il vangelo dell’Ascensione commentato da p. Maggi, Casati e Castillo

Mt 28,16-20

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

A ME E’ STATO DATO OGNI POTERE IN CIELO E SULLA TERRA 

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi

maggi

Può sembrare alquanto strano che proprio per la festa dell’ascensione la liturgia ci presenti un vangelo dove questa non appare. L’ascensione viene narrata nel vangelo di Luca, in quello di Marco, ma non in Matteo. Ebbene il brano è proprio di Matteo, ma perché questo? Perché l’ascensione non è una separazione di Gesù dall’umanità, ma una vicinanza ancora più intensa, non è un’assenza, ma una presenza ancora più viva e partecipata. Ma vediamo il vangelo. E’ il  capitolo 28 di Matteo, dal versetto 16. Sono gli ultimi versetti del vangelo di Matteo, il finale. “Gli undici discepoli”, manca Giuda. Egli ha fatto la sua scelta. Gesù ha detto “Non potete servire Dio e il denaro”, lui ha scelto il denaro che, dome tutti i falsi idoli, distrugge chi lo adora. Quindi Giuda non c’è. “Andarono in Galilea sul monte che Gesù aveva loro indicato”. Ecco questo è abbastanza strano. E’ vero che per tre volte c’è stata l’indicazione che Gesù sarebbe stato visibile in Galilea; non a Gerusalemme. Gesù risuscitato non appare mai in questa città sinistra, luogo dell’istituzione religiosa, segno di morte. La vita è incompatibile con la morte. E per tre volte c’è l’invito ad andare in Galilea, ma mai in nessuno di questi inviti veniva specificato il luogo. Invece qui gli undici vanno a colpo sicuro, “su il monte”, non un monte dei tanti che componevano la Galilea, ma “il monte che Gesù aveva loro indicato”  Qual è questo monte? L’espressione “il monte” è apparsa all’inizio del vangelo, al capitolo 5, per indicare il monte delle beatitudini, dove Gesù ha annunziato il suo messaggio. Le beatitudini erano otto perché otto è il numero della risurrezione – Gesù è risuscitato il primo giorno dopo la settimana – e la cifra otto indica la pienezza di vita capace di superare la morte. Con Gesù la morte non solo non interrompe la vita, ma le permette di liberare tutte le sue energie e di fiorire in una forma nuova, piena e definitiva. Per questo gli undici vanno su il monte che è il monte delle beatitudini. Cosa vuole dire l’evangelista? Che l’esperienza del Cristo risuscitato non è stato un privilegio concesso duemila anni fa a un gruppo di persone, ma una possibilità per tutti i credenti. Basta accogliere il messaggio di Gesù, praticare le beatitudini e fra queste c’era appunto quella che diceva “Beati i puri di cuore perché essi vedranno Dio”. Infatti l’evangelista scrive: “Quando lo videro”, che non riguarda la vista fisica, ma la vista interiore, quella della fede, “si prostrarono”. Quindi vedono Gesù risuscitato, si prostrano, cioè riconoscono in lui la condizione divina. Ma c’è una stranezza, “Essi però dubitarono” Ma di che cosa dubitano? Non che sia risuscitato, dato che lo vedono. Non che Gesù abbia la condizione divina, dato che si prostrano. Di cosa dubitano? Questo verbo “dubitare” appare solo due volte in questo vangelo e la prima volta era al capitolo 14, versetto 31, quando Pietro aveva voluto camminare sul mare, sulle acque, cosa che significava avere la condizione divina. Ma, ben presto, cominciò ad affogare perché si spaventò del vento. Pensava che la condizione divina provenisse da un privilegio concesso dall’alto e non per un impegno da parte dell’uomo di affrontare le avversità. Ebbene quando sta per affogare Gesù lo rimprovera “Uomo di poca fede perché hai dubitato?” Allora qui di cosa dubitano questi discepoli? Dubitano di essere  di raggiungere anch’essi la condizione divina, perché hanno visto cosa costa: l’infamia del tradimento, dell’abbandono e della croce. Sono loro che, quando nell’ultima cena insieme a Pietro avevano assicurato a Gesù che non lo avrebbero rinnegato, invece, appena Gesù è stato arrestato, lo hanno tutti abbandonato. Per questo dubitano, di essere capaci di sopportare quello che Gesù ha sopportato, cioè l’abbandono, il tradimento e l’infamia della croce. Gesù si avvicina a loro e dice che gli è stato dato ogni potere in cielo e in terra, cioè la pienezza della condizione divina, e poi li invia. La relazione con Gesù è una relazione dinamica. L’amore di Dio non si centra su se stesso, ma vuole espandersi. Li manda a fare discepoli tutti i popoli, le nazioni pagane. E come? All’inizio del vangelo Gesù quando aveva chiamato i discepoli aveva detto: “Venite dietro di me e vi farò pescatori di uomini”. Cioè si trattava di togliere gli uomini dall’elemento mortale, l’acqua, per portarli in quello che dava loro la vita. Adesso Gesù dice dove e come. Dove? In tutta l’umanità. Il campo di lavoro dei discepoli di Gesù è tutta l’umanità. Come? Battezzandoli. Il verbo “battezzare” non ha il significato liturgico che poi renderà il verbo battezzare, che significa “immergere”.  “Battezzandoli nel nome”, cioè nella realtà, “del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Il numero tre indica la pienezza, e qui vuole indicare la triplice realtà della condizione divina, cioè un amore incondizionato e illimitato. Sarebbe a dire: “Andate e ogni persona immergetela, impregnatela di questo amore”. “Insegnando”, ed è l’unica volta in cui Gesù autorizza i suoi discepoli ad insegnare, “a osservare”, letteralmente “a praticare”, “tutto ciò che vi ho comandato”. E l’unica cosa che Gesù ha comandato in questo vangelo, nel quale appare il termine “comando”, sono le beatitudini. La pratica delle beatitudini significa orientare la propria vita al bene degli altri. Questo non può essere insegnato con una dottrina, ma attraverso comunicazioni ed esperienze di vita. Ebbene, se c’è questo, ecco l’assicurazione di Gesù, “Io sono con voi”, infatti all’inizio del vangelo Matteo aveva presentato Gesù come “il Dio con noi”, un Dio che non era da cercare, ma da accogliere, e, con lui e come lui andare verso l’umanità. “Io sono con voi tutti i giorni fino …”, e non è la fine del mondo ma “… alla fine del tempo”. Gesù non sta dando una scadenza ma una qualità di una presenza. Ecco allora ritornando al tema dell’ascensione che non é una separazione di Gesù dagli uomini, ma una presenza ancora più intensa. Non è una lontananza, ma una vicinanza continua, crescente, tutti i giorni.

 

commento al vangelo di don Angelo Casati

 

Casati

 

 

 

 

 

Un pastore della chiesa riformata, il pastore Paolo Ricca, scrivendo in questi giorni dell’Ascensione, diceva che “un po’ dappertutto l’Ascensione è diventata o tende a diventare la cenerentola delle feste cristiane”.

Ascensione, festa cenerentola. E si chiedeva perché, come mai?

Eppure dell’Ascensione si parla ampiamente nelle Sacre Scritture. A confronto per esempio col Natale, molto più ampiamente. Eppure vedete quanta importanza diamo al Natale, e quanta meno all’Ascensione. Perché? Come mai?

“La risposta” -scrive Paolo Ricca- “non è difficile: l’Ascensione è poco festeggiata perché la Chiesa esita a far festa nel momento in cui il suo Signore “se ne va”. La Chiesa festeggia volentieri il Signore che viene, ma non il Signore che parte; acclama colui che appare, ma non colui che scompare”.

Con l’Ascensione Gesù diventa invisibile.

L’invisibilità fa problema: mi ha colpito questa citazione di Dietrich Bonhoeffer, che scriveva: “L’invisibilità ci uccide”.

Sì, questo è un pericolo. Non è forse vero che nell’invisibilità ci si allontana a volte? Abbiamo perfino coniato un proverbio: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.

Quasi a dire che quando viene meno la visibilità -lontano dagli occhi- viene meno anche il rapporto la relazione.
E non è proprio questo quello che accade sul monte degli Ulivi, e cioè l’andare lontano dagli occhi? E’ scritto: “Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo…”.

Lontano dagli occhi. Ma ci chiediamo, lontano anche dal cuore questo Signore?

Ecco, la storia che seguì -e la storia che segue è certo quella narrata negli Atti degli Apostoli, ma anche quella narrata nei secoli successivi, è la storia anche dei discepoli di oggi- ebbene, la storia che segue contiene una sfida al proverbio, sta a dimostrare che la lontananza dagli occhi di Gesù, la sua invisibilità, non l’ha cancellato dal nostro cuore.
“L’invisibilità” -scrive Paolo Ricca- “non significa assenza, ma un altro tipo di presenza, quella dello Spirito con il quale Gesù paradossalmente è più vicino di prima ai suoi discepoli: prima stava “con loro”, adesso dimora “dentro” di loro”.

L’Ascensione rovescia il proverbio: “lontano dagli occhi, vicino nel cuore”.

Vorrei aggiungere che paradossalmente quella visibilità di Gesù a cui, a volte, guardiamo con nostalgia, la visibilità del passato, quando le folle lo toccavano, quando la donna peccatrice lo ungeva e lo profumava, quella visibilità era anche un ostacolo.

Un ostacolo perché tratteneva Gesù: lo tratteneva in un piccolo paese, nei confini che delimitavano la sua azione: quante migliaia di persone lo videro, lo ascoltarono? Poche senz’altro.

Da quando è asceso al cielo, pensate quante storie di uomini e di donne -miliardi, miliardi di storie e noi siamo una di queste storie- quante storie di uomini e di donne hanno stretto un legame con questo invisibile Signore. Voi mi capite, che Gesù -lontano dai nostri occhi- viva, viva con la sua presenza, con la sua parola, con la sua luce, con la sua consolazione, nei nostri cuori.

E da ultimo è anche vero che questa festa dell’Ascensione -lo faceva notare ancora Paolo Ricca- proprio perché sottrae il Signore ai nostri sguardi, ci fa vivere i nostri giorni anche come attesa. Perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno, allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo.

Vivere l’attesa. Non è facile imparare l’attesa. Aspettare Dio. Anche nella religione a volte abbiamo più l’aria di chi possiede, che lo sguardo curioso di chi attende.

Scrive P. Tillich:
“Penso al teologo, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in un edificio dottrinale.
Penso all’uomo di chiesa, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in una istituzione.
Penso al credente, che non aspetta Dio rinchiuso nella sua propria esperienza.
Non è facile sopportare questo non avere Dio, questo aspettare Dio…”.

E’ quello che ci insegna la festa dell’Ascensione.

croce

l commento del teologo Castillo:

 

Si legge nel Vangelo di oggi, festa dell’ASCENSIONE:
“Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato”
.”Questo finale del vangelo di Matteo (scritto dopo il 70 d.c., anno della distruzione di Gerusalemme) è la proiezione di un desiderio provocato dalla emarginazione religiosa causata dai conquistatori romani; il desiderio di trasformarsi nella religione universale, che si impone alle altre religioni e che, con il passare del tempo, è stata – con il papato – il prolungamento del preteso imperialismo universale di Roma. Ebbene, in problematiche di «religione», le pretese di universalità si traducono
inevitabilmente in violenza, divisioni, sfide, conflitti, desideri di dominio e di prepotenza.
Un «dio» che pretende di essere universale, per questo stesso motivo pretende
ugualmente di annullare gli altri «dèi», frutto di culture millenarie e costitutive dell’identità di milioni di esseri umani. Non sarebbe più ragionevole intendere e vivere l’esperienza religiosa come l’ha intesa (con il discorso delle beatitudini) e vissuta il Gesù terreno? Non sarebbe, per questo stesso motivo, più logico vivere la fede in Gesù come fede nella bontà, nel rispetto, nella tolleranza, nell’aiuto di tutti per tutti, quali che siano le forme concrete di convinzioni e di pratiche religiose che ogni popolo ed ogni cultura vive in concreto? Ecco una delle questioni più serie che ci pone la festa dell’Ascensione del Signore ”

(P. Josè Maria Castillo).

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il cristiano di fronte alla guerra e alle armi

Bettazzi 2

una bella conferenza di mons. Bettazzi, a suo tempo presidente internazionale di ‘pax Christi’, sul rapporto del cristiano con le armi e la risoluzione dei conflitti fra popoli con  la guerra

una conferenza un po’ datata ma ancora attualissima che fa il punto preciso sull’ampia problematica che vede la vita cristiana individuale ed ecclesiale coinvolta in scelte radicali per essere fedele al vangelo della pace:

INTRODUZIONE

DALLA GUERRA LIBERACI, SIGNORE

La pace è diventata oggi più che mai un tema fondamentale e di attualità.

Essa è sempre stata un desiderio dell’uomo e dei popoli; tra i grandi mali da cui si chiedeva al Signore di essere liberati, la guerra veniva unita alle epidemie e alle carestie: «A peste, fame et bello, libera nos Domine». Oggi peraltro la prospettiva della guerra appare veramente tragica, dal momento che le terribili armi nucleari creano la possibilità effettiva di un olocausto atomico, della distruzione globale dell’umanità.

1. I CRISTIANI DI FRONTE ALLA PACE E ALLA GUERRA

I «segni dei tempi» di oggi I megamorti Gli scienziati, consapevoli delle terribili possibilità delle forze distruttive da essi scoperte, e forse particolarmente toccati dalla responsabilità morale che si accompagna alle responsabilità scientifiche che sono loro proprie, hanno ammonito ripetutamente l’umanità. Essi si appellano soprattutto ai governanti, illustrando in maniera particolareggiata non solo la gravità delle distruzioni che verrebbero provocate diretta- mente dagli ordigni nucleari attuali, ciascuno migliaia di volte più potente delle bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki al termine della seconda guerra mondiale, ma altresì delle conseguenze che per lungo tempo renderebbero impossibile qualunque forma di soccorso e di sussistenza. Anche i costosissimi rifugi atomici che qua e là si stanno montando risulterebbero praticamente inutili.

L’Europa in più aggiunge la considerazione che una guerra atomica anche parziale tra le due grandi superpotenze, una guerra di «teatro» come si dice in gergo, avrebbe appunto come teatro l’Europa e porterebbe alla distruzione pressoché istantanea di tutte le sue città e alla morte della maggioranza dei suoi abitanti. Si parla oggi, anche solo nella previsione di una guerra «limitata», di ben 750 milioni di morti (o, come si dice con un macabro eufemismo, di 750 «megamorti») nelle prime ventiquattro ore: e là vi sarebbero inclusi quasi tutti gli europei!

Eppure si continuano a costruire armi sempre più raffinate e distruttive, secondo l’antico detto romano: «Se vuoi la pace, prepara la guerra». Il motivo diffuso è che bisogna difendersi, e che non c’è mezzo più persuasivo, per dissuadere l’avversario dall’ attaccare, che di rendersi più forti e quindi più temibili.

Se si rinunciasse a un bombardiere

Dobbiamo anche dirci chiaramente quanto le guerre fredde e le tensioni tra paesi possano venire influenzate dalle esigenze di mantenere i guadagni e i livelli di occupazione nelle fabbriche di armi, mentre non dobbiamo ignorare come tutto questo sia pagato col saccheggio di materie prime e di lavoro nei paesi dipendenti…

Sono facili i paragoni tra le spese militari e quelle civili. Già nel 1954 l’apostolo dei lebbrosi Raoul Follereau chiedeva, inutilmente, ad Eisenhower e a Stalin di rinunciare ciascuno a un bombardiere: le due potenze sarebbero rimaste in equilibrio reciproco, e con quei soldi si sarebbe eliminata la lebbra dal mondo!

