italiani brava gente?

“Noi italiani, popolo di emigranti senza cultura dell’ospitalità”

intervista a Giovanni De Luna

De Luna

a cura di Mattia Feltri in “La Stampa” del 20 luglio 2015

Professor Giovanni De Luna, la ribellione di molti italiani agli immigrati è razzismo? «Credo che l’essenza del razzismo sia nell’umanità vista attraverso un concetto gerarchico, nell’individuazione di uomini inferiori da parte di uomini che si dicono superiori non soltanto per il colore della pelle, ma per l’etnia, per la cultura, per l’appartenenza ideologica o religiosa».

Lei crede che gli italiani si sentano superiori?

«Dico che non tutti gli uomini sono messi su un piano di parità: quante volte sentiamo dire che noi siamo meglio di loro? Questo è razzismo. C’è anche altro, c’è uno slogan che rende l’idea: ognuno è padrone a casa propria. È uno slogan che dà l’idea di una concezione esclusivista, del rifiuto di includere il diverso. E che cosa possiamo aspettarci se descriviamo l’Italia come una fortezza assediata? C’è una netta separazione fra noi e loro che nasce da una paura del confronto».

E da che cosa dipende tutta questa paura? Non può essere soltanto autosuggestione. «Ci sono importanti ragioni culturali. Negli ultimi venti anni siamo stati scaraventati dentro un mondo globalizzato che ha scardinato tutte le nostre certezze, si è sbriciolato lo stato nazionale, sono stati cancellati i confini. Si fa fatica a trovare la bussola. E si reagisce con paura. Pensate alla Lega degli esordi, quella degli anni Ottanta…».

Ma quella era una Lega ostile al centralismo e che voleva staccarsi dall’Italia per essere europea.

«Naturalmente, era la Lega dei padroncini del nord est che dovevano confrontarsi con la fine del Novecento e dei suoi punti di riferimento, con l’avvento della dimensione immateriale del commercio. E come reagivano? Con paura e odio. Si diceva “Roma ladrona”. C’era un forte razzismo verso i meridionali additati come causa di ogni nostro male, e fino all’altro ieri: ricordate il video in cui Matteo Salvini dà ai napoletani dei terremotati e dei colerosi?».

Oggi non è soltanto la Lega.

«No, ci sono anche gruppi di estrema destra come Casa Pound e Forza Nuova. Ma ricordo una recente campagna elettorale del centrodestra (Politiche e Amministrative 2008, ndr) tutta puntata sulla sicurezza. Sono imprenditori della politica per i quali la paura è diventato un capitale da spendere. E poi c’è un altro problema: non abbiamo nessuna tradizione di ospitalità, noi italiani siamo sempre partiti, siamo emigranti».

Tutta colpa della destra?

«Non soltanto. La classe politica nel suo complesso offre una sensazione di inadeguatezza. Le reazioni degli italiani in questi giorni dipendono da una paura che discende dal pregiudizio e il pregiudizio è nemico della conoscenza. E come si fa a scalzare il pregiudizio? Confrontandosi con la realtà e non con la sua rappresentazione. Guardate, non sono dinamiche nuove: ricordo che quando ero bambino si leggevano sui giornali del nord titoli come “donna scippata da un meridionale”. Però allora c’erano strumenti di integrazione formidabili. A Torino c’era la Fiat, dove lavoravano 60 mila operai, moltissimi del sud, che conoscendosi hanno superato il pregiudizio».

Professore, poi c’è il terrorismo islamico. C’è la criminalità.

«La criminalità non è aumentata, lo dicono tutte le statistiche. Poi, certo, davanti al terrorismo islamico chiunque di noi si schiera sul canale di Otranto perché nessuno passi. Però le immagini di decapitazioni o quelle dei ragazzini che giustiziano i prigionieri sono terribili ma anche produzioni da set televisivi. Non c’è più niente di arcaico. E poi mi viene in mente la testa di Abuna Petròs, il capo supremo della chiesa copta in Etiopia che nel 1936 fu decapitato dagli italiani, e la sua testa esposta dentro una scatola di biscotti Lazzaroni».

Dunque è un abbaglio collettivo.

«Attenzione, ci sono problemi reali. Penso ai rom. Certo che i rom rubano, ma la nostra reazione si limita a due stereotipi, uno secondo cui tutti i rom rubano e l’altro secondo cui tutti i rom sono buoni».

L’incontro fra noi e gli immigrati porterà alla conoscenza e alla fine del pregiudizio? «Lo spero. Abbiamo un tessuto civile che mi rende ottimista. A Ventimiglia c’era un contrasto straordinario fra l’inettitudine delle istituzioni europee e i volontari che portavano ombrelloni, acqua e cibo agli immigrati accampati sugli scogli».

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Ovadia e l’abolizione universale del permesso di soggiorno

