‘il gigante e la bambina’, no! la bambina e i … poliziotti!

migranti

bambina siriana gioca davanti alla polizia

la foto fa il giro di internet e diventa virale

di

una baby profuga di neanche un anno di origini siriane gattona, in apparenza tranquilla, davanti alla polizia turca schierata sull’autostrada Istanbul-Edirne per bloccare i migranti. Le foto, in contrasto con le immagini di morte e violenza di questi giorni, fanno il giro dei media e dei social. Aprono il sito della Bbc e diventano virali su Twitter. Fino ad ora, la Turchia è il primo Paese al mondo che ha accolto il maggior numero di sfollati provenienti dalla Siria: circa 2 milioni di persone

Pigiamino con pupazzetti, bavaglino, e ricci rossi spettinati: la piccola “gattona” e si guarda intorno con curiosità, poi si siede. Non è al nido o in un giardino, neanche nella sua cameretta, ma sull’autostrada Istanbul-Edirne, davanti a un cordone di polizia.

 

 

 

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vecovi e cattoliconi i nemici di papa Francesco

un papa che mette la freccia

immagine: Unimondo.org

papa Francesco continua imperterrito la sua missione. Il mondo reagisce in modo quasi ovunque positivo, ma… c’è un ma: una parte della solita Italia e una parte della solita Chiesa criticano e nemmeno si sforzano di capire 

Doveva succedere. Sic transit gloria mundi. E come nelle moderne ma migliori tradizioni di un mondo in rete sta succedendo tutto troppo in fretta. Bergoglio lo sa, lo sapeva dall’istante in cui ha deciso di chiamarsi Francesco. Ma continua, anzi, accelera. In molti fanno fatica, alcuni proprio arrancano. E allora, via: dal “Buonasera” al “chi sono io per giudicare persone dello stesso sesso che si amano”, al “la corruzione spuzza”, ostentando lo sguardo sui lussi e la servitù dei propri cardinali, e ancora a un silenzio che vale più di mille parole quando decide di fare davvero pulizia e allontanare definitivamente quei religiosi colpevoli di violenze fisiche e psicologiche su bambini e innocenti.

E ora la frecciata finale: il 13 marzo 2015 (anniversario dell’inizio del suo papato e alcuni, tra cui proprio dei religiosi, già lo accusano di personalizzazione dell’evento) si aprirà un Giubileo straordinario, in tutti i sensi. Sarà un Giubileo nel quale verranno perdonati, al solito, peccati e mancanze, ma con un’attenzione speciale alle donne e al tema, -pelosissimo per ogni Istituzione, figuriamoci per la Chiesa Cattolica -dell’aborto, per il quale Francesco ha stabilito che ogni sacerdote potrà concedere il perdono. Evento speciale dato che, generalmente, tali e gravi peccati possono essere misericordiosamente perdonati solo da mani Vescovili.

Si spiega Francesco, e chiaramente: quello del 2016 sarà un Giubileo speciale, sarà un anno Santo della Misericordia, e deve esserlo per tutti. Per questo il Giubileo verrà anticipato e introdotto da un Sinodo nel quale si discuterà della necessità di cambiare l’assetto della Santa Sede sui temi della sessualità, della famiglia e dell’aiuto al prossimo, che deve essere meno annunciato e più palpabile.

Alcuni Vescovi e Cardinali, i quali tanto avevano gioito del ritorno, con Papa Benedetto XVI, ad un modo aulico di presentare la Chiesa e il Suo potere al mondo – tutti ricordiamo camauri di zibellino, scarpe di vitellino rosso fuoco, paramenti degni del peggior Richelieu – storcono il naso e, in alcuni casi, sbottano, come recentemente ha fatto il cardinale del Wisconsin Raymond Burke che, parlando con i giornalisti, ha sottolineato come “i poteri del Papa non siano assoluti” e come “un Papa che parla di certi temi – leggi omosessualità e concessione della comunione ai divorziati – rischi di essere un Papa che fa del male alla Chiesa”. Questo messaggio, tradotto dalla lingua degli ecclesiastici al volgare idioma con cui noi comuni mortali ci esprimiamo, suona come una vera e propria dichiarazione di guerra ad un Papa troppo liberale e poco ortodosso.