Oggi basterebbe meno per eliminare la malaria o il vaiolo, mentre con l’equivalente di un solo carro armato si potrebbero costruire ottanta trattori agricoli, con un solo caccia a reazione ben quarantamila farmacie di villaggio, con un incrociatore lanciamissili cinquemila posti letto in ospedale, e con l’equivalente di un solo colpo di cannone si potrebbero pagare i libri per un ragazzo della scuola media per tre anni. Si è fatto il calcolo che i cinquanta milioni di uomini – quindici di bambini – che muoiono ogni anno per la fame o per le sue conseguenze, potrebbero essere salvati con le cifre di un mese e mezzo di spese militari!

Possono sembrare cifre proposte a scopi… emotivi; esse peraltro ci aiutano a prendere coscienza delle responsabilità che hanno soprattutto i paesi più industrializzati e più potenti.

sogno una chiesa

I cristiani e le guerre

Le guerre giuste

Nei primi secoli, i cristiani rifuggivano dalla guerra, vedendola come occasione di omicidio, oltreché spesso come occasione di culto pagano per propiziare la vittoria delle armi. Poi, finito il tempo della presenza «eroica» in un mondo pagano e persecutore, si è inaugurata con Costantino una nuova era, in cui lo Stato si preoccupa dell’incremento della comunità cristiana e ne prende le difese, con un esercito esso stesso composto di cristiani. Le guerre che difendono la religione cristiana o che salvaguardano uno Stato garante della vera religione risultano allora «giuste», anzi doverose. Così le Crociate saranno «giuste» per principio, proprio perché legate all’espansione e alla difesa della religione cristiana.

Il concetto di « guerra giusta » si allargherà poi fino ad abbracciare la difesa di qualunque « valore», ivi compreso l’onore dinastico (quando, ad esempio, un re dichiarava guerra a un altro re solo perché questi gli aveva rifiutato la mano della figlia!).

Quando si è capito che il concetto di « guerra giusta » era troppo elastico, lo si è ristretto alla « guerra di difesa », escludendo dunque ogni aggressione (sia pure per motivi nobili), e ponendo delle condizioni: un motivo serio, la legittima autorità che la gestisce, una certa « proporzione » tra i beni da difendere e i danni prodotti dalla guerra.

Anche questo concetto è oggi nuovamente in crisi, non foss’altro perché le guerre nucleari uccidono al primo colpo centinaia di milioni di persone e distruggono intere civiltà, mentre esigono, per una qualunque speranza di cosiddetta vittoria, che si spari per primi per annullare così la possibilità o il volume di attacco dell’avversario.

La pace e il cosiddetto «buon senso»

Non possiamo allora meravigliarci se il tema della pace non trova ancora oggi un’adeguata coscienza nell’opinione pubblica cristiana. Mentre altri temi hanno trovato precisazioni particolareggiate ed esigenti (dalle norme della morale sessuale al precetto della Messa festiva), il tema della guerra non è ancora entrato a pieno titolo e in tutti i suoi aspetti nella coscienza cristiana.

Credo che il grande ostacolo per un giudizio cristiano sia il cosiddetto « buon senso », che è poi oggi il giudizio suggerito dai mezzi di comunicazione sociale, spesso in mano agli stessi proprietari delle fabbriche d’armi!

In realtà, quando si parla tra cristiani di guerre e di armamenti atomici, non ci si appella quasi mai a motivazioni evangeliche. Si ricorre piuttosto a ragioni politiche, anzi partitiche, suggerite dalle scelte tra i due grandi blocchi, o da evidenti interessi economici che guidano la fabbricazione delle armi (da accumulare o da vendere ad altri paesi), e che manipolano l’opinione pubblica perché appoggi quanto è stato da loro programmato.

Il magistero della Chiesa sulla pace

Papa Giovanni XXIII

Di fronte ai drammatici « segni dei tempi » di oggi, il Magistero della Chiesa ha parlato, con chiarezza e con forza. Fu Papa Giovanni XXIII inaugurare questo Magistero specifico nel 1963, con l’Enciclica «Pacem in terris».

Egli era stato colpito dalle sofferenze e dalle contraddizioni della seconda guerra mondiale, che aveva vissuto come Delegato apostolico a Istanbul, un osservatorio privilegiato degli intrecci tra le varie diplomazie e dei loro retroscena più sconvolgenti, come pure delle tante miserie provocate dalle distruzioni belliche e dalle violenze razziali. Ancor più era rimasto sgomento per il rischio di guerra nucleare tra Usa e Urss al tempo della crisi di Cuba, nella quale era riuscito a essere fortunoso e provvidenziale arbitro di pace. Questo forse illumina la sua decisione di pubblicare un’Enciclica specifica sulla pace.

Due cose in essa sono da notare tra le altre: primo, l’assoluta novità di un documento pubblico con un tema non strettamente religioso e rivolto a tutti gli uomini di buona volontà (e non solo ai membri della Chiesa); e secondo, la novità appunto del richiamo ai «segni dei tempi», cioè alle situazioni concrete che, nella perennità della Rivelazione, impongono però nuove analisi e applicazioni per mantenerla sempre attuale ed efficace.

Il Concilio Vaticano II

Il Concilio Vaticano Il, convocato dallo stesso Papa Giovanni e allora in pieno svolgimento, raccolse questa intuizione, sviluppandola nella Costituzione Pastorale su «La Chiesa nel mondo contemporaneo» (chiamata dalle sue prime parole latine «Gaudium et spes»). Questo importante documento dichiara esplicitamente (al n. 78) che la pace non è soltanto il tacere delle armi, il dominio del più potente, o l’equilibrio delle armi (e siamo nel 1965!), ma è frutto di giustizia e di carità.

Passando poi a parlare della corsa agli armamenti (n. 81), il Concilio la condanna apertamente come una realtà non solo pericolosa («Le cause di guerra, anziché venire eliminate da tale corsa, minacciano piuttosto di aggravarsi gradatamente»), ma altresì ingiusta («Mentre si spendono enormi ricchezze per procurarsi sempre nuove armi, diventa poi impossibile arrecare sufficiente rimedio alle miserie così grandi del mondo presente»). Per questo il Concilio ribadisce (sempre al n. 81): « La corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell’umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri; e c’è molto da temere che, se tale corsa continuerà, produrrà un giorno tutte le stragi delle quali va già preparando i mezzi ».

Il documento, pur non giungendo a una condanna coraggiosa di ogni guerra, di fronte allo spavento di una guerra totale – quale sarebbe una guerra atomica – non esita a condannarla in modo esplicito e incondizionato, con una solennità che non si ritrova in altri testi conciliari: «Avendo ben considerato tutto ciò, questo Sacrosanto Concilio fa proprie le condanne della guerra totale già pronunciate dai recenti sommi Pontefici, e dichiara: ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni, e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità, e con fermezza e senza esitazione dev’essere condannato» (n. 80).

La Dichiarazione all’Onu sul disarmo

Tali condanne sono state riprese in documenti successivi. Così nel 1976 la Santa Sede inviava all’Onu una dichiarazione sul disarmo, nella quale la corsa agli armamenti veniva nuovamente condannata senza riserve. Si dice che essa è:

1. un pericolo, per l’uso che viene facilitato e per l’applicazione del ricatto;

2. un’ingiustizia, perché dà il primato alla forza, mentre sottrae numerose risorse alla possibilità di sopravvivenza e di sviluppo ai paesi più poveri: «Gli armamenti, anche se non messi in opera, con il loro alto costo uccidono i poveri, facendoli morire di fame»;

3. un errore, perché mentre intende salvaguardare l’occupazione non considera la possibilità di una graduale e programmata riconversione industriale;

4. una colpa, per la rinuncia a cercare modi di sussistenza diversi dal far costruire strumenti di morte;

5. una pazzia, perché provoca una forma di isterismo collettivo diminuendo la sicurezza con la crescita di nuovi rischi, e alimenta il commercio delle armi che provoca squilibri e incoraggia l’aggressività.

Gli ultimi interventi della Chiesa

Di recente (nel 1982) Papa Giovanni Paolo II durante il viaggio in Giappone rinnovava, a Hiroshima, la condanna alla guerra atomica, e in Inghilterra, a Coventry, affermava che ogni guerra, atomica o convenzionale, era da dichiarare inaccettabile.

Su questa linea ci sono state dichiarazioni locali ma significative. Così i vescovi olandesi, in unione con i capi religiosi protestanti, si pronunciavano contro l’accoglienza di missili nella loro patria, inducendo il governo a rinviare l’accettazione dèlle proposte fatte dalla Nato. Inoltre alcuni vescovi statunitensi (così mons. Hunthausen vescovo di Seattle o mons. Matthiesen vescovo di Amarillo) non hanno esitato a dichiarare illecita ogni collaborazione a una possibile guerra atomica; essi hanno affermato l’obbligo di coscienza per gli operai cristiani di non partecipare in alcun modo alla costruzione di quegli ordigni di morte, e invitato i cittadini all’obiezione fiscale, cioè a non pagare la quota di tasse corrispondente al bilancio del Ministero della Difesa, o comunque la quota presumibilmente destinata agli armamenti atomici, inviando il corrispondente a iniziative di vita e di sviluppo.

Nel 1983 vi sono state numerose prese di posizione di episcopati cattolici, all’Ovest e all’Est, sul problema della pace e del disarmo: particolarmente importante quella dei vescovi degli Stati Uniti d’America, sia per la completezza della trattazione che denuncia l’immoralità della guerra nucleare e mette in guardia dai rischi e dallo stesso principio dalla « deterrenza » (tenete le armi per spaventare l’avversario, non per usarle…), sia per l’influsso che può avere su una politica mondiale effettivamente orientata al disarmo.

2. L’ANNUNCIO CRISTIANO DELLA PACE

La pace è stata uno dei temi centrali del messaggio di Gesù, venuto appunto a proclamare «gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra agli uomini che Egli ama» (Luca 2,14). La traduzione più esatta della frase evangelica riconosce che la « buona volontà » è quella di Dio, non quella degli uomini, e che quindi la pace non va riservata agli uomini «di buona volontà», tra i quali ciascuno è portato a mettere in primo luogo se stesso e gli amici, e ad escludere gli altri, soprattutto i «nemici»; essa va estesa a tutti gli uomini, perché tutti sono oggetto della «buona volontà» di Dio, cioè appunto a tutti gli uomini perché Dio li ama tutti!

La pace nuova portata da Gesù

Non uccidere

Proprio perché Dio ama tutti gli uomini, questi devono amarsi tra di loro, riconoscendosi fratelli ed escludendo ogni forma di inimicizia e di violenza reciproca: il riconoscimento della fraternità universale elimina la categoria stessa del «nemico».

Il Vangelo di Matteo ci ammonisce (5,43): « Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti ». E conclude (v, 48): «Siate voi dunque perfetti (il Vangelo di Luca preciserà: siate misericordiosi!) come è perfetto il Padre vostro celeste».

Matteo, preoccupato sempre di richiamare l’aspetto globale degli atteggiamenti cristiani, precisa inoltre che non ci si deve accontentare di non uccidere, ma che bisogna eliminare qualunque tipo di offesa: «Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non uccidere”, ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto al giudizio… e chi gli dice pazzo, sarà sottoposto al fuoco della geenna» (5,21-22).

Tu porgigli l’altra guancia

Questo rifiuto della violenza dev’essere globale: « Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra… e se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due» (5,38-41). Il che non è esortazione alla passività, tanto meno alla stupidità; è piuttosto l’invito, anzi il comando, di rifiutare l’uso dei mezzi violenti, sia pure per difendersi da un attacco violento, è impegno a una reazione non violenta, a costo di ricevere un altro schiaffo o di dover raddoppiare il viaggio per riuscire a convincere l’avversario.

Sono parole molto chiare, comandi molto espliciti: essi cozzano contro il nostro modo di pensare e di agire, che noi definiamo come «buon senso», ma che in realtà è un rifiuto ad accogliere la proposta nuova che Gesù porta. Gesù ce lo ricorda, nel suo discorso di addio (Giovanni 14,27): «Vi lascio la pace, vi do la mia pace; non come la dà il mondo, io la do a voi».

La pace che Gesù porta, corona e compimento della pace antica («shalom», cioè pienezza di beni spirituali e materiali), è il regno di Dio, un mondo in cui si è amici di Dio e solidali con tutti.

Pace è riconciliazione

I lontani diventano vicini

In questa luce si comprende perché san Paolo, dopo averci detto che Cristo è la nostra pace, ci presenta la pace come riconciliazione. Il testo è nella Lettera agli Efesini, e richiama la situazione primitiva di discriminazione tra gli ebrei e i pagani: gli ebrei si ritenevano i soli depositari anche della nuova rivelazione di Gesù (si sentivano vicini), e guardavano perciò con un certo distacco i pagani, quasi escludendoli dalla possibilità di un completo riscatto (e perciò lontani). Paolo si rivolge ai pagani, «esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo», e li rassicura:

«Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia… per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia: egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini» (Efesini 2,12-17).

Possiamo già fin d’ora notare che la riconciliazione richiede la disposizione, da parte di chi ha, a rinunciare ai propri privilegi a favore di chi non ha. In questo caso erano gli ebrei a dover rinunciare alloro esclusivismo, così come in seguito i popoli più fortunati dovranno rinunciare ai loro privilegi di razza o ai privilegi nazionali. Ma ogni discriminazione dovrà essere superata, comprese quelle date dalle diversità naturali (sesso o impedimenti fisici) o dalle differenze sociali (di ricchezza o di potere). Lo stesso san Paolo lo richiamerà apertamente in altre sue Lettere; basti la citazione lapidaria di Galati3,38: «Non c’è più Giudeo né Greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù».

Se il tuo fratello ha qualcosa contro di te

Questa pace, riconciliazione tra gli uomini, nasce però dalla riconciliazione con Dio, cioè dalla liberazione dal peccato, che è la radice delle tensioni e delle guerre. La Bibbia fin dalle prime pagine descrive l’ordine armonioso in cui Dio aveva creato il mondo, ponendo l’uomo come culmine e signore. E rivela che il peccato ha portato il disordine:

1. nell’interno dell’uomo (la vergogna della nudità, l’angoscia della morte);

2. degli uomini tra loro (il maschio domina la femmina, i fratelli si uccidono, Babele rende incomunicabili gli uomini);

3. del creato contro l’uomo (la fatica del lavoro e del dominio sulla natura).

Cristo, con la sua morte e la sua risurrezione, viene a riconciliare gli uomini con Dio. E gli uomini, riconciliati con Dio, dovranno riconciliarsi tra loro. Ciò è talmente indispensabile, che Gesù ne fa una condizione per la validità del culto: «Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’ altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello; poi torna a offrire il tuo dono» (Matteo 5,23-24).

Dunque, non c’è vera pace con Dio se non c’è ricerca di riconciliazione e di pace con il fratello. Siamo noi stessi a ricordarlo a Dio nella preghiera: «E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Matteo 6,12). Questo vale per i singoli, vale per la Chiesa: una comunità non celebra validamente il suo culto se non si impegna alla riconciliazione con tutti. Un impegno serio di pace diventa cosi la verifica di autenticità nella vita di una comunità cristiana.

Pace è servizio

Tutta la terra per tutti gli uomini

La riconciliazione non è soltanto perdonare le offese ricevute personalmente, è anche tentare di riportare un ordine e un equilibrio rovinati dalle ingiustizie e dalle discriminazioni del passato.

La pace implica l’impegno di chi è in posizione favorevole, a mettere le sue capacità e disponibilità al servizio di chi si trova in necessità. Tanto più che le situazioni privilegiate molto spesso sono state procurate da sopraffazioni e prepotenze passate, compiute, se non dall’interessato stesso, da altri, ma di cui l’interessato si trova ora a beneficiare.