la nuova dichiarazione universale

di Moni Ovadia
in “il manifesto” del 22 luglio 2015

Ovadia

Gli scorsi giorni hanno visto in Italia l’asfittico ripetersi del ciclo monotono «emergenza migranti», guerra fra poveri, strumentalizzazioni delle destre, nella fattispecie, Lega, Casa Pound, Fratelli d’Italia. Il ciclo ricalca uno schema che ha già dato ampie prove di sé nel corso di tutto il Novecento. Questo schema si nutre sempre dello stesso veleno: negativizzazione e criminalizzazione dell’altro in quanto tale. Questo risultato si ottiene attraverso meccanismi retorici di falsificazione, di generalizzazione, attraverso la dilatazione e la manipolazione strumentale di dati statistici, attraverso la propagazione di allarmi sociali, l’evocazione di paure irrazionali e la contrapposizione ancestrale fra il noi e il loro come antagonismo fra il legittimo e l’illegittimo, fra la titolarità e la clandestinità. Da questo schema è espunto lo statuto universale di dignità dell’essere umano. La politica sta all’interno di questo circuito perverso o per sopravvivere alla prossima cosiddetta emergenza o per parassitare qualche vantaggio elettorale con la pretesa di ergersi a paladina degli autoctoni assediati dagli invasori. Coloro che per origine ideale dovrebbero opporsi allo squallido trantran della politichetta come mestiere non hanno nessuna autorevolezza o credibilità per farlo, non sanno ergersi oltre lo status quo, oltre la routine mediatica. Alzare lo sguardo significa ricordare che solo quarant’anni fa, nelle terre del nord, gli «altri» erano i nostri cittadini meridionali, i terroni, ricordare che nel corso di cento anni (1870–1970) gli «altri» sono stati gli italiani, 30 milioni di emigranti (molti clandestini) nelle Americhe, in Europa e in Australia. È necessario ricordare che cittadini autoctoni simili in tutto e per tutto a quelli che oggi nel Veneto e alle porte di Roma non vogliono nel loro quartiere un pugno di migranti africani, allora, con la stessa attitudine intollerante, non volevano gli italiani, li descrivevano come pericolosi, sporchi, violenti, criminali. Chi oggi vuole respingere i migranti è portatore della stessa patologica mentalità di chi allora calunniava, insultava e voleva ricacciare in mare i nostri concittadini che non sfuggivano alle guerre ma alla fame endemica, alla disperazione sociale, alla mancanza di futuro. Nell’alluvione di retorica e falsità che accompagnano il pensiero reazionario sulla «questione migranti» emerge come apoteosi del raggiro lo slogan frusto e truffaldino: «Aiutiamoli a casa loro». Ma certo! Aiutiamoli a casa loro. Allora c’è un solo modo per farlo: espellere dall’Africa ogni interesse colonialista. Il colonialismo è stato, al di là di ogni possibile dubbio, il più vasto e perdurante crimine della storia dell’umanità. Il primo e più efferato criminale anche se non il solo è stato l’Occidente e, per nulla pentito persiste. Il crimine è perdurante e prosegue nel nostro tempo con le guerre «umanitarie» o preventive, con l’azione delle multinazionali, con la sottrazione delle risorse più preziose ai legittimi titolari, impedisce la sovranità alimentare, idrica, arraffa terre ed è in combutta con i governanti più corrotti e tirannici. Vediamo questi politicastri da quattro soldi se sono capaci di aiutarli a casa loro. Vediamo sotto i nostri occhi come sono capaci di contrastare la schiavizzazione dei lavoratori stranieri nei nostri campi di pomodori e nei nostri frutteti. Ma fra le devastazioni più imperdonabili con le quali la mentalità colonialista ha inquinato il rapporto fra uomini di culture diverse c’è la concezione dell’altro visto come minore, sottomettibile, diseguale. Prima l’ideologia colonialista si è auto assegnata il compito di civilizzazione di altre culture definite
unilateralmente come incivili, oggi che le conseguenze dell’infestazione coloniale portano grandi flussi migratori verso l’Europa, l’altro diventa indesiderabile, minaccioso, da respingere. Ovviamente colui che maggiormente viene ostracizzato è il più povero, il più disperato, mentre, per confondere le acque, ci si mostra disponibili ad accogliere colui che è provvisto di attributi accettabili. Il razzista e lo xenofobo odierni non vogliono essere definiti come tali, fingono di risentirsi contro chi li apostrofa con l’epiteto che danno mostra di ritenere insultante. Ma oggi il vero spartiacque fra chi, diciamo, crede nella piena dignità ed integrità dell’essere umano e chi, con variegate motivazioni, non lo crede risiede nelle contrapposte concezioni dell’emigrazione. Per chi accoglie in sé la dignità dell’altro come bene supremo, l’emigrazione è progetto di trasformazione per la costruzione di una società di giustizia e solidarietà. Per coloro che non percepiscono in sé l’accoglienza dell’altro come orizzonte verso cui mettersi in cammino l’emigrazione è problema, emergenza, turbativa, invasione. Chi, individuo, associazione, partito o movimento sostiene la piena dignità dell’altro e prende sul serio la «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» ha il dovere di radicalizzare la propria perorazione chiedendo subito, come da tempo suggerisce il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, l’abolizione universale del permesso di soggiorno. Il cammino sarà certo lungo ma è tempo di iniziarlo con decisione.

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peggio che razzisti!

Non siamo razzisti, siamo peggio

caccia agli immigrati a Casale San Nicola (Roma)

da ‘il manifesto’

La sim­bo­lo­gia del pogrom si era già espressa, a Quinto di Tre­viso, col rogo delle sup­pel­let­tili di uno degli alloggi desti­nati ai pro­fu­ghi: raz­ziate, get­tate in strada e date alle fiamme tra la folla plau­dente. Ora il maca­bro festino dell’intolleranza si arric­chi­sce di un det­ta­glio ancor più espli­cito: le minacce al pre­fetto di Roma, Franco Gabrielli, reo di non aver ceduto al ricatto dei cit­ta­dini «esa­spe­rati» di Casale San Nicola.

In uno sgan­ghe­rato mes­sag­gio via Face­book, l’autore delle minacce, il vice­pre­si­dente, leghi­sta, del con­si­glio regio­nale delle Mar­che, inde­gno della carica isti­tu­zio­nale che rico­pre, pro­mette «olio di ricino» al «porco di un comunista».

Siamo ormai a un punto di svolta allar­mante, con Sal­vini che vomita quo­ti­dia­na­mente ingiu­rie e cli­ché raz­zi­sti come: «Smet­tete di coc­co­lare migliaia di clan­de­stini. Acco­glie­teli in pre­fet­tura o a casa vostra, se pro­prio li volete».

Men­tre il sistema di acco­glienza dei pro­fu­ghi mostra tutta la sua ina­de­gua­tezza, men­tre sugli sco­gli di Ven­ti­mi­glia il gruppo di gio­vani esuli con­ti­nua a resi­stere da più di un mese, abban­do­nato da ogni isti­tu­zione cen­trale, il blocco fascio­le­ghi­sta, aiz­zato da capo­rioni quali Zaia e Sal­vini, imper­versa da Nord a Sud, gui­dando la rivolta dei «pro­prie­tari del ter­ri­to­rio»: marce, molo­tov, cas­so­netti incen­diati e saluti romani.

Arduo è que­sta volta giu­sti­fi­care i ten­tati pogrom con la reto­rica della guerra tra poveri, seb­bene alcuni media per­si­stano. Non siamo in peri­fe­rie estreme, degra­date e abban­do­nate, ma in un comune tutt’altro che povero, ammi­ni­strato da un mono­co­lore leghi­sta, e in un sob­borgo romano tutto ville e piscine.