Ma Francesco va avanti e, elemento che spaventa e sconvolge una Curia abituata a comandare, condizionare e spesso nascondere e decidere – IOR e Marcinkus richiamano un universo parallelo dove alcuni religiosi di alto livello ancora credono di poter tornare – decide in prima persona senza consultare nessuno, non aspetta, scrive, parla e comunica con i moderni mezzi meglio di chiunque altro. Per molti Cardinali “vecchio stampo” o forse vecchi e basta, è l’incarnazione del peggiore degli incubi: il Papa nero Gesuita vestito di bianco, il cocciuto argentino che gira senza scorta e guida la macchina, l’uomo che si fa risuolare le scarpe e cambiare le lenti su una montatura vecchia per non gettare via soldi.

E’ troppo umano, troppo senza filtri, troppo amato, troppo semplice. E allora via con la diffamazione, il discredito, i sorrisini ironici che tanto colpirono, forse fino a farlo morire (ma l’ipotesi di un avvelenamento è tutt’altro che remota) un altro Papa, quel Giovanni Paolo I che parlava di Gesù come una dolce Madre e di se stesso come un parroco.

Accanto al mondo curiale si scatenano anche una parte della stampa e della politica. Il giornalista Antonio Socci si è schierato fin dall’inizio contro Bergoglio (suo il libro dal titolo “Non è Francesco”) colpevole a suo dire di scagliarsi contro i difetti dei cattolici invece che consolarli e ha recentemente analizzato a suo modo l’avvento del Giubileo criticando il protagonismo papale e affermando che il Papa è un confusionario che si appresta a concedere l’indulgenza dai  peccati senza mai nominarla e descriverla e risultando a conti fatti meno propenso a perdonare, e quindi meno moderno, addirittura di Pio IX (un Pontefice che nel 1875  ancora asserragliato in Vaticano in seguito alla presa di Roma da parte del Regno d’Italia era stato sorpreso dagli eventi e si trovava in difficoltà nel rapportarsi alla storia che al di fuori delle sacre mura seguiva il suo corso).

Sul fronte politico, protagonista indiscusso dei proclami contro il buonismo dei benpensanti e della misericordia papale, è da ormai un annetto Matteo Salvini, il quale, nel tentativo di divenire il nuovo leader della parcellizzata e frantumata destra italiana si rifà ai Le Pen – e più che altro fa pena – e invita tutti, vomitando odio e razzismo sui social, a “portare i profughi, in maggioranza delinquenti e terroristi, a casa loro”. E cosa ti combina Francesco? Lo prende in parola e, spiazzandolo, invita parrocchie e ordini religiosi ad aprire le braccia e a raccogliere, come Cristo insegna, gli ultimi e i bisognosi, rinfocolando pareri discordanti e accendendo nuove critiche ma anche tentando di riattualizzare il sistema Chiesa e il suo stare e muoversi nella realtà quotidiana.

E’ difficile, la strada scelta da Francesco, perché usa linguaggi nuovi in relazione ad un mondo curiale, politico e laico ancora troppo ancorato al Novecento e incapace di declinarsi, nonostante un massiccio uso di Facebook e Twitter, ai veri cambiamenti che la società sta affrontando. Lui lo ha capito e si adegua: leggendo la proclamazione dell’ Anno Santo alcuni vaticanisti hanno sottolineato come il Papa usi la parola indulgenza come sinonimo di grazia del Giubileo. Socci non l’ha capito, Salvini e i fascisti nemmeno. Ma gran parte del mondo, fortunatamente, sì. 

