L. Boff ricorda A. Paoli

ci ha lasciato l’uomo che sempre attendeva l’avvento di Dio

nella notte tra il 12 e il 13 luglio ci ha lasciati fratel Arturo Paoli, il piccolo fratello di Charles de Foucauld che il prossimo 30 novembre avrebbe compiuto 103 anni.

Tra i ricordi che in tanti hanno voluto dedicargli in questi giorni ho scelto  Leonardo Boff

 


Ha fatto di tutto nella sua vita. Da giovane fu ateo e marxista. Ma improvvisamente si convertì. Venne ordinato prete durante la guerra. Poi entrò nella Resistenza contro i nazisti. Nel 1949 diventò vice assistente nazionale della Gioventù cattolica. Ma le sue posizioni non piacquero allo status quo ecclesiastico e così venne incaricato di imbarcarsi come cappellano in una nave di emigranti italiani in Argentina. Durante il viaggio di ritorno incontrò un piccolo fratello di Gesù, seguace di Charles de Foucault, il cui carisma è quello di vivere tra i più poveri. Visse il periodo di noviziato in Algeria, nel deserto, ed entrò nella lotta di liberazione contro la dominazione francese. Venne mandato poi in Argentina dove lavorò per anni con i boscaioli. Andò nel Cile di Pinochet. Ma il suo nome comparve presto nella lista degli obiettivi da eliminare: “chi incontra uno di questi, può ucciderlo”. Trascorse un po’ di tempo in Venezuela, ma finì per insediarsi in Brasile, a Foz do Iguaçu, dove diede vita a varie iniziative a favore dei poveri, tra cui una cooperativa di produzione e commercializzazione di erbe medicinali, un’azienda agricola per giovani emarginati e altri progetti popolari che proseguono anche oggi.

Ha ricevuto molti riconoscimenti, quasi sempre rifiutati. Ma il più importante fu quello del 29 novembre del 1999 a Brasilia, quando l’ambasciatore israeliano gli conferì il riconoscimento più importante per i non ebrei, quello di “Giusto tra le Nazioni”. Durante la guerra aveva creato con altri una rete clandestina che aveva salvato 800 ebrei.

Si fece monaco senza uscire dal mondo, restando sempre nel mondo di coloro che sono spezzati e umiliati. Tutto il suo tempo libero lo dedicava alla preghiera e alla meditazione. Durante il giorno recitava mantra e invocazioni. È stata una delle figure più impressionanti passate nella mia vita, dotato di una retorica in grado di resuscitare i morti. Eravamo amici-fratelli.

Aveva un suo modo singolare di pregare. Fu lui a raccontarmelo. Pensava: se Dio si incarnò in Gesù, allora fu come noi: faceva la pipì e la cacca, piagnucolava per avere il latte, faceva smorfie quando qualcosa lo infastidiva come il pannolino bagnato. All’inizio, pensava, Gesù dovrà aver amato di più Maria, poi dovrà aver amato di più Giuseppe, tutte cose che Freud e Winnicott ci hanno spiegato. Ed è cresciuto come i nostri bambini, giocando con le formiche, correndo dietro i cagnolini e rubando frutta nel cortile del vicino.

Questo strano mistico pregava Nostra Signora immaginando come cullava Gesù, come lavava i pannolini sporchi e come cucinava la pappa per il Bambino e i piatti per il marito carpentiere, il buon Giuseppe. E si rallegrava interiormente con tali immagini perché così doveva essere pensata l’incarnazione del Figlio di Dio, nella linea di papa Francesco, non come fredda dottrina, ma come fatto concreto. Sentiva e viveva queste cose con il cuore. E spesso piangeva di gioia spirituale.

Dovunque andasse, creava sempre intorno a sé una piccola comunità nella più povera favela della città. Aveva pochi discepoli. Giusto tre, che finivano per andarsene tutti. Ritenevano troppo dura quella vita, e dovevano anche meditare durante il giorno, a lavoro, in strada, in visita alle baracche più fatiscenti.