In realtà, gli impren­di­tori poli­tici del raz­zi­smo, spal­leg­giati da quelli mediali, non fanno che legit­ti­mare od orga­niz­zare pro­te­ste che si nutrono di una per­ce­zione deli­rante degli altri: quella che li col­loca, sim­bo­li­ca­mente e fat­tual­mente, nella sfera dell’estraneità all’umano. Solo così è spie­ga­bile come si possa par­te­ci­pare o con­sen­tire al lan­cio di sassi e bot­ti­glie con­tro il fur­gone che a Casale San Nicola tra­spor­tava i dician­nove gio­vani richiedenti-asilo, già sgo­menti per aver dovuto abban­do­nare d’un tratto la siste­ma­zione pre­ce­dente e ter­ro­riz­zati dalla torma degli scalmanati.

In realtà, coloro che si sono lasciati gui­dare dai fascio­le­ghi­sti niente sanno dei pro­fu­ghi allog­giati o da allog­giare nel «loro ter­ri­to­rio»: non ne cono­scono nep­pure le nazio­na­lità. Gra­zie al mar­tel­la­mento mediale dovreb­bero, però, essere edotti dell’epopea che li vede tra­gici eroi del nostro tempo: la fuga da mondi in fiamme o in sfa­celo, l’estenuante tra­ver­sata peri­gliosa del Medi­ter­ra­neo, i cada­veri, anche di bam­bini, abban­do­nati alle acque nostre, le madri che sbar­cano orfane dei figli e i figli che appro­dano orfani dei geni­tori… Ma quel che forse sanno non li muove a pietà, non fa scat­tare la molla dell’empatia o solo della com­mi­se­ra­zione: il deli­rio pro­duce anche anaf­fet­ti­vità, com’è ben noto.

Nulla sanno di ognuno di loro. E di tutti non pos­sono dire nean­che che sono ladri e rapi­tori di bam­bini, come dicono abi­tual­mente degli «zin­gari». Eppure li hanno già cata­lo­gati come nemici della loro medio­cre tran­quil­lità bor­ghese o piccolo-borghese, che essa alber­ghi nelle ville con piscina di Casale San Nicola oppure in alloggi ordi­nari di Quinto di Treviso.

Sanno o dovreb­bero sapere quali gaglioffi siano i mili­tanti di Casa­Pound, Forza Nuova, Mili­tia Chri­sti, Fra­telli d’Italia, Lega Nord e via dicendo. Eppure è a loro che si affi­dano «per pro­teg­gere il nostro ter­ri­to­rio dagli extra­co­mu­ni­tari». Così una resi­dente di Casale San Nicola all’inviato del Cor­riere della Sera, Fabri­zio Ron­cone, in una dichia­ra­zione pre­ce­duta dal clas­sico «Noi non siamo raz­zi­sti, ma…», sublime per emble­ma­ti­cità razzista.

La molla dell’empatia, ma verso i difen­sori del loro ter­ri­to­rio, è invece scat­tata nel M5S: una dele­ga­zione, costi­tuita da par­la­men­tari e da con­si­glieri comu­nali e muni­ci­pali di Roma, si è affret­tata a rice­vere il «comi­tato spon­ta­neo di Casale San Nicola, riu­nito in presidio».

Niente di nuovo. Del pari, tutt’altro che ine­dita nella sto­ria ita­liana recente è la ten­ta­zione del pogrom. Ma è pro­prio que­sto a farci temere: il fatto che nulla cambi, se non in peg­gio, dopo quasi quarant’anni d’immigrazione in Italia.

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papa Francesco, vogliono la tua benedizione: accontentali

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Scialpi, una lettera a Papa Francesco postata sui social

“ho formato una famiglia con il mio compagno. Dammi la tua benedizione”

Il musicista ha indirizzato una lettera a Papa Francesco e al suo genitore scomparso con un “gioco epistolare” di accenti tra ‘Papa’ e ‘papà’

A pochi giorni dall’annucio delle sue prossime nozze, il cantante Giovanni Scialpi, in arte Shalpy ha scritto una lettera al Papa su Facebook e con un gioco d’accenti l’ha dedicata anche al padre scomparso. L’intento della missiva, subito pubblicata sulle varie piattaforme social, è quello di ricevere una benedizione per il futuro matrimonio con Roberto Blasi, compagno e manager di Shalpy. “Caro Papa Francesco mi perdoni, ma da quando ho sentito per la prima volta il Suo nome alla TV per la Sua proclamazione in un attimo di profonda commozione, il mio pensiero è andato subito al mio povero padre che si chiamava come Lei e che è mancato ormai da anni”, la lettera prosegue con i complimenti del cantante a Bergoglio per poi annunciare un cambio del soggetto “Ora che sento il desiderio di scriverLe, mi permetta questo gioco epistolare che consiste nell’aggiungere un semplice accento sulla ‘à, in modo di rivolgermi a Lei come se fosse il mio vero padre“.

La lettera ora assume anche un significato liberatorio per lo stesso Shalpy: “Caro papà Francesco, lo so che il nostro rapporto è sempre stato conflittuale, sin da piccolo tra le tue prese di posizione e le mie idee che mi portavano lontano, io non vedevo il tuo amore e tu non vedevi il mio. Non bastava un tuo dono, non bastava portarmi in Chiesa per sentirmi amato, non c’era il tuo giudizio positivo sulla mia pagella portata a casa con grande ‘orgogliò; come non c’eri quando avevo bisogno di risposte mentre scoprivo i miei primi sentimenti. Ci siamo sempre allontanati l’uno dall’altro, arrivando a non condividere neppure i punti più formativi ed emotivi della mia esistenza. Sono diventato grande frequentandoti, ma nel medesimo tempo non contemplandoti. E proprio adesso che sto per affrontare il momento più felice del mio percorso, la decisione di formare una Famiglia con il mio compagno, quanto mi manca la tua Parola, la tua benedizione ed il tuo abbraccio perché sai quanto ti voglio bene. Per sempre il tuo Giovanni”.

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macché invasione di migranti!