La terra è data agli uomini perché la utilizzino per la loro vita: tutta la terra per tutti gli uomini. Se la proprietà privata può essere un mezzo idoneo e legittimo per una più approfondita utilizzazione della terra e dei suoi beni, oltreché uno stimolo per l’impegno dell’individuo, ciò non sopprime la sua funzione sociale: quando un certo uso della proprietà affami o danneggi considerevolmente gli altri uomini, la destinazione universale dei beni (cioè il diritto degli uomini alla sopravvivenza e a una vita umana attraverso l’uso dei beni terreni) prevale sulla proprietà privata.

È un’antichissima dottrina della Chiesa, non sempre presente ai cristiani e alloro impegno pubblico, ma richiamata anche di recente da un Documento della Pontificia Commissione Justitia et Pax (agosto 1976). I modi concreti della sua attuazione entreranno nella sfera strettamente politica, ma i suoi princìpi coinvolgono la coerenza con il Vangelo.

Il più grande come colui che serve

Gesù stesso, venuto certamente per portare un messaggio «religioso», si è presentato nella sinagoga di Nazaret commentando una pagina significativa di Isaia (vedi Luca 4,19-21): «Il Signore mi ha unto » (cioè ha preso possesso di me e mi ha dato un incarico sostanziale), « e mi ha mandato a portare ai poveri l’annuncio gioioso» (il Vangelo, annuncio di salvezza), «a dare la vista ai ciechi, a confortare gli afflitti, a liberare i prigionieri, ad annunciare un anno di misericordia del Signore» (che consiste appunto in questa solidarietà con i più poveri ed emarginati).

Ha parlato, sì, di Dio, e ha preso come modello gli uccelli del cielo e i gigli del campo, ma poi non ha esitato a denunciare le ingiustizie e le oppressioni concrete (e si trattava di dominatori religiosi!). E proprio per questo è stato perseguitato e ucciso.

Gesù ha fatto di questo atteggiamento la caratteristica specifica dei suoi discepoli: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo, e chi governa come colui che serve»(Luca 22,25-26).

La sete di avidità e di dominio genera le oppressioni e le guerre, solo lo spirito di servizio può preparare la pace, a qualunque livello.

Quel che si fa agli altri lo si fa a Dio

Dobbiamo richiamarlo ai cristiani (ma anche a tutti gli altri!) che lavorano in politica; e la comunità cristiana deve saper incoraggiare i suoi membri (vorrei dire in particolare i giovani) a impegnarsi nel servizio dei più poveri ed emarginati. Anche questo è un impegno «religioso», se Gesù ne ha fatto il criterio per entrare nel Regno dei cieli.

Si legga e si mediti il brano dell’ «ultimo giudizio» (Matteo 25,31), dove la ragione dell’invito a entrare nel regno preparato da Dio per i suoi eletti è proprio la solidarietà con i più bisognosi: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero nudo e mi avete vestito, pellegrino e mi avete ospitato, ero ammalato e in carcere e mi avete visitato… Perché ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Fare in modo che i fratelli abbiano pane, lavoro, casa, salute, dignità, è essere solidali con Cristo!

Questo non vuol dire che amare e aiutare gli altri sia più importante dell’amare Dio; ma è importante concretamente perché è segno e garanzia indiscutibile dell’amore di Dio. Ce lo dice chiaramente laPrima Lettera di Giovanni (4,20): «Se uno dicesse “lo amo Dio” e odiasse il fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede».

Farsi prossimi per aiutare

Questo aiuto, inoltre, non dovrà essere offerto lasciandolo cadere dall’ alto delle proprie ricchezze e superiorità; ci si dovrà invece mettere accanto ai più « piccoli” condividendo i loro problemi, « facendosi prossimo” come il Samaritano della parabola (Luca 10,30). Vi è una profonda pedagogia in questa precisazione evangelica.

La parabola, al sacerdote e al levita, chiusi nei loro problemi e disattenti di fronte alla situazione drammatica dell’uomo assalito dai ladroni, contrappone un Samaritano, dunque un eretico, uno scomunicato, un nemico, che però si fa in quattro per venire incontro alle sofferenze e alle necessità del malcapitato. La conclusione non domanda: «Chi ha trattato il poveretto come prossimo», aiutandolo con la superiorità del benestante, bensì: «Chi si è fatto prossimo al poveretto», mettendoglisi accanto e aiutandolo a livello di fraternità.

Farsi prossimi è aiutare i fratelli più diseredati a realizzare essi stessi, con responsabilità e dignità, la loro affermazione e la loro salvezza. Ogni forma di servizio, ogni impegno di volontariato, in patria o fuori, nelle strutture civili come in strutture confessionali e private, soprattutto se si tratta di aiuto temporaneo che renda i fratelli capaci poi di agire autonomamente, diventa « riconciliazione » concreta, cammino di pace.

3. UNA MENTALITÀ DI PACE

Emerge dunque la necessità di analizzare i motivi delle tensioni e delle guerre, per poterli affrontare in modo non violento. E si troverà agevolmente che alla radice delle guerre ci sono le avidità e gli egoismi di coloro che si trovano in una condizione di privilegio e la vogliono difendere e accrescere a tutti i costi, le avidità di coloro che vogliono crearsi benessere e dominio a danno dei più poveri e dei più deboli.

La giustizia e i più poveri

Il Nord e il Sud del mondo

Ormai diventa ogni giorno più chiaro che lo scontro tra l’Est e l’Ovest, cioè tra l’imperialismo comunista e quello capitalista, non è più tanto uno scontro di ideologie quanto uno scontro appunto di imperialismi; e che chi paga le spese tra questi colossi del Primo e del Secondo Mondo – che in realtà costituiscono il Nord del mondo (cioè la parte più ricca) – è il cosiddetto Sud del mondo, cioè l’insieme dei paesi meno sviluppati e più poveri, che costituiscono appunto il cosiddetto Terzo Mondo.

L’ha illustrato con evidenza un rapporto elaborato da un gruppo di scienziati e di politici di svariate nazioni e continenti, sotto la guida dell’ex Cancelliere tedesco Willy Brandt (e perciò il Documento viene comunemente chiamato «Rapporto Brandt»).

Forse si rimane talora bloccati dal timore che una critica agli imperialismi finisca col sembrare una critica ali imperialismo capitalista, in particolare agli Stati Uniti d’America, e quindi una scelta filocomunista. Anche perché il capitalismo occidentale (non so se per miopia o per un processo inevitabile) lascia al comunismo internazionale il privilegio di farsi portavoce e difensore dei diritti e delle rivendicazioni dei più poveri, salvo poi a opprimerli con nuove imposizioni. Ma tant’è, il capitalismo sembra fare gli interessi dei ricchi, e il comunismo l’interesse dei poveri.

Questo porta troppe volte che la diffidenza e il rifiuto del comunismo autorizzino e quasi consacrino ogni forma di sfruttamento e di violenza fatti in nome della libertà, rimuovendo ogni preoccupazione di denunciare le ingiustizie e le sopraffazioni dei paesi ricchi a danno dei paesi poveri. E troppe volte questa è presentata come la «terza via»; mentre astenersi dal giudizio e dall’ intervento quando un potente sta schiacciando un misero, è già praticamente mettersi dalla parte del più forte!

Il vergognoso mercato delle armi

Per questo dobbiamo condannare con forza la corsa al riarmo, che affama i più poveri; per questo dobbiamo denunciare con chiarezza il vergognoso mercato d’armi che ne deriva, che incrementa la bilancia commerciale dei più ricchi incentivando gli armamenti (e spesso le dittature!) dei più poveri.

Pensiamo all’Italia, che viene al quarto posto nella graduatoria dei venditori di armi (sia pure a grande distanza da- gli Stati Uniti e dalla Russia, e a una certa distanza anche dalla Francia), e che si presta a favorire con le sue armi qualunque tipo di violenza. Inclusi – e ne fu rimproverata ufficialmente dall’Onu – l’ apartheid sudafricano e le dittature dell’ America Latina.

È così, ad esempio, che il governo rivoluzionario del Nicaragua deve ora pagare a fabbriche italiane armamenti ch’esse vendettero al dittatore Somoza, e che questi non pagò, pur utilizzando le nostre armi per uccidere il popolo a cui noi intanto offrivamo la nostra commiserazione e la nostra solidarietà.

Dare autorità all’Onu

Per questo dobbiamo protestare con tutte le forze contro la divisione del mondo in due, fatta a Yalta verso il termine dell’ultima guerra mondiale, che offrendo spazi d’azione e di dominio alle due grandi superpotenze, le ha forse distolte dal guardare con occhio violento all’altro campo, ma ha ribadito e quasi consacrato la dipendenza e la servitù delle nazioni minori. In questa linea si dovrebbe premere perché l’Onu risultasse davvero efficace, eliminando gli anacronistici «veti» delle grandi potenze, che in tal modo non solo bloccano denunce di violenza e di ingiustizie, ma vanificano l’autorità e l’efficacia dell’Onu. Mentre solo un’efficace autorità supernazionale potrebbe dirimere le contese in maniera pacifica, allontanando i rischi di guerre. Proprio come l’autorità nazionale degli Stati moderni ha eliminato le guerre tra le singole città o regioni, che in altri tempi sembravano inevitabili.

Queste denunce e queste pressioni, anche se fatte in modi che possono essere discussi o contestati, ma non derisi (non foss’altro perché costituiscono alternative di «ideali» a una vita piatta fatta di disinteresse e di evasioni, come la droga o la violenza), in realtà esprimono e incrementano uno stato d’animo della «massa» che non può essere disatteso dai capi politici. Così non è a caso che dopo le grandi marce europee della pace dell’ autunno 1981 è ripreso a Ginevra il dialogo prima interrotto tra Usa e Urss per un accordo sull’armamento nucleare!

La scelta dei poveri…

Una maggiore giustizia trova nei più poveri il punto di riferimento. Abbiamo visto che la corsa al riarmo, accanto alla pericolosità che innesca per il rischio che il moltiplicarsi delle armi possa condurre quasi fatalmente (se non addirittura inavvertitamente, per errore di segnalatori automatici) all’olocausto atomico, realizza già ora l’ingiustizia della sottrazione ai più poveri delle risorse indispensabili alla loro sopravvivenza: è un caso clamoroso in cui l’uso eccessivo della proprietà privata cozza contro la destinazione universale dei beni terreni. Questa considerazione, già fatta dal Concilio e oggi richiamata da molte forze politiche e sociali, dovrebbe trovare il primo posto in un giudizio cristiano.

In realtà il Concilio stesso aveva parlato di «scelta dei poveri», un’espressione che era stata chiarita concretamente e fatta propria dai vescovi dell’America Latina – di un continente di ingiustizie secolari e di sfruttamenti ignominiosi! – nelle loro assemblee di Medellìn (1968) e di Puebla (1980). Non si tratta della scelta di una parte sociale con l’esclusione delle altre, bensì del riconoscimento che un mondo di giustizia e di pace può essere costruito solo se lo si progetta dal punto di vista dei poveri, dei loro diritti conculcati e da risollevare con il sacrificio di tutti, non se si continua a programmarlo dal punto di vista dei ricchi e di un’ economia che difende le posizioni di privilegio, basate sull’inevitabilità di masse di poveri e di diseredati.

… e la scelta dei ricchi

Se per esempio faccio grandi progetti di risanamento che richiedono molto tempo e lunghi sacrifici che io, ricco, posso attendere e affrontare, ma che metteranno alla prova e alla disperazione masse di poveri interni o esterni alla nazione, allora ho fatto la «scelta dei ricchi». Pare che la Banca Mondiale, che dovrebbe assistere e favorire i popoli più poveri, ne abbia scartati un certo numero per il motivo che sono troppo sottosviluppati e il provvedere a loro porterebbe troppi sacrifici per i Paesi più sviluppati!…

Questa «scelta dei ricchi» si appella appunto normalmente alle «leggi ferree dell’economia» per giustificare la difesa degli interessi di chi ha già. E sono le stesse leggi ferree che, ad esempio, un tempo sembravano esigere come necessaria la schiavitù, per poter assolvere i lavori più pesanti…

La «scelta dei poveri» invece si appella alla capacità dei ricchi di rinunciare alle loro sproporzionate ricchezze, o anche solo di non evadere le tasse, di non portare capitali all’estero, di investire in operazioni produttive, in industrie di vita e non di morte. Essa mette al primo posto l’uomo, certa che quando si salvano e si promuovono le categorie più povere (e con un po’ di fantasia e di buona volontà si possono scoprire nuove leggi dell’economia, altrettanto ferree), allora è tutta la società che cresce e si sviluppa.

L’uomo concreto

Lo sviluppo dei popoli

La pace dunque – una pace vera e diffusa – deve partire dal riconoscimento dei diritti umani fondamentali di ogni uomo, soprattutto di chi non se li trova riconosciuti, cioè dei più poveri e dei più emarginati. E questo richiede nei più ricchi e privilegiati – popoli, gruppi, individui – la volontà di saper rinunciare a qualcosa dei propri privilegi, economici e politici, a vantaggio di chi non può goderne.

È illusorio, se non addirittura ipocrita, affermare che la rivendicazione di una libertà sempre più assoluta intende dare la possibilità di far godere domani ai diseredati i privilegi di cui oggi alcuni godono, quando è ben chiaro che il tipo di benessere e di potere dei privilegiati di oggi esige la povertà e la dipendenza degli altri!

È matematicamente impossibile che tutti giungano non solo al livello più alto, ma a un livello comunque confortevole, dal momento che lo stile di vita dei più fortunati, dei «soprasviluppati», è possibile solo se ci sono dei poveri, dei «sottosviluppati» che lavorano a basso costo, senza poter far riconoscere le loro esigenze.

Paolo VI nell’Enciclica «Populorum Progressio», mentre proclamava che il nuovo nome della pace è appunto «lo sviluppo (progressio) dei popoli», precisava che non è cristiano, anzi è antievangelico un sistema basato sul profitto e sulla libertà incontrollata, che diventa poi la libertà di chi può, pagata dalla dipendenza di chi non può.

I poveri nel contrasto fra le ideologie

I ricchi – diceva Paolo VI – diventano sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri. Soltanto se i ricchi e i privilegiati (e non solo nel denaro, ma nel potere, nella cultura, nelle capacità organizzative) sanno limitare la loro superiorità, se sanno metterla al servizio dei più poveri e dei più diseredati, solo allora si cammina verso un mondo di giustizia e di pace.

Il pericolo più grande è quello di esasperare le contrapposizioni ideologiche; così, più che approfondire e chiarificare le proprie verità, si cerca di strumentalizzare gli errori altrui. Così l’ individualismo nasconde gli egoismi e gli sfruttamenti del capitalismo più spinto sotto l’esigenza di combattere il comunismo; così questo giustifica il soffocamento delle libertà individuali con l’esigenza di contrastare l’imperialismo capitalista, che soffoca e umilia i popoli più poveri. Così ogni critica al riarmo occidentale verrà tacciata di appoggio dato alla Russia, o ci si guarderà dal criticare la Russia per non fare il gioco dell’America… Chi ne va di mezzo è l’uomo concreto, sono i popoli, soprattutto i più poveri, soverchiati dal contrasto tra le ideologie e le superpotenze.

La «rivoluzione copernicana del Concilio

Occorre saper cogliere, con acutezza e onestà, all’interno di ogni ideologia, quanto essa ha intuito e compiuto a vantaggio dell’umanità, per superarne poi i limiti e le chiusure, aprendosi ad arricchimenti e a collaborazioni. Già nell’«Octogesima adveniens» del 1971 Paolo VI indicava nel superamento delle ideologie uno dei compiti più urgenti dell’uomo di oggi, e una delle condizioni più efficaci per il cammino della pace!