Si unì allora a una parrocchia che faceva lavoro popolare. Lavorava con i senza terra e con i senza tetto. Coraggioso, organizzava manifestazioni pubbliche di fronte al Comune e spingeva ad occupare terre improduttive. E quando i senza terra e i senza tetto riuscivano a insediarsi, preparava belle “mistiche” ecumeniche come fa sempre il MST.

Ma tutti i giorni, intorno alle 10 di notte, si nascondeva nella chiesa buia. Solo un lume lanciava tremuli lampi di luce, trasformando le statue morte in fantasmi e le colonne in strane streghe. E là restava fino a tardi. Tutte le notti. Impassibile, gli occhi fissi sul tabernacolo.

Un giorno andai a cercarlo in chiesa. Gli domandai a bruciapelo: «Fratel Arturo, tu lo senti Dio, quando, dopo il lavoro, ti metti a pregare qui in chiesa?».

Con tutta tranquillità, come chi si sveglia da un sonno profondo, disse solo: «Io non sento niente. È da molto che non ascolto la sua voce. Un giorno la sentivo. Era meraviglioso. Riempiva i miei giorni di musica e di luce. Oggi non sento più niente. Soffro dell’oscurità. Forse Dio non vuole parlarmi mai più».

E allora, replicai: «Perché resti tutte le notti lì nella sacra oscurità della chiesa?». «Resto – rispose – perché voglio essere sempre disponibile. Se Egli volesse manifestarsi, uscire dal suo Silenzio e parlare, io sto qui in ascolto. E se volesse parlare e io non stessi qui? Perché, ogni volta, viene solo un’unica volta. Come prima».

Tanta disponibilità mi ha meravigliato e fatto riflettere. È grazie a queste persone, questi anonimi mistici, che la Casa Comune, secondo quanto dice papa Francesco, non è distrutta e Dio mantiene la sua misericordia sull’umana malvagità.

Queste persone vegliano e attendono, contro ogni speranza, l’avvento di Dio che forse non avverrà mai. Ma sono i parafulmini divini che raccolgono la grazia che, silenziosamente, si diffonde per l’universo e fa sì che Dio continui a donarci il sole e tutte le stelle e penetri a fondo nel cuore di tutti coloro che vivono nella Casa Comune. E se Dio apparirà ci saranno persone disponibili ad ascoltarlo. E piangeranno di gioia.

Il suo nome è Arturo Paoli, che a 102 anni è andato a vedere e ad ascoltare Dio il 13 luglio 2015, dove viveva a San Martino in Vignale, nelle colline di Lucca.

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basta limitarsi a contare i morti!

A COLLOQUIO CON L’ARCIVESCOVO DI AGRIGENTO, IL CARD. FRANCESCO MONTENEGRO

“Non posso continuare a contare i morti”

Giovanni Ruggeri

 

foto premio migranti

Un ordine mondiale ingiusto ha saputo produrre oltre 200 milioni di esseri umani in fuga. I poveri si sono stancati di essere poveri. Quanto all’immigrazione, è il perdurare di una mentalità colonialista che sta alla base delle inadempienze dell’Europa. L’isola di Lampedusa e i suoi abitanti sono un pezzo di un mondo nuovo. Una Chiesa che guarda avanti.

Tra il gravoso assillo dell’emergenza e l’inderogabile necessità di governare un fenomeno strutturale, il tema dell’immigrazione si va imponendo agli organi di governo nazionali e internazionali con un’urgenza prima d’ora sconosciuta. Fronti di impatto locale e implicazioni di portata sovranazionale premono su un’Unione Europea finora latitante, urgendo più adeguate soluzioni tra laltro nella gestione dei richiedenti asilo provenienti da paesi extraeuropei: obiettivo è la modifica delle disposizioni previste dal regolamento Dublino III, al fine di estendere oltre il paese d’arrivo il riconoscimento dello statuto di rifugiato e ridistribuire sull’intero territorio europeo quanti sbarcano sulle coste italiane (o arrivano per altre vie in Germania e Svezia, i tre paesi con la maggior concentrazione di rifugiati). Solo ultimamente, grazie all’impegno del presidente della Commissione europea J.C. Juncker e dell’Alto rappresentante della politica estera europea Federica Mogherini, si è arrivati ad approvare l’Agenda Immigrazione 2015-2020, che introduce la distribuzione obbligatoria dei profughi fra gli stati membri dell’UE, anche se taluni si mostrano riluttanti. Così, un peso e una responsabilità che finora sono stati quasi esclusivamente italiani, dovrebbero diventare europei.

