umani siamo tutti cattivi (poneroí), perché in noi c’è una pulsione, un istinto a pensare a noi stessi, ad affermare noi stessi, alla philautía, l’amore egoistico di sé. Eppure, anche se questa è la nostra condizione, siamo capaci di azioni buone, almeno nel caso di un rapporto famigliare tra padre e figlio. Ebbene, se noi, pur nella nostra cattiveria, diamo cose buone ai figli che ce le chiedono, quanto più Dio, che “è il solo buono” (agathós: Lc 18,19), darà cose buone a chi gliele chiede! Ma come dimenticare che sovente abbiamo fatto di Dio un padre più cattivo dei nostri padri terreni? Scriveva Voltaire: “Nessuno vorrebbe avere come padre terreno Dio”, ed Engels gli faceva eco: “Quando un uomo conosce un Dio più severo e cattivo di suo padre, allora diventa ateo”. È così, ed è avvenuto così perché i cristiani hanno dato un’immagine di Dio come giudice severo, vendicativo e perverso, fino a spingere gli umani ad abbandonare un tale Dio e a negarlo! Gesù invece ci parla di un Dio Padre più buono dei padri di cui abbiamo fatto esperienza, insegnandoci che sempre Dio ci dà cose buone quando lo invochiamo. 

Ma in questo brano c’è una precisazione importante e decisiva a proposito della preghiera. Luca si discosta dalla versione di queste parole di Gesù fornita da Matteo, perché sente il bisogno di chiarirle e di spiegarle. Sì, è vero che Dio ci esaudisce con cose buone (cf. Mt 7,11), ma queste non sempre sono quelle da noi giudicate buone. La preghiera non è magia, non è un “affaticare gli dèi” – come scriveva il filosofo pagano Lucrezio (La natura delle cose IV,1239) – o uno stordire Dio a forza di parole moltiplicate, dice altrove Gesù (cf. Mt 6,7-8). Dio non è a nostra disposizione per esaudire i nostri desideri, spesso egoisti ma soprattutto ignoranti, in senso letterale: non sappiamo ciò che vogliamo! Ecco perché – precisa la versione lucana – “le cose buone” sono in realtà “lo Spirito santo”. Sempre Dio ci dà lo Spirito santo, se glielo chiediamo nella preghiera, e lo Spirito che scende nella nostra mente e nel nostro cuore, lui che si unisce al nostro spirito (cf. Rm 8,16), è la risposta di Dio. Ma è bene fare un esempio, a costo di essere brutali. Se io, affetto da una grave malattia, chiedo a Dio la guarigione, non è detto che questa si verifichi effettivamente, ma posso essere certo che Dio mi darà lo Spirito santo, forza e amore per vivere la malattia in un cammino in cui continuare ad amare e ad accettare che gli altri mi amino. Questo è l’esaudimento vero e autentico, questo è ciò di cui abbiamo veramente bisogno!

il commento al vangelo della domenica

“padre nostro”

la preghiera che unisce terra e cielo


Padre Nostro, la preghiera che unisce terra e cielo
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della diciassettesima domenica del tempo ordinario (28 luglio 2019): 

Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”».

Signore insegnaci a pregare. Tutto prega nel mondo: gli alberi della foresta e i gigli del campo, monti e colline, fiumi e sorgenti, i cipressi sul colle e l’infinita pazienza della luce. Pregano senza parole: «ogni creatura prega cantando l’inno della sua esistenza, cantando il salmo della sua vita» (Conf. epis. giapponese).
I discepoli non domandano al maestro una preghiera o delle formule da ripetere, ne conoscevano già molte, avevano un salterio intero a fare da stella polare. Ma chiedono: insegnaci a stare davanti a Dio come stai tu, nelle tue notti di veglia, nelle tue cascate di gioia, con cuore adulto e fanciullo insieme. «Pregare è riattaccare la terra al cielo» (M. Zundel): insegnaci a riattaccarci a Dio, come si attacca la bocca alla sorgente.
Ed egli disse loro: quando pregate dite “padre”. Tutte le preghiere di Gesù che i Vangeli ci hanno tramandato iniziano con questo nome. È il nome della sorgente, parola degli inizi e dell’infanzia, il nome della vita. Pregare è dare del tu a Dio, chiamandolo “padre”, dicendogli “papà”, nella lingua dei bambini e non in quella dei rabbini, nel dialetto del cuore e non in quello degli scribi. È un Dio che sa di abbracci e di casa; un Dio affettuoso, vicino, caldo, da cui ricevere le poche cose indispensabili per vivere bene.
Santificato sia il tuo nome. Il tuo nome è “amore”. Che l’amore sia santificato sulla terra, da tutti, in tutto il mondo. Che l’amore santifichi la terra, trasformi e trasfiguri questa storia di idoli feroci o indifferenti.
Il tuo regno venga. Il tuo, quello dove i poveri sono principi e i bambini entrano per primi. E sia più bello di tutti i sogni, più intenso di tutte le lacrime di chi visse e morì nella notte per raggiungerlo.
Continua ogni giorno a donarci il pane nostro quotidiano. Siamo qui, insieme, tutti quotidianamente dipendenti dal cielo. Donaci un pane che sia “nostro” e non solo “mio”, pane condiviso, perché se uno è sazio e uno muore di fame, quello non è il tuo pane. E se il pane fragrante, che ci attende al centro della tavola, è troppo per noi, donaci buon seme per la nostra terra; e se un pane già pronto non è cosa da figli adulti, fornisci lievito buono per la dura pasta dei giorni.
E togli da noi i nostri peccati. Gettali via, lontano dal cuore. Abbraccia la nostra fragilità e noi, come te, abbracceremo l’imperfezione e la fragilità di tutti.
Non abbandonarci alla tentazione. Non lasciarci soli a salmodiare le nostre paure. Ma prendici per mano, e tiraci fuori da tutto ciò che fa male, da tutto ciò che pesa sul cuore e lo invecchia e lo stordisce.
Padre che ami, mostraci che amare è difendere ogni vita dalla morte, da ogni tipo di morte.

il ‘padre nostro’ oltre la pratica devozionale

‘padre nostro’

preghiera come esperienza

da Altranarrazione

 

«Signore insegnaci a pregare» (1)

Noi chiediamo di imparare una pratica devozionale, Dio, invece, nel padre nostro, ci indica una prassi esperienziale. Le parole che ci confida rappresentano, in sintesi, le azioni che già compie in nostro favore. È un orizzonte esistenziale, da condividere e testimoniare, non degradabile a formula verbale e meccanica. Il padre nostro è, per noi, possibilità di conversione, è atto di affidamento, è riconoscimento alla sua gratuità. È un memoriale che rinnova e attualizza la nostra relazione con Lui, rendendoci partecipi alle grazie che ne scaturiscono. C’è un contenuto su cui fondare le nostre scelte. C’è un senso da accogliere capace di guarire le ferite interiori, consolare dopo ogni caduta e strappare dall’angoscia della precarietà. Possiamo ritrovare l’autenticità di noi stessi, rinunciando alla parodia in cui, spesso, ci trasformiamo e che mettiamo in circolazione. La preghiera-prassi del padre nostro consente sempre il ritorno da qualsiasi lontananza, annulla le false immagini, ravviva il fuoco, non permette alla sfiducia di attecchire. Ci invita sulla strada della confidenza, dell’abbraccio, della comprensione. Dio si presenta come un dono senza forme e riverenze perché Semplicità è un altro suo nome.

Abbà

Padre: che ci ami per la nostra fragilità, che conosci le nostre tenebre e su queste desideri manifestare la tua Misericordia;
sia santificato il tuo nome: rinnegando gli idoli che deturpano il tuo volto e il nostro;
dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano: continua a donarti, non ritirarci il soffio vitale dell’anima, salvaci dall’abisso dell’autosufficienza e dell’egoismo sociale, senza ripensamenti e nonostante le delusioni che ricevi;
venga il tuo regno: sì, desideriamo realizzare la tua idea di comunità pacifica e solidale anche a costo della nostra stessa vita;
perdonaci i nostri peccati perché anche noi perdoniamo: ci sentiamo amati da te, senza merito. Non desideriamo quindi odiare e distinguiamo l’ingiustizia dagli oppressori. Combattiamo la prima, attendiamo la conversione dei secondi;
non abbandonarci alla tentazione: confermaci nell’opzione preferenziale per i poveri, nella verità del servizio che si oppone alla menzogna del potere e della vanagloria. Porta a compimento l’immagine e la somiglianza (2) con cui ci hai reso tuoi figli: libertà capace di creare e di donarsi.

(1) Vangelo di Luca 11, 1

(2) Cfr. Genesi 1, 26-27

la valenza innovativo-rivoluzionaria della correziione al ‘padre nostro’

la nuova versione della preghiera cambia l’immagine del Dio e sposta radicalmente la teodicea, ovvero la secolare interrogazione (filosofica ed etica) su a chi debba essere attribuita la responsabilità del male

nel nome del padre che diventa anche un po’ madre

Laura Marchetti

Pur da atea e anticlericale, guardo con speranza il cambiamento formulato nel nuovo Messale Romano per la preghiera del Padre Nostro, la più importante perché l’unica formulata direttamente da Gesù ai discepoli nel Vangelo di Matteo (quello di Pasolini, del Cristo dei poveri cristi). A quasi 50 anni dalla versione di Paolo VI, la nuova traduzione dall’aramaico sembra più aderente al messaggio evangelico rivoluzionario.
Trasformata in orazione, in implorazione pronunciata da milioni di oranti, può contrastare in profondità, nell’inconscio, le parole feroci che dominano messaggi ed azioni del potere politico in questi sciagurati tempi.
La nuova versione, innanzitutto, cambia l’immagine del Dio e sposta radicalmente la teodicea, ovvero la secolare interrogazione (filosofica ed etica) su a chi debba essere attribuita la responsabilità del male. La vecchia formula «e non ci indurre in tentazioni», addossa in qualche modo a Dio (un Dio perverso, che gioca con la testa dell’uomo a fargli paura e a renderlo ancora più fragile con le sue trappole), la corresponsabilità nella tentazione, rendendo così il male inerente al sacro, dunque ontologico e ineliminabile. La nuova formula invece «non abbandonarci in tentazione», pur ribadendo la fragilità dell’uomo e quindi in parte assolvendolo, esonera Dio, finendo così per attribuire l’avvento del male alla storia o alla società. In questo modo il male diventa fenomenologico, dunque modificabile e, nell’estrema utopia, eliminabile.
La nuova formula del Messale Romano ha anche un’altra ricaduta sul quotidiano, in quanto modifica, oltre all’immagine di Dio, l’immagine del padre , sua proiezione, come sappiamo dopo Feuerbach. L’immagine paterna che emerge dalla prima versione è quella tradizionale del patriarcato: un padre che non vuol cedere la strada, ma anzi pone ostacoli al figlio come fosse un nemico, in un rapporto sempre improntato alla rivalità e al conflitto, conflitto dal quale il giovane esce sempre soccombente rispetto al vecchio (a fondazione di una gerontocrazia perdurante nei secoli). La nuova immagine paterna, invece, essendo evocata da una implorazione dettata non dalla paura ma finalizzata ad una richiesta sollecita di protezione e di cura («non mi abbandonare», vuol dire anche amami e non mi lasciare solo sulla mia croce o la mia strada), prefigura l’immagine di un padre dolce, scritto con la minuscola, e con funzioni materne: un padre/madre che, aiutando, può contribuire all’autonomia e alla liberazione del giovane figlio/a.
Un padre/madre così modifica anche l’immagine e la pratica della politica: il nostro punto cruciale. La patria , così come la intendono gli stati fra loro in guerra e in guerra con i cittadini, corrisponde ad un modello di pater patriarca e padrone e, soprattutto, proprietario di patrimoni (diritti e beni) per secoli lasciati in eredità solo al figlio maschio.
La sua idea sacrificale corrisponde perfettamente al Dio del Levitico che chiede sangue e sacrifici, forgiando militarmente, ancora oggi, il modello sovranista che, non a caso, è anche spudoratamente machista. Il padre/madre dolce, che non ti abbandona, corrisponde invece non allo stato militare ma allo stato sociale, leggero e tenero, non indifferente alla vita, ai bisogni, alle richieste di aiuto che vengono dal cittadino, anche da quello più fragile e abbandonato: dall’orfano, dalla vedova, dallo straniero, dall’ammalato, come recita un altro straordinario passo evangelico. Il suo gesto di cura riforma così la patria trasformandola in matria, terra della madri e dei padri/madri, terra natale comune, destino comune, lingualatte comune dal cui abbraccio nessuno, proprio nessuno, può essere escluso.

il ‘padre nostro’ – la preghiera di tutti gli ‘scartati’ e i ‘figli di nessuno’

PADRE NOSTRO

(padre di tutti)

Voi dunque pregate così:

Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome, 
venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà,

come in cielo così in terra.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti 
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non abbandonarci alla tentazione, 
ma liberaci dal male.

(Mt 6,9-13)

Nel cuore del Discorso della Montagna, che apre con estrema solennità l’attività di maestro di Gesù (si vedano i capitoli 5-7 di Matteo), si leva la Preghiera del Padre Nostro.

Eccellente liturgia con cui i cristiani invocheranno il loro Dio, mutuando molte parole dalla Sinagoga che già venerava il Suo Nome col canto del Qaddis.

La preghiera al Padre è un pilastro delle fede cristiana, fede universale che chiama “nostro” un Dio che non è né elitario, né particolare; un Dio di cui nessuno potrà dire: “è mio”.

Un Dio di cui nessun popolo, nessuna provincia, nessuna nazione può appropriarsi per escluderne un’altra, o tutte le altre. Un Dio che non può esser fatto bandiera di un’identità chiusa e escludente; di cui nessuno può abusare per dividere, bandire, scacciare, censurare, discriminare, scomunicare.

Il Padre nostro è per tutti i “figli di nessuno” a questo mondo; per chiunque abbia bisogno di veder riconosciuto il diritto di vivere e di essere ospitato nel “paese”.

Ci deve colpire il fatto che Gesù non abbia dato un nome proprio al suo e nostro Dio. La religione giudaica – in cui pure Gesù era stato circonciso – aveva, certo, un Nome per Lui (Yhwh) che non poteva esser neppure pronunciato, tanto era sacro, e che, nella Tradizione, veniva chiamato proprio con la parola: “Il Nome” (hašem) che indicava Dio stesso.

Gesù cambia, anzi, rovescia, qualsiasi volontà identitaria per precludere al Dio cristiano ogni eventuale deriva selettiva e per questo lo chiama: “Padre”. Egli sarà il Dio di tutti gli orfani, i poveri, gli scartati, gli “esposti”, sarà il Dio di tutti i senza-nome! Dei migranti e degli zingari, di tutti quelli che – proprio come Gesù! – non potranno vantare una legge di paternità sulla terra. Di tutti i bambini bisognosi di un padre adottivo, come Giuseppe, il falegname…

Per questo quando i discepoli chiedono a Gesù: “Insegnaci a pregare”, il Maestro insegna loro, innanzitutto, il modo di farlo, il “come” farlo. Essi non pregheranno per ottenere un favore individuale e privato, una simpatia speciale rivolta a quanti, come loro, si professano cristiani; ma chiede una preghiera che sia gola di un grido collettivo, di ogni canto di lamento, di ogni sospiro ed anelito di supplica o speranza che sale dai confini della terra.

Quel Dio sarà il Padre di chi patisce il dolore del male, in tutte le sue amare e mistificate incarnazioni. Se c’è una cosa, infatti, che accomuna – ahimè! – tutti gli esseri umani, è proprio l’esperienza del male. Tutti coloro che ne subiscono l’orrore e il danno, hanno diritto di pregare: “Padre nostro”!

Tutti coloro che non hanno pane, a causa di sistemi economici malvagi, possono reclamare: “dacci oggi il nostro pane”.

Tutti coloro che subiscono persecuzione, ingiustizia, crudeltà, emarginazione; tutti coloro che – per volontà di cattivi governi – non hanno uno spazio dove vivere sulla terra, possono invocare: “Venga il tuo Regno!”.

Grazie al Signore che ci ha dato l’onore di dire: “Padre nostro”! L’ha dato a tutti: bianchi e neri, poveri e ricchi, giusti e peccatori.

Grazie al Signore che ci ha aperto l’Amore del Padre, che ha posto l’orizzonte del suo Cielo davanti ai nostri occhi per scavalcare il buio.

Mentre recitiamo questa preghiera siamo certi che Egli ci esaudirà, ci perdonerà, ci “libererà” da quel male che noi stessi abbiamo fatto – e facciamo ancora… – ai nostri fratelli.

R. Virgili

un commento al ‘padre nostro’

 

“il Padre nostro  come programma di preghiera quotidiana” 

di Robert Cheaib,
docente di teologia,
 laico, sposato e padre di tre figli

Nuova serie di catechesi “Commento al Padre Nostro”. In questo incontro viene presentato il Padre Nostro, non tanto come preghiera, quanto come un programma di preghiera che feconda e orienta la nostra giornata

Appena svegli, iniziamo ad elevare il cuore a Dio, la giornata acquista un gusto diverso, un peso diverso, …”Padre nostro” iniziare con il riconoscimento, sei figlio! Non sei orfano in questo mondo. Iniziare con un segno della croce sapendo che sei abbracciato, dalla testa, dal cuore alle spalle, dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo, cambia la nostra vita …
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