Fabio Pizzi 

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il commento al vangelo della domenica

IL FIGLIO DELL’UOMO VIENE CONSEGNATO …

SE UNO VUOLE ESSERE IL PRIMO, SIA IL SERVITORE DI TUTTI  

commento al Vangelo della domenica quindicesima domenica del tempo ordinario (20 settembre 2015) di p. Alberto Maggi

p. Maggi

Mc  9, 30-37

[In quel tempo] Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

Tutti i brani del Vangelo di Marco che stiamo esaminando in queste domeniche sembrano avere un dato in comune: la difficoltà di Gesù con i suoi discepoli. Non ne vogliono sapere di comprendere chi egli sia e quale sia il suo programma.
Anche questa volta leggiamo il Vangelo e vediamo che Gesù attraversa la Galilea e sta dando un prezioso insegnamento. “Il Figlio dell’uomo” – Figlio dell’uomo è un’espressione che indica l’uomo che raggiunge la sua pienezza ed entra nella condizione divina; Gesù è il Figlio di Dio in quanto rappresenta Dio nella sua condizione umana, ed è il Figlio dell’uomo in quanto raffigura l’uomo nella sua condizione divina . Quindi il Figlio dell’uomo è l’uomo che ha la condizione divina.
“Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini”. Ecco c’è un’opposizione tra il Figlio dell’uomo, colui che ha la pienezza, e gli uomini, quelli che non aspirano a questa pienezza. E sono questi che lo rifiutano, lo uccidono, “ma, una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà”.
Quindi è un insegnamento serio, un insegnamento drammatico, ed è un insegnamento chiaro. Gesù non sta parlando in parabole. Però, scrive l’evangelista, “Essi non capivano queste parole”.
Abbiamo visto già nell’episodio della guarigione del sordo, che non si tratta di problemi fisici, ma di problemi interiori – “non c’è peggior sordo di chi non vuol capire”. L’ideologia nazionalista, il loro ideale di successo è tale che impedisce loro di comprendere le parole molto chiare di Gesù.
“Ma avevano timore a interrogarlo”, perché hanno paura che Gesù confermi quello che loro hanno capito, quindi è vero, capivano ma non accettavano. Quindi non è che non capivano, non accettavano quello che Gesù diceva.
“Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa” – quindi la casa palestinese – Gesù li interrogò. Loro non vogliono interrogare ed è Gesù che interroga loro, “e chiese loro: «Di che cosa stavate discorrendo per la strada?». Ecco, questa indicazione ‘per la strada’ è sintomatica, ‘per la strada’ è il luogo della semina infruttuosa. ‘Per la strada’ il seme viene gettato per terra, ma vengono gli uccelli e subito lo raccolgono. E Gesù, spiegando queste immagini, diceva che era il Satana che rendeva inutile la parola. L’immagine del Satana in questo Vangelo è l’immagine del potere, del successo.
“Ed essi tacevano”. Tacciono perché hanno il senso di colpa perché sanno che hanno fatto qualcosa che Gesù non approva. “Per la strada infatti avevano discusso” – Gesù ha chiesto di cosa stessero discorrendo, invece loro hanno discusso, quindi un discorso animato – “tra loro chi fosse più grande”, il più importante.
E’ questo il tarlo che rode i discepoli, l’idea di grandezza, l’ambizione di essere uno il più importante degli altri.
“Sedutosi”, quindi Gesù si siede nella posizione di colui che insegna, “chiamò i Dodici”. E’ strano, è una casa, una casa palestinese, non è molto grande, perché Gesù deve chiamare? L’evangelista avrebbe dovuto scrivere: ‘Gesù disse …’, invece Gesù li deve chiamare. Perché? I Dodici lo seguono, ma non lo accompagnano, non gli sono vicini interiormente. Gli sono vicini fisicamente, ma la loro mentalità è lontana.
Gesù è il Dio che per amore si mette a servizio degli uomini. Gesù ha detto che il Figlio dell’uomo non é venuto per essere servito, ma per servire, loro invece pensano soltanto a comandare. Ecco perché li deve chiamare i Dodici, perché sono lontani.
“E disse loro – loro hanno discusso chi vuol essere il più grande e Gesù non accetta, ma accetta che nella comunità ci sia il primo. Il primo significa il più vicino a lui  – “se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”. Quindi nella comunità non idee di grandezza, non c’è nessuna persona più importante, più grande, ma sì ci sono persone più vicine a Gesù. Quali sono? Quelle che si mettono a servizio di tutti. Quelli che, liberamente e volontariamente, mettono la loro vita a servizio degli altri.
Mentre i Dodici li ha dovuti chiamare, “Gesù, preso un ragazzino” – è l’individuo che sta accanto a lui, ci si chiede cosa facesse questo ragazzino in questa casa con i discepoli. Il termine adoperato
dall’evangelista indica un individuo che, per età e per ruolo nella società è il meno importante di tutti; potremmo tradurre con il termine ‘garzone’.
Questo garzone, questo ragazzino, è l’immagine del vero seguace di Gesù, di quello che s’è fatto ultimo, fra tutti.
“Lo pose in mezzo”. In mezzo è il posto di Gesù, ebbene al posto di Gesù, il Signore mette questo individuo che si mette a servizio degli altri. “Abbracciandolo”, Gesù si identifica con costui, Gesù si identifica con l’ultimo della società.
“E disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi ragazzini”, di questi garzoni, quindi non si tratta di bambini o di ragazzini qualunque, ma di questi, cioè l’immagine del discepolo che veramente si mette a servizio degli altri; “nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”.
Gesù garantisce che dove c’è un individuo che per amore, liberamente e volontariamente, si mette a servizio degli altri, in questo individuo si manifesta la presenza di Gesù e la presenza di Gesù porta quella di Dio stesso.
L’uomo che si mette a servizio è l’unico vero santuario dal quale si irradia l’amore di Dio.

