viviamo in tempi brutti e governati da barbari: parola di E. Bianchi

«questo governo mi sembra cristiano solo di nome»

intervista a Enzo Bianchi

Bianchi

 

 

a cura di Vittorio Zincone
in “Sette” – Corriere della Sera –  del 3 luglio 2015

Bose, colline del Canavese. Piemonte. Una vecchia cascina ristrutturata con accanto una chiesa nuova da cui riecheggia una preghiera melodiosa intonata dai monaci. Uno di loro mi viene incontro. Indica una spianata verde. Dice: «Vorrei essere degno di quel prato». Silenzio. Dopo qualche minuto il priore Enzo Bianchi, 72 anni, occhi azzurri e barba bianchissima, mi raggiunge in una stanzetta spoglia. La sua Comunità monastica sta per compiere cinquant’anni. E lui da mezzo secolo predica un Cristianesimo fatto di amore e misericordia. Ha sempre rifiutato di essere ordinato sacerdote e forse anche per questo una parte della Chiesa cattolica lo capisce poco e lo detesta. Bianchi, Premio Artusi 2014 (riservato ai teorici del cibo sublime), mentre mi porge un vassoio di crostini con alici cantabriche, spiega che la Comunità accoglie tutti: non solo cristiani, ma anche ebrei, ortodossi, buddisti, atei. Negli anni Settanta ci capitò pure un latitante delle Br. Racconta: «Gli trovammo un mitra nella stanza. Lo facemmo sparire. Poco dopo il brigatista se ne andò». Il priore è un paladino del dialogo tra le religioni, un promotore dell’unità dei cristiani. È anche un po’ compagno: cita l’Omnia sunt communia dei padri della chiesa e di Thomas Müntzer. È un naturale abbattitore di barriere e ha pubblicato decine di libri. L’ultimo, Raccontare l’amore (Rizzoli), è un’esegesi appassionata di quattro parabole evangeliche: “Il buon samaritano”, “Il figliol prodigo”, “Il ricco e il povero Lazzaro” e “Il fariseo e il pubblicano”. Gli faccio notare che molte delle sue pagine hanno una incredibile somiglianza con il messaggio dell’Enciclica Laudato Si di Papa Francesco: l’attenzione agli ultimi e il rispetto per gli esseri umani. C’è anche una condanna all’idolatria del denaro. Sorride: «Non ho mai trovato nessuno con una simile consonanza di idee. Con Francesco abbiamo in comune il cristocentrismo, l’importanza del Vangelo, che viene prima della dottrina e prima dei dogmi. Il non aver paura di dire le cose con forza e allo stesso tempo la condanna della violenza delle parole. Anche lui cerca un antidoto contro la barbarie verbale». Sono tempi barbari? «Barbari e poco cristiani. C’è chi parla di ruspe, chi offende i musulmani, chi sventola forconi contro gli immigrati. Ogni ragionamento ormai parte dalle differenze, dai propri convincimenti. Si è persa di vista la base necessaria per un qualsiasi dialogo, e cioè il fatto che siamo tutti uomini». Il leader della Lega, Matteo Salvini, parlando dell’accoglienza, ha detto: «Sono cristiano, ma non autolesionista». «Si reputano cristiani cattolici perché la Chiesa cattolica glielo ha permesso. Dicono di avere una cultura cattolica perché hanno un campanile nella piazza del paese». Le responsabilità della Chiesa cattolica… «Negli anni Ottanta tutte le religioni si sono ripiegate su se stesse. E a partire dagli anni Novanta la Chiesa italiana ha cavalcato questo identitarismo, fatto di crocifissi in classe e feste comandate. Pensi al Veneto, zona bianca, molto cattolica: oggi esplodono polemiche cristianamente inaccettabili sull’accoglienza degli ultimi. Questa identità posticcia ha svuotato dal di dentro la fede cristiana. I vescovi avrebbero dovuto dire che il Vangelo è un’altra cosa. E che non va annunciato o sventolato come un’arma, ma vissuto. Bisogna imparare prima a essere uomini». La gestione della Conferenza episcopale da parte di Camillo Ruini non è stata la sua preferita. «Certamente no. In quel periodo la Chiesa italiana è stata tentata di diventare religione civile. Ha appoggiato una guerra, quella del Golfo, che lo stesso papa Wojtyla aveva condannato. E invece si sarebbe dovuta concentrare sugli ultimi. Io li incontro: malati, anziani. Hanno bisogno di fraternità. Gli italiani hanno inseguito e conquistato l’individualismo libertario, ma hanno perso ogni orizzonte comunitario sociale. Anche la sinistra lo ha perso». Il governo di Renzi è cattolico e di sinistra.
