il commento al vagelo di p. Maggi

p. Maggi

OTTO GIORNI DOPO VENNE GESU’

commento al Vangelo della seconda domenica di pasqua (27 1prile 2014) di p. Alberto Maggi :

Gv 20,19-31

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli  dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

Le prime parole che Gesù pronuncia ai suoi discepoli che si erano nascosti per paura di fare la stessa fine del loro maestro – il mandato di cattura era per tutto il gruppo di Gesù – sono: “Pace a voi”. Non sono un augurio, un invito, Gesù non dice: “La pace sia con voi”, ma sono un dono, Gesù dona loro la pace. del termine “pace” viene racchiuso tutto quello che concorre alla pienezza di vita dell’uomo, in una parola alla “felicità”, quindi Gesù si presenta con il dono di una pienezza di felicità. E poi mostra loro  subito il perché devono essere felici, infatti mostra le mani e il fianco, cioè mostra la permanenza dei segni dell’amore, con il quale Gesù ha dato la vita per i suoi discepoli. Infatti al momento dell’arresto Gesù aveva detto alle guardie “Se cercate me lasciate che questi se ne vadano”. E’ il pastore che ha dato la vita per le sue pecore. Poi Gesù torna di nuovo a ripetere questo dono della pace, ma questa volta è perché la comunichino all’umanità. Infatti, dopo aver ripetuto “Pace a voi”, Gesù aggiunge: “Come il Padre ha mandato me…”, il Padre ha mandato il figlio a dimostrare un amore sino alla fine, “… così anch’io mando voi”. Gesù invita i suoi discepoli a prolungare nel tempo l’offerta di vita di Gesù. E per questo comunica loro la sua stessa capacità d’amare, cioè comunica lo Spirito Santo. L’attività di Gesù, che in questo vangelo è stata descritta come quella dell’agnello che toglie il peccato del mondo, e toglie il peccato del mondo effondendo sulle persone lo Spirito Santo, viene prolungata dalla sua comunità. Deve proporre e offrire ad ogni persona una pienezza di vita, una pienezza d’amore. E poi Gesù continua dicendo: “Coloro ai quali cancellerete i peccati saranno cancellati, a coloro ai quali non cancellerete, non saranno cancellati”, questo è il verbo adoperato dall’evangelista. Cosa vuol dire Gesù? Non dà un potere per alcuni, ma una capacità, una responsabilità per tutti. La comunità deve essere come la luce che splende nelle tenebre. Quanti vivendo nelle tenebre se ne sentono attratti ed entrano a far parte del raggio d’azione di questo amore, hanno il passato completamente cancellato. Quanti invece, pur vedendo brillare questa luce, si ritraggono ancora di più nelle tenebre – Gesù l’aveva detto: “Chi fa il male odia la luce” – rimangono sotto la cappa dei loro peccati, sotto la cappa delle tenebre di morte. A questo incontro di Gesù con i suoi discepoli non c’era Tommaso. Come mai Tommaso era assente? I discepoli erano nascosti per paura di fare la stessa fine di Gesù. Tommaso non ha paura; Tommaso è colui che al momento della risurrezione di Lazzaro aveva detto: “andiamo anche noi a morire con lui”. Ecco perché Tommaso è chiamato “il gemello”, quello che più assomiglia a Gesù. Tommaso non è presente e quando gli dicono che Gesù è apparso, lui non esprime la sua incredulità, ma il disperato bisogno di credere. E lo fa con quell’espressione: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi … “, è l’equivalente dell’italiano, quando di fronte ad una notizia, noi diciamo “Non ci posso credere! Non è possibile!” Non stiamo negando il fatto, significa che è troppo bello. Otto giorni dopo, il ritmo è quello della celebrazione eucaristica. E’ nell’eucaristia che Gesù si fa presente e comunica il suo amore. Gesù si manifesta a Tommaso che si guarda bene dal mettere il dito nelle piaghe di Gesù, ma prorompe nella più alta professione di fede di tutti i vangeli. Gesù era stato descritto dall’inizio del vangelo, come il Dio che nessuno aveva mai visto e che in lui si era manifestato. Tommaso lo comprende, si rivolge a Gesù chiamandolo “Mio Signore e mio Dio”. Il brano si conclude con una beatitudine. I credenti di tutti i tempi non sono svantaggiati nei confronti di coloro che hanno fatto quest’esperienza, ma addirittura avvantaggiati, perché hanno la beatitudine che non è stata detta per i discepoli, “Quanti crederanno senza aver bisogno di vedere”, Gesù li proclama “beati”. Quanti chiedono un segno da vedere per poter credere, Gesù li invita a credere per essere loro segno che gli altri possono vedere. Questa è la buona notizia di Gesù che la comunità dei discepoli è chiamata a portare.   