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altri nove nuovi comuni di Lucca accolgono i profughi

70 profughi trasferiti dal campo delle Tagliate

migranti-tuttacronaca

 

 la Prefettura di Lucca, con l’ausilio della diocesi, ha coinvolto 9 nuovi comuni della provincia che fino ad ora non avevano ospitato profughi, riuscendo a trasferire 70 migranti ospitati nel campo di prima accoglienza della Croce Rossa in via delle Tagliate

E’ iniziata la fase di alleggerimento del campo di accoglienza per migranti di via delle Tagliate, con il trasferimento di 70 ospiti in strutture comunali sparse in tutta la provincia. La prefettura, come preannunciato nei giorni scorsi, ha coinvolto la quasi totalità dei comuni  trovando, anche grazie all’ausilio della Diocesi di Lucca, 70 posti letto e riuscendo a coinvolgere anche numerosi comuni versiliesi, che in un primo tempo erano stati accusati di  scarsa collaborazione rispetto al tema dell’accoglienza.

Le nuove disponibilità riguardano i comuni di Barga, con 12 posti, Camaiore con 8 Capannori con 5, Massarosa con 11, Pieve Fosciana con 6, così come Porcari. Seguono Vagli di Sotto con 8 posti e Forte dei Marmi e Viareggio con 10.

Restano ancora da sciogliere i nodi dei comuni che ancora non hanno dato disponibilità di posti, primi tra tutti Altopascio, Montecarlo e Pietrasanta, e per i quali la Prefettura sta ancora mediando per riuscire a riportare la struttura di via delle Tagliate ad un massimo di 60 persone smistabili in pochi giorni.

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i miracoli a volte capitano anche … all’inferno

le eroiche aziende che hanno rifiutato di vendere il pericoloso nastro spinato per il muro anti migranti dell’Ungheria 

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rifiutato un ordine commerciale perché ferire un bambino sarebbe stato vergognoso

Le eroiche aziende che hanno rifiutato di vendere il pericoloso nastro spinato per il muro anti migranti dell'Ungheria

 per cingere il confine con la Serbia attraversato dai migranti il governo Orban ha ordinato circa 10 mila bobine di nastro spinato, il più pericoloso dei fili spinati. Due aziende tedesche hanno però rifiutato la commessa, perché ferire i bambini che attraversano la frontiera con i loro prodotti sarebbe stata una vergogna.