«Mi sembra che ci sia molto cristianesimo nominativo. Non mi pare che gli obiettivi di questa politica siano la giustizia sociale, l’equità, il favorire le relazioni tra gli uomini e farli uscire dall’isolamento. I cattolici in politica sono afoni». In realtà parlano ogni giorno: contro i matrimoni gay, contro il testamento biologico… «Sono cristianamente afoni. Non esistono più. Sono addirittura ridicoli. Non pronunciano mai una parola ispirata dal Vangelo». È vero che lei da giovane ha fatto politica con la Dc? «Ero nel movimento giovanile democristiano. Area fanfaniana. Nel 1968, quando ero qui a Bose già da tre anni, mi proposero di candidarmi alla Camera. Rifiutai». A cena col nemico? «Non considero nessuno un nemico. Uno molto distante è… Fabrizio Corona! Lo inviterei volentieri a cena. Una volta in treno ho sentito dei ragazzi dire: “Vorrei essere come Corona”. Parlavano della sua ricchezza, della vita scintillante…». Lei ha un clan di amici? «Ho molti amici. Ne cito due: Massimo Cacciari e Michelina Borsari». Qual è l’errore più grande che ha fatto? «Essere diventato una persona a cui molti fanno riferimento. Un po’ mi imbarazza. Anche perché io non ho visto grandi luci e Dio non mi parla. Qualche volta mi domando persino se sono davvero credente. Tutta questa grandezza non l’ho scelta». Lei ha scritto decine di libri. Le è capitato di andare in tv. Questa “mondanità” le viene rimproverata. «Ma noi non siamo monaci separati dalla società, la nostra non è una fuga mundis, dall’umanità. Noi siamo nel mondo. Il nostro è il monachesimo ospitale di san Basilio, è l’esempio di Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano della Resistenza”. Qual è la scelta che le ha cambiato la vita? «Decidere di trascorrere alcuni mesi a Rouen con l’abbé Pierre. Lì ho conosciuto un altro Cristianesimo. C’erano ex legionari, ex alcolizzati, gli ultimi della terra. Un giorno Pierre mi sorprese mentre leggevo la Bibbia, al sole. Mi disse: “Non è il caso che gli altri ti vedano fare questa lettura. Tu non sei qui per spiegare la dottrina e non sei qui per fare la carità. Cerca solo di vivere da uomo cristiano in mezzo agli uomini”. Rientrato in Italia decisi di lasciare tutto e di venire a Bose». Per tre anni lei restò isolato dal mondo. In solitudine. «C’era un vicino anziano con sua madre. Mi diede in affitto un casale per tre anni». Come pagava l’affitto? «Sradicando vecchie viti. Piantando pini. E ogni tanto facendo qualche traduzione dal francese. Non c’era elettricità e nemmeno acqua corrente. Il primo altare l’ho ricavato da un vecchio frantoio di pietra. Lo illuminai con un candelabro forgiato unendo alcuni ferri da camino». Sapeva lavorare il ferro? «Mio padre era stagnino. Quando è morta mia madre, avevo 8 anni e cominciai a seguirlo sul lavoro. A casa cucinavo io. In quel periodo due donne fantastiche, Norma ed Elvira, la maestra e la postina del paese, si presero cura della mia formazione. Mi donarono i testi di san Basilio e mi permisero di acquistare molti libri». Il libro preferito? «Il potere e la gloria di Graham Greene». Il film? «Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. Ho conosciuto Pasolini ad Assisi. Era burbero, ma sapeva sciogliersi in dolcezza». La canzone? «Ne me quitte pas di Jacques Brel. L’amore e l’abbandono”. Lei ha raccontato di aver avuto una fidanzata. «La lasciai per venire a Bose. Ogni tanto ci sentiamo. Mi ha scritto una lettera di auguri bellissima per i miei settant’anni».
È vero che compiuti i 50 le è venuta voglia di paternità? «Ho sentito come una mancanza il non avere un figlio. Quando la sera sono nel mio eremo, da solo nel bosco, a qualche minuto dalla Comunità, ogni tanto mi viene un po’ di malinconia. La voglia di una relazione intima. Di un “tu”. Noi monaci il “tu” lo diciamo solo a Gesù, ma Gesù non lo abbiamo mai visto». Lei conosce i confini della Libia? «Sono stato in Tunisia, Egitto, Sudan». Sa quanto costa un pacco di pasta? «Un euro e mezzo? Ogni tanto mi infilo nei supermercati. Osservo le persone e la barbarie a cui sono costrette». La barbarie? «Per un piemontese comprare delle alette precotte e caramellate è una barbarie. Solo una crisi profonda ti può portare a mangiare quella roba». Conosce l’articolo 3 della Costituzione? «Nel 2009 mi hanno conferito il premio “Articolo 3”. Purtroppo però di fronte alla legge non siamo tutti uguali. Ci sono politici che vivono nell’illegalità e che vengono continuamente riciclati nelle istituzioni». Sul Fatto Quotidiano, lei ha criticato Vincenzo De Luca, condannato per abuso di ufficio ed eletto presidente della Campania. «Provo vergogna. In Italia è così difficile dire che la legalità va rispettata?». Tutti sostengono che De Luca sia un ottimo amministratore. «Non lo metto in dubbio. Ma l’uomo farà sempre cose cattive se non gli nuocciono o se sa di farla franca. Per evitare che si comporti male serve un supporto culturale, una linea etica, un esempio. E se la politica non dà l’esempio…».