Questo vale anche per ol cristiano, sempre tentato di assolutizzare anche sul piano politico e sociale le sue intuizioni religiose. E la Chiesa stessa è chiamata a realizzare quella che ai tempi del Concilio venne chiamata «rivoluzione copernicana» e che ha trovato appunto nella «Pacem in terris» e nella «Gaudium et spes» i suoi momenti più alti e suggestivi. Copernico persuase il mondo che non era il sole a girare intorno alla terra (come diceva Tolomeo) bensì la terra intorno al sole; cosi oggi la Chiesa è sollecitata ad applicare a sé l’insegnamento di Gesù (Marco 2,27): «Non è l’uomo fatto per il sabato», cioè per ogni istituzione positiva, inclusa la Chiesa, «ma il sabato è stato fatto per l’uomo».

Ovunque ci sono germi di verità e di salvezza

Nella concezione medioevale, elaborata in un mondo tutto cristiano, la Chiesa era vista come unica strada per la salvezza, applicando così anche fisicamente l’antico detto: «Al di fuori della Chiesa non c’è salvezza». Di qui il rifiuto di chi era fuori della Chiesa, e le condanne per quanti uscivano da essa, e soprattutto per quanti inducevano altri a uscirne. Gli eccessi dell’Inquisizione trovano qui la loro motivazione culturale.

I tempi moderni, che hanno posto la Chiesa di fronte a mondi estranei a essa, l’hanno portata a rendersi conto dei valori che ci sono in altre religioni e sistemi di vita. Essa è stata così indotta a ripensare alla propria visione del mondo e a ritrovare (in accordo del resto con l’antica teologia orientale) il senso più pieno dell’Incarnazione, come elevazione soprannaturale del mondo e quindi come sorgente di salvezza per ogni uomo «di buona volontà». C’è, è vero, la triste realtà del peccato, che essa deve richiamare e aiutare a superare sul piano individuale e sul piano sociale; ma è dato riconoscere ovunque germi di verità e di salvezza.

Questo ha portato a guardare l’uomo e le sue conquiste con occhio nuovo, valutando il bene e il male, soprattutto sul piano sociale, non secondo il favore o l’ostilità data all’istituzione ecclesiale (o magari, come avveniva nei secoli passati, secondo le alleanze e le avversioni allo Stato Pontificio), ma avendo come punto di riferimento l’uomo concreto: tutto ciò che rispetta e favorisce l’uomo è positivo; tutto ciò che lo svaluta, lo opprime, lo emargina, è negativo.

Le guerre di religione e le alleanze con gli oppressori dell’uomo trovano qui la loro definitiva condanna.

La non violenza

Contro ogni violenza

La guerra è violenza, è rinunciare a utilizzare la ragione e il confronto per affidare alla forza la soluzione dei problemi: non indica dunque chi ha più ragione, ma chi ha più forza. Anche quando ci si difende da una violenza subita, in fondo si vince una violenza con un’altra violenza. Non sempre la storia, almeno a breve scadenza, dimostra che chi ha ragione vince.

Se poi entriamo nell’ ottica evangelica, che elimina la stessa categoria di «nemico» e che impone di non resistere alla violenza contrapponendole mezzi non violenti, dobbiamo concludere che la norma del cristiano dovrebbe essere sempre la non violenza. E questa sempre più appare come l’unico ideale valido per ogni uomo, in un tempo in cui la violenza sempre più sfrenata rende intollerabile la vita interna delle nazioni, e a livello planetario fa balenare l’eventualità della distruzione dell’intera umanità.

San Paolo, che si è raccomandato: «Non rendete a nessuno male per male… Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male» (Romani 12,17.21), aggiunge subito (ivi 13,4) l’esortazione a temere l’autorità «perché non invano essa porta la spada»; e indica così che si può tollerare solo la violenza di chi è preposto a garantire il bene e a condannare il male (in questa luce l’unico esercito moralmente ammissibile sarebbe quello dell’Onu!).

Occorre dunque rivendicare il primato assoluto della non violenza. Non violenza non indica solo astensione dall’uso attivo della violenza (soprattutto della violenza fisica inferta ad altri, con impedimento forzato dei movimenti, con percosse, torture, ferite, tanto più con l’uccisione): indica anche rifiuto della violenza altrui, della stessa violenza che leggi o comportamenti ingiusti impongono al popolo. Questa reazione viene fatta con mezzi non violenti (come dichiarazioni, dimostrazioni pubbliche, marce, boicottaggi economici e commerciali ecc.); ma non sarebbe autentica non violenza se non comportasse un impegno attivo per denunciare e contrastare le violenze in atto.

L’esempio di Gesù e dei santi

Il primo esempio di non violenza è quello di Gesù, che denunciò le ingiustizie e i soprusi ma rifiutò di usare la forza (la cacciata dei venditori dal tempio fu un gesto simbolico, con una « sferza di cordicelle », compiuto soprattutto rovesciando i tavoli e i banchi: vedi Giovanni 2,15). Anzi rimproverò Pietro, che nel tentativo di difenderlo aveva tagliato un orecchio a Malco, con una motivazione generale: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada, periranno di spada» (Matteo 26,52).

Proprio per la sua non violenza attiva Gesù fu ucciso: il Vangelo ripete spesso che la decisione di farlo morire veniva ribadita dopo i suoi discorsi di denuncia o i suoi gesti di protesta.

I primi cristiani, come s’è detto, resistettero in modo non violento alle leggi oppressive della coscienza, e per questo molti subirono il martirio. Dopo Costantino la guerra venne giustificata, e la violenza legittimata almeno entro certi limiti.

Solo i santi la richiamarono con l’insegnamento e con l’esempio: si pensi a san Francesco che passa le linee crociate e si presenta inerme al sultano per parlargli di Gesù, o che ottiene che l’indulgenza plenaria, cioè la liberazione da tutte le pene dovute per i peccati commessi, fino allora concessa solo a chi combatteva in Crociata, fosse invece concessa a chi pregava nella Cappella della Porziuncola. Ed è lo stesso Francesco che chiede ai Terziari, cioè ai laici che vogliono vivere nello spirito evangelico, di non portare armi.

La non violenza nel mondo d’oggi

In tempi recenti chi ha propugnato la non violenza è stato Gandhi, che è riuscito a ottenere l’indipendenza dell’India senza spargere sangue ma coinvolgendo tutti i compatrioti nella resistenza al dominio politico ed economico dell’Inghilterra. Anche lui ha pagato col suo sangue l’ideale della non violenza. Così come l’hanno pagato Martin Luther King, il pastore protestante pioniere della rivendicazione non violenta dei diritti dei negri d’America, e mons. Romero, fattosi portavoce dei poveri di El Salvador contro la violenza omicida dei dominatori politici ed economici.

La non violenza, che pure nella sua ispirazione coincide col messaggio evangelico, trova più facilmente il consenso dei giovani, mentre chi più ha vissuto finisce spesso col ritenere che solo una violenza ben ordinata possa debellare le forze del disordine e del male. La stessa teologia cattolica ammetteva che, in casi veramente eccezionali, risultasse lecito uccidere il tiranno (e forse così si spiega perché tanti alti ufficiali cattolici presero parte al complotto, poi fallito, che tentò di uccidere Hitler nel 1944).

Un’applicazione di questo principio si avrebbe nella legittimazione comune delle guerre di liberazione da oppressori esterni o interni. Lo stesso mons. Romero, del resto, mentre condannava la violenza del governo e quella della rivoluzione, riconosceva peraltro di non poter mettere sullo stesso piano la violenza che vuol difendere a tutti i costi privilegi ingiusti e quella dell’esasperazione di chi non vede altro mezzo per raggiungere libertà e dignità umana.

Un risvolto della non violenza (o della violenza) è la facilità con cui anche i cristiani legittimano la pena di morte, che ha un carattere vendicativo, non certo correttivo (nemmeno porta a diminuire i delitti!), e che va rifiutata, priva com’è di una vera giustificazione morale.

L’obiezione di coscienza al servizio militare

Un caso tipico di testimonianza non violenta è dato dall’obiezione di coscienza al servizio militare. Questo atteggiamento di scelta non violenta stimolerà l’inventiva nella scelta del modo più efficace per bloccare la corsa al riarmo. Infatti la scelta del riarmo progressivo è una forma di inerzia e di pigrizia mentale, favorita se non imposta da chi ha interessi economici di vario tipo.

Una rivista americana suggeriva ad esempio che certe impennate allarmistiche del governo americano, impegnato nella crescita di armamenti, non solo fossero determinate, com’è ovvio, dai costruttori d’armi, bensì anche dai fornitori di grano, timorosi che una prolungata distensione permettesse all’Urss di rallentare il suo impegno di armamento, e di dedicarsi maggiormente all’agricoltura, sottraendosi così alla dipendenza dai rifornimenti americani!

Questa sensibilità e questa volontà devono impegnare a fare passi concreti verso il disarmo. E se il disarmo unilaterale può sembrare un eroismo difficile e problematico, un avvio unilaterale al disarmo costituisce invece una prova di buona volontà e di fiducia indispensabile per indurre l’avversario a gesti altrettanto concreti di disarmo. È irrisorio pensare che la volontà di essere i più forti per trattare non induca l’avversario a giustificarsi con lo stesso principio.

Quando ci si trova in un comune pericolo e si giudica che l’avversario sia imprudente, non è facendo propria la sua imprudenza che si potrà sperare di rendere più ragionevole la situazione, ma cercando di imporre lo stile della propria prudenza.

Perciò è manifestazione tipica e convincente di non violenza l’obiezione di coscienza al servizio militare, in particolare alla guerra nucleare.

Il servizio civile

Quest’ultima specificazione non indica… simpatia per la guerra convenzionale (fatta cioè con armi non nucleari): vuole solo indicare che se ci sono situazioni in cui l’uso delle armi convenzionali può essere tollerato, ad esempio per le forze di polizia o per forze militari mondiali (dell’Onu) con compiti di polizia internazionale, nessuna giustificazione morale può essere ammessa per l’uso di armi nucleari.

La comunità cristiana ha saputo andare controcorrente difendendo la vita prima del suo nascere e chiedendo per coerenza l’obiezione di coscienza ai medici e a tutti i collaboratori contro ogni interruzione volontaria della gravidanza. Per coerenza essa dovrebbe con chiarezza e coraggio farsi carico di questa non meno urgente difesa della vita, incoraggiando l’obiezione di coscienza al servizio militare, imponendola poi in assoluto per qualunque collaborazione agli armamenti nucleari.

Per evitare che tale gesto possa esser visto come evasione di un contributo attivo alla vita della comunità, dovrà essere legato al servizio civile e inserito in sollecitazioni efficaci al volontariato, sia entro le strutture pubbliche (come gli ospedali o le carceri), sia in organismi di specifica testimonianza evangelica e cristiana.

La Chiesa e l’obiezione di coscienza

L’incoraggiamento all’ obiezione di coscienza in realtà era considerato un tempo sovversivo, proprio perché, contestando il servizio militare, sembrava denigrare il concetto di patria, storicamente unito alla realtà delle guerre. Basti ricordare le vicende di don Milani, portato in tribunale anche da settori ecclesiastici per aver parlato di obiezione di coscienza nel libretto “L’obbedienza non è più una virtù“.

Lo stesso Magistero della Chiesa ha subìto un’evoluzione evidente. Ne parlò per primo il Concilio, che timidamente chiese comprensione e tolleranza ai governi Gaudium et spes n. 80); ma si era nel 1965, e alcuni temevano che incoraggiamenti più aperti apparissero come un boicottaggio dell’impegno militare americano in Vietnam. L’Enciclica di Paolo VI Populorum progressio nel 1967 riconobbe esplicitamente la bontà di quella posizione, mentre il Documento Conclusivo del Sinodo dei vescovi nel 1971 addirittura la incoraggiò, indicandola come espressione significativa dello spirito non violento del cristiano.

La Caritas italiana si fa ora promotrice dell’ obiezione di coscienza non solo al servizio militare (insistendo sul servizio civile), ma perfino dell’obiezione fiscale, a quella parte cioè di tasse che corrisponde alla costruzione di armamenti.

4. L’IMPEGNO PER LA PACE

Il cristiano si rende conto che dovrebbe riflettere maggiormente su questi problemi alla luce della Parola di Dio e dei segni dei tempi. Proprio tutt’e due insieme. Perché se da una parte i segni dei tempi, cioè le situazioni storiche e i problemi concreti, da soli, potrebbero indurre o a esasperazione e sfiducia o ad affrontare il problema in modo unilaterale o egoistico, dall’altra la Parola di Dio accolta in modo astratto o evasivo può condurre a rinchiudersi in considerazioni puramente individuali o intimistiche.

La stessa Parola di Dio del resto non è fatta di enunciazioni teoriche: è una storia di salvezza che noi dobbiamo rivivere nella nostra vita concreta, nella storia della nostra società.

Educare alla pace

Nella Chiesa e nella scuola

Occorre educarsi alla pace, con realismo e con coraggio. In questo la comunità cristiana deve offrire un aiuto collegando la Parola di Dio con la vita e con la storia. Le omelie dovrebbero avere questa rilevanza attuale; e le riflessioni comunitarie sulla Bibbia, moltiplicate e favorite all’ interno della Chiesa, dovrebbero aiutare a questa concreta e costante incarnazione della Parola di Dio nella vita e nella storia.

Di qui dovrebbe svilupparsi una cura costante per educare alla pace e alla non violenza le nostre comunità; a cominciare dai più giovani, che dovrebbero essere aiutati a non considerare la violenza come garanzia di successo, individuale o collettivo.

Si tratterà, ad esempio, di curare che la stessa vita, delle famiglie non privilegi la violenza e l’ira; si tratterà di controllare i giocattoli-armi per i nostri piccoli, evitando che il loro divertimento diventi imitazione o esaltazione delle violenze e delle guerre dei grandi, mentre purtroppo le pellicole e i fumetti «per bambini» spesso presentano la forza e la prepotenza come premessa e condizione di dominio e di vittoria.

Così l’insegnamento della storia non dovrà ridurla a una successione di guerre e di prepotenze che premiano i più forti e i meno coscienziosi, quanto piuttosto dovrà far emergere il faticoso cammino dei valori più positivi, appunto lo «sviluppo dei popoli», nonostante le prepotenze e le ingiustizie dei più forti.

Nella società, con fiducia

Questo dovrebbe essere continuato attraverso un’ accurata e prolungata diffusione di queste convinzioni nell’ opinione pubblica attraverso ogni mezzo di comunicazione sociale, moltiplicando iniziative che portino a sensibilizzare il maggior numero possibile di persone alle tematiche della pace e della giustizia. Anche per controbilanciare il bombardamento fatto dai mezzi normali di comunicazione sociale, troppo spesso strumentalizzati a dichiarazioni verbali di pace (chi dirà mai di volere la guerra?), ma in realtà sobillatori più o meno consapevoli dei sentimenti che alimentano contrapposizioni ed esclusioni, tensioni e guerre.

Educare alla pace è soprattutto incoraggiare a impegnarsi per la pace. Di fronte al «buon senso» che suggerisce di avviarsi alla pace preparando la guerra, o di fronte allo scoraggiamento di chi ritiene il mondo ormai totalmente sulla china inevitabile della guerra, il cristiano deve animare se stesso e gli altri con la virtù della speranza.

Sperare è confidare che ci sono nel mondo forze di bene più forti di quelle del male: basta saperle suscitare e sostenere. C’è la forza dello Spirito di Dio che dev’essere riconosciuta e accolta; e c’è la forza dello spirito umano, se appena sa aprirsi alla chiamata di Dio a saper andare controcorrente, a qualunque costo.