L’esatto importo dell’ordine è sconosciuto, ma sicuramente sarebbe stato uno degli affari più ricchi dell’anno. Due imprese tedesche, Mutanox e un’altra azienda che ha preferito rimanere anonima, hanno rinunciato a fornire all’Ungheria diverse migliaia di bobine di filo spinato per realizzare il muro anti migranti. Il governo magiaro ha chiuso ermeticamente il confine con la Seria stendendo una barriera ricoperta di nastro spinato, un particolare filo spinato particolarmente pericoloso per gli uomini e gli animali. In tedesco si chiama filo Nato perché con questo materiale sono state realizzare le recinzioni per proteggere le basi militari dell’Alleanza atlantica. Il nastro spinato è utilizzato per fermare atti criminali, ha spiegato Mutanox a Die Welt, non per fermare uomini e bambini che scappano. La migrazione o la fuga dalla guerra non sono atti criminali , e per questo motivo è stata rifiutata la commessa dell’Ungheria. Il capo azienda di un’altra impresa tedesca, che preferisce non rivelare la propria identità, contattata dalle autorità magiare ha rimarcato come l’ordine avrebbe dovuto essere consegnato in poco tempo, e di conseguenza sarebbe stato soddisfatto con grande difficoltà.

“Col senno del poi siamo contenti di non aver ricevuto questa commessa. I bambini imprigionati nel nastro spinato sono una vergogna.

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è morto mons. Tommasi, il vescovo dei sinti

un uomo buono

un pastore che ‘odorava delle sue pecore’

un vescovo che ha voluto bene ai più ‘piccoli’ della sua pastorale, in modo particolare ai sinti del campo nomadi di Lucca

 

 

è morto l’arcivescovo emerito Bruno Tommasi

 l’arcivescovo emerito Bruno Tommasi è morto questo pomeriggio all’ospedale Versilia. Aveva 85 anni. Era stato arcivescovo di Lucca dal 1991 al 2005

se n’è andato il vescovo emerito Bruno Tommasi. E’ spirato all’ospedale Versilia, dove era ricoverato a causa delle sue condizioni di salute, peggiorate negli ultimi tempi.
Tommasi era nato a Montignoso nel 1930. Aveva compiuto gli studi nel seminario arcivescovile di Lucca e nel 1958 era stato ordinato presbitero dall’arcivescovo Antonio Torrini.
Ha ricoperto gli incarichi di direttore spirituale e poi rettore del seminario di Lucca, nonché priore della parrocchia di Sant’Anna fino al 1983, anno in cui Giovanni Paolo II lo nomina vescovo di Pontremoli
Il 20 marzo 1991 ancora papa Wojtila lo nomina arcivescovo di Lucca. Rimarrà alla guida della chiesa lucchese fino al 2005, gli ultimi due anni insieme all’attuale arcivescovo e suo successore, monsignor Italo Castellani.
Don Bruno è stato anche un grande amico della nostra emittente che ha ospitato per anni i suoi interventi nella rubrica ‘Parla il Vescovo’. Ed è stato soprattutto benvoluto da tutti i lucchesi.

 

 

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anche i frati cappuccini si muovono sui migranti

il Ministro generale dei frati cappuccini, fr. Mauro Jöhri, convoca un incontro di emergenza circa la crisi dei rifugiati in Europa per il 15-17 ottobre, a Frascati, Romaministro generale

 

 

lettera del ministro generale dei frati acappuccini sul problema dei migranti

 

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un corso universitario per il contrasto all’antiziganismo

l’Università degli Studi di Verona attiverà nell’AA 2015-2016 il Master universitario di I livello in “Studi rom per il contrasto all’antiziganismo”

Piasere

il Master, che avrà una durata annuale con frequenza biennale part-time (da gennaio 2016 a settembre 2017), per un totale di 60 cfu, è organizzato dal Centro di Ricerche Etnografiche e di Antropologia applicata “Francesca Cappelletto” (CREAa).