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il commento al vangelo della domenica

 ERANO COME PECORE CHE NON HANNO PASTORE

commento al Vangelo  della domenica sedicesima del tempo ordinario (19luglio 2015) di p. Alberto Maggi 

p. Maggi

Mc 6, 30-34

In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare.
Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero.
Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.


El’unica volta nel Vangelo di Marco in cui appare il termine di “apostolo” che non indica un titolo, una carica, ma una funzione: significa “inviato”. Quando i discepoli sono inviati, sono “apostoli”.
Ebbene questi apostoli, i discepoli, “si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato”. Ma Gesù non li aveva autorizzati ad insegnare e anche quello che hanno fatto non era quello che Gesù li aveva incaricati di fare. Abbiamo visto già nella volta scorsa come questi discepoli non fanno ciò per cui Gesù li aveva inviati. Quindi loro hanno fatto e insegnato e Gesù non si mostra molto felice di questa loro relazione e infatti dice “Venite in disparte”. Questo ‘disparte’ è un termine tecnico adoperato dagli evangelisti – lo troviamo più volte non solo in Marco, ma anche negli altri autori del Vangelo – che indica sempre incomprensione o ostilità, o addirittura, opposizione a Gesù.
Quindi tutte quelle volte che Gesù prende i discepoli ‘in disparte’ è perché da parte dei discepoli c’è incomprensione, ostilità o opposizione al messaggio di Gesù. Allora questi discepoli che non hanno fatto ciò di cui Gesù li aveva incaricati e addirittura si sono messi ad insegnare – Gesù non li ha mai autorizzati ad insegnare. C’è differenza nella lingua greca tra ‘insegnare’ e ‘predicare’. ‘Insegnare’ significa adoperare le categorie dell’Antico Testamento per annunziare il nuovo e questo sarà un ruolo che Gesù si prende per se, solo Gesù sa ciò che dell’Antico è ancora buono per annunziare la novità del Regno. Quindi Gesù non autorizza mai i discepoli ad insegnare, li manda invece a ‘predicare’. ‘Predicare’ significa l’annunzio con categorie nuove.
Quindi loro hanno insegnato, hanno preso le categorie dell’Antico Testamento e hanno prodotto un risultato un poco confuso. Infatti, scrive l’evangelista che “molti venivano”. Probabilmente questi discepoli hanno annunziato il Messia secondo le categorie nazionaliste e questo ha creato entusiasmo. Mentre Gesù nella sinagoga del suo paese è stato accolto da scetticismo, la predicazione dei discepoli è accolta con entusiasmo. Quindi significa che la linea di Gesù e quella dei discepoli non è la stessa.
“Allora”, scrive l’evangelista, “andarono con la barca in un luogo deserto, in disparte”. Quindi Gesù li vuole separare dalla folla perché loro hanno creato una falsa attesa, quella del Messia trionfante, il Messia vincitore.
E, notiamo questo particolare “sceso dalla barca” – l’evangelista avrebbe dovuto scrivere ‘scesero dalla barca’. No, i discepoli rimangono sulla barca, Gesù li distanzia dalla folla. “Gesù vide una gran folla ed ebbe compassione”. Questo ‘avere compassione’ è un termine tecnico dell’Antico Testamento e anche del Nuovo che è adoperato esclusivamente per Dio. Gli uomini hanno misericordia, ma è solo Dio che ha compassione. La ‘compassione’ non è un sentimento, ma un’azione divina con la quale si restituisce vita a chi vita non ce l’ha.
Nell’Antico Testamento è riservata esclusivamente a Dio, nel Nuovo a Dio e a Gesù. Ebbene la compassione di Gesù verso questo popolo che non ha vita è perché erano “pecore che non hanno pastore”. Mosè aveva chiesto che ci fosse sempre un pastore nel suo popolo perché il gregge non fosse sbandato e invece la folla è come ‘pecore che non hanno pastore’. Ma in realtà i pastori ce li avevano, tanti, forse anche troppi, è che questi pastori non si curavano del bene del popolo, ma soltanto dei propri interessi. Non curavano la salute, la vita del popolo, ma difendevano i propri privilegi; non servivano il gregge, ma lo dominavano.
Allora Gesù, di fronte a questa situazione che era stata già denunciata dai profeti, prende lui il ruolo di pastore.
Da questo momento Gesù sarà il vero pastore di Israele. “E si mise a insegnare loro molte cose”. Gesù non insegna dottrine per dominare le persone, ma, lo vedremo, si fa alimento, comunicazione vitale, che consente al popolo di vivere

 

 

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