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E. Cardenal e papa Francesco

Ernesto Cardenal: «Io, poeta ispirato dalla Teologia della Liberazione dico che questo Papa è rivoluzionario»

di Alver Metalli
La sua popolarità la deve alla rivoluzione sandinista vittoriosa nel 1979, di cui fu animatore e ministro di governo nella prima giunta, ma anche al dito alzato di Giovanni Paolo II nel marzo del 1983, con cui il pontefice polacco lo redarguisce assieme al fratello Fernando nell’aeroporto di Managua, da poco ribattezzato Augusto Cesar Sandino. La fotografia di Ernesto Cardenal inginocchiato davanti al Papa con l’indice alzato fece il giro del mondo. Ed anche quel che successe dopo alla presenza di Giovanni Paolo II, nella piazza della rivoluzione di Managua, con centinaia di migliaia di persone e il coro sandinista davanti all’altare, sapientemente amplificato dal sistema televisivo, che scandiva «entre cistianismo y revolución no hay contraddicion», il celebre slogan coniato da Cardenal.
Sono passati trent’anni da quel momento e a vederlo oggi, 88enne, camminare lentamente appoggiato al tripode, incurvato e con la folta chioma bianca cinta dall’immancabile basco nero alla Che Guevara, si direbbe che il tempo è passato anche per lui, e che l’isolamento nell’isola di Solentiname, nel Lago Nicaragua, non l’abbia preservato dalla corruzione degli anni. Ma è una impressione esteriore, perché dopo le prime parole si capisce che Ernesto Cardenal non è cambiato affatto. Tra cristianesimo e rivoluzione non c’è proprio contraddizione, ripete imperterrito. «Non sono la stessa cosa, ma sono perfettamente compatibili. Si può essere cristiani e marxisti o scientifici» ribadisce mentre non nasconde la sua sorpresa per l’elezione di un Papa del suo stesso emisfero, anche se di qualche meridiano più a sud rispetto al Nicaragua. «Ero appena arrivato a Mendoza, in Argentina, lo scorso aprile quando un giornalista mi ha chiesto cosa pensassi del Papa argentino. Non potevo crederlo e per tre volte gli ho chiesto di chi stesse parlando» ricorda. «Non mi aspettavo proprio un Papa di questo continente, un Papa rivoluzionario in questo momento e per di più eletto da un collegio di cardinali conservatore».
Perché Ernesto Cardenal non ha dubbi che con lui, Francesco, le cose cambieranno in profondità. Sono cambiate, dice, stanno cambiando. «All’inizio non pensavo che potesse fare quello che sta facendo… qualcosa di veramente incredibile perché sta mettendo le cose al rovescio. O meglio, al loro posto, dove devono stare… Gli ultimi saranno i primi, ecco quello che sta facendo Francesco».
Su Ernesto Cardenal grava ancora la sospensione a divinis che gli venne inflitta dal cardinal Ratzinger nella sua veste di Prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede. Ma la cosa non gli pesa. «La proibizione è per amministrare i sacramenti e io non mi sono fatto sacerdote per amministrare sacramenti e passarmela celebrando battesimi e matrimoni, ma per essere contemplativo». Ernesto Cardenal vive nella comunità contemplativa di Solentiname, in Nicaragua, che fondò negli anni 70 con Thomas Merton.
E se il successore di Benedetto XVI quel Papa “rivoluzionario” che elogia, gliela togliesse? Il “poeta della Teologia della Liberazione” come viene chiamato, non fa affatto salti di gioia. «Mi complicherebbe la vita…».
[Si ringrazia Leonardo Landi per la segnalazione]
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gli auguri pasquali di Erri De Luca

 pasqua: festa  per migratori che si affrettano al viaggio non per tranquilli residenti

 