Il CREAa opera a livello locale, nazionale ed europeo; è un Centro di eccellenza in Italia per le ricerche sulle società e culture rom e per gli studi sull’antiziganismo. Da anni presso il CREAa è attivo il “Seminario avanzato di Studi culturali rom”, che riunisce ogni anno ricercatrici e ricercatori rom e non-rom a livello internazionale. Il Master offre una formazione specifica a personale che già opera, o opererà, in ambiti in cui è importante la presenza/partecipazione/rapporti di/con Rom e Sinti: scuola e altri servizi educativi, servizi sociali, servizi socio-sanitari, volontariato sociale, amministrazioni pubbliche, aziende pubbliche e private; parrocchie; associazioni culturali; giornalismo; istituzioni di sicurezza pubblica; servizi giudiziari, partiti politici, organizzazioni sindacali. Il Master propone anche una formazione specifica a giovani Rom e Sinti impegnati in associazioni di tutela dei diritti umani, sociali e culturali. Per questo, il Master prevede due binari formativi strettamente collegati: 1. sviluppa conoscenze antropologiche sulla storia, società, letteratura e lingua di Rom e Sinti in vista della valorizzazione del loro patrimonio culturale; 2. offre conoscenze sulla storia, la psicologia, la politica e la pratica dell’antiziganismo in vista di una sua decostruzione ragionata e critica e della costruzione di competenze antropologiche, psicologiche e giuridiche per contrastarlo. ll Master può essere speso come valore aggiunto per coprire varie cariche di responsabilità in enti pubblici e privati per interventi su/per/fra/con i Rom e i Sinti. L’antiziganismo è una delle forme più diffuse del razzismo europeo contemporaneo, anche se resta una delle meno consapevoli e delle meno studiate, e nel nostro Paese esso è particolarmente virulento. Riteniamo, pertanto, che l’istituzione di un Master in Studi rom per il contrasto all’antiziganismo, unico nel suo genere nel panorama universitario italiano ed europeo, possa essere di ampia utilità sociale e professionale.
Master Studi rom per il contrasto all’antiziganismo_locandina

Master Studi rom per il contrasto all’antiziganismo_pieghevole

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don Ciotti ricorda don Pino Puglisi