Sui nodi di fondo e sulle prospettive più urgenti di questi temi si concentra l’intervista con il card. Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento diocesi cui appartiene Lampedusa , presidente della Commissione CEI per le migrazioni e membro del Pontificio consiglio per la pastorale dei migranti.

Eminenza, il fenomeno migratorio sta urlando quel che si è sempre saputo: il 20% del pianeta vive con l’80% delle risorse, lasciando il residuo 20% ad un 80% sempre più affamato. Nessun facile moralismo è però consentito, poiché l’intero sistema economico mondiale si regge su tale discrepanza, secondo alcuni tecnicamente non riformabile. Dobbiamo aspettarci una conflagrazione mondiale entro dieci-venti anni o è invece ipotizzabile una riforma globale?

Il fatto stesso che alcuni popoli si stiano spostando ci dice che il mondo sta cambiando: i poveri si sono stancati di essere poveri, di essere trattati da poveri e che si voglia che rimangano poveri. Vogliono riscattarsi, e questo tanto più se si considera che molte delle nazioni dalle quali partono sono quelle che ci assicurano tutte quelle materie prime (sopra o sotto terra) grazie alle quali esiste per noi il progresso ma per loro che ne sono esclusi il regresso. Io non ritengo possibile la fine di questo esodo: pare che nel mondo ci siano 230-250 milioni di emigranti, da qualcuno denominati «il sesto continente».

Le migrazioni non sono il male, bensì il segnale di un male più profondo: noi ci stiamo spaventando per il loro accadere, eppure avremmo dovuto esservi preparati, perché già dagli anni 50 si prevedeva un esodo di proporzioni bibliche, cui nessuno ha però voluto prestare attenzione.

Quale futuro ci si prospetta? Non possiamo affidarlo al destino: il futuro lo costruiamo noi, ma, se continuiamo a fare come lo struzzo, fingendo di non vedere, di sicuro andiamo verso il peggio. Se, invece, prendiamo coscienza delle grandi ingiustizie esistenti, se ci rendiamo conto che la nostra è solo una civiltà tra le altre e che l’incontro tra i popoli è una necessità, allora possiamo tentare di governare insieme a questi popoli un tale esodo, senza esserne travolti.

Al netto di ogni lodevole proposito, lei si rende conto che immaginare una riforma globale, specie del Nord del mondo, implica una rivoluzione sul piano dei sistemi di produzione, delle strutture economiche, del governo delle società e degli stili di vita?

Certo! Dovremmo abbandonare la mentalità da colonizzatori e smetterla di sfruttare questa gente! Una certa rivoluzione noi l’abbiamo già iniziata, ma ci rendiamo conto che non sta portando buoni risultati: parliamo di globalizzazione e del mondo come di un unico grande villaggio, però poi cadiamo in contraddizione perché, dopo aver messo il profitto al primo posto, stabiliamo che merci e denaro possiamo spostarli, in quanto rendono, mentre le persone debbono assolutamente rimanere a casa loro. Se il risultato di ciò sono 230 milioni di persone che si spostano, è evidente che tale rivoluzione non sta riuscendo.

Rivoluzione per rivoluzione, tentiamone un’altra: papa Benedetto XVI ha avuto il coraggio, nell’enciclica sociale Caritas in veritate, di inserire la parola gratuità. Per noi l’economia è sommare o sottrarre, non c’è posto per la gratuità: il papa, invece, la inserisce e questo indica che il sistema deve cambiare. È una rivoluzione, ci costerà, ma quel che avviene oggi non ci sta costando caro? È ormai evidente a tutti che l’egoismo è ciò che regna nella nostra Europa, dove la vera preoccupazione non concerne la solidarietà ma il profitto: l’altro è sempre sotto di me, io sempre nella posizione di chi deve guadagnare.

Questo giochetto lo si voglia osservare come credenti o come uomini di buona volontà non può durare, perché, fin quando ci sarà un uomo piegato dalla prepotenza, mutilato della sua dignità (un tempo c’erano i faraoni, oggi abbiamo le multinazionali; un tempo c’erano gli schiavi e oggi abbiamo scoperto che ci sono ancora, poiché gli uomini sono una buona fonte di guadagno), nessuno può avere garanzia di un futuro migliore.

Abbiamo bisogno di rileggere la storia e le nostre scelte. Si obietterà che, in questo modo, bisogna mettere tutto sottosopra: di fatto, ci troviamo già in un sottosopra che non riusciamo a governare.

Gli organismi di governo sovranazionali e nazionali sono consapevoli, attrezzati e disponibili in ordine a questo cambiamento radicale?

Attrezzati non credo, altrimenti avrebbero tirato fuori gli attrezzi; consapevoli, mi pare strano che possano non esserlo, visto quanto sta accadendo; disponibili, solo se la si smette di calcolare quanto ci si mette in tasca. Qualche tempo fa, il Fondo monetario internazionale ha detto che, nel mondo, ci sono un miliardo e 300 milioni di esuberi, quasi a lasciar intendere che, se tanta gente morisse, ci farebbe un favore. E, mentre l’ONU ha atteso tanto tempo prima di far sentire la sua voce, l’Europa che si vanta di essere unita è solo la somma di tanti egoismi messi insieme.

Sono andato sia a Strasburgo che a Bruxelles e mi è stato detto: se si parla di denaro, in qualche modo possiamo intenderci; ma se parliamo di uomini, allora dovremmo pensare in 27 alla stessa maniera, e lei comprende quanto tempo ci vorrà! Per ora stiamo solo contando i morti: ci emozioniamo davanti ai cadaveri, ma continuiamo la nostra storia passando su di loro. Che civiltà è quella in cui conta il più forte?

Dove sta sbagliando l’Europa e cosa è urgente fare?

L’Europa guarda ai poveri che migrano come se fosse un’altra storia, senza voler invece riconoscere che, alle radici di tale storia, ci siamo noi con le nostre colonizzazioni. Molti governi europei sostengono governi di paesi di partenza che non sono né legali né trasparenti: si interviene solo quando c’è qualcosa da guadagnarci (petrolio, diamanti…). L’Europa deve rendersi conto di essere immersa fino al collo nella storia passata e recente di questi popoli, anziché continuare a stare sugli spalti come duemila anni fa al Colosseo, con in campo uomini che combattono per sopravvivere. Occorre chiedersi quale futuro si vuole e che cosa significhino convivenza e solidarietà, perché dichiarazioni e fatti dei nostri giorni stanno causando solo una maggiore frantumazione di quella finta solidità che certe nazioni avevano.

Io non sono un tecnico e non sono in grado di indicare le soluzioni: i tecnici ci sono, hanno le competenze necessarie, che studino! Mio compito è ricordare una realtà che i tecnici non vogliono ma devono guardare, perché io non posso continuare a contare morti!

«Lampedusa è il simbolo della fallimentare politica in tema di immigrazione portata avanti nel nostro paese», ha dichiarato lei tempo fa. Come tradurre questa denuncia in una proposta ai dirigenti politici italiani?

Cerchiamo di comprendere cosa voglia dire accoglienza: ti salvo dal mare, ti metto sulla terraferma, e poi? Passata l’emergenza, viene il momento di riflettere sul “poi”. Certamente l’Italia non può gestire da sola questo flusso: se i confini europei sono unici, bisogna intervenire unitariamente. Ma ci sono errori grossolani che non si possono commettere, come invece ancora accade, ad esempio, con le lungaggini per il riconoscimento dello status di profugo: è ovvio che tutti quei giovani che stanno per mesi e mesi alloggiati in case e alberghi a far nulla, prima o poi si incattiviscono vogliamo forse creare ad arte la sindrome della paura? E che dire dei ricongiungimenti, del problema dei minori e dei tanti che scompaiono?