Credere all’utopia della pace

E c’è il conforto della storia. Quando si sente dire che la pace è un’utopia, e si intende dire che è qualcosa di irreale, di inesistente, bisogna invece precisare che l’utopia è sì irraggiungibile, ma non perché irreale, ma perché molto elevata. E che perciò bisogna tentare di raggiungerla. Anche se non la si raggiungerà mai pienamente, l’avvicinarsi a essa è già conquista e progresso.

Penso agli ideali che san Paolo indicava ai Galati, nel testo citato (3,28): «In Cristo Gesù non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna». Erano utopie in ambiente di esclusivismo ebraico, di maschilismo spinto, di economia selvaggia (le «leggi dell’economia» di allora dicevano che il mondo non poteva andare avanti senza gli schiavi!). Eppure qualcuno ha creduto in quelle utopie, si è impegnato, ha sofferto, talora qualcuno è morto (e non sempre sono stati i cristiani in prima fila!). E quella che ieri era un’utopia oggi sta diventando realtà, nell’indipendenza dei popoli e nella parità delle razze, nell’affermazione piena della donna, nella dignità e nella promozione di tutte le categorie sociali.

Se la pace è un’utopia, il cristiano deve impegnarsi in prima fila, correndo tutti i rischi, da quello della strumentalizzazione a quello dell’emarginazione. Perché il suo contributo sia efficace e riconosciuto, e sia un messaggio di speranza nel mondo.

Testimoniare la pace

Nella coerenza della vita

La pace è un nodo centrale del messaggio evangelico, è un momento significativo della solidarietà umana e cristiana. Ogni cristiano dovrà perciò fare quanto sta in lui per far progredire l’idea e la realtà della pace.

E poiché ci si rende conto di quanto sia difficile un impegno isolato, è quanto mai conveniente che si affronti questo cammino in gruppo. Si potrà così dare una dimensione specifica di pace a qualche momento di attività della comunità di cui si fa parte; o si sceglierà qualche gruppo o movimento particolarmente impegnato sul tema della pace per parteciparvi, o quantomeno per informarsi di quanto si può fare a questo proposito.

Occorrerà poi con coerenza portare avanti il discorso della pace, in tutti i suoi aspetti di promozione della giustizia e di scelta dei poveri, proprio perché esso non rimanga una velleità o un «buon pensiero», valido solo a tranquillizzare la coscienza.

Anche nell’esercizio della professione e negli impegni di lavoro occorrerà saper riflettere e applicare le deduzioni raggiunte. Così non si potrà continuare a sfruttate il dipendente, a evadere la legge o il fisco, non si potrà indulgere a moltiplicare introiti o lavoro straordinario, contribuendo così all’emarginazione e alla disoccupazione, radici di tensioni e di disagio sociale.

La «scelta dei poveri» diventa così, per chi ha un livello di vita elevato e anche per chi pensa esclusivamente al suo lavoro, un concreto punto di riferimento per valutare se veramente amiamo la pace. Solo se cerchiamo di creare la pace nella famiglia e nella scuola, di costruire la giustizia nel lavoro e nella società, allora sarà sincero l’impegno di ricerca e di sollecitazione per un cammino di pace tra i popoli.

La testimonianza della comunità cristiana

In particolare nel servizio civile come alternativa al servizio militare i giovani testimonieranno che il servizio alla patria non è tanto (o soltanto) quello di una «difesa» in armi (problematica fra l’altro sotto tanti punti di vista, compreso quello della scarsa formazione umana e democratica vigente in alcune caserme), quanto un mettersi a disposizione effettiva dei settori più emarginati della collettività nazionale, pagando in proprio – anche con l’aggiunta di alcuni mesi in più di servizio – in un modo altamente educativo e autenticamente popolare com’è quello non violento.

La comunità cristiana dovrà contribuire al cammino della pace, presentando i motivi profondi che lo sollecitano e lo orientano, e incoraggiando i singoli cristiani a un impegno effettivo e generoso. Penso ad esempio come il tema e le prospettive della pace dovrebbero entrare più spesso nelle omelie e nelle esortazioni ecclesiali.

Certo, v’è il pericolo di fraintendimenti e di strumentalizzazioni; ma ho già ricordato come lo stesso non parlare possa venire frainteso e strumentalizzato. Sarà strumentalizzato dai potenti e dai dominatori, che lo presenteranno come un motivo di appoggio alla conservazione del loro dominio; e sarà frainteso dai subordinati e dagli oppressi, che lo interpreteranno come una scelta fatta contro di loro da una Chiesa connivente con i potenti, o quanto meno timorosa di perderne gli appoggi o di provocarne l’opposizione. Come ho già detto, tacere quando un violento sfrutta, umilia, opprime un povero (e tanto più se lo fa atteggiandosi a difensore del cristianesimo!) è praticamente schierarsi con il violento contro il povero!

Abbattere il muro delle divisioni

Abbiamo ricordato che la pace è la riconciliazione tra gli uomini e tra i popoli (Efesini2,14), e che ai muri etnici da abbattere (tra ebreo e non ebreo, ma anche tra bianco e di colore, tra uomo del Nord e uomo del Sud), vanno aggiunti i muri biologici (quello tra uomo e donna, ma anche tra sano e malato, tra normale e impedito), e quelli sociali (come tra libero e schiavo, ma in genere tra ricco e povero).

La comunità cristiana dovrà dare testimonianza di riconciliazione e di tolleranza, di uguaglianza e di simpatia reciproca, all’interno come all’esterno. L’accettazione e la collaborazione tra cristiani di diversa estrazione e sensibilità, tra i vari gruppi e movimenti che fioriscono nella Chiesa, e tra questi e le strutture ecclesiali tradizionali, in primo luogo le parrocchie (e viceversa, dalle strutture ai gruppi e ai settori!), diventano così espressione e contributo di pace.

Le divisioni sono un grande pericolo, sempre presente nella Chiesa come in ogni società umana: già Paolo raccomandava ai Corinzi (Prima Corinzi 1,12) che non le accentuassero («io sono di Paolo», «io invece di Apollo», «e io di Cefa») fin quasi a dimenticare che chi è morto per tutti e ha salvato tutti è stato lui, solo lui, Gesù Cristo. Lui è la nostra pace, la pace di tutti, che fa non solo di due popoli ma di tutti gli uomini una cosa sola (anzi in Efesini 2,18 dice «una sola persona»). Non ha efficacia una predicazione di pace fatta da chi non sa nemmeno vivere e collaborare in pace col suo fratello nella fede!

La pace attraverso la sofferenza e il coraggio

Certo, per portare la pace, Cristo ha patito ed è morto: la Lettera agli Efesini (che abbiamo già citato: vedi 2, II) precisa che è con la sua morte che Gesù ha abbattuto il muro delle divisioni; e il cristiano sa che, per essere discepolo di Cristo, per essere operatore di pace, egli deve prendere ogni giorno la sua croce, e che la croce è soprattutto accettare, sopportare, riconciliare gli altri!

Il cristiano guarda allora ai grandi santi, che sono stati predicatori e portatori di pace soprattutto attraverso una vita di dedizione e di sacrificio, di rinuncia alle sicurezze e ai consensi del mondo. Il cristiano pensa a quanti hanno sfidato la morte con consapevolezza umana e cristiana, per portare la società a situazioni di maggiore giustizia, di non violenza, di pace.

E pensa non solo ai grandi non violenti che abbiamo ricordato (Gandhi, Martin Luther King, Oscar Romero), ma altresì a tanti nostri contemporanei, uomini della politica e della magistratura, dei servizi d’ordine o uomini della strada, che si sanno minacciati di morte se continueranno a compiere con coscienza e con coraggio il loro dovere, se approfondiranno le inchieste, se denunceranno speculazioni e soprusi, e che accettano la sfida per contribuire a ridare giustizia e fiducia alla società, per essere concreti operatori di pace…

La risurrezione della società, la pace del mondo passa attraverso la sofferenza e il coraggio di tanti uomini che, lo sappiano o no, si trovano così uniti alla passione di Cristo, che sola distrugge i muri delle divisioni e delle inimicizie e può portare così la pace nel mondo.

Pregare per la pace

Ascoltare Dio

Infine, il cristiano deve dare alla pace l’apporto della preghiera. Se lo cito per ultimo non è perché lo ritenga l’apporto meno determinante: il cristiano sa che è il contributo più grande che egli può dare alla pace del mondo, anzi che egli «deve» dare, proprio perché è un suo contributo specifico. Lo noto per ultimo, dopo gli altri, perché la considerazione degli altri apporti contribuirà a dare alla preghiera l’ orientamento più vero e completo.

In realtà la preghiera ci mette di fronte a Dio e alla sua Parola, e ci conferma dunque che la mancanza di pace nasce dal peccato: le prime pagine della Bibbia pongono chiaramente come conseguenza del rifiuto a Dio sia il dominio dell’uomo sulla donna (Adamo su Eva), sia l’invidia e l’odio spinti fino all’omicidio (Caino e Abele), sia l’incomprensione e la divisione tra i popoli (torre di Babele).

«Padre nostro» dei costruttori della pace

A questo punto della riflessione quando ripeteremo il Padre Nostro – preghiera fondamentale del cristiano, preghiera del costruttore di pace – ci sarà più facile, chiedendo al Signore che «ci liberi dal male», pensare ai mali della società, che derivano appunto dai peccati «sociali». Sono sociali i peccati dei singoli verso gli altri e la società, come appunto non «farsi prossimo», quindi non fare il possibile perché gli altri abbiano da mangiare, abbiano il lavoro e la casa, siano curati e amati; ma lo è anche il partecipare fattivamente o anche solo senza protestare alle ingiustizie e alle oppressioni di collettività su altre, siano esse gruppi, categorie sociali, popoli.

E quando chiederemo che « venga il regno di Dio», ci renderemo conto di chiedere un mondo di coscienza e di libertà, di solidarietà e di pace, al quale dobbiamo attivamente contribuire perché questa è la «volontà di Dio».

E riaffermeremo la nostra convinzione nel significato profondo, individuale ma anche sociale, della riconciliazione, mentre ripeteremo a noi stessi che la riconciliazione con i fratelli è condizione per ottenere la riconciliazione con Dio («e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori»).

La Madonna, maestra di pace

Quando poi ci rivolgeremo alla Madonna per invocarla «regina della pace» – della pace del cuore e di quella delle nostre famiglie, ma altresì della pace sociale e della pace nel mondo – non potremo dimenticare che proprio Maria, cantando il Magnificat, annunciò un mondo in cui Dio «ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi» (Luca 1,51 e seguenti).

Una illuminata e autentica devozione mariana ci impegna dunque a rinnovare la nostra mentalità, spesso così chiusa e inerte, per coinvolgerci in una partecipazione alla costruzione di un mondo più giusto e più fraterno, nella difesa e nella « promozione» dei più poveri, degli oppressi, dei diseredati. Perché questa è la condizione per un cammino autentico di pace, che è appunto «riconciliazione», cioè superamento delle discriminazioni e delle ingiustizie.

L’Eucaristia, comunione con Dio e i fratelli

La preghiera peraltro trova il suo centro e il suo modello nell’Eucaristia, che è, come dice il Concilio, « sorgente e culmine della vita cristiana», e quindi tanto più della preghiera cristiana (Sacrosanctum Concilium n. 10).

La Parola di Dio ci illustra chiaramente che se l’Eucaristia è il momento più alto della comunione con Dio, essa è anche la verifica più esigente della comunione con i fratelli. Ci basti ricordare l’apostolo san Giovanni: lui, il teologo, il mistico, fu talmente preoccupato di questa «verità» dell’Eucaristia, che, giunto nel suo Vangelo al momento di raccontarne l’istituzione, ha tralasciato di parlare del pane e del vino trasformati nel corpo e nel sangue di Cristo, per descrivere invece la lavanda dei piedi fatta da Gesù come gesto di servizio, con il comando: «Anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (13,14-15).

Ha voluto così richiamare ai cristiani suoi contemporanei – forse già tentati di ridurre l’Eucaristia a un culto esteriore o quanto meno a un culto distaccato dalla vita concreta, quasi un alibi di fronte alle difficoltà e al peso della vita sociale – che essa non è «vera» se non ci mette in atteggiamento di riconciliazione e di servizio.

Qui più che mai vanno riprese le parole così inequivocabili di Gesù (Matteo 5,23): «Se stai per fare l’offerta all’altare e ti viene in mente che tuo fratello ha qualcosa contro di te, va prima a riconciliarti, poi torna a fare la tua offerta…». Solo se porta a un atteggiamento di conversione e di servizio, solo allora l’Eucaristia è davvero «memoriale» (cioè ricordo attuale e attivo) di Gesù che muore e risorge per perdonare e salvare.

Essere fedeli al Vangelo nella vita

Occorre che i cristiani si rendano consapevoli di questi aspetti essenziali della religiosità, cominciando appunto col dare un atteggiamento concreto, «storico» alle loro preghiere e alle loro Eucaristie, aiutati in questo da un adeguato stile delle omelie e delle preghiere dei fedeli. E comprenderanno così che bisogna essere fedeli al Vangelo nella vita, e coraggiosi nella sfida alla mentalità corrente fatta di corsa al successo, alla ricchezza, al potere, vera radice delle tensioni e delle ostilità che – a livello di popoli alimentano le guerre.

Il cristiano scopre così che la sua vocazione cristiana è vocazione alla pace, a essere costruttore di pace. E che per seguire Gesù deve prendere ogni giorno su di sé questo impegno – che è croce, anche se croce esaltante – perché solo così può essere veramente suo discepolo.

Una preghiera individuale mai chiusa su se stessa e sugli interessi esclusivamente privati, una preghiera comunitaria sempre autenticamente illuminata dalla Parola di Dio e concretamente aperta alla solidarietà verso tutti i fratelli, soprattutto i più poveri, costituisce una sicura garanzia e il più efficace contributo del cristiano per la pace del mondo.