don Pino Puglisi

il ricordo di don Luigi Ciotti

«Era uno che non si era incanalato, che faceva di testa sua». «Predicava, predicava, prendeva ragazzini e li toglieva dalla strada… Martellava e rompeva le scatole».
Queste parole di Gaspare Spatuzza e di Giovanni Drago, mafiosi divenuti collaboratori di giustizia, basterebbero a spiegare, nella loro rozza schiettezza, perché don Pino Puglisi è stato ucciso.
Ma sono molto lontane dal dire chi davvero fosse don Pino Puglisi, da cosa nasce quel “rompere le scatole” che lo avrebbe esposto alla vendetta del crimine mafioso.
È quello che cerca di fare questo libro di Francesco Deliziosi. Libro bello e importante perché, con mirabile sintesi, riesce a fondere il “soggettivo” e l'”oggettivo”. Deliziosi scrive infatti sia in base alla conoscenza diretta – è stato amico e allievo di Puglisi – sia in base a una profonda, rigorosa documentazione (ha fatto parte, tra l’altro, della commissione preposta a raccogliere il materiale per avviare il processo di beatificazione di Puglisi).
Chi era dunque don Puglisi?
Del ritratto di Deliziosi mi hanno colpito alcuni aspetti e di questi vorrei parlare. Con un’avvertenza, però. Isolare questi aspetti senza coglierne la profonda continuità sarebbe un grave errore di prospettiva. Come tutte le persone restie a fare della propria coscienza un luogo di eterna mediazione e contrattazione, Puglisi imprimeva a tutto ciò che faceva il senso della ricerca e del bisogno di verità. Se era un “rompiscatole”, era perché le scatole le rompeva innanzitutto a se stesso, perché non si accontentava di “fare”, ma voleva fare bene, con rigore, coerenza e serietà.
Il primo aspetto che salta agli occhi è quello dell’educatore. Don Puglisi aveva – lo dicono in tanti – un talento raro nell’educare. Il che significa che il suo insegnamento era fondato sull’ascolto e sul comportamento, più che sulle parole. Non gli interessava tanto trasmettere nozioni, quanto che le persone diventassero capaci di scegliere con coscienza e responsabilità. Ossia che fossero libere. In questo senso, educare per lui era davvero accompagnare ciascuno a scoprire la propria diversità, con pazienza e delicatezza, senza pressioni né condizionamenti, stimolando quel confronto con le grandi domande della vita senza il quale la nostra libertà è ridotta a capriccio, arbitrio, semplice sfogo di impulsi.
Che tutto ciò portasse a esiti diversi dall’abbracciare la fede, non era affatto per don Puglisi segno di sconfitta. Per lui contava che le persone imparassero lo stupore e la conoscenza, capissero che è l’io in funzione della vita e non la vita in funzione dell’io. In quella dimensione avrebbero trovato, anche da laici, il loro modo di credere e di vivere. «Nessun uomo è lontano dal Signore – scrisse un giorno meravigliosamente – Lui è vicino, senz’altro, ma il Signore ama la libertà. Non impone il Suo amore, non forza il cuore di nessuno di noi. Ogni cuore ha i suoi tempi, che neppure noi riusciamo a comprendere. Lui bussa e sta alla porta».
Questa ricchezza umana e apertura di vedute don Pino la portò anche dentro la Chiesa. Ancora giovane, negli anni Sessanta trovò nel Concilio la risposta ai sentimenti e alle intuizioni che turbavano il suo cuore. E se la Unitatis Redintegratio del 1964 sottolinea che «la Chiesa pellegrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui essa stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno», la vita di don Puglisi sembra incarnare questo spirito inquieto, teso a una continua riforma di sé, disposto ad accettare con fiducia e coraggio le sfide anche ardue che gli si pongono innanzi.
Così quando questo vivere la fede ritenuto da alcuni troppo “moderno” costa al giovane prete il trasferimento a Godrano, paesino di mille abitanti a circa 40 chilometri da Palermo, don Pino non si scompone più di tanto. E agli amici che protestano contro un provvedimento sentito come una punizione, risponde col suo sorriso mite: «Non sono figli di Dio anche questi uomini di Godrano?».
Inevitabile il richiamo alle parole che don Milani scrisse alla madre da Barbiana: «Non c’è motivo di considerarmi tarpato se sono quassù. La grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, e neanche le possibilità di fare del bene si misurano sul numero dei parrocchiani».