«Caritas sine modo: amore senza limiti» è il motto che lei scelse all’inizio del suo episcopato. Dopo tanti anni di lavoro con poveri e migranti, come sente oggi quelle parole?

Ho tratto quel motto da un libro di mons. Tonino Bello cui sono molto legato, andai in pellegrinaggio alla sua tomba quando venni fatto vescovo , il quale racconta che, una volta, entrando in una chiesa, vide un crocifisso accanto al quale erano scritte quelle parole. Per quanto mi riguarda, devo dire che ciò che sto vivendo è per così dire colpa di mia madre, la quale da piccolo mi ha sempre portato dai poveri, insegnandomi che andavano amati. Mamma era dama di carità e non si è mai fatta scrupolo di farmi entrare nelle baracche, nei luoghi peggiori, rispondendo con santa ingenuità a coloro che la rimproveravano di portare un bambino in simili posti che, facendolo per il Signore, non mi sarebbe accaduto nulla di male.

Sin dai primi anni di sacerdozio, mi sono dovuto interessare di una casa di disabili e, da allora, mi sono sempre ritrovato perché così mi è stato chiesto in servizio per i poveri, prima alla Caritas e poi ai migranti. Anche recentemente, quando sono stato fatto cardinale, la chiesa che mi è stata consegnata a Roma si trova dove ci sono suore di madre Teresa e monaci: carità e preghiera.

I poveri hanno dato un colpo d’ala al mio sacerdozio e la mia missione di vescovo ho sempre cercato di viverla come un servizio. Quando sono stato fatto cardinale, il papa al telefono mi ha detto: «Ti raccomando: il cardinalato è un servizio e va fatto in povertà». Ecco i miei binari: se volessi uscirne, non saprei proprio cosa fare.

A proposito del papa, la sua visita a Lampedusa, la prima del pontificato, è stata definita giornalisticamente la prima enciclica. Qual è stata l’emozione dominante di quel giorno e che cosa prova lei nel vedere quello che la sua gente fa per i tanti che sbarcano sull’isola?

Del papa mi ha colpito il modo in cui si è avvicinato a Lampedusa: ha detto di essere venuto a piangere i morti, il suo è stato un pellegrinaggio nel santuario dell’uomo, voleva essere dove l’uomo soffre. Io l’ho seguito con gli occhi e le parole che tante volte ha ripetuto quella mattinata erano: «Quanta sofferenza!». A volte sembrava estraniarsi da ciò che c’era attorno, come se fosse su un piano più alto. Mi ha colpito molto il suo sguardo su quella sterminata sofferenza: il papa si è voluto fermare a piangere e a interrogarsi in mezzo a quel mare diventato tomba liquida. Non ho dubbi che quel viaggio ci abbia dato le chiavi del suo pontificato.

Circa la mia gente, Francesco ha detto che a Lampedusa povertà e accoglienza si sono incontrate. Io ho sempre sostenuto che Lampedusa è un pezzo di mondo nuovo, una terra dove c’è gente povera che sa guardare in faccia l’altro povero. In alcuni momenti i lampedusani hanno avuto paura: l’avrei avuta anch’io se in un paese di 5 mila abitanti ti ritrovi 10 mila immigrati (tra l’altro, mi chiedo ancora perché siano stati lasciati sull’isola per così tanto tempo, così come non comprendo perché i mezzi di comunicazione abbiano voluto gonfiare un clima di terrore annunciando sbarchi sull’isola di dimensioni bibliche, che in realtà non ci sono stati).

Qualche volta, parlando con dei biblisti, suggerisco loro di fare una sinossi tra le prime pagine della Bibbia e quanto sta avvenendo a Lampedusa: troveremmo la stessa storia, completata con la venuta di “Mosè” papa Francesco , che ci ha indicato la strada. Se leggiamo quanto sta accadendo con gli occhi della Bibbia, non possiamo non darci da fare, perché noi credenti vi siamo profondamente implicati; leggerla invece come cronaca, fa produrre soltanto statistiche, ma le persone non sono materia per statistiche.

Linguaggio, scelte, orizzonti: papa Francesco sta portando aria nuova nella Chiesa e le persone comuni, anche quelle lontane dalla pratica, lo capiscono e lo apprezzano. Che strade sta segnando per la Chiesa?