Perego: nessuna invasione, proteste di irresponsabili

intervista a Giancarlo Perego, direttore della Migrantes

Perego

a cura di Ilaria Solaini
in “Avvenire” del 19 luglio 2015

“No immigrazione”, “Stop immigrazione”, “Lottare per non migrare”: sono gli slogan degli striscioni affissi la scorsa notte dai militanti di CasaPound al porto di Cagliari, dove ieri pomeriggio è avvenuto lo sbarco di 456 migranti, tra loro vi era anche un morto, deceduto durante la traversata, una decina di feriti e tre neonati. Le proteste e i disordini provocate in Italia dall’arrivo di alcuni profughi riflettono il disagio che suscita lo straniero. Come è possibile evitare altre situazioni di conflittualità sociale, dopo quelle che abbiamo visto a Treviso e Roma? Stiamo parlando di 20 persone, non parliamo di un’invasione, non sono certo numeri consistenti. Da un lato non è stato gestito con attenzione lo spostamento su questi territori dei profughi, dall’altra qualcuno ha soffiato sul fuoco, trasformando il loro arrivo in un motivo di contrapposizione e instabilità sociale. Quelle proteste sono state il frutto di un’irresponsabilità sul piano politico e sociale da parte di gruppi e di forze politiche che hanno strumentalizzato l’arrivo dei richiedenti asilo. Il diritto d’asilo viene garantito dalla nostra Costituzione, cosa si può fare concretamente affinché il sistema di accoglienza italiano funzioni a dovere? Il diritto d’asilo, garantito dalla nostra Costituzione, è stato rafforzato da altre forme di protezione internazionale, e dunque non può essere lasciato all’improvvisazione. La nostra proposta di organizzazione va oltre i grandi centri per la prima accoglienza, che hanno generato non solo la corruzione nella gestione e lo spreco di denaro, ma anche una nuova strada di guadagno delle mafie e la non tutela di alcuni diritti fondamentali, come il ricongiungimento familiare, la salute, la scuola per i minori. Quale può essere, quindi, l’alternativa ai grandi centri di accoglienza? L’accoglienza va ripensata attraverso un sistema strutturale che veda nei Comuni, tutti e 8mila, i soggetti che direttamente gestiscono il richiedente asilo. Un Paese di 60 milioni di persone che può ospitare 45 milioni di turisti all’anno non può essere messo in ginocchi di fronte a di fronte a 75mila profughi: se ogni famiglia prendesse in carico un richiedente asilo, si eviterebbe che l’arrivo di un gruppo di giovani profughi si trasformi in un’occasione nuova di conflittualità sociale. Va considerato anche l’arrivo di 12mila minori arrivati, il doppio rispetto a quelli accolti l’anno scorso: vanno tutelati subito al loro arrivo, attraverso una forma di affido presso alcune famiglie. “Chiesa senza frontiere: madre di tutti” sono parole del messaggio che il Papa ha rivolto per la giornata mondiale del rifugiato. Come si sta muovendo la Chiesa per gestire l’accoglienza? Le stesse contraddizioni sull’accoglienza dei profughi dividono anche le nostre comunità, com’è accaduto a Crema, in una diocesi con una grande tradizione sociale, dove si è verificata la non accettazione in una struttura adeguata di 16 richiedenti asilo. Anche le nostre famiglie rischiano di respirare la stessa aria di paura, di rifiuto e di contrapposizione ai migranti, ci aspetta, quindi, un forte lavoro culturale e sociale nelle nostre Chiese: da una parte non possiamo tornare al collateralismo nel lavoro sociale rispetto allo Stato, sostituendosi alle sue responsabilità e dall’altra dobbiamo evitare il rischio di non sentirci responsabili di un nuovo impegno sociale, per paura di vedere allontanarsi alcuni fedeli delle nostre comunità. Servono gesti e opere che siano segno di un amore e di un’attenzione verso chi ha perso tutto, verso i lontani che si sono fatti prossimo. In Europa è in corso la delicata trattativa per il piano di redistribuzione dei richiedenti asilo, come vede la situazione e il possibile accordo su cui si sta lavorando a Bruxelles?
Purtroppo l’Europa si sta frantumando sulla politica dell’asilo: quello della redistribuzione dei 60mila profughi è un primo passo verso il superamento di un forte nazionalismo che si è espresso anche nella protezione internazionale. L’Europa con 600 milioni di abitanti come può essere in difficoltà nell’accogliere 600mila persone, se si pensa che il Libano dove vivono 4 milioni di persone ha accolto un milione e mezzo di profughi.

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chiesa vietata ai razzisti in nome del vangelo

 

migranti

a Spoleto prete vieta ingresso in chiesa ai razzisti:

prete

 

 

 

 

“tornate a casa vostra”

chiesa vietata

 

dopo le proteste a Quinto in provincia di Treviso e a Roma, don Gianfranco Formenton ha affisso un cartello sul portone della parrocchia e spiega a ilfattoquotidiano.it: “Lega e CasaPound stanno facendo come Hitler e Mussolini: se la prendono con i più poveri per raccogliere consensi”

di Alex Corlazzoli 

“In questa chiesa è vietato l’ingresso ai razzisti. Tornate a casa vostra!”. A lasciare questo messaggio sul portone della casa di Dio è don Gianfranco Formenton, parroco di Sant’Angelo in Mercole a Spoleto. Il prete, di origini venete ma incardinato nella diocesi umbra dal giorno dell’ordinazione, non ha dimenticato le sue origini e di fronte a quanto accaduto nei giorni passati a Quinto in provincia di Treviso, dove i residenti hanno dato fuoco a materassi e mobili per impedire l’alloggio di un centinaio di immigrati, ha deciso di farsi sentire.

“Ho voluto dare una risposta ai fatti di Treviso e Roma. Lo slogan più diffuso oggi è tornate a casa vostra. Con questo messaggio voglio far sapere a chi grida queste parole che ci sono anche luoghi, come la casa di Dio, dove anche loro non sono ben accetti. Tra l’altro son stato persino gentile. Gesù è molto più duro. Racconta il vangelo di Matteo che disse ‘Ero straniero e non mi avete accolto. Lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno'”.

Il parroco di Sant’Angelo pensa al presidente della Regione: “Zaia dice di essere contro la violenza stando dalla parte dei cittadini ma in questo modo giustifica il terrorismo messo in atto arrivando al punto da appiccare il fuoco. Queste azioni squadriste si sono già verificate negli anni Venti”.

Don Formenton non ha peli sulla lingua: “Auspico che la Chiesa di Treviso dica una parola, anche una sola. La voce del Papa è stata inequivocabile: le parole di Francesco nelle sue ultime encicliche sono dirompenti. La Chiesa ha ricominciato a sottolineare le esigenze evangeliche. Siamo in un’emergenza mondiale causata dall’uomo e non da Dio e la comunità cristiana deve dare una risposta. C’è una violenza inaudita sul tema profughi, è l’emergere delle pulsioni peggiori dell’umana specie, coltivate da questi quattro politici che hanno una memoria storica non più lunga di tre mesi e che fomentano questo odio”.