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il commento di p. Maggi e p. Pagola al vangelo della domenica

Gv 14,15-21

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi.
Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi.
Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

PREGHERO’ IL PADRE E VI DARA’ UN ALTRO PARACLITO 

commento al Vangelo dell,a sesta donenica di pasqua (25 maggio 2014) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Per la prima volta nel vangelo di Giovanni Gesù chiede amore verso se stesso. Ma lo fa soltanto dopo aver manifestato al massimo la sua capacità d’amore, facendosi servizio per i suoi, dopo aver lavato loro i piedi. Siamo al capitolo 14 del vangelo di Giovanni, dal versetto 15.
Gesù dice: “«Se mi amate»”, quindi per la prima volta chiede amore verso di sé, «osserverete i miei comandamenti»”. C’è un unico comandamento che Gesù ha lasciato nel corso della cena, cioè di amarsi gli uni gli altri come lui li ha amati, cioè come lui li ha serviti. Quindi Gesù dice: “Se mi amate servitevi gli uni gli altri”.
Non è un amore che Gesù chiede nei propri confronti, ma la prova dell’amore verso Gesù è l’amore scambievole che si fa servizio verso gli altri. Ebbene, come risposta a questo amore, Gesù annuncia che pregherà il Padre, “«Ed egli vi darà un altro Paraclito»”, un termine greco che è difficile tradurre nella nostra lingua, e significa “colui che viene in soccorso, colui che aiuta, che difende”, il protettore. Non è
un nome dello Spirito, ma una funzione. Gesù, fintanto che era vivo, provvedeva lui a questa funzione di pastore che protegge i suoi ed è pronto a dare la vita. Bene, ora che non ci sarà più, ci sarà il suo Spirito.
E sarà un vantaggio. Infatti Gesù dice “«perché rimanga con voi per sempre»”. Mentre Gesù non sempre poteva essere con i suoi discepoli, il suo Spirito sarà sempre nella sua comunità. Il fatto che rimane per sempre significa che l’azione di questo Spirito non interviene nei momenti di pericolo o nelle situazioni
di emergenza, ma le precede. E questo dà piena sicurezza e serenità alla comunità cristiana. Gesù definisce questo Spirito “l«o Spirito della verità»” – la verità è l’amore che si fa servizio – “«che il mondo non può ricevere»”.
Il mondo è il sistema di potere che è incompatibile con l’amore che si fa servizio. Infatti dice “perché non lo vede e non lo conosce”. In questo vangelo quelli che non conoscono Gesù, quelli che non conoscono il Padre, sono le autorità religiose. Chi vive in un ambito di potere non può neanche minimamente capire cosa significhi un amore che si fa servizio. E Dio è questo.
“«Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi»”. L’evangelista adopera lo stesso verbo dello Spirito che rimane su Gesù. “«E sarà in voi»”. Come lo Spirito rimane in Gesù, così questo Spirito rimane nella comunità dei credenti. E poi Gesù dà la sicurezza – sta annunziando la sua morte – “«Non vi lascerò orfani: verrò da voi.»” La sua non sarà un’assenza, ma una presenza ancora più intensa. “«Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più»”, il mondo di potere non lo potrà più vedere fisicamente, “«invece voi mi vedrete»”; cosa significa? La sintonia con la vita di Gesù lo rende presente, vivo e vivificante all’interno della sua comunità.
“«Perché io vivo e voi vivrete»”. Chi nella sua vita nutre gli altri sperimenterà sempre colui che si è fatto pane di vita per alimentare i suoi. “«In quel giorno»”, che è il giorno della morte e dell’effusione dello Spirito, “«Voi saprete che io sono nel Padre mio»”, nella pienezza della condizione divina, “«E voi in me e io in voi»”.
Si realizza quello che da sempre l’evangelista aveva annunziato: Dio è amore che chiede di essere accolto per fondersi con gli uomini e dilatarne la capacità d’amore in modo che la comunità diventi l’unico santuario visibile nel quale si irradia l’amore di Dio. Nella comunità dei credenti Dio assume il volto umano e gli uomini assumono il volto divino.
E Gesù conclude dicendo: “«Chi accoglie i miei comandamenti»”, sottolinea che sono i suoi comandamenti, e non quelli di Mosè. E l’unico comandamento, le attuazioni pratiche di questo unico comandamento dell’amore che si fa servizio, per Gesù sono importanti come i comandamenti. “«E li osserva, questi è colui che mi ama»”.
Quindi l’amore verso Gesù non è rivolto alla sua persona ma si dirige verso gli altri nella pratica dei suoi comandamenti, cioè nel far propri gli stessi valori di Gesù. Più gli uomini sono umani e più permetteranno al divino di affiorare in loro. Questa è la sintonia d’amore di Dio con gli uomini, e degli uomini con Dio.
E infine la conclusione, “«Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui»”. Quindi Gesù conferma che se c’è questo dinamismo di un amore ricevuto che si trasforma in amore comunicato, la comunità diventa l’unico santuario dove si manifesta l’amore del Padre. Quanto più grande sarà la risposta degli uomini praticando l’amore verso gli altri, tanto più grande sarà la risposta del Padre con una nuova effusione di Spirito e di nuove capacità d’amore ai suoi.

 

LO SPIRITO DELLA VERITÀ

commento al vangelo di p. Pagola:

Gesù sta salutando i suoi discepoli. Li vede tristi ed abbattuti. Presto non l’avranno più con loro. Chi potrà riempire il vuoto che egli lascerà?

Fino ad ora egli è stato colui che si è preso cura di loro, li ha difesi dagli scribi e dai farisei, ha sostenuto la loro fede debole e vacillante, loro hanno pian piano scoperto la verità di Dio ed egli li ha iniziati nel suo progetto umanizzatore.
Gesù parla loro appassionatamente dello Spirito. Non li vuole lasciare orfani. Egli stesso chiederà al Padre che non li abbandoni che dia loro “un altro difensore” affinché “stia” sempre con loro. Gesù lo chiama “lo Spirito della verità”. Che cosa si nasconde in queste parole di Gesù?
Questo “Spirito” della verità non bisogna confonderlo con una dottrina. Questa verità non bisogna cercarla nei libri dei teologi né nei documenti della gerarchia. È qualcosa di molto più profondo. Gesù dice che “vive con noi e sta in noi”. È alito, forza, luce, amore… che arriva a noi dal mistero ultimo di Dio. Dobbiamo accoglierlo con cuore semplice e fiducioso.
Questo “Spirito” della verità non ci trasforma in “proprietari” della verità. Non viene affinché imponiamo ad altri la nostra fede né affinché controlliamo la loro ortodossia. Viene per non lasciarci orfani di Gesù, e c’invita ad aprirci alla sua verità, ascoltando, accogliendo e vivendo il suo Vangelo.
Questo “Spirito” della verità non ci fa manco “portinai” della verità, bensì testimoni. La nostra faccenda non è disputare, combattere né sconfiggere avversari, bensì vivere la verità del Vangelo ed amare Gesù conservando i suoi “mandati.”
Questo “Spirito” della verità sta all’interno di ognuno di noi difendendoci da tutto quello che può separarci da Gesù. C’invita ad aprirci con semplicità al mistero di un Dio, Amico della vita. Chi cerca questo Dio con onestà e verità non sta lontano da lui. Gesù disse in una certa occasione: “Chiunque è della verità, ascolta la mia voce”. È certo.
Questo “Spirito” della verità c’invita a vivere nella verità di Gesù in mezzo ad una società dove frequentemente la bugia è chiamata strategia; lo sfruttamento, commercio; l’irresponsabilità, tolleranza; l’ingiustizia, ordine stabilito; l’arbitrio, libertà; la mancanza di rispetto, sincerità…
Che senso può avere la Chiesa di Gesù se lasciamo che si perda nelle nostre comunità lo “Spirito della verità”?. Chi potrà salvarla dall’autoinganno, dalle deviazioni e dalla mediocrità generalizzata? Chi annuncerà la Buona Notizia di Gesù in una società tanto necessitata di spirito e di sicurezza?
Contribuisci a diffondere lo “Spirito” della verità.

José Antonio Pagola

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i rom di Pisa manifestano … ‘in piedi’

una manifestazione decisamente ‘in piedi’, non ‘in ginocchio’

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all’insegna del ‘siamo umani’ i rom di Marina di Pisa hanno manifestato con tutti i loro bambini dal loro Campo di Bigattieri, per 4 km, fino alle loro scuole per chiedere, non ‘in gonocchio’ , pietisticamente, ma in piedi, cioè con vigore e determinazione condizioni di vivibilità all’altezza della dignità umana che per un decennio l’amministrazione comunale nega a loro:

qui sotto il breve resoconto che p. Agostino ne ha fatto il giorno dopo:

 

Ieri mattina si è svolta la marcia simbolica di accompagnamento dal campo Rom della Bigattiera, destinazione: le scuole Viviani e Macchiavelli di Marina di Pisa, un percorso di circa 4 km. Dove tanti bimbi rom la frequentavano prima che il comune di Pisa sospendesse il servizio Scuolabus. I Rom del campo hanno promosso questa iniziativa. Dopo molte promesse, incontri a vari livelli con l’Amministrazione (comunale e Regionale), che tra l’altro l’anno scorso si era impegnato con un ordine del giorno approvato a larga maggioranza dal Consiglio Comunale a favore di una soluzione condivisa con i Rom del campo, ossia studiare la possibilità di riavviare il servizio scuolabus e garantire l’acqua e luce, condizioni minime per offrire una vivibile dignità agli abitanti del campo.

 

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Ma fin’ora, niente s’è visto: non c’è luce, l’acqua scarseggia e tantomeno il servizio scuolabus, anzi la beffa di una denuncia ai genitori dei bambini Rom del campo per abbandono scolastico! Eppure sono anni che i Rom di questo campo (aperto e sostenuto dal comune!) vivono abbandonati e illusi dal comune.. però nessuno è stato denunciato per questo!
E’ così che i Rom si sono convinti che difficilmente la “politica” vuole veramente trovare delle soluzioni o per lo meno di rispettare le parole date, soprattutto se i destinatari sono Rom.

 

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“ SIAMO UMANI”

scritto dai bambini rom stessi del campo. Lo striscione apriva il corteo, composto da Rom e anche da un bel gruppo di Pisani (singoli e alcune Associazioni) che hanno voluto solidarizzare e accompagnare i bambini a scuola.
Se il comune di Pisa toglie il pulmino per la scuola, allora i bambini li accompagniamo noi a piedi per tutto il tragitto, e che la gente sappia e apra gli occhi: a Pisa l’amministrazione comunale considera i Rom non esseri umani? E’ giunto il tempo di dire basta: le persone mai sono abusive, caso mai sono le condizioni imposte che obbligano delle persone a vivere come abusive, senza acqua, senza luce!
Diceva dom Tomas Balduino, vescovo del Brasile morto il 2 Maggio di quest’anno, grande difensore dei poveri e degli indios:

“ Il rispetto dei diritti umani non lo chiediamo in ginocchio, ma alzandoci in piedi!”

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I Rom della Bigattiera lo stanno facendo anche a nome nostro, come a ricordarci che i diritti mai sono abusivi, neanche in tempo di crisi. “Accompagnare” significa saper camminare insieme..ce lo ricorda anche papa Francesco ed è quello che abbiamo vissuto ieri, grazie ai Rom di via Bigattiera.
Ciao Ago
Campo Rom di Coltano (PI)
22 Maggio 2014

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il papa tira le orecchie ai vescovi italiani e loro … mormorano in diretta

 

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una vera sferzata quella di papa Francesco ai vescovi italiani presiedendo (è la prima volta, non era mai successo) la loro assemblea generale

rivolge loro una forte chiamata a scuotersi e un monito a farsi più vicini al loro popolo, a entrare nel ‘vissuto della gente’, aiutandolo a “non cedere al catastrofismo e alla rassegnazione” e sostenendo con ogni forma di ‘solidarietà creativa’ disoccupati, cassintegrati, disoccupati, precari, imprenditori, migranti e rifugiati

dice chiaramente a loro: “non restate seduti ai piedi del campanile, lasciando che il mondo vada per la sua strada”, mentre  ascoltano con visibile imbarazzo, tanti colpi di tosse e scarsa convinzione la lunga lista delle ‘tentazioni’ che i vescovi devono evitare

qui sotto riporto tre dei vari articoli (dalla preziosa rassegna di ‘finesettimana’) apparsi sulla stampa odierna (di M. Politi, di L. Accattoli e di G. G. Vecchi) che fanno il punto sulla nuova linea che papa Francesco indica ai vescovi italiani, non proprio in continuità con quella portata avanti (non senza durezze ideologiche) fino ad ora, anzi ribaltandola, indicando altri … valori ‘non negoziabili’, anzi l’unica cosa non negoziabile, la realtà stessa:

Il Papa sferza la Cei. “Non restate seduti ai piedi del campanile, lasciando che il mondo vada per la sua strada”, esclama rivolto ad un’assemblea, che non è mai stata accompagnata da tanti colpi di tosse durante un discorso papale e che ascolta imbarazzata la lunga lista delle “tentazioni” che i vescovi devono evitare. Alla fine l’applauso parte esitante, si allarga crescendo ma non coinvolge convintamente tutto l’emiciclo.
Una forte chiamata a scuotersi e a non cedere al sentimento della crisi è venuto ieri da papa Francesco che ha rivolto un doppio monito ai vescovi italiani riuniti in assemblea: perché reagiscano alla tentazione della «tristezza», entrino nel «vissuto della gente» e aiutino la società a «non cedere al catastrofismo e alla rassegnazione», sostenendo con ogni forma di «solidarietà creativa» disoccupati, cassintegrati, precari, imprenditori, migranti e rifugiati.
C’è un’immagine che dice tutto, quando Francesco ricorda ai vescovi italiani la tentazione distinguere «tra “noi” e “gli altri”» e mette in guardia dalle «chiusure» e dall’«attesa sterile di chi non esce dal proprio recinto e non attraversa la piazza, ma rimane a sedere ai piedi del campanile, lasciando che il mondo vada per la sua strada». La stessa crisi è una «emergenza storica» che «interpella la responsabilità sociale di tutti», dice: «Come Chiesa, aiutiamo a non cedere al catastrofismo e alla rassegnazione».
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caro papa amiamo un prete

gruppo di preti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ventisei donne italiane, a nome proprio (‘piccolo campione’) ma anche di tante che ‘vivono nel silenzio’, scrivono al papa dicendogli chiaramente di amare e di essere amati da altrettanti sacerdoti e chiedendogli da essere da lui ricevuti “per portare davanti a te umilmente le nostre storie e le nostre esperienze”

poichè riflettere su questo è per moltissime persone di estrema rilevanza e attualità ho ritenuto importante dare spazio alla ricostruzione che che alla lettera danno i primi due articoli che ad essa fanno riferimento: il primo, di G.G. Vecchi (Corriere della Sera), il secondo, di A. Tornielli (La Stampa)

faranno seguito i link ad altri quattro articoli come aiuto all’approfondimento di queste tematiche segnalando in modo particolare quello di V. Mancuso che più volte su questo si è espresso per rivendicare il diritto del prete alla sua affettività e al matrimonio contro la celibatarizzazione forzata:

«Siamo ventisei donne innamorate di preti» 

lettera a papa Francesco: 

«Caro Papa Francesco, siamo un gruppo di donne da tutte le parti d’Italia (e non solo) che ti scrive per rompere il muro di silenzio e indifferenza con cui ci scontriamo ogni giorno. Ognuna di noi sta vivendo, ha vissuto o vorrebbe vivere una relazione d’amore con un sacerdote, di cui è innamorata».
Inizia così una lettera inviata per raccomandata in Vaticano e firmata da 26 donne che sostengono di essere «un piccolo campione» a nome di tante che «vivono nel silenzio». Le donne chiedono a Bergoglio di rivedere la regola del celibato sacerdotale e di essere ricevute «per portare davanti a te umilmente le nostre storie e le nostre esperienze».
Nel testo, inviato in copia e diffuso ieri dal sito Vatican Insider del quotidiano La Stampa , le
firmatarie scrivono che le alternative alla situazione che vivono «sono l’abbandono del sacerdozio o la persistenza a vita di una relazione segreta»: ma nel primo caso «anche noi donne desideriamo che la vocazione sacerdotale dei nostri compagni possa essere vissuta pienamente», nel secondo «si prospetta una vita nel continuo nascondimento, con la frustrazione di un amore non completo che non può sperare in un figlio». E concludono che il servizio «a Gesù e alla comunità» sarebbe svolto «con maggiore slancio» da un sacerdote «supportato da moglie e figli».
In passato Bergoglio non si è sottratto al tema del celibato, ma con una impostazione assai diversa.
Nel libro scritto da cardinale con l’amico rabbino Abraham Skorka spiegava che la tradizione
celibataria «è una questione di disciplina, non di fede» e «si può cambiare», ma aggiungeva: «Per il momento, io sono a favore del mantenimento del celibato, con tutti i pro e i contro che comporta, perché sono dieci secoli di esperienze positive più che di errori». Sulle relazioni dei preti era chiaro: «Se un sacerdote mi dice che ha messo incinta una donna, io lo ascolto e cerco di tranquillizzarlo e poco a poco gli faccio capire che il diritto naturale viene prima del suo diritto in quanto prete. Di conseguenza deve lasciare il ministero e farsi carico del figlio, perché quel bambino ha anche diritto ad avere un padre con un volto… Io mi impegno a regolarizzare i suoi documenti a Roma, ma lui deve lasciare tutto». Nella Chiesa cattolica esistono già preti sposati. La disciplina del celibato vale per la Chiesa latina, non in quelle cattoliche orientali. Esiste la possibilità che in futuro si vada verso una «doppia disciplina» anche nella Chiesa latina. Magari con le stesse regole: solo i celibi possono essere vescovi. Non è un tabù. Il cardinale Martini propose di «ordinare uomini sposati che abbiano esperienza e maturità». Il Segretario di Stato Pietro Parolin ha spiegato a settembre che il celibato «non è un dogma della Chiesa e se ne può discutere». Ma senza generalizzare: Bergoglio diceva che «se la Chiesa dovesse rivedere tale norma, non sarebbe una regola valida per tutti»: «Tratterebbe la cosa come un problema culturale di un luogo specifico, non in modo universale ma come un’opzione personale».

 uido Vecchi
in “Corriere della Sera” del 18 maggio 2014

 

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L’appello delle donne che amano un prete

“Rivedere il celibato”

vivendo, ha vissuto o vorrebbe vivere una relazione d’amore con un sacerdote, di cui è innamorata».

Inizia così la lettera firmata – con il solo nome di battesimo, ma nella raccomandata spedita in Vaticano c’era un cognome con dei recapiti telefonici – da ventisei donne di diverse età sentimentalmente legate a dei preti che chiedono al Papa di rivedere il celibato sacerdotale obbligatorio.
«Ben poco – scrivono – si conosce della devastante sofferenza a cui è soggetta una donna che vive con un prete la forte esperienza dell’innamoramento. Vogliamo, con umiltà, porre ai tuoi piedi la nostra sofferenza affinché qualcosa possa cambiare non solo per noi, ma per il bene di tutta la Chiesa».

«Noi amiamo questi uomini, loro amano noi – scrivono le donne – e il più delle volte non si riesce pur con tutta la volontà possibile, a recidere un legame così solido e bello, che porta con se purtroppo tutto il dolore del “non pienamente vissuto”. Una continua altalena di “tira e molla” che dilaniano l’anima. Quando, straziati da tanto dolore, si decide per un allontanamento definitivo, le conseguenze non sono meno devastanti e spesso resta una cicatrice a vita per entrambi. Le alternative sono l’abbandono del sacerdozio o la persistenza a vita di una relazione segreta».
«Nel primo caso la forte situazione con cui la coppia deve scontrarsi viene vissuta con grandissima sofferenza da parte di entrambi: anche noi donne desideriamo che la vocazione sacerdotale dei nostri compagni possa essere vissuta pienamente, che possano restare al servizio della comunità».

«Nel secondo caso, ovvero nel mantenimento di una relazione segreta – si legge ancora nella lettera – si prospetta una vita nel continuo nascondimento, con la frustrazione di un amore non completo che non può sperare in un figlio, che non può esistere alla luce del sole. Può sembrare una situazione ipocrita, restare celibi avendo una donna accanto nel silenzio, ma purtroppo non di rado ci si vede costretti a questa dolorosa scelta».

Jorge Mario Bergoglio, da cardinale, dopo aver assistito sul letto di morte l’ex vescovo argentino Jerónimo Podestá, era rimasto in contatto con la vedova Clelia Luro. Ma nel dialogo con il rabbino Skorka si era espresso in favore «del mantenimento del celibato, con tutti i pro e i contro che comporta, perché sono dieci secoli di esperienze positive più che di errori. La tradizione ha un peso e una validità». Bergoglio si era espresso in modo chiaro contro la doppia vita dei sacerdoti: «Se uno viene da me e mi dice che ha messo incinta una donna, io lo ascolto, cerco di tranquillizzarlo e poco a poco gli faccio capire che il diritto naturale viene prima del suo diritto in quanto prete. Di conseguenza deve lasciare il ministero e farsi carico del figlio, anche nel caso decida di non sposare la donna. Perché come quel bambino ha diritto ad avere una madre, ha anche diritto ad avere un padre con un volto».
«Ora – aggiungeva il futuro Papa – se un prete mi dice che si è lasciato trascinare dalla passione, che ha commesso un errore, lo aiuto a correggersi… Alcuni purtroppo non vengono nemmeno a dirlo al vescovo». E concludeva: «La doppia vita non ci fa bene, non mi piace, significa dare sostanza alla falsità». Non va dimenticato infine che anche nelle Chiese ortodosse che per tradizione hanno clero sposato, non è mai stato concesso a un prete già ordinato di prendere moglie e continuare a fare il prete, ma si sono ammessi al sacerdozio uomini che erano già sposati.

 Andrea Tornielli
in “La Stampa” del 18 maggio 2014

 

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Nicolini: «Sono consapevole che la tradizione della Chiesa latina non è questa, ma si tratta di un’ipotesi che andrebbe tenuta aperta. Ho visto delle comunità dell’Oriente con preti insieme alle loro spose che servono Dio in maniera splendida. Ed erano bellissimi».
“Il prete (diminutivo di presbitero, cioè “più anziano”) esiste in funzione della comunità, di cui è chiamato a essere “il più anziano”, cioè colui che la guida in quanto dotato di maggiore saggezza ed esperienza di vita. Ora la questione è: la celibatizzazione forzata favorisce tale saggezza e tale esperienza?” Per alcuni sì, per altri no.
“«I consigli peggiori me li hanno dati in monastero. Erano arrivati anche a “giustificare” la mia relazione. Mi dissero che ero priore, che avevo tante responsabilità, che forse avevo bisogno di uno sfogo, insomma “Fai quello che vuoi, ma di nascosto”. L’importante era che non si sapesse in giro»”
“«Ben poco – scrivono – si conosce della devastante sofferenza a cui è soggetta una donna che vive con un prete la forte esperienza dell’innamoramento. Vogliamo, con umiltà, porre ai tuoi piedi la nostra sofferenza affinché qualcosa possa cambiare non solo per noi, ma per il bene di tutta la Chiesa»”
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una serata con alcuni (pochi, ma buoni!) amici dell’u.n.p.r.e s.

 venerdì, 16 maggio, una bella seratina alle Budrie tra alcuni amici dell’u.n.p.r.e s.: pochi ma buoni, è il caso di dire … con un pizzico di autoincoraggiamento, a dare il bentornato a Gabriella e marito dalla lunga  tourné nel nord, con Luigino e la sua polenta bianca, con Flavio sempre più pimpante e quasi pronto ad un ritorno fra i suoi amici sinti, col Ciccio che li rappresenta, con le due Luigine, col Beppe col suo bel barbone intonso e Laura che c’è e non … c’è, per il fatto che, chissà perché, dopo un uso ‘a mitraglia’ della macchinetta fotografica, sembra stata da questa penalizzata escludendola da tutte e tre le foto …

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pochi ma … buoni, i migliori!

 

 

 

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una buona tavola riunisce più che lunghi discorsi o

lunghe riflessioni sull’u.n.p.r.e s.

 

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una cenetta un pò spartana, sicuramente un pò scondita

e sciocca (come dicono in Toscana), ma che, consumata in

amicizia, pare (soprattutto alla gentilissima Laura – la più

gentile fra tutti noi! – ) di più di quanto in realtà sia;

nel dopo cena le profonde e acute riflessioni di Luigino mi hanno

buttato in tilt, mi hano serrato gli occhi e spedito a letto

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p. Maggi commenta il vangelo della domenica

 

p. Maggi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IO SONO LA VIA, LA VERITA’ E LA VITA 

commento al Vangelo della domenica quinta di pasqua (18 maggio 2014) di p. Alberto Maggi:

Gv 14,1-12

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in
Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei
mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto,
verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io
vado, conoscete la via».
Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli
disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.
Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete
veduto».
Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo
sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi
tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che
io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere.
Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.
In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne
compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».

 

Sono gli ultimi momenti che Gesù sta con i suoi discepoli e Gesù li vuole rassicurare, tranquillizzare. Vuol far loro comprendere un paradosso: che la sua morte non sarà una perdita per loro, ma un guadagno; che la sua morte non sarà un’assenza, ma una presenza ancora più intensa. Quindi Gesù, che ha appena annunziato il tradimento di Pietro ai discepoli che sono turbati e sui discepoli sta per abbattersi una tempesta tremenda, Gesù li rassicura che Dio è con lui. Ecco perché Gesù dice: “«Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me»”. E poi rassicura sull’effetto della sua partenza e dice che “«Nella casa del Padre vi sono molte dimore»”. Qui bisogna comprendere bene questo versetto alla luce poi del versetto 23 quando Gesù dirà: “«Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui»”. Non si tratta qui di una dimora presso il Padre, ma del Padre che viene a dimorare tra gli uomini. Questa è la novità, la grande novità proposta da Gesù: non c’è più un santuario dove si manifesta Dio, ma in ogni persona che  lo accoglie, lì Dio si manifesta. Quindi il Dio di Gesù è un Dio che chiede di essere accolto per fondersi con la persona, dilatare la sua capacità d’amore. Questa sarà la sua dimora. Ma perché Gesù parla di “molte dimore”? Perché, essendo Dio amore, l’amore non si può esprimere e manifestare in una forma sola, ma in molteplici forme quanto molteplici sono le nature degli uomini, le loro situazioni. Poi Gesù continua questa rassicurazione dicendo che dove lui è saranno anche loro, cioè nella sfera della dimensione divina, nella sfera dell’amore. E qui Gesù viene interrotto da uno dei discepoli, Tommaso, che chiede, letteralmente: “«Non sappiamo dove t’incammini»”. E’ un verbo che indica un cammino senza ritorno. Lui non capisce come la morte possa avere degli aspetti positivi. E Gesù risponde con un’affermazione solenne, importante: “«Io sono»”, quindi rivendica la condizione divina, “«La via»”, cioè un cammino verso qualcosa e questo
cammino è verso “«la verità»”. Gesù non afferma di avere la verità, Gesù non dice: “Io ho la verità”, ma “Io sono la verità”.  e non chiede ai discepoli di avere la verità, ma di essere la verità. Grande è la differenza. Chi ha la verità,  per il fatto stesso di possederla, si ritiene in grado di giudicare, e condannare chi non la pensa come lui. Essere nella verità significa essere inseriti nello stesso dinamismo d’amore di Dio che vede il bene dell’uomo come valore assoluto. Essere nella verità significa non separarsi da nessuno, ma essere accanto a tutti in un atteggiamento d’amore che si trasforma in servizio. La verità è un dinamismo divino che non si può esprimere attraverso formule dottrinali, ma soltanto attraverso un’offerta d’amore e comunicazione di opere d’amore. E al finale c’è “la vita”. Chi segue Gesù in questo cammino ed è come lui verità, arriva verso la vita indistrutti ile, la pienezza della vita. E poi Gesù dice ai discepoli: “«Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre»”. Stranamente on dice “lo conoscerete nel futuro, ma Gesù afferma: “«Fin da ora lo conoscete e lo avete veduto»”. Dov’è
che i discepoli hanno veduto e conosciuto il Padre? Nella lavanda dei piedi. Gesù, che è manifestazione visibile di Dio, ha mostrato chi è Dio: amore che si fa servizio.
Allora, più autentica è l’adesione a Gesù, facendo della propria vita amore e servizio per gli altri, e più grande sarà la conoscenza del Padre. E qui c’è un altro discepolo, questa volta Filippo; lui non capisce come in Gesù si possa manifestare Dio e replica: «Mostraci il Padre e ci basta»”. Ecco l’importante rivelazione di Gesù: “«Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre»”. Al termine del prologo a questo vangelo, Giovanni aveva fatto un’importante dichiarazione: “Dio nessuno lo ha mai visto, solo il figlio ne è la rivelazione”. Cosa significa questo? Che non Gesù è uguale a Dio, ma Dio è uguale a Gesù. L’evangelista invita a sospendere il pensiero su Dio, la conoscenza di Dio e a centrarsi su Gesù. Tutto quello che Gesù fa e dice, tutto questo è Dio. 
Quindi tutte le idee, le immagini, i pensieri, le conoscenze che uno ha di Dio, e non li riscontra in Gesù, devono essere eliminati perché sono incompleti o falsi. Gesù è molto chiaro: “Chi ha visto me ha visto il Padre”. E qual è questo Padre che si manifesta in Gesù? Amore che si fa servizio, come abbiamo visto nella lavanda dei piedi.  e Gesù, di fronte all’incredulità dei discepoli, dice loro che, se non gli vogliono credere per le sue parole lo credano almeno per le opere. Le opere – e le opere di Gesù sono tutte azioni con le quali lui comunica e arricchisce la vita degli altri – sono l’unico criterio di credibilità. Il finale è espresso in formula solenne,
con l’Amen, Amen, cioè “«In verità, in verità vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio»”, le opere di Gesù sono tutte comunicazioni vitali per gli altri e poi Gesù dice – e può sembrare sbalorditivo, “«ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre»”. Come si fa a compiere azioni più grandi di Gesù? Gesù non ha potuto rispondere a tutti i bisogni dell’umanità, ed è nella comunità dei discepoli che si rifà al suo nome e mette come unico valore assoluto della propria esistenza – l’unico e sacro – il bene dell’uomo, una comunità che si mette in questo dinamismo dell’ “essere verità”, quindi non di avere la verità per giudicare gli altri, ma di essere per avvicinare tutti, questa è una comunità dove l’azione divina crescerà e sarà in misura traboccante a  favore degli altri. Dice Gesù: “Tutto questo sarà perché io vado al Padre”, perché lui collabora con loro. Quindi Gesù li assicura che la sua morte non sarà un’assenza, ma una presenza ancora più intensa e vivificante.

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una chiesa da … sogno!

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La Chiesa che vorrei

mi piacerebbe una chiesa radicalmente diversa, mi piace sognarla povera, a fianco dei poveri, senza potere se non quello della parresia evangelica, dalla parte dei deboli, degli impoveriti, libera da ogni legame con poteri forti, e liberatrice da ogni forma di schiavitù perché il vangelo o è questo o non è, inoltre la vorrei pluralista, democratica, non clericale, con forte partecipazione del femminile …
mi piace ‘sognare’ così, non di quei sogni che E. Bloch chiamava ‘ad occhi chiusi’ e che danno grande libertà alla fantasia, ma di quelli che egli ancora chiamava ‘ad occhi aperti’ dove si vive la piena lucidità della partecipazione, della corresponsabilità, della creatività condivisa che si ispira ad una progettualità esclusivamente evangelica …
 mi piace costatare, soprattutto nei momenti nei quali hai la sensazione di essere pressappoco solo o in scarsa compagnia a fare di questi sogni, che in realtà questi sono più condivisi di quanto immagini, e che è ancora vero che:
“sogno che si sogna da soli può essere un’illusione
sogno che si sogna assieme è sogno di soluzione
allora: andiamo a sognare insieme, compagni, a sognare leggero, a sognare comunitariamente” (dall’America Latina)
uno di questi ‘sognatori’ è il prete ‘di frontiera don Pierluigi di Piazza, fondatore del Centro di accoglienza “Ernesto Balducci” di Zugliano (Ud), che intervistato dal giornalista del Manifesto e di Adista così delinea il suo ‘sogno’, non di un’altra chiesa, ma di una chiesa ‘altra’

 

 

“senza paura verso il futuro” 

Luca Kocci intervista don Pierluigi Di Piazza

Quella che sogna don Pierluigi Di Piazza – prete “di frontiera”,  – è una Chiesa povera e senza potere, libera e liberatrice, non clericale, femminile, democratica e pluralista.