La nostra è una fede facile, che non ci costa niente, una specie di contabilità aperta con Dio vengo a messa, faccio un po di elemosina, dico qualche preghiera per sentirci a posto. Papa Francesco ci sta dicendo che occorre una fede diversa, vissuta per intero, dallinizio alla fine del Vangelo, senza gli sconti che abitualmente cerchiamo.

Papa Francesco non sta facendo niente di straordinario: ci sta rileggendo il Vangelo, sottolineando alcuni aspetti di cui c’eravamo dimenticati, tanto che ci meravigliamo di quel che ci sta dicendo, mentre avremmo dovuto trovarci nella condizione di dirgli: «Guarda che questo lo stiamo già facendo, dicci altro». Se rimaniamo a bocca aperta davanti alle sue parole, è perché abbiamo letto male il Vangelo. Noi cerchiamo un Dio che conforta, mentre il Signore ha detto che la sua parola è come spada: il nostro Dio ci mette sempre sottosopra.

Papa Francesco sta rimettendo in campo una Chiesa rimasta troppo chiusa: le nostre comunità sono spesso rifugi e talvolta ripostigli, mentre il papa ci dice di metterci per strada. Nella nostra Chiesa, che è una Chiesa di poveri, di fatto i poveri non trovano ancora posto. Le parole del papa valgono per tutti: fedeli, vescovi, cardinali, perché il Vangelo si rivolge a tutti.

Amore di sincerità ci obbliga a riconoscere che, al di là di reverenziali ossequi di facciata, vi sono ambienti ecclesiali dove lo “stile Francesco” è accolto con scarsa simpatia, e anche ad alto livello non mancano serie resistenze. Quali sono a suo parere le radici culturali e spirituali di tali divergenze?

Il papa ci sta proponendo il Vangelo e il Vangelo è una proposta di rischio. Fino ad oggi, noi ci siamo preoccupati di conservare quello che avevamo e ora troviamo le nostre chiese chiuse: abbiamo contato le nostre comunità a partire dai praticanti anziché dai credenti.

C’è, però, un modo diverso di vivere Chiesa e Vangelo: se la mia preoccupazione è salvare il passato senza guardare avanti, finirò per sbattere contro i pali che si trovano per strada, poiché così accade a chi guida guardando indietro.

Noi abbiamo paura di correre il rischio di lasciare la pecorella rimasta nell’ovile e cercare le novantanove che ne sono uscite, mentre il papa ci dice di guardare avanti, ci chiede di accelerare. La vita del mondo corre veloce, mentre noi procediamo ancora con il freno a mano tirato. Il Vangelo è parola che inquieta e provoca al cambiamento.

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ricordare fratel Arturo con le sue parole

Addio ad Arturo Paoli

difendere Cristo dal cristianesimo

la cultura cristiana responsabile dei mali del mondo

lo affermava fratel Arturo Paoli, un uomo mite e coraggioso, un religioso determinato e radicale che ha segnato il nostro tempo

 

si sono svolti oggi  alle ore 18.00, nella cattedrale di Lucca, il funerali di Arturo Paoli, sacerdote e Piccolo Fratello del Vangelo (della famiglia spirituale di Charles de Foucauld), morto ieri nella sua abitazione presso la canonica della parrocchia di San Martino in Vignale. Aveva 102 anni. Sarà sepolto, secondo la sua volontà, nel piccolo cimitero di San Martino in Vignale.Nato a Lucca nel 1912, si laurea in Lettere nel 1936 e ordinato sacerdote nel 1940. Partecipa alla Resistenza e aiuta gli ebrei perseguitati dal nazismo. Nel 1949 è viceassistente della Gioventù di Azione Cattolica ed è tra coloro che affermano l’autonomia dei laici nelle scelte politiche, posizione riconosciuta legittima solo molti anni dopo, con il concilio Vaticano II.Incontrata la congregazione religiosa ispirata a Charles de Foucault, a metà degli anni ’50 vive a Orano in Algeria. Rientra in Italia nel 1957, ma viene allontanato dalle gerarchie vaticane che non gradiscono le sue critiche. La sua esperienza continua in America Latina (Argentina, Venezuela, Brasile) fino al 2005. Sulle pagine di Nigrizia ha tenuto, negli anni ’80 e ’90 una rubrica: Lettera dall’America Latina.

Nell’intervista che segue, raccolta da Bruna Sironi e pubblicata da Nigrizia nel maggio del 2000, dice con chiarezza qual è il suo sogno di Chiesa.

Lei ha ripetuto in varie occasioni che la cultura cristiana è responsabile dei mali del mondo. Qual è il senso della sua affermazione?

Il mondo occidentale cristiano è il luogo da cui partono tutti i comandi di morte, da cui si organizzano le guerre, in cui si realizza l’accumulazione che toglie il pane a milioni di persone. E non c’è caduto per disgrazia, in quest’avventura di essere il centro del male del mondo. È una conseguenza logica e fatale della sua cultura. Abbiamo sempre pensato che il centro di tutto è l’io, l’essere, il soggetto, e abbiamo proiettato questa filosofia su tutte le strutture politiche ed economiche che abbiamo creato.
Anche la globalizzazione non è venuta a caso, ma è la conseguenza di un cammino filosofico di secoli, che ha affermato questo principio di unificazione dando origine alla necessità di un soggetto unico, dominatore. E ha prodotto il mercato, la dittatura, il partito. Creazioni astratte, unificanti, dominanti il mondo e la storia, che hanno intrinseca la tendenza alla negazione, alla soppressione dell’altro. Ci siamo vantati di portare al mondo la civiltà, ma aveva questo veleno dentro: la necessità di sopprimere l’altro, di non riconoscergli la sua cultura, la sua religione, la sua vita. Dobbiamo assumerci questa responsabilità.

Giovanni Paolo II ha chiesto perdono per le responsabilità della Chiesa…
È molto commovente, ma è come un’aspirina per una persona che sta morendo di cancro. Il papa ha detto di aprire le porte a Cristo, ma a quale Cristo? Quello solenne, dominatore, o quello povero fra i poveri? Perciò non ha fatto altro che caricare di responsabilità il mondo cristiano.
Ci manca un’etica. Abbiamo perso il senso della giustizia. Se accettiamo la sponsorizzazione di pellegrinaggi da parte di multinazionali che conoscono solo l’etica del profitto, come possiamo dire di no alla clonazione? Dobbiamo essere integrali, coerenti, completi. La nostra etica deve partire dai diritti degli offesi, degli oppressi. È solo su questa base che possiamo pensare un nuovo mondo.

Come deve essere una Chiesa nuova?
Dobbiamo difendere Cristo dal cristianesimo, dalla cultura cristiana. Cristo ha predicato la fraternità, la giustizia. A partire dai poveri, dalle vittime dell’ingiustizia. Non ha fatto mai teoria, non ha mai parlato neanche di Dio, si è semplicemente messo accanto ai poveri. Cristo è essenzialmente liberatore, e liberatore dei poveri.

Lei torna spesso sulla teologia della liberazione fiorita negli anni ’70…
È stata una rivoluzione culturale in quanto vedeva possibile la conoscenza di Dio attraverso la discesa tra gli uomini, per realizzare la giustizia, l’uguaglianza, la fraternità; temi spesso dibattuti ma che non possono essere risolti senza un cambiamento totale della nostra cultura. Doveva essere un messaggio felice per i poveri, ma non poteva non suscitare la reazione dell’Erode e della Gerusalemme religiosa del tempo.

Il rapporto tra il missionario e il denaro?
La missione, come tale, non dovrebbe esistere. Lo dice Gesù stesso. Basta leggere il capitolo 10 del Vangelo di Luca. Si deve andare tra i poveri come amici, senza nulla, e farsi accogliere. Bisogna invertire la posizione: non sono io, ricco, che vado al povero, ma devo andarci povero, alla pari con lui. È il concetto stesso di missione che bisogna cambiare. Se c’è una disuguaglianza di partenza non si può mai creare una vera amicizia.

 
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