Le due situazioni presentano però una differenza di fondo. Se infatti a Barbiana don Lorenzo trova una comunità da condurre con totale dedizione sul cammino della conoscenza e del riscatto sociale, a Godrano don Pino s’imbatte in una realtà chiusa, diffidente, segnata da una lunga e sanguinosa faida fra famiglie. In quel paesino incastonato nelle Madonie sperimenta sulla propria pelle la forza di una mentalità – quella della vendetta e di un malinteso senso dell’onore – che, anche quando è strettamente legata alla mafia, le offre un terreno fertile per radicarsi. E che può trovare indiretta sponda in forme di religiosità confinate nel «chiuso della sacrestia e di pratiche devozionali e bigotte». Per don Pino, tuttavia, è una ragione di più per rimboccarsi le maniche, e anche a Godrano saprà stanare la speranza in cuori induriti dall’odio e dal pregiudizio, suscitando negli adulti il desiderio del perdono e della riconciliazione, nei giovani un’idea di convivenza non riducibile alle mura di casa o all’appartenenza al proprio clan.
Ecco allora che il rientro a Palermo e il successivo ritorno nella natia Brancaccio sono per Pino l’occasione per continuare con maggior forza il cammino intrapreso: da un lato i percorsi educativi – «perché con i bambini e gli adolescenti si è ancora in tempo» – dall’altro il concepire la parrocchia, prima che come un luogo di culto, come uno strumento di promozione umana e sociale, strumento di una Chiesa più aperta, più “periferica”, più vicina ai poveri, più attenta alle questioni sociali. I cui pastori non dimenticano certo la dottrina, ma sanno che essa non può sostituire la costruzione del bene e la ricerca impervia della verità. «Il sacerdote di domani – ha scritto Karl Rhaner, il grande teologo conciliare che fu uno dei riferimenti di Puglisi – sarà un uomo che sopporta la pesante oscurità dell’esistenza con i suoi fratelli e sorelle. Il sacerdote di domani non sarà colui che deriva la propria forza dal prestigio sociale della Chiesa, ma che avrà il coraggio di far sua la non-forza della Chiesa».
Il libro racconta nei dettagli le tante iniziative che questo piccolo grande prete ha saputo mettere in piedi negli anni del suo ritorno a Palermo, il suo affanno e la sua costante rincorsa al tempo, rubato al sonno e perfino al cibo (se non riusciva quasi mai a essere puntuale, don Puglisi, era perché prima lo era stato con tante, con troppe persone…). Racconta il suo caricarsi delle speranze e delle istanze di giustizia di tanta gente ma anche il suo promuovere l’impegno collettivo, la collaborazione con altre realtà ecclesiali e civili, perché «se ognuno di noi fa qualcosa, allora si può fare molto».
E ci si chiede, leggendo queste pagine, come un’attività così frenetica e incisiva (e tuttavia discreta: Puglisi era un uomo schivo, che rifuggiva ogni protagonismo) potesse non finire nelle mire dei boss e di quanti vogliono mantenere le comunità sotto una cappa d’ignoranza, di miseria, di fatalismo. Mire – duole dirlo – che si sono avvalse nel passato anche di sottovalutazioni e perfino compromissioni in ambito ecclesiastico, prima che le nette parole di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, i martirî di don Puglisi e di don Peppe Diana, evidenziassero l’incompatibilità della mafia con lo spirito del Vangelo, con l’amore di Gesù per i poveri, i miti, i perseguitati.
Molti hanno cercato di dare una definizione all’attività pastorale di don Pino. Nel mio piccolo voglio sottolineare come la definizione “prete antimafia” sia sbagliata non solo perché ogni definizione, sia pure attribuita con le migliori intenzioni, impoverisce la complessità di una vita. Ma perché Puglisi aveva capito che il problema non è tanto la mafia come organizzazione criminale (se così fosse basterebbero la magistratura e le forze di polizia) quanto la mafiosità, il mare dentro cui nuota il pesce mafioso. L’assassinio di don Pino Puglisi ci ricorda che sconfiggeremo le mafie solo quando saremo capaci di fare pulizia attorno e dentro di noi, quando supereremo gli egoismi, i favoritismi, i privilegi e l’inevitabile corruzione che questo modo d’intendere la vita porta con sé. Solo quando avremo il coraggio di riconoscere anche le nostre responsabilità, responsabilità non solo dirette ma indirette, riferibili a quel peccato di omissione che consiste nell’interpretare in modo restrittivo e puramente formale il nostro ruolo di cittadini.
In tal senso la beatificazione di don Pino Puglisi è, paradossalmente, una “spina nel fianco” per tutti noi. Non solo per una Chiesa chiamata più che mai, nell’attuale crisi mondiale, a saldare il Cielo e la Terra, la dimensione spirituale con l’impegno per la giustizia sociale. Ma per chiunque, cristiano o laico, si senta chiamato a contribuire alla costruzione della speranza già a partire da questo mondo.

don Luigi Ciotti

prefazione scritta da don Luigi Ciotti al libro“Pino Puglisi il prete che fece tremare la mafia”

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