Per delinearla, nel suo libro appena pubblicato da Laterza (Compagni di strada. In cammino nella Chiesa della speranza, pp. 152, euro 12), ha scelto lo stile narrativo, del racconto di viaggio, insieme ad alcuni compagni di strada, credenti, non credenti e credenti in altre fedi – Margherita Hack, don Tonino Bello, don Puglisi, mons. Romero, il Dalai Lama, don Gallo, Eluana e Beppino Englaro e altri ancora –, che sono profeti e testimoni. Ciascuno “incarna” un valore, evangelico e laico allo stesso tempo: Margherita Hack, per esempio, la laicità ma anche l’etica dei non credenti. «Sono convinto – spiega don Di Piazza – della necessità di affermare e di praticare la laicità, la laicità autentica, libera dal confessionalismo, dall’integralismo e dal laicismo, perché ci possono essere forme di assolutismo in entrambe le posizioni, quindi di dipendenza, di chiusura, di ostilità. Invece la vera laicità libera la fede alla sua autenticità, come la vera fede favorisce e incoraggia la laicità. Mi sento laico, credente sempre in ricerca e prete. Per questo mi sono trovato a condividere l’etica dichiarata e vissuta da Margherita Hack sulla giustizia, l’accoglienza, la pace, i diritti civili, il superamento di ogni forma di discriminazione, esclusione e razzismo, l’attenzione e la premura per tutti gli esseri viventi, animali, piante e i diversi organismi. Margherita Hack diceva, in sintonia con me, che la fede è fede e che non si può dimostrare né che Dio esiste né che non esiste. Il rispetto quindi deve essere reciproco fra persone diverse per ispirazione ed itinerario, ma unite dal comune obiettivo di contribuire ad un mondo più giusto ed umano».
Poi c’è don Gallo, immagine di una Chiesa evangelica e schierata accanto agli ultimi…

«Don Gallo mi fa pensare soprattutto all’uomo di fede nel Dio di Gesù di Nazareth, al suo essere prete con convinzione ostinata e con libertà sorprendente dentro la Chiesa. La memoria viva del suo insegnamento è il suo essere stato e continuare ad essere un riferimento di luce, di accoglienza, di confronto fra le persone più diverse: credenti di diverse fedi religiose e non credenti, eterosessuali omosessuali, transessuali, carcerati, prostitute, persone dipendenti dalle sostanze, emarginate, discriminate, scartate. Ha saputo guardare la vita e le storie delle persone dalla strada, dal marciapiede e per questo restare sempre partigiano, come lo era stato nella lotta di Liberazione, cioè di parte, schierato, come ha vissuto e ci ha proposto Gesù».
Un capitolo è dedicato ad Eluana e Beppino Englaro, con cui hai condiviso un pezzo di strada, anche perché la parte finale della loro storia si è svolta ad Udine…

«Ho ricordato Eluana e Beppino per la necessità di liberare la storia delle persone dalle strumentalità del moralismo, della politica, della religione, perché l’incontro vero con la storia delle persone possa significare ascolto, rispetto, dialogo ricerca di strade possibili per poter contribuire a vivere, soffrire e morire nel modo più umano possibile».

E i “principi non negoziabili”?

«Negli ultimi anni la Chiesa, una Chiesa politica, e certa politica hanno fatto a gara a sostenersi nel dichiarare i principi non negoziabili, espressione che pare scomparsa con l’arrivo di papa Francesco, il quale ha affermato che l’espressione non gli piace, perché i valori sono tali e basta. Inoltre è grossolana nei contenuti e nel linguaggio: “non negoziabili” si riferisce ad una sorta di trattativa mercantile, sconveniente se riferita alla vita delle persone. E ancora più grave se si pensa che la Chiesa dovrebbe incontrare le persone con le loro storie diverse, ascoltare, curare, accompagnare, esprimere condivisione e incoraggiamento. La non negoziabilità annulla ogni possibilità di dialogo. Le questioni della bioetica, dell’inizio e del fine vita chiedono informazione e formazione, riferimenti etici profondi, rispetto della libertà delle persone, anche nell’accettare o rifiutare le cure, nel decidere riguardo alla morte. E questo non si pone contro Dio, ma si esprime alla sua presenza con una libertà consapevole e serena, con la fiducia e l’affidamento della vita, non solo di quella biologica, a lui, fonte e accoglienza della vita».

Fra i tuoi “compagni di strada” c’è anche Tonino Bello…

«È stato un uomo e un vescovo, poeta e profeta, in cammino con il suo popolo e al suo servizio. Si è liberato dal potere clericale, maschilista e autoritario, dal compito di funzionario della religione e per questo ha espresso il potere e la forza dei segni: nel muoversi, nel vestire, nell’incontrare, nel condividere, nell’aprire le porte del palazzo vescovile per accogliere, nel denunciare e nel proporre con forza e nell’incontrare con tenerezza. Continua a comunicarci una profonda spiritualità che anima l’audacia e la concretezza delle scelte, del linguaggio e dei gesti».

Che vescovi vorresti per la Chiesa?

«Vescovi insieme profeti e pastori, perché le due dimensioni non sono contrapposte ma complementari. La forza della profezia dovrebbe guidare il pastore perché non diventi un funzionario di un’istituzione religiosa, perché annunci con libertà e franchezza la Parola e ne viva la coerente testimonianza; perché si senta in mezzo al popolo di Dio, non al di sopra; perché esprima segni di semplicità, di sobrietà, rinunciando a titoli onorifici, al palazzo vescovile, all’automobile di rappresentanza. Un vescovo che incontri, ascolti, condivida esperienze e percorsi, un uomo appassionato del Dio di Gesù di Nazareth e delle persone, delle loro storie, accogliente, non preoccupato dell’organizzazione, ma della sensibilità del cuore e dell’atteggiamento di vicinanza e di prossimità. Anche nella scelta dei vescovi il criterio non dovrebbe essere quello di fedeltà all’istituzione religiosa, ma di fedeltà al Vangelo, di coerenza nella vita, di segni leggibili riguardo alla giustizia, all’accoglienza, alla pace, alla misericordia, alla verità, alla salvaguardia del creato, di tutti gli esseri viventi».
Il Concilio attraversa e permea ogni pagina del libro. Dopo 50 anni, a che punto siamo?

«Lo spirito del Concilio ci sta davanti, l’impegno per il suo compimento dovrebbe vederci coinvolti, soprattutto su due dimensioni fondamentali: la Chiesa come popolo di Dio in cammino nella storia, di cui papa, vescovi, preti, religiosi e religiose sono una piccola parte con compiti specifici, non di superiorità e di distanza, ma di condivisione, di servizio. E poi il rapporto fra Chiesa e mondo: non di superiorità, di sospetto, di giudizio preventivo, bensì di attenzione, ascolto, apprendimento, dialogo, e poi orientamento, indicazione, insegnamento sempre rispettoso, di forte denuncia e giudizio su tutte quelle situazioni che opprimono, offendono e umiliano la dignità delle persone».
L’ultimo capitolo ha come titolo “Una Chiesa che non ha paura e che guarda al futuro”. I gesti e le parole di Francesco sono di incoraggiamento? Quale Chiesa sogni?

«Certamente le parole e i gesti di Francesco incoraggiano tanti preti insieme a tante persone che in questi anni sono stati sospettati e criticati per il loro impegno nella società, per un rinnovamento di fondo della Chiesa. Sta spostando il baricentro dalla dottrina alla testimonianza, dall’istituzione alle relazioni, dalla preoccupazione organizzativa all’atteggiamento interiore».
Quali sono le prime riforme da fare?

«Innanzitutto la scelta di camminare con i poveri e di presentarsi come Chiesa povera, essenziale, sobria. Poi la scelta di una maggiore democrazia. Da parte di alcuni si dice che la Chiesa non è una democrazia, in parte è vero perché dovrebbe essere una comunione, che però di fatto dovrebbe partire dall’attuazione delle elementari forme di partecipazione e di democrazia, per poi tendere all’ulteriorità della comunione. Infine la realizzazione di una Chiesa pluralista che riconosce le diversità culturali e simboliche delle diverse comunità sparse su tutta la Terra. Un pluralismo di teologie e liturgie. E ancora una Chiesa che riprende in modo profondo e pacato alla luce del Vangelo e con il contributo delle scienze umane le dimensioni dell’affettività, dell’amore e della sessualità nelle loro diverse esperienze ed espressioni. È questa la dimensione fondamentale della vita delle persone: riguarda i rapporti donna-uomo, la famiglia, i separati, i divorziati; l’omosessualità e la transessualità, la pedofilia; il celibato obbligatorio da sciogliere per la credibilità del celibato stesso e per una Chiesa con preti celibi, sposati e con donne prete. Sempre, continuamente e prima di tutto il riferimento a Gesù di Nazareth e al suo Vangelo: da qui si parte e qui si ritorna, altrimenti la Chiesa diventa un’istituzione fra le altre, con una copertura esteriore di religiosità».

 

sogno una chiesa

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ancora stragi di migranti

Il naufragio senza fine dell’Unione europea

Non si fermano le stragi di migranti nel Mediterraneo. Colpa di politiche di accoglienza inefficaci

 

 

 naufragio
Se non fosse una tragedia ci sarebbe quasi da sbuffare: ancora? Di nuovo gli stessi argomenti? Ma quante volte ne abbiamo già parlato? Quante volte abbiamo già parlato dei migranti che affrontano sforzi inenarrabili per fuggire dai propri paesi in guerra e arrivare sulle sponde del Mediterraneo in cerca del “miracolo” di un barcone sfasciato sul quale vendere a caro prezzo ai trafficanti il sogno di una vita nuova in un luogo in pace? E quante volte abbiamo fatto la conta di quelli  che si è presi il mare, anche se sarebbe più esatto dire che se li è presi l’avidità di alcuni e l’indifferenza di altri? “Vergogna”, ha detto solo Papa Francesco quando nello scorso ottobre ebbe notizia dell’ennesimo naufragio: morirono 366 persone e ancora il mare sta restituendo altri corpi. Eppure la strage non si ferma: il 12 maggio un altro barcone è naufragato a un centinaio di miglia a sud di Lampedusa e i mezzi navali dell’operazione “Mare nostrum” che pattugliano la zona proprio per intercettare i natanti con il loro carico umano, sono riusciti a portare in salvo circa 200 persone mentre almeno 40 sono i morti accertati. Aleteia è andata ancora una volta a bussare al Centro Astalli per i rifugiati dei gesuiti, a Roma, e a interrogare il suo responsabile, p. Giovanni La Manna.
 
 
L’ennesima tragedia di migranti morti in mare: non era stato detto “mai più”?

La Manna: Il “mai più” lo devono realizzare quanti hanno la responsabilità di governare questo fenomeno. E’ veramente triste in queste ore assistere al rimpallo di responsabilità tra l’Unione europea e l’Italia. E’ preoccupante che la Commissione europea affermi di aver chiesto all’Italia “cosa fare”: non dovrebbe essere in grado di valutare il fenomeno in modo autonomo? Il 3 ottobre 2013, dopo la tragedia dei 366 immigrati morti al largo di Lampedusa, la Commissione si è recata sull’isola e cosa ha capito? Vedendo le salme di tutte quelle persone sul molo e nel capannone l’Unione europea quale opinione si è fatta di questo problema? Non si è posta la domanda su cosa fare per evitare queste tragedie? Non se lo è chiesto e per questo le tragedie si ripetono.

Cosa dovrebbe fare?

La Manna: L’Unione europea, piuttosto che perdersi in polemiche ed esprimere frasi fatte di cordoglio e commozione, deve agire con giustizia e dignità. L’unica strada degna che deve percorrere – sebbene sia già in ritardo – è quella della creazione di corridoi umanitari attraverso i quali far arrivare in sicurezza in Europa i profughi, specialmente quelli siriani, per poi distribuirli in modo equo tra i vari stati. I numeri che possono spaventare una nazione in difficoltà non possono spaventare l’Unione europea nel suo complesso. Solo così si possono sottrarre i profughi che scappano dai conflitti e dalle persecuzioni allo sfruttamento dei trafficanti. E’ tempo di agire. Basta morti in mare. “Mare nostrum” è uno strumento che riesce a salvare delle vite ma non tutte e sono evidenti i limiti di una operazione che pure è positiva.

Eppure qualcuno, proprio in questi giorni, ha definito “Mare nostrum” un’operazione “cretina”…

La Manna: Sono esternazioni che nemmeno voglio prendere in considerazione, frutto della povertà culturale e umana che stiamo vivendo. Un tempo ci si sarebbe vergognati di pensare ed affermare una cosa del genere.

L’idea dei canali umanitari è nuova?

La Manna: L’Unione europea prevede già dei programmi grazie ai quali dai campi profughi le persone vengono portate in salvo nei paesi che attivano questi programmi di reinsediamento. Però siamo ancora troppo timidi o impauriti o indifferenti. Occorre intensificarli. Tutti i Paesi europei riconoscono il diritto all’asilo politico ma come fanno le persone ad arrivare nei nostri paesi per esercitare il diritto che riconosciamo loro? Oggi l’unico strumento per sfuggire dal proprio paese per un siriano è affidarsi a un trafficante e sperare che, prima di affondare, il barcone incontri una delle navi di Mare nostrum. Si conta che in Libano ci siano un milione di siriani: quanto inciderebbe la loro presenza sui 500 milioni che costituiscono la popolazione europea? E’ triste che l’Europa non senta il peso di tante morti sulla coscienza. Forse sono troppo lontani.

Al Centro Astalli c’è stato un aumento dei profughi che chiedono aiuto?

La Manna: Sì ed è drammatico. Non c’è un sistema unitario e questo penalizza le persone che poi non trovando posto finiscono negli stabili occupati in città in condizioni indegne dal punto di vista della sicurezza e dell’igiene. In Italia c’è un sistema pensato per affrontare sempre il problema con un’ottica emergenziale: ricerca di posti per tre mesi e 30 euro al giorno. Che progettualità c’è in un’accoglienza del genere? In tre mesi una persona cosa può fare per inventarsi un futuro? Se invece, come noi richiediamo da sempre, il sistema di accoglienza fosse pensato con un’ottica progettuale si potrebbero porre da subito le condizioni per l’autonomia delle persone e una vera integrazione. Oggi, invece, si sprecano risorse senza costruire nulla.
  

sources: ALETEIA

Lettera dal fondale del Mediterraneo 

di Hamid Barole Abdu:

Cara mamma, ti scrivo da un acquario/ uno spazio infinito senza mormorio /dove tutti dormono sonni profondi/ come le mummie dei faraoni. /Qui il tempo non è scandito da notte e dì/ C’è tanta pace, è una vita da angeli/ un vero Paradiso nel fondale marino,/ si vive senza acqua e senza cibo/ non si lavora e non si fa alcuna attività/ ci si rilassa in eternità.
Cara mamma, ti chiedo scusa / quando me ne andai non dissi nulla / la partenza fu per me uno scherzo/ avrei voluto salutarti e darti tanti baci,/ farmi stringere dai tuoi abbracci/ come hai sempre fatto prima che io uscissi/ per andare a scuola o per giocare./ So che mi perdonerai/ nelle preghiere mi ricorderai.
Cara mamma, ho tanta voglia di scriverti,/ le mie avventure sono tante:/ era la prima volta che salpavo sul barcone/ con altri coetanei del quartiere./ Il mare era sereno con un bel sole/ l’alba silenziosa senza parole/ gabbiani sopra le nostre teste volavano /a modo loro ci auguravano buon viaggio./ Dopo alcuni giorni senza acqua né cibo/ con gli occhi sbarrati notte e giorno./ Il barcone in mezzo al mare/ il motore smise di funzionare./ Le nostre risate furono interrotte dal panico/ onde alte iniziarono a farci sollevare,/ e tutti coperti dal barcone rovesciato/ nessuno di noi sapeva nuotare/ e così fummo risucchiati in fondo al mare.
Cara mamma, ti ricordi quando ero bambino,/ una gran paura avevo dell’acqua/ persino nella bacinella non volevo lavarmi/
mi versavi l’acqua con i piedi inchiodati per terra.
Cara mamma, ti scrivo da qui: dal fondale abitato da gente di tutto il mondo/ piccoli, adulti e famiglie intere/ una grande comunità/ scheletri nel limbo in fondo al mare.
 
(lettera pubblicata sul sito web Combonifem)
 

 

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