Per il parroco umbro l’unica voce affidabile è quella di Bergoglio: “Tra i politici che cavalcano questa protesta non c’è nessuno che fa l’analisi di cui è stato capace il pontefice dicendo che questi profughi vengono a chiederci il conto di centinaia di anni di sfruttamento e ingiustizia”. Il sacerdote ce l’ha con la Lega Nord: “Noi dobbiamo scegliere se prendercela con i più poveri oppure con i furbi che hanno causato ciò. Purtroppo quest’ultimi sono lì ad indicarci i nemici di turno. Hanno fatto così Hitler, Mussolini e lo stanno facendo anche la Lega e CasaPound che hanno compreso quanto in questo modo si raccolgano consensi. Mi creda, ormai anche nella mia parrocchia c’è pieno di razzisti di qualsiasi parte politica”.

Parole dure che hanno fatto discutere anche i fedeli del prete che sulla sua pagina Facebook si sono scatenati. Nulla di personale, ha voluto sottolineare don Gianfranco che continua a pensare alla responsabilità della politica: “Se mi avessero chiamato a benedire la sede della Lega a Spoleto avrei detto le stesse cose a Matteo Salvini”.
Intanto in centinaia hanno letto la presa di posizione del parroco e in tutta la città si sta discutendo di questa provocazione nella speranza che arrivi qualche segnale da Roma.

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paese incattivito

rivolte anti immigrati

foto premio migranti

le associazioni: paese incattivito e chiuso in se stesso

scontri a Casale San Nicola, a nord della Capitale e a Quinto (Tv) per l’arrivo di alcuni richiedenti asilo. Sami (Unhcr): “Volontà politica di sfruttare le tensioni”. L’assessore Danese: “Solidarietà con i profughi assediati nel loro traguardo verso una vita migliore”. Caritas: “Clima d’odio che non s’era mai visto”

da: Redattore Sociale

 

 “E’ vergognoso quello che sta accadendo in queste ore a Roma e Treviso. E’ chiaro che c’è una volontà politica, da parte di alcuni gruppi, di sfruttare le tensioni presenti nella società italiana, ma questa strumentalizzazione è intollerabile”. Lo sottolinea Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr, in merito alle proteste anti immigrati esplose nelle due città italiane. Ieri a Quinto, in provincia di Treviso, dopo il trasferimento di circa 100 profughi, la palazzina in cui erano appena stati accolti è stata presa d’assalto. A guidare la spedizione alcuni residenti della zona e militanti di Forza nuova e Lega Nord. Scene simili si sono viste anche questa mattina a Casale San Nicola, a nord di Roma, dove un gruppo di abitanti e militanti di Casa pound ha manifestato contro l’arrivo, previsto per oggi, di un centinaio di profughi. Il sit in è ancora in corso e ci sono state anche cariche da parte della polizia.

“Queste manifestazioni di intolleranza vanno valutate per quello che sono: servono solo da un punto di vista politico e si basano sulla disinformazione– continua Sami – cioè sul far credere che chi scappa da una guerra o da una situazione di persecuzione venga accolto con maggiori privilegi rispetto a quelli che hanno gli italiani. Si fa pensare alla gente che la presenza dei rifugiati possa togliere qualcosa, mentre bisognerebbe spiegare che queste persone non solo non hanno nessun privilegio ma hanno situazioni terribili alle spalle. Inoltre, alcune volte possono anche rappresentare un’opportunità per noi: pensiamo solo ai tanti cittadini italiani impiegati nei centri di accoglienza”. La portavoce dell’Unhcr ricorda inoltre che i rifugiati e i richiedenti asilo hanno “diritto di essere accolti”. “La maggior parte di chi è soccorso dall’Italia se ne va – aggiunge – sono tanti i transitanti, queste paure non hanno ragione di esistere”.Sdegno per le proteste a Roma anche da parte dell’assessore capitolino alle Politiche sociali Francesca Danese, che esprime innanzitutto solidarietà ai rifugiati “assediati nel loro difficile cammino verso una vita migliore”. “Le immagini che arrivano da Casale San Nicola non rappresentano Roma, la nostra città è un’altra e si sta preparando a un modello di accoglienza diverso – spiega Danese – . Purtroppo, però, ci sono gruppi che strumentalizzano la situazione e intossicano la grande solidarietà che esiste nella Capitale. Non dobbiamo dimenticare – aggiunge – che i profughi sono persone che scappano da guerre e da situazioni di vita pesanti, sono quindi persone vulnerabili e non persone pericolose come si vorrebbe far passare. Si portano dietro un dolore inenarrabile, non a caso hanno bisogno di un’accoglienza e di un’assistenza a 360 gradi”. L’assessora si dice inoltre vicina alle persone che abitano a Casale San Nicola, al presidente del municipio e al poliziotto ferito durante i tafferugli di questa mattina, tra i manifestanti e le forze dell’ordine. Intanto da poco i richiedenti asilo sono entrati nella struttura di Casale San Nicola.“Dopo le difficoltà riscontrate questa mattina, le forze dell’ordine sono riuscite a far entrare i cittadini stranieri all’interno della struttura a loro riservata. Al momento, quattro agenti di polizia risultano feriti a seguito dei tafferugli”, fa sapere la Questura di Roma.

Tante le associazioni che hanno condannato le proteste anti immigrati. “Una città che non accoglie i migranti (famiglie e ragazzi in fuga da guerre, persecuzioni e povertà) è un popolo senza memoria, un agglomerato umano che non può dirsi comunità” -sottolinea in una nota la Caritas di Roma, che aggiunge: “Così anche il tema dell’accoglienza – le procedure di emergenza, l’individuazione dei luoghi – rischia di scontrarsi con egoismi, interessi e paure. Sentimenti di cui approfittano forze politiche senza scrupoli per incrementare un clima di odio che mai si era visto a Roma e in Italia”. Dello stesso parere anche Arci che parla di un “paese incattivito e chiuso in se stesso”. “E’ passata l’idea dell’invasione, di un paese in perenne emergenza per far fronte a un’immigrazione che ha numeri più contenuti che in altri paesi – sottolinea l’associazione -. Il tutto per giustificare, politicamente e moralmente, l’incapacità di gestire qualche migliaio di persone in fuga per la sopravvivenza”. L’Asgi (associazione studi giuridici sull’immigrazione) pone l’accento sulla mancanza di norme e regole chiare sull’accoglienza come causa dei conflitti sociali. “Gruppi di dichiarata ispirazione neofascista hanno abilmente strumentalizzato le paure e il disagio della popolazione residente – spiegano in una nota – Se nessuna violenza contro persone giunte nel nostro Paese in fuga da guerre e persecuzioni può essere mai tollerata, gli episodi accaduti a Roma e Treviso, pur nella loro diversità, vanno comunque tenuti in considerazione perché mettono in luce le gravi carenze del sistema di accoglienza vigente”. Infine il centro Astalli condanna la strumentalizzazione politica e mediatica di quanto accaduto: “Roma si trova ad accogliere persone che sono state costrette a lasciare la propria casa a causa di crisi umanitarie, conflitti o regimi dittatoriali – afferma padre Camillo Ripamonti – Si tratta mediamente di persone molto giovani e tra di loro tante sono le vittime di tortura. È da condannare ogni forma di strumentalizzazione costruita ad arte per creare pericolose tensioni e inutili allarmismi tra la popolazione”.