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Pasqua è voce del verbo ebraico “ pèsah “, passare.
 Non è festa per i residenti, ma per i migratori che si affrettano al viaggio.
 Da non credente vedo le persone di fede così, non impiantate in un
 centro della loro certezza
 ma continuamente in movimento sulle piste.
 Chi crede è in cerca di un rinnovo quotidiano dell’energia di credere,
 scruta perciò ogni segno di presenza.
 Chi crede, insegue, perseguita il suo creatore
 costringendolo a manifestarsi.
 Perciò vedo chi crede come uno che sta sempre su un suo “ pèsah “, passaggio.
 Mentre con generosità si attribuisce al non credente un suo cammino di ricerca,
è piuttosto vero che il non credente è chi non parte mai,
 chi non s’azzarda nell’altrove assetato del credente.
 Ogni volta che è Pasqua, urto contro la doppia notizia delle sacre  scritture,
 l’uscita dall’Egitto e il patibolo romano della croce piantata sopra
Gerusalemme.
 Sono due scatti verso l’ignoto.
 Il primo è un tuffo nel deserto per agguantare un’altra terra e una
 nuova libertà.
 Il secondo è un salto mortale oltre il corpo e la vita uccisa,
 verso la più integrale resurrezione.> Pasqua / pèsah è sbaraglio prescritto, unico azzardo
 sicuro perché affidato alla perfetta fede di giungere.
 Inciampo e resto fermo, il Sinai e il Golgota non sono scalabili da
 uno come me, che pure in vita sua ha salito e sale cime celebri e
 immense.
 Restano inaccessibili le alture della fede.
 Allora sia Pasqua piena per voi che fabbricate passaggi
 dove ci sono muri e sbarramenti, per voi apertori di brecce,
 saltatori di ostacoli, corrieri ad ogni costo,
 atleti della parola pace.

                 Erri De Luca.

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il diploma di una ragazza rom contro i pregiudizi

 Teresa si diploma e prepara una tesi contro i pregiudizi

di Lorena Cotza su Corriere della Sera  

Teresa vive in Italia, ha 18 anni, sta per diplomarsi e sogna di iscriversi all’università. La sua è una di quelle storie che non dovrebbero far notizia. Ma Teresa è una giovane rom e la sua storia è ancora considerata una rara eccezione.

“Sino all’anno scorso nessuno a scuola sapeva che ero rom” racconta Teresa Suleymanovic. “Quando i miei compagni mi chiedevano da dove venissi, dicevo solo che ero bosniaca. Non volevo dire che vivevo in un campo. Perché tutti pensano che i rom dei campi rubino e siano sporchi”.

Teresa sta frequentando l’ultimo anno dell’Istituto Alberghiero di Monserrato, in provincia di Cagliari, dove sono iscritte anche altre tre ragazze del campo in cui abita.

“Dopo il diploma mi piacerebbe studiare Scienze dell’Alimentazione e diventare una dietologa” dice Teresa. “Oppure mi piacerebbe lavorare nel settore della ristorazione, ho svolto diversi tirocini in alcuni ristoranti della zona e ho imparato tantissimo su questo mestiere”.

L’amore per la cucina gliel’ha trasmesso sua madre, Visna, trasferitasi dalla Bosnia in Sardegna circa 30 anni fa. “Il pane per noi è il cibo più importante” mi spiega Visna mentre con gesti sicuri prepara la pita, una finissima ed elastica pasta che riempie con carne e verdure. “È una tradizione che si tramanda di generazione in generazione, tutte le mie figlie lo sanno fare”. Oltre alle tradizioni culinarie, i diritti umani sono l’altro tema a cui Teresa vorrebbe dedicarsi in futuro. Nella tesi di diploma che sta preparando, ha infatti scelto di raccontare la storia del suo popolo, il genocidio nazista e la resistenza della cultura rom, ancora intatta nonostante secoli di persecuzioni.

“Ho scelto questo argomento perché ci sono ancora tanti, troppi pregiudizi sui rom. Se davvero non sei razzista non dovresti fare differenze tra nessuno. Non puoi pretendere di dire che non odi i marocchini, ma al tempo stesso odiare i rom. Altrimenti che senso ha?” si chiede Teresa.

Quest’anno Teresa ha partecipato a “Italia-Romanì”, convegno sull’inclusione dei rom e dei sinti in Italia, organizzato dall’Associazione 21 Luglio e tenutosi a Roma dal 3 al 5 aprile. Racconta con entusiasmo del flash-mob organizzato di fronte al Colosseo: “Abbiamo indossato dei sacchi neri, con dei biglietti che descrivevano i pregiudizi che ci portiamo addosso. Nel mio ho scelto di scrivere “Io non voglio studiare”. E poi ce li siamo strappati di dosso”.

“Vicino al convegno c’era anche una manifestazione anti-rom, ci gridavano di tutto ma per fortuna vicino c’era la polizia” continua Teresa. “Ma durante il flash-mob è stato bello rispondere alle domande della gente e far vedere che ci sono tanti giovani rom in gamba”.

Tra i tanti temi affrontati durante il convegno, uno dei più dibattuti è stato quello dei campi rom. Una questione di non facile soluzione: alcuni rom vorrebbero trasferirsi in case normali, ma altri non vogliono rinunciare alla vita comunitaria del campo. Teresa vive in un piccolo e isolato insediamento a circa 7 km dal primo centro abitato, in cui vivono 14 famiglie rom. Il campo si trova in cima a una collina da cui si domina il Golfo di Cagliari ed era la sede di un vecchio inceneritore, di cui oggi resta solo lo scheletro spettrale della struttura.

“È stata dura – dice Visna, raccontando con orgoglio di come ha costruito la sua baracca. – Abbiamo lavorato duramente per raccogliere i pezzi di lamiera, ma siamo riusciti a costruire una stanza per tutti i miei figli. Quando sgomberano i campi e buttano giù le case su cui hai lavorato per anni non è bello”.

Teresa vorrebbe vivere in una casa in città, come una delle sue sorelle, che ha sposato un italiano e lavora nel settore della ristorazione. Ma capisce anche la scelta di chi non vuole spostarsi. Le abitazioni fornite dal comune sono spesso troppo piccole per le famiglie più numerose e a molti manca la solidarietà che si crea all’interno dei campi.

Ci sono, però, problemi che potrebbero essere affrontati e risolti con poche risorse: “Da anni chiediamo al sindaco di creare una piazzola per una fermata del pullman – dice Teresa – Le corriere passano lungo questa strada, ma non si fermano, quindi per andare a scuola devo sempre chiedere un passaggio a mio padre. C’è un pulmino per i bambini iscritti alla scuola elementare, ma non per tutti gli altri”.

Teresa è riuscita a proseguire gli studi grazie a una borsa di studio della Fondazione Anna Ruggiu, dedicata al sostegno della popolazione rom. Ma c’è un male che nessun benefattore riesce a curare: quello dei pregiudizi.

“Quando ho detto ai miei compagni dove vivevo, alcuni mi hanno detto che avrebbero voluto vedere il mio campo, ma hanno paura e pensano che siamo cattivi. So che non verranno qui. Ma bisognerebbe prima conoscere e poi giudicare”.

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I muri della discriminazione, dell’isolamento e dell’esclusione del popolo rom e sinto

 

 

 

 

Il C.C.I.T. 2014 al Cavallino di Venezia

 

Si è svolto nei giorni scorsi, dal 4 al 6 aprile, al Cavallino di Venezia il Comitato Cattolico Internazionale per la pastorale del popolo Zingaro (C.C.I.T.), in luogo stupendo, a trenta metri dal mare, in una bella temperatura primaverile, soprattutto ricca di spunti di riflessione e ricchezza umana condivisa da rappresentanti di circa dieci paesi europei (circa 200 presenze) che, a dispetto della difficoltà rappresentata dalla ‘barriera’ e dal ‘muro’ delle lingue, hanno messo in comune esperienze, analisi e riflessioni sui ‘muri della discriminazione’ e dei molteplici pregiudizi che separano duramente ancora i nostri percorsi da quelli di un popolo, quello rom, che continuiamo a tenere ancora lontano e guardiamo con diffidenza, paura, anche disprezzo, e questo non solo nell’ambito della nostra convivenza sociale, ma anche in ambito ecclesiale.

Per questo l’incontro è iniziato con un bel momento di preghiera comunitaria (Liturgia di Accoglienza) preparata per noi da Agostino Rota Martir, incentrata sulla figura di ‘Maria che abbatte i muri’ della violenza, della paura, dell’indifferenza tra le persone e le nazioni.

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Il presidente p. Claude Dumas e i membri del comitato sono stati esplicitamente salutati dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti che ha indicato nella figuta di Gesù colui che “portando la buona notizia agli uomini, si è fatto anche carico delle loro condizioni. Ha aperto le porte, ha abbattuto le mura di divisione e di inimicizia”. “Gli zingari Hanno bisogno dell’umanità delle società in cui vivono per sentirsi membri della famiglia umana, usufruendo dei diritti di cui godono gli altri membri della comunità, nel rispetto della loro dignità e della loro identità”.

Il presidente Claude Dumas rivolge un ‘saluto ai partecipanti’ con un commento molto opportuno della pagina evangelica del cieco Bartimeo, immagine della sfida a cui è chiamata la chiesa stessa: “Oggi i muri di separazione sono fatti di vergogna, di pregiudizi, di odio, di concorrenza, di timore, d’ignoranza, di pregiudizi teologici e incomprensione culturale. La chiesa è chiamata  ad essere una comunità inclusiva, a abbattere tutti quei muri di separazione”

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La romni  Suzana  Jovanovic (che ha conseguito la laurea in storia discutendo la tesi     dal titolo estremamente significativo : “come restare zingari nel mondo dei gagé”), ha svolto la più significativa relazione dell’incontro prendendo le mosse dalla propria esperienza personale: “Ho abbandonato la mia gente quando avevo 18 anni: la prima cosa che mi hanno insegnato i gagé è quella di vergognarmi di essere zingara. E questo l’ho assorbito così bene che l’ho subito messo in pratica. L’essere zingari è un peccato originale. Le persona che mi sono vicine mi stimano moltissimo e io – ovviamente – ne sono contenta. Ma nel tempo ho capito che la loro stima – paradossalmente – deriva da un pregiudizio formatosi  nei secoli: la convinzione che gli zingari sono dei ritardati mentali, degli incapaci, degli sfaticati, dei nullafacenti, dei non evoluti, delle sopravvivenze di qualche stadio precedente dell’evoluzione umana”. Suzzana ha articolato una fine e approfondita analisi della discriminazione da sempre in atto a partire da quella che gli antropologi chiamano l’ “immagine rovesciata del sé” attraverso la quale si inventa un’umanità il cui stile di vita è assolutamente da scartare e che nel nostro caso si materializza nello zingaro: progressivamente si costruisce un’umanità inquinata, poi la si trasforma in umanità inquinante; e questo, mutatis mutandis, sia ieri come oggi. “la prima operazione ideologico/propagandistica nella costruzione di un’ideologia negativa verso un gruppo, ieri come oggi, è quella di legittimare la propria azione facendola percepire come assolutamente necessaria”. La paura dell’altro forse è umana e tollerabile, ma “usarla a scopo strumantale per alterare la percezione del pericolo della ‘propria’ comunità umana nei confronti di un’altra comunità umana disumanizzando quest’ultima e trasformandola in parassita pericoloso per la propria società non solo non è tollerabile, ma è assolutamente da condannare”.

La sinta Pamela Adami delinea un’analisi o una ‘lettura socio-culturale’ della presenza dei sinti e dei rom in Italia. Pur evidenziando le difficoltà obiettive nell’individuare i ‘numeri’ precisi perché l’ultimo censimento, per esempio, “è stato compiuto in Italia in regime di presunta emergenza e ha avuto anche tratti intimidatori”. Pamela delinea la situazione dal punto di vista:

  • delle denominazioni
  • delle appartenenze religiose
  • della cittadinanza
  • delle tipologie abitative
  • dell’emergere di associazioni politiche e culturali rom

     p. agostino

Agostino  Rota Martir racconta l’attenzione pastorale verso i rom e i sinti in Italia (‘quadro pastorale’) come “un cammino lungo, articolato e complesso, dove non sono mancati strappi e divergenze”. Nella necessità di sintetizzare il rapporto attuale della chiesa in Italia con i rom e i sinti Agostino elenca “tre tipi di linee fondamentali”, “tre presenze” che “a volte  si intrecciano, dialogano, ma anche si scontrano tra loro:

1.la chiesa dei ‘progetti’ per l’integrazione

2.la chiesa che evangelizza

3.la chiesa “con l’odore delle pecore”

Sembra talmente obiettiva questa pluriformità di difficile composizione e dialogo che anche in sede di C.C.I.T. ha suscitato subito delle reazioni critiche alla relazione accusandola ingiustamente di settarismo, ideologismo, volontà di divisione della chiesa: la pressoché generale convinta approvazione di essa rende ragione del settarismo, invece, di queste critiche.

La suora croata Karolina Miljak delinea dei “tentativi pastorali per l’abbattimento del muro dei pregiudizi e  delle discriminazioni” a partire dalla figura di Gesù Dio-uomo che abbatte i muri dei pregiudizi sperimentando la discriminazