cos’è ‘salvezza’ in un mondo post-moderno?

la «buona notizia» in un mondo postmoderno

a proposito del nuovo libro di Joseph Moingt L’UMANESIMO EVANGELICO

Moingt

 

di Luca Miele
in “Avvenire” del 20 novembre 2015

È un pensiero “pro-vocante” quello del gesuita francese Joseph Moingt. Un pensiero che si appella alla «prassi umanizzata» che deve orientare come una stella la fede, che chiede di disfarsi coraggiosamente del “religioso” e di ridisegnare i confini e il senso stesso del sacro

«Si tratta – scrive Moingt – di riscoprire fino a che punto Gesù ha “umanizzato” Dio. Potremmo dire che la salvezza è nel cammino di umanizzazione dell’uomo, e che è Gesù ne ha dato l’impulso “umanizzando” Dio, insegnandoci a guardare a Dio come al Padre che abbiamo in comune, il Padre di tutti gli uomini, insegnandoci che si onora Dio non frequentando il tempio – Gesù non ha mai portato i discepoli al tempio, comunque non a cerimonie religiose, nel Vangelo non ce n’è traccia -, ma lo si onora rimettendo i debiti, amando i nemici»

Ma se è questa la portata “eversiva” dell’umanesimo evangelico, che ne è del sacro dinanzi alla sua carica dirompente? Fino a che punto esso spezza quel nesso – mortifero – tra sacro e violenza, tra il «linciaggio fondatore », l’ombra del capro espiatorio di cui parla Girard e la comunità religiosa che da esso trae origine? E ancora, fino a che punto l’umanesimo evangelico spinge a ripensare il tempio e la sua pretesa di ‘recintare’, di radicare in un luogo (e solidificare in una prassi) il sacro? Per il gesuita francese «Gesù per primo ha secolarizzato il sacro».

«È importante – scrive il teologo – comprendere che il rito cristiano attribuisce un carattere sacro innanzitutto alla relazione con gli altri perché lo spazio sacro non è quello del tempio materiale. Lo spazio sacro, lo leggiamo soprattutto in Paolo, è il nostro corpo come individui ed è il corpo sociale che formiamo gli uni con gli altri’. Lo spazio sacro è quello che Paolo chiama ‘corpo di Cristo’, cioè l’insieme dei cristiani che si uniscono tra di loro per irradiare la fraternità nel loro ambiente». La sfida dell’uscita dal religioso si fa più pressante (e rischiosa) nel tempo del disincanto, nell’orizzonte post-moderno «svuotato dalla speranza del regno di Dio».

Moingt la affronta in maniera diretta, dura: quale salvezza per la Chiesa? «L’avvenire può essere solo quello del Vangelo», esso «non consiste nell’assicurare innanzitutto la propria sopravvivenza in quanto istituzione religiosa, ma nel permettere al Vangelo di Gesù di passare al mondo attraverso di essa per annunciargli la salvezza, e adempierla». È insomma, sembra suggerire il teologo francese, il tempo del rischio: il rischio radicale del ritorno, della risalita nel tempo fino all’origine della Chiesa, una «nascita fuori luogo e fuori religione» sulle orme di Gesù «morto da bestemmiatore, in stato di esecrazione, fuori religione». «Tutta la predicazione di Gesù – scrive il teologo – è centrata sul regno di Dio di cui annuncia la prossima venuta e anzi la presenza già all’opera nel mondo, e la sua sola preoccupazione è insegnare ai suoi uditori, e innanzitutto agli apostoli che le trasmetteranno ad altri dopo di lui, le disposizioni interiori, le virtù e le opere di giustizia e di santità capaci di incamminarli verso questo Regno»

Joseph Moingt L’UMANESIMO EVANGELICO Qiqajon Pagine 144

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quale identità per l’Europa?

«la vera identità europea è quella del confronto, non dell’odio»

intervista a Massimo Borghesi

massimo

a cura di Andrea Tornielli
in “La Stampa-Vatican Insider” del 19 novembre 2015

«La vera identità europea, quella aperta al confronto, non quella dell’odio», è quella che si ritrova nella «splendida lettera che Antoine Leiris ha scritto ai terroristi, dopo la morte di sua moglie per opera degli attentatori di Parigi»

Lo afferma il filosofo Massimo Borghesi, autore del libro Critica della teologia politica, in questo dialogo con Vatican Insider a partire dai tragici eventi di Parigi, che interrogano l’Europa sulle sue radici, la sua identità e le sue scelte. I terribili attentati di Parigi hanno gettato nel panico l’Europa, soprattutto perché molti Jiadhisti sono nati in Francia, non sono venuti dall’estero. Che cosa significa questo? Com’è stato possibile che l’Europa stessa sia stata l’incubatrice del fondamentalismo? «Le cause per cui migliaia di jiadhisti, provenienti dall’Europa, vanno a combattere in Siria e in Iraq a favore dello Stato Islamico sono sostanzialmente tre. La prima è data dallo sradicamento dei giovani musulmani di seconda-terza generazione, come accade nelle banlieue parigine, rispetto alla società circostante. Come in Accattone di Pasolini, essi vedono la città dalla periferia, non conoscono il centro, se ne sentono respinti. Non sono veramente parte della nazione in cui sono nati. La loro condizione sociale, una scolarizzazione spesso fallita, favoriscono un senso di emarginazione e, quindi, di risentimento verso un mondo, quello europeo, che avvertono come estraneo e ostile. La seconda causa è data dal mondo occidentale odierno, il cosiddetto “mondo liquido” connotato da un individualismo profondo, da un’eclisse parimenti profonda di valori e di ideali, da promesse di vita non realizzabili. A un giovane, che avverte interiormente l’esigenza di valori in cui impegnarsi, l’Europa odierna è in grado di offrire divertissment ma non ideali che muovano verso la solidarietà. In Francia i valori della Republique risuonano, come La marsigliese, solo nell’ora del pericolo. Diversamente non sono in grado di unificare. La religione della Laicité indica un’identità formale che copre il valore polemico delle differenze senza risolverlo. Il terzo fattore che è alla genesi del jiadhismo europeo è l’Islam europeo, l’Islam incontrato in tante moschee europee. Al vuoto spirituale del vecchio continente, alla emarginazione sociale e culturale, il giovane di provenienza araba cresciuto in Europa oppone la scoperta di una fede radicale, totalizzante, mutuata da iman che esportano i dettami dell’Islam più integralista, quello wahabita promosso e finanziato dall’Arabia Saudita». Come definirebbe questo tipo di Islam? «È un Islam essenzialmente politico, teocratico, una religione politica che attrae molti giovani, sradicati e colmi di risentimento, proprio per il successo politico dell’Isis. Ciò che colpisce questi giovani è esattamente quello che provoca in noi orrore: il messaggio di potenza planetaria suscitato dalle immagini delle gole tagliate, dalle vittorie del califfato. L’Isis è il mito di una rivincita dell’Islam e del mondo arabo sull’Occidente, è il sogno di una rivincita che alberga nel risentimento. L’Islam jiadhista è una teologia politica – fenomeno di cui mi sono occupato nel mio volume Critica della teologia politica – che, come tutte le teologie politiche, vive e si nutre della vittoria del Dio degli eserciti. Solo una sconfitta può, in questo caso, provocare una crisi ideale. Le teologie politiche, per loro natura, muoiono nei campi di battaglia». «Siamo in guerra!». Questa è la reazione che sembra essere maggioritaria. La prima risposta è stata un’intensificazione dei bombardamenti sullo Stato islamico: è adeguata? «La risposta non può non essere anche militare con le avvertenze, però, richiamate dal capo della Chiesa siro-cattolica, Mar Ignace Youssif III Younan, e cioè che l’Isis non si sconfigge semplicemente con i raid e con bombardamenti indiscriminati. Il massacro di Parigi ha rappresentato per l’Isis, certamente, una sorta di autogoal. Ha costretto, infatti, gli Stati  fiancheggiatori del califfato, dalla Turchia di Erdogan, all’Arabia Saudita, allo stesso Occidente americano-europeo, a fermarsi. L’utilizzazione dell’Isis in funzione anti-Assad, anti-Iran, anti-Putin, non può più essere tollerata dall’opinione pubblica. L’eccidio parigino, come è stato detto, è l’11 settembre europeo. Solo il Qatar, uno degli Stati più ricchi e più integralisti del mondo, continua il suo sporco gioco finanziando fortemente Daesh. È chiaro che se non si prosciugano i finanziamenti, le importazioni di petrolio, le forniture cospicue di armi, un conflitto non avrà mai fine. Riguardo alla guerra essa va misurata con attenzione. Né Obama né gli europei sono disposti a impiegare truppe di terra, con il rischio di migliaia di morti. Inoltre l’Isis non esiterebbe un momento a prendere in ostaggio intere città, in primis Mosul, in modo tale che la battaglia dovrebbe svilupparsi casa per casa con moltissime vittime civili innocenti. La forma che il conflitto dovrà assumere – con buona pace di Salvini e di coloro che gridano alla guerra – non è quindi chiara. Ciò che è positivo, al momento, è l’accordo trovato tra l’occidente e Putin, dopo anni di contrasto duro. Ciò permette di individuare finalmente il nemico, l’“unico” nemico». Colpiscono le parole con le quali Claudio Magris, all’indomani degli attentati di Parigi, ha riconosciuto la lungimiranza di Giovanni Paolo II che invitava a non fare le guerre in Iraq. Quanto ciò che sta accadendo può essere legato alle scelte compiute nel recente passato dall’Occidente, con le guerre che ha mosso in Medio Oriente e con il finanziamento di gruppi ribelli che si sono poi trasformati nell’internazionale del terrore? «Il giudizio di Magris è prezioso. Molti di coloro che oggi inneggiano alla guerra dell’Occidente contro l’Islam, che utilizzano Giovanni Paolo II e Benedetto XVI contro Papa Francesco, accusato di essere troppo remissivo verso i musulmani, dimenticano che fu proprio Giovanni Paolo II a opporsi strenuamente contro la guerra in Iraq voluta da George Bush jr., a opporsi alla “guerra di civiltà” di chi voleva la crociata dell’Occidente “cristiano” contro l’Islam. Come scrive Magris: “Come era lungimirante l’opposizione di Giovanni Paolo II alla guerra in Iraq, opposizione che non nasceva certo da simpatia per il feroce despota iracheno né da astratto pacifismo, che gli era estraneo perché la sua esperienza storica gli aveva insegnato che la guerra, sempre orribile, è talora inevitabile. Ma il Papa polacco sapeva che sconvolgere l’equilibrio – precario e odioso, ma pur sempre equilibrio – di quella Babele mediorientale avrebbe creato un’atomizzazione incontrollabile della violenza. Come era più intelligente Reagan di quanto lo sarebbe stato anni dopo George Bush Jr, quando, per stroncare l’appoggio di Gheddafi al terrorismo, si decise per un’azione brutale ma rapida ed efficace e non pensò a inviare truppe americane a impantanarsi per chissà quanto tempo nel deserto libico, mentre l’invasione dell’Afghanistan voluta da Bush Jr. sta durando quasi tre volte la Seconda guerra mondiale, senza apprezzabili risultati”. E qui potremmo aggiungere: come era più intelligente Reagan rispetto ai Sarkozy e ai Cameron che hanno rovesciato certo un dittatore ma solo per gettare un paese, la Libia, nel caos più totale, vero brodo di coltura dell’estremismo più radicale». Da che cosa nasce l’estremismo fondamentalista? «In realtà il vero nodo è questo: l’estremismo islamico è il prodotto di due fattori. Il primo è dato da un problema che riguarda direttamente l’Islam contemporaneo, il suo rapporto con la modernità, le libertà civili e religiose. Ne ha parlato, con saggezza, il filosofo Abdennour Bidar nella sua Lettera aperta al mondo musulmano (http://www.gliscritti.it/blog/entry/2895). Non è certo l’unico, epperò nella sua Lettera è come se sintetizzasse tutti i problemi di un occidentale islamico. L’Isis è un mostro che non coincide con l’Islam, con la fede tranquilla di milioni di credenti. E, tuttavia, ha le sue radici in una possibile lettura dell’Islam, quella di matrice wahabita. Una lettura che richiede di essere affrontata “criticamente” se si vuol superare le aberrazioni di fondamentalisti criminali che giustificano il loro operato a partire dalla religione. Allo scopo le semplici dissociazioni o prese di distanza sono auspicabili ma non dirimenti. Così come non aiutano le posizioni di coloro che affermano non esservi alcuna connessione tra l’Islam e la politica. Il problema è più complesso e richiede una vera e propria rilettura della tradizione. Come ha affermato Hocine Drouiche, imam di Nîmes e vice-presidente del Consiglio degli imam di Francia: “Per secoli i musulmani hanno escluso la ragione e la razionalità dalla loro vita religiosa. Nel pensiero islamico moderno vi è una  vera crisi della ragione. Di conseguenza, i musulmani vivono in situazioni paradossali non solo nei confronti dei valori islamici, ma anche dei valori europei”. È questa chiusura, questa dissociazione tra fede e ragione, che genera il fondamentalismo, il fideismo chiuso che vede negli altri i “crociati”, i miscredenti, gli impuri. Il secondo fattore che nel corso degli ultimi 40 anni ha favorito la radicalizzazione dell’Islam è stato l’uso che ne ha fatto l’Occidente, gli Usa in primis, in funzione antisovietica prima, con i Talebeni sostenuti in Afghanistan contro Mosca, e con l’Isis poi in funzione anti-Assad alleato di Putin. Il mostro, come ha riconosciuto Hillary Clinton, è uscito dalle segrete stanze della Cia e del Pentagono, foraggiato dagli alleati arabi filo-americani e dalla Turchia, membro della Nato. Il bambino, cresciuto, è divenuto ora molesto e ingombrante, al punto che i loro artefici non sanno come disfarsene. Nel frattempo centinaia di migliaia di persone sono morte, milioni sono fuggiti, interi Stati sono sprofondati nella miseria e nella disperazione». Secondo lei è in atto uno scontro di civiltà? Che cosa significa per l’Europa, per i suoi valori e la sua cultura, questo confronto con l’Islam fondamentalista? «Certamente il rinnovato confronto con un islamismo aggressivo, che pareva un lontano ricordo del passato, obbliga il vecchio continente a un ripensamento. Dopo l’89 l’era della globalizzazione ha coinciso con un post-modernismo estetico-edonistico-individualistico. La “fine della storia”, profetizzata da Francis Fukuyama, sembrava offrire il panorama della nuova felix aetas, senza nemici né guerre, contrassegnata da affari e divertissement. Poi è venuto l’11 settembre e con esso è tornata la teologia politica (teocon e islamista), il nemico, la guerra. I risultati di quel conflitto li vediamo oggi con il Medio Oriente e il nord Africa allo sbando. Per questo l’Europa, dopo Parigi, non può ripensarsi alla luce di una nuova (o vecchia) teologia politica così come auspicano le destre. La soluzione, l’uscita dal nichilismo postmoderno, non sta nella costruzione di identità affermate in antitesi ad altre, identità dialettiche che ricopiano, nell’opposizione, quella dell’avversario. È questa la via dello “scontro di civiltà”, quella auspicata dal quotidiano “Libero” la cui testata non si è vergognata di titolare, in risposta agli eccidi parigini, “Bastardi islamici”. Una vera e propria incitazione all’odio. Né l’Europa può credere, d’altra parte, che il problema si risolva favorendo lo scioglimento delle differenze. Come nel caso di una gita scolastica annullata dalle autorità della scuola elementare «Matteotti» di Firenze perché prevedeva una visita artistica che includeva un Cristo dipinto da Chagall, nel timore che ciò potesse offendere gli allievi di religione musulmana. Un provvedimento demenziale che dimostra i limiti di un multiculturalismo che, alla prova dei fatti, dimostra di essere incapace di sostenere le diversità culturali. Chi viene o nasce in un Paese deve innanzitutto imparare a rispettarne le tradizioni, gli usi, i costumi, le leggi. È una legge non scritta dei popoli. Né può pensare, machiavellicamente, di simulare in attesa di essere maggioranza. Se non si gradiscono leggi e costumi è bene che si vada altrove. Il Paese che accoglie deve, d’altra parte, favorire le condizioni d’integrazione, in primis attraverso la scuola, il lavoro, l’università. Puntando particolarmente sui giovani. È nell’ambito scolastico, come dimostrano gli istituti cristiani nei paesi arabi che non fanno distinzione di religione, che sorgono amicizie, stima reciproca, rapporti duraturi tra persone di fedi diverse. Qui si costruisce il futuro. Certo, dovrebbero essere scuole mirate al lavoro, non parcheggi, né luoghi di déracinement». Come bisogna reagire, dunque? «Tanto il posmodernismo relativistico quanto l’identitarismo, le due ideologie con cui abbiamo risposto, finora, all’integralismo islamico, hanno mostrato abbondantemente i loro limiti. Abdennor Bidar, nella sua Lettera, afferma che il mondo islamico europeo ha, se lo vuole, le risorse per tirarsi fuori dalle secche a cui l’integralismo lo sta portando. Allo stesso modo, potremmo dire che la vecchia Europa, per quanto disincantata e violentata nelle sue tradizioni, ha le risorse per rispondere in modo non meramente reattivo. La splendida lettera che Antoine Leiris ha scritto ai terroristi, dopo la morte di sua moglie per opera degli attentatori di Parigi, ne è documento: “Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime
morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi”. Questa è la vera identità europea, quella aperta al confronto, non quella dell’odio. La civiltà dell’Europa, quella autentica, è dominata, come ha evidenziato Remi Brague nel suo bel libro Europe. La voie romaine, dalla “secondarietà”, dalla capacità della Roma antica di farsi “seconda” rispetto alla cultura ellenica e del cristianesimo di farsi “secondo” rispetto all’ebraismo. Per questo l’Europa è capace di “integrazione”, non ha bisogno di azzerare la tradizione, la fede, la cultura di coloro che calpestano il suo suolo. Non ha paura dell’altro. Ha il dovere di difendersi ma è anche sufficientemente forte per sopportare le differenze».

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la ‘chiesa in uscita’ sognata dai missionari italiani

per una Chiesa in permanente stato di missione
CONTRIBUTO dei MISSIONARI ITALIANI AL 5°CONVEGNO ECCLESIALE

FIRENZE 2015

Firenze

 

alla nostra chiesa italiana che ha inviato figlie e figli in ogni angolo della terra chiediamo, nonostante le fatiche di questo momento storico, di restare fedele al mandato missionario di Gesù. Sicuri che l’incontro e lo scambio tra chiese sorelle potrà aiutarla e sostenerla nella sua ricerca di un nuovo umanesimo e di vie nuove per annunciare il vangelo in questo nostro tempo.

questo contributo è frutto dell’impegno e della riflessione comune di una grande parte del mondo missionario italiano, convocato dalla Fondazione Missio. Desideriamo offrire alla Chiesa italiana il nostro punto di vista in occasione del 5°Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze. Proponiamo queste nostre riflessioni come figli e figlie della Chiesa italiana impegnati a nome di essa e con essa sui fronti dell’umanità

1. L’esperienza missionaria, realizzata quotidianamente dai CMD, dagli Istituti Missionari e Religiosi, dai Fidei Donum, dai Volontari internazionali e dal Laicato missionario, ha fatto di noi uomini e donne in uscita. Uscire da se stessi, uscire dai propri mondi, dalle proprie visioni, per incontrare l’altro è lo stile del discepolo missionario di Gesù. Uscire è pure il volto di un Dio che, amando l’umanità, esce da sé stesso per incontrarci. Uscire è l’essenza stessa della Chiesa. Noi discepoli e discepole di Gesù siamo chiamati ad uscire sulle strade del mondo per annunciare e testimoniare che siamo figli amati dello stesso Padre. Come ci ricorda spesso papa Francesco, una chiesa ripiegata su se stessa, è una chiesa asfittica, destinata a morire. Il mondo ha bisogno di una chiesa che esce per farsi vicina ad ogni uomo e ogni donna sotto ogni cielo.

2. Il cammino missionario ci ha messo sulle strade della vita e ci ha spinto ad andare alle periferie esistenziali, quelle abitate dagli ultimi, gli scartati dalla società e porli al centro della nostra vita, delle nostre scelte. Cerchiamo di abitare le frontiere, dove l’umano è messo alla prova, di immergerci e di stare nelle periferie. Vivere con gli ultimi e gli impoveriti ci ha permesso di guardare la realtà da un altro punto di vista, scoprendo ancora di più le ingiustizie e le diseguaglianze prodotte  da questa nostra società globalizzante e consumistica, al cui centro ci sono prevalentemente interessi e tornaconti economici. Allo stesso tempo ci ha permesso di sperimentare la potenza umanizzante e liberante del Vangelo di Gesù, che restituisce dignità, voglia di vivere, speranza ai piccoli e ai poveri che lo accolgono.

3. Abbiamo annunziato il Vangelo agli ultimi, ai poveri ed essi ce l’hanno restituito vivo nella buona vita che l’incontro con Gesù ha prodotto in loro, intorno a loro e grazie a loro. Il nostro costruire umanesimo parte dai poveri e si realizza con i poveri. Un nuovo umanesimo può costruirsi ascoltando e riconoscendo umanità sul volto di coloro che la cultura dominante esclude, non vuole vedere o ha paura di incontrare. Una Chiesa in missione è posta in quel nodo complesso tra ricchezza e povertà, ove si gioca il futuro dell’esistenza. Viviamo un mondo da una parte spinto verso il post umano e l’ultra umano e dall’altra un mondo sempre più colmo di disumanità. Per questo non si può non partire dai poveri. Siamo convocati a rivivere il grande sogno di alcuni dei padri conciliari: una Chiesa povera e dei poveri! Una Chiesa che fa della sua missione un dialogo profetico con il mondo, capace sia di ascoltare e denunciare il grido dei poveri sia di incontrare tutti per annunciare la gioia del Vangelo.

4. Il vivere le periferie in Africa, in Asia e in America Latina ci ha fatto sperimentare modi diversi di essere chiesa. Siamo testimoni di novità e del sorgere di nuovi volti della chiesa:
• Una chiesa che si riconosce ‘piccola’, che immersa in questo grande mondo in cambiamento ha più domande che risposte. Una chiesa diaconale che veste il grembiule del servizio, l’abito del suo Maestro. • Una chiesa che apre le sue porte, spalanca le sue finestre e offre la testimonianza di comunità che diventano spazio di accoglienza, ma anche di partenza per l’ascolto, per il servizio, per creare reti di comunione e lavorare insieme. • Una chiesa laboratorio di fraternità ed umanità,  scuola di comunione, capace di creare esperienze di interculturalità e di incontro fra popoli e religioni diverse. • Una chiesa capace di trasformare le secolari parrocchie in Comunità di piccole comunità cristiane, comunità ecclesiali di base, incarnate dentro la realtà, spazio ove si ‘abita’, in cui la fede quotidianamente si trasforma in carità e solidarietà. • Una chiesa ove la grazia che ci è donata e ci trasfigura viene vissuta e sperimentata in celebrazioni vive e partecipate,  anche con l’apporto dei vari ministeri laicali. Celebrazione che sempre diventa festa dell’incontro, del vivere la propria fede e del trovare forza nelle difficoltà, nella persecuzione e anche nel martirio. • Una chiesa di dialogo, che vive l’ecumenismo e il dialogo interreligioso a partire dalla vita, sperimentando la fatica e la gioia di incontrare esperienze religiose diverse e condividendo con loro le lotte per trasformare il mondo affinché tutti e tutto abbiano “vita e vita in abbondanza” (Cfr. Gv 10,10).

5. Nel proporre un nuovo umanesimo sentiamo l’impellente necessità di tornare all’uomo Gesù, alla sua vita, ai suoi gesti, al suo progetto. Rimettendo al centro della vita delle nostre comunità la Parola di Dio, incontriamo Gesù di Nazareth, il Figlio dell’Uomo, il Cristo nuovo Adam, nuova umanità che realizza pienamente il sogno di Dio sognato il mattino della Creazione. La Parola letta insieme, nelle case, in piccoli gruppi, è capace di scaldarci il cuore e di farci compiere i gesti del Regno: condivisione, solidarietà, difesa di chi ha meno, di chi ha solo il diritto di non avere diritti. Una chiesa in uscita è una chiesa discepola, seduta ai piedi di Gesù in ascolto della Parola, che si impregna del Suo annuncio del Regno, progetto di vita piena per tutti.

 

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inno da brividi! … ma anche i nostri non brillano per gentilezza!

l’inno dell’Isis con sottotitoli in italiano
“da te verremo con scempio e morte”

 


la bandiera dello stato islamico

la bandiera dello stato islamico

è all’attenzione dell’intelligence un video con un “inno” dell’Isis sottotitolato in italiano, in cui si minacciano sgozzamenti e “punizioni” varie, che circola sui canali web frequentati dagli estremisti islamici. “Presto, presto” è il titolo della canzone, scovata su internet dal sito Wikilao, che inizia con: “Presto… presto rimarrete sorpresi, come un fulmine a ciel sereno vedrete le battaglie sorgere sulle vostre terre”. Altre frasi cantate recitano: “Mi hai dichiarato guerra con l’alleanza della miscredenza, goditi dunque la mia punizione”; “più a lungo persisterai a combattere, più soffrirai”. Il brano prosegue poi con un’escalation di minacce: “Da te verremo con scempio e morte”, “noi di sangue le ampie strade ricopriamo grazie ai coltelli affilati che tranciano le gole ai cani in raduno quando si ammassano”.

A diffondere la canzone è il Centro Ajnad, che fa riferimento al sedicente Stato islamico.

Isis, l’inno tradotto in italiano: “Più combatterai, più soffrirai”

isis

L’ultimo contenuto pubblicato in internet dall’Isis è un video che in realtà contiene una canzone che inneggia alla violenza di massa nei piani futuri del gruppo terroristico. la scoperta è stata fatta dal sito Wikilao, che ha diffuso immediatamente la notizia ed il video è passato alle mani dell’intelligence e dell’antiterrorismo italiani. Le immagini sono accompagnate da frasi altrettanto forti e di grande carattere minatorio, rivolte agli internauti più sensibili a questo tipo d’intimidazioni. “Presto… presto rimarrete sorpresi! Come un fulmine a ciel sereno vedrete le battaglie sorgere sulle vostre terre”: così canta l’esordio dell’inno, auspicando sventura e morte ai nemici del Califfato autoproclamato. Poi, un’invocazione alla guerra ed ai propositi che ne sostengono le gesta:”Affidiamo ai coltelli il compito di sventrare e sgozzare”, si legge, “che magnifico farlo attraverso un coltello assetato di vendetta!” Tra i bersagli del messaggio, anche i soggetti maggiormente suscettibili al terrorismo mediatico, che si basa proprio sul panico che semplici informazioni (per quanto ipotetiche) possono scatenare e diffondere in tutta la popolazione a partire dalle preoccupazioni di un sono individuo. Si tratta, peraltro, di minacce che l’Isis ha rivolto ad altri bersagli, ma che possono incutere negli internauti lo stesso terrore che i nostri stessi media hanno già in parte diffuso.

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giovani rom immaginano un’Italia migliore

 
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l’Italia immaginata e pensata dai giovani rom e sinti, nel loro manifesto politico

L’IMPEGNO DEI GIOVANI ROM PER IL NOSTRO PAESE

L’Italia di domani pensata, immaginata, raccontata dai giovani. Giovani rom e sinti, ma non solo.
Dal 19 al 21 settembre scorso, ragazze e ragazzi provenienti da differenti parti d’Italia (25 Rom e Sinti, 5 non Rom) si sono ritrovati a Roma per la convention PrimaveraRomanì, una tre giorni di studio e riflessione promossa dall’Associazione 21 luglio nell’intento di incoraggiare la partecipazione attiva delle comunità rom e sinte nel nostro Paese, per far sentire la propria voce contro ogni forma di discriminazione e in favore dei diritti umani

I giovani sono giunti da Roma, Lucca, Torino, Oristano, Vicenza, Cagliari, Mazara del Vallo e Terni. Nel corso della convention, inoltre, i giovani hanno avuto la possibilità di ascoltare le testimonianze dirette di attivisti rom impegnati in altri Paesi europei.
Nei primi due giorni della convention hanno lavorato in gruppi e a seconda delle loro competenze e dei loro ambiti d’interesse hanno partecipato a uno dei quattro tavoli tematici di discussione: casa, giovani, lavoro e scuola. Al termine dei lavori e delle riflessioni, è stato redatto un documento comune, un Manifesto politico, in cui hanno raccontato il Paese che, insieme, vorrebbero contribuire a costruire e che vorrebbe diventare strumento utile per indicare le migliori pratiche necessarie all’inclusione di Rom e Sinti.
Ne abbiamo parlato con Serena Raggi, attivista per l’Associazione 21 luglio e presidente di una piccola associazione che si chiama Famiglia Malaussène.

primaveraCome è andata la convention?
«Sono stati tre giorni di lavoro molto intensi, a cui hanno partecipato rappresentanti delle comunità rom, sinti e anche non rom. Alcuni di origine straniera ed altri italiani. Abbiamo avuto, e ci tendo a sottolinearlo, il sostegno del capo dello Stato, che ci ha mandato una lettera augurandoci di fare un buon lavoro e grazie a questo abbiamo iniziato la convention con uno spirito molto propositivo. Adesso la cosa più difficile è quella di diffondere questo manifesto e far sapere alla gente che abbiamo lavorato per contribuire a combattere tutti quegli stereotipi negativi che circondano l’universo rom. Si sa come vengono trattati questi temi dal mondo dell’informazione: si preferisce insistere sugli aspetti negativi, piuttosto che su quelli in grado di dare un contributo positivo alla società».

Perché avete deciso di realizzare un manifesto politico?
«Abbiamo scelto di realizzare questo manifesto in quanto si tratta di qualcosa di ufficiale, che abbiamo avuto poi la possibilità di portare in una sede istituzionale importantissima quale il Senato. Questa è stata una occasione fondamentale, perché tutte le decisioni importanti vengono prese nell’ambito delle istituzioni, così come quelle che riguardano le comunità rom e sinti».

Di cosa c’è bisogno?
«Ci vogliono dei rappresentati delle comunità rom che partecipino ai tavoli e che siano presenti quando vengono prese delle decisioni che li riguardano direttamente. Il problema fondamentale sta nella conoscenza reciproca e nel fatto che si formulano leggi che si basano più sugli stereotipi che non sulla conoscenza diretta delle persone e delle situazioni. La tristissima vicenda di “Mafia Capitale” è un esempio eclatante. Abbiamo visto quanto si è speculato sul mondo rom. Io mi auguro che al di là di un riscontro politico, che tutti desideriamo profondamente, anche il cittadino comune possa leggere questo documento e venire a sapere che ci sono giovani che vogliono impegnarsi per migliorare questa situazione, perché quello che manca è la conoscenza reciproca. E questo riguarda, ovviamente, anche le comunità rom che, a volte, sono molto sospettose nei confronti della società maggioritaria».

Cosa ti auguri per il futuro?
«Mi auguro che si inizi a parlare dell’universo rom in un modo diverso. Ci sono tanti giovani che lottano per abbattere i molti pregiudizi che circondano le comunità rom Il mondo dell’informazione ha una grossa responsabilità in tal senso. Quando si parla di un italiano che commette un crimine, lo si fa facendo nome e cognome; quando si tratta di un rom, si parla subito dello zingaro. Si arriva in tal modo ad una spersonalizzazione dell’individuo e questo provoca un danno incredibile, al punto che molte persone non vogliono dichiarare di essere rom. Ed è questo il circolo vizioso attraverso il quale si arriva a discreditare tutta una comunità. Nessuno nega che all’interno della comunità rom ci siano tante zone d’ombra; spesso, però, quando si parla dell’universo rom lo si fa basandosi su un immaginario che è ancorato al passato e che non ha più alcun riscontro con l’oggi. Inoltre, nella maggior parte dei casi accade che proprio coloro che parlano male dei rom non hanno mai avuto modo di conoscerne uno. La conoscenza reciproca è fondamentale. Sarebbe importane organizzare tanti eventi al fine di raggiungere una vera condivisione in grado di dare al resto della società una immagine della comunità rom inedita e sconosciuta. A volte basta poco».

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