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© Copyright Redattore Sociale

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il principale nemico di papa Francesco è l’integralismo cattolico

l’integralismo cattolico attacca Papa Francesco

oltre ai gay bisogna attaccare l’ecumenismo

dal sito: gayburg.blogspot.it

«Oggi, la teoria del gender, è il grimaldello attraverso il quale si vuole definitivamente distruggere la legge divina, per portare a definitivo compimento quel disegno». È quanto ha scritto il sito ultra-cattolico Radio Spada (spesso vicino ad associazioni come Provita) in merito alla presentazione del Family Day. In quell’occasione Massimo Gandolfini disse che «La nostra manifestazione è di tipo propositivo, dice la bellezza della famiglia, non è contro nessuno, quindi non è contro gli omosessuali» e tanto è bastato a mandarli su tutte le furie. «È la stessa logica dell’attuale Pontefice -dicono- che rispetto ai protestanti, ai musulmani, agli ebrei, agli ortodossi, auspica la “logica del poliedro” e dell’unità nella pace. Le Sacre Scritture e la dottrina, invece, non usano mezzi termini né nei confronti degli omosessuali né nei confronti delle religioni diverse dall’unica -quella del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo- che porta alla salvezza». Insomma, lamentano che bisogna dichiarare guerra alle oltre religione oltre che ai gay. Ed è così che Bergoglio diventa il loro obiettivo.

In un altro articolo bollano come «eretico» il pontefice e affermano che sia semplice «smontare in brevi mosse il bergoglismo». Per farlo oppongono le sue frasi a quelle pronunciate in precedenza, lasciando intendere che qualunque posizione sia stata definita dalla Chiesa non possa essere rimessa in discussione. Nel loro articolo fanno tre esempi che si commentano da sé:

  • «”Padre, io posso pregare con un evangelico, con un ortodosso, con un luterano?” Devi, devi: avete ricevuto lo stesso Battesimo» (Papa Francesco, Radio Vaticana 03/07/2015) Solo i cattolici possono adorare Dio (Papa Gregorio XVI, Summo Jugiter Studio); La vera Fede non può essere fondata fuori dalla Chiesa. (Papa Pio IX, Singulari Quidem; Papa San Pio X, Singulari Quandem); Le religioni non cattoliche non possono avere la vita della Chiesa. (Papa San Gregorio I, Esposizione nel Psalm V Poenit., tom. 3)
  • «La realtà di oggi e i nostri martiri ci uniscono in un “ecumenismo del sangue”, ricordando che pochi mesi fa, 23 egiziani copti sono stati sgozzati su una spiaggia della Libia: Se il nemico ci unisce nella morte, ma chi siamo noi per dividerci nella vita? Lasciamo entrare lo Spirito, preghiamo per andare avanti tutti insieme»
    (Papa Francesco, Radio Vaticana 03/07/2015) Fuori dalla Chiesa non v’è nessun martire cristiano.
    (Papa Pelagio II, Denzinger 247); Lo Spirito Santo non dà la vita eterna agli eretici. (Papa Leone XIII, Satis Cognitum: 18)
  • «L’unità dei cristiani è opera dello Spirito Santo e dobbiamo pregare insieme. L’ecumenismo spirituale, l’ecumenismo della preghiera» (Papa Francesco, Radio Vaticana 03/07/2015) L’unità cristiana è la Chiesa cattolica. (Papa Pio XI, Mortalium Animos: 3, 15); Solo i cattolici possono essere cristiani (Papa Pio VI, Denzinger 1500); Se qualcuno prega con gli eretici, è un eretico. (Papa Sant’Agatone I, Sacrorum Conciliorium: XXI: 635)
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viviamo in tempi brutti e governati da barbari: parola di E. Bianchi

«questo governo mi sembra cristiano solo di nome»

intervista a Enzo Bianchi

Bianchi

 

 

a cura di Vittorio Zincone
in “Sette” – Corriere della Sera –  del 3 luglio 2015

Bose, colline del Canavese. Piemonte. Una vecchia cascina ristrutturata con accanto una chiesa nuova da cui riecheggia una preghiera melodiosa intonata dai monaci. Uno di loro mi viene incontro. Indica una spianata verde. Dice: «Vorrei essere degno di quel prato». Silenzio. Dopo qualche minuto il priore Enzo Bianchi, 72 anni, occhi azzurri e barba bianchissima, mi raggiunge in una stanzetta spoglia. La sua Comunità monastica sta per compiere cinquant’anni. E lui da mezzo secolo predica un Cristianesimo fatto di amore e misericordia. Ha sempre rifiutato di essere ordinato sacerdote e forse anche per questo una parte della Chiesa cattolica lo capisce poco e lo detesta. Bianchi, Premio Artusi 2014 (riservato ai teorici del cibo sublime), mentre mi porge un vassoio di crostini con alici cantabriche, spiega che la Comunità accoglie tutti: non solo cristiani, ma anche ebrei, ortodossi, buddisti, atei. Negli anni Settanta ci capitò pure un latitante delle Br. Racconta: «Gli trovammo un mitra nella stanza. Lo facemmo sparire. Poco dopo il brigatista se ne andò». Il priore è un paladino del dialogo tra le religioni, un promotore dell’unità dei cristiani. È anche un po’ compagno: cita l’Omnia sunt communia dei padri della chiesa e di Thomas Müntzer. È un naturale abbattitore di barriere e ha pubblicato decine di libri. L’ultimo, Raccontare l’amore (Rizzoli), è un’esegesi appassionata di quattro parabole evangeliche: “Il buon samaritano”, “Il figliol prodigo”, “Il ricco e il povero Lazzaro” e “Il fariseo e il pubblicano”. Gli faccio notare che molte delle sue pagine hanno una incredibile somiglianza con il messaggio dell’Enciclica Laudato Si di Papa Francesco: l’attenzione agli ultimi e il rispetto per gli esseri umani. C’è anche una condanna all’idolatria del denaro. Sorride: «Non ho mai trovato nessuno con una simile consonanza di idee. Con Francesco abbiamo in comune il cristocentrismo, l’importanza del Vangelo, che viene prima della dottrina e prima dei dogmi. Il non aver paura di dire le cose con forza e allo stesso tempo la condanna della violenza delle parole. Anche lui cerca un antidoto contro la barbarie verbale». Sono tempi barbari? «Barbari e poco cristiani. C’è chi parla di ruspe, chi offende i musulmani, chi sventola forconi contro gli immigrati. Ogni ragionamento ormai parte dalle differenze, dai propri convincimenti. Si è persa di vista la base necessaria per un qualsiasi dialogo, e cioè il fatto che siamo tutti uomini». Il leader della Lega, Matteo Salvini, parlando dell’accoglienza, ha detto: «Sono cristiano, ma non autolesionista». «Si reputano cristiani cattolici perché la Chiesa cattolica glielo ha permesso. Dicono di avere una cultura cattolica perché hanno un campanile nella piazza del paese». Le responsabilità della Chiesa cattolica… «Negli anni Ottanta tutte le religioni si sono ripiegate su se stesse. E a partire dagli anni Novanta la Chiesa italiana ha cavalcato questo identitarismo, fatto di crocifissi in classe e feste comandate. Pensi al Veneto, zona bianca, molto cattolica: oggi esplodono polemiche cristianamente inaccettabili sull’accoglienza degli ultimi. Questa identità posticcia ha svuotato dal di dentro la fede cristiana. I vescovi avrebbero dovuto dire che il Vangelo è un’altra cosa. E che non va annunciato o sventolato come un’arma, ma vissuto. Bisogna imparare prima a essere uomini». La gestione della Conferenza episcopale da parte di Camillo Ruini non è stata la sua preferita. «Certamente no. In quel periodo la Chiesa italiana è stata tentata di diventare religione civile. Ha appoggiato una guerra, quella del Golfo, che lo stesso papa Wojtyla aveva condannato. E invece si sarebbe dovuta concentrare sugli ultimi. Io li incontro: malati, anziani. Hanno bisogno di fraternità. Gli italiani hanno inseguito e conquistato l’individualismo libertario, ma hanno perso ogni orizzonte comunitario sociale. Anche la sinistra lo ha perso». Il governo di Renzi è cattolico e di sinistra.
«Mi sembra che ci sia molto cristianesimo nominativo. Non mi pare che gli obiettivi di questa politica siano la giustizia sociale, l’equità, il favorire le relazioni tra gli uomini e farli uscire dall’isolamento. I cattolici in politica sono afoni». In realtà parlano ogni giorno: contro i matrimoni gay, contro il testamento biologico… «Sono cristianamente afoni. Non esistono più. Sono addirittura ridicoli. Non pronunciano mai una parola ispirata dal Vangelo». È vero che lei da giovane ha fatto politica con la Dc? «Ero nel movimento giovanile democristiano. Area fanfaniana. Nel 1968, quando ero qui a Bose già da tre anni, mi proposero di candidarmi alla Camera. Rifiutai». A cena col nemico? «Non considero nessuno un nemico. Uno molto distante è… Fabrizio Corona! Lo inviterei volentieri a cena. Una volta in treno ho sentito dei ragazzi dire: “Vorrei essere come Corona”. Parlavano della sua ricchezza, della vita scintillante…». Lei ha un clan di amici? «Ho molti amici. Ne cito due: Massimo Cacciari e Michelina Borsari». Qual è l’errore più grande che ha fatto? «Essere diventato una persona a cui molti fanno riferimento. Un po’ mi imbarazza. Anche perché io non ho visto grandi luci e Dio non mi parla. Qualche volta mi domando persino se sono davvero credente. Tutta questa grandezza non l’ho scelta». Lei ha scritto decine di libri. Le è capitato di andare in tv. Questa “mondanità” le viene rimproverata. «Ma noi non siamo monaci separati dalla società, la nostra non è una fuga mundis, dall’umanità. Noi siamo nel mondo. Il nostro è il monachesimo ospitale di san Basilio, è l’esempio di Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano della Resistenza”. Qual è la scelta che le ha cambiato la vita? «Decidere di trascorrere alcuni mesi a Rouen con l’abbé Pierre. Lì ho conosciuto un altro Cristianesimo. C’erano ex legionari, ex alcolizzati, gli ultimi della terra. Un giorno Pierre mi sorprese mentre leggevo la Bibbia, al sole. Mi disse: “Non è il caso che gli altri ti vedano fare questa lettura. Tu non sei qui per spiegare la dottrina e non sei qui per fare la carità. Cerca solo di vivere da uomo cristiano in mezzo agli uomini”. Rientrato in Italia decisi di lasciare tutto e di venire a Bose». Per tre anni lei restò isolato dal mondo. In solitudine. «C’era un vicino anziano con sua madre. Mi diede in affitto un casale per tre anni». Come pagava l’affitto? «Sradicando vecchie viti. Piantando pini. E ogni tanto facendo qualche traduzione dal francese. Non c’era elettricità e nemmeno acqua corrente. Il primo altare l’ho ricavato da un vecchio frantoio di pietra. Lo illuminai con un candelabro forgiato unendo alcuni ferri da camino». Sapeva lavorare il ferro? «Mio padre era stagnino. Quando è morta mia madre, avevo 8 anni e cominciai a seguirlo sul lavoro. A casa cucinavo io. In quel periodo due donne fantastiche, Norma ed Elvira, la maestra e la postina del paese, si presero cura della mia formazione. Mi donarono i testi di san Basilio e mi permisero di acquistare molti libri». Il libro preferito? «Il potere e la gloria di Graham Greene». Il film? «Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. Ho conosciuto Pasolini ad Assisi. Era burbero, ma sapeva sciogliersi in dolcezza». La canzone? «Ne me quitte pas di Jacques Brel. L’amore e l’abbandono”. Lei ha raccontato di aver avuto una fidanzata. «La lasciai per venire a Bose. Ogni tanto ci sentiamo. Mi ha scritto una lettera di auguri bellissima per i miei settant’anni».
È vero che compiuti i 50 le è venuta voglia di paternità? «Ho sentito come una mancanza il non avere un figlio. Quando la sera sono nel mio eremo, da solo nel bosco, a qualche minuto dalla Comunità, ogni tanto mi viene un po’ di malinconia. La voglia di una relazione intima. Di un “tu”. Noi monaci il “tu” lo diciamo solo a Gesù, ma Gesù non lo abbiamo mai visto». Lei conosce i confini della Libia? «Sono stato in Tunisia, Egitto, Sudan». Sa quanto costa un pacco di pasta? «Un euro e mezzo? Ogni tanto mi infilo nei supermercati. Osservo le persone e la barbarie a cui sono costrette». La barbarie? «Per un piemontese comprare delle alette precotte e caramellate è una barbarie. Solo una crisi profonda ti può portare a mangiare quella roba». Conosce l’articolo 3 della Costituzione? «Nel 2009 mi hanno conferito il premio “Articolo 3”. Purtroppo però di fronte alla legge non siamo tutti uguali. Ci sono politici che vivono nell’illegalità e che vengono continuamente riciclati nelle istituzioni». Sul Fatto Quotidiano, lei ha criticato Vincenzo De Luca, condannato per abuso di ufficio ed eletto presidente della Campania. «Provo vergogna. In Italia è così difficile dire che la legalità va rispettata?». Tutti sostengono che De Luca sia un ottimo amministratore. «Non lo metto in dubbio. Ma l’uomo farà sempre cose cattive se non gli nuocciono o se sa di farla franca. Per evitare che si comporti male serve un supporto culturale, una linea etica, un esempio. E se la politica non dà l’esempio…».

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il commento al vangelo della domenica

 ERANO COME PECORE CHE NON HANNO PASTORE

commento al Vangelo  della domenica sedicesima del tempo ordinario (19luglio 2015) di p. Alberto Maggi 

p. Maggi

Mc 6, 30-34

In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare.
Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero.
Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.


El’unica volta nel Vangelo di Marco in cui appare il termine di “apostolo” che non indica un titolo, una carica, ma una funzione: significa “inviato”. Quando i discepoli sono inviati, sono “apostoli”.
Ebbene questi apostoli, i discepoli, “si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato”. Ma Gesù non li aveva autorizzati ad insegnare e anche quello che hanno fatto non era quello che Gesù li aveva incaricati di fare. Abbiamo visto già nella volta scorsa come questi discepoli non fanno ciò per cui Gesù li aveva inviati. Quindi loro hanno fatto e insegnato e Gesù non si mostra molto felice di questa loro relazione e infatti dice “Venite in disparte”. Questo ‘disparte’ è un termine tecnico adoperato dagli evangelisti – lo troviamo più volte non solo in Marco, ma anche negli altri autori del Vangelo – che indica sempre incomprensione o ostilità, o addirittura, opposizione a Gesù.
Quindi tutte quelle volte che Gesù prende i discepoli ‘in disparte’ è perché da parte dei discepoli c’è incomprensione, ostilità o opposizione al messaggio di Gesù. Allora questi discepoli che non hanno fatto ciò di cui Gesù li aveva incaricati e addirittura si sono messi ad insegnare – Gesù non li ha mai autorizzati ad insegnare. C’è differenza nella lingua greca tra ‘insegnare’ e ‘predicare’. ‘Insegnare’ significa adoperare le categorie dell’Antico Testamento per annunziare il nuovo e questo sarà un ruolo che Gesù si prende per se, solo Gesù sa ciò che dell’Antico è ancora buono per annunziare la novità del Regno. Quindi Gesù non autorizza mai i discepoli ad insegnare, li manda invece a ‘predicare’. ‘Predicare’ significa l’annunzio con categorie nuove.
Quindi loro hanno insegnato, hanno preso le categorie dell’Antico Testamento e hanno prodotto un risultato un poco confuso. Infatti, scrive l’evangelista che “molti venivano”. Probabilmente questi discepoli hanno annunziato il Messia secondo le categorie nazionaliste e questo ha creato entusiasmo. Mentre Gesù nella sinagoga del suo paese è stato accolto da scetticismo, la predicazione dei discepoli è accolta con entusiasmo. Quindi significa che la linea di Gesù e quella dei discepoli non è la stessa.
“Allora”, scrive l’evangelista, “andarono con la barca in un luogo deserto, in disparte”. Quindi Gesù li vuole separare dalla folla perché loro hanno creato una falsa attesa, quella del Messia trionfante, il Messia vincitore.
E, notiamo questo particolare “sceso dalla barca” – l’evangelista avrebbe dovuto scrivere ‘scesero dalla barca’. No, i discepoli rimangono sulla barca, Gesù li distanzia dalla folla. “Gesù vide una gran folla ed ebbe compassione”. Questo ‘avere compassione’ è un termine tecnico dell’Antico Testamento e anche del Nuovo che è adoperato esclusivamente per Dio. Gli uomini hanno misericordia, ma è solo Dio che ha compassione. La ‘compassione’ non è un sentimento, ma un’azione divina con la quale si restituisce vita a chi vita non ce l’ha.
Nell’Antico Testamento è riservata esclusivamente a Dio, nel Nuovo a Dio e a Gesù. Ebbene la compassione di Gesù verso questo popolo che non ha vita è perché erano “pecore che non hanno pastore”. Mosè aveva chiesto che ci fosse sempre un pastore nel suo popolo perché il gregge non fosse sbandato e invece la folla è come ‘pecore che non hanno pastore’. Ma in realtà i pastori ce li avevano, tanti, forse anche troppi, è che questi pastori non si curavano del bene del popolo, ma soltanto dei propri interessi. Non curavano la salute, la vita del popolo, ma difendevano i propri privilegi; non servivano il gregge, ma lo dominavano.
Allora Gesù, di fronte a questa situazione che era stata già denunciata dai profeti, prende lui il ruolo di pastore.
Da questo momento Gesù sarà il vero pastore di Israele. “E si mise a insegnare loro molte cose”. Gesù non insegna dottrine per dominare le persone, ma, lo vedremo, si fa alimento, comunicazione vitale, che consente al popolo di vivere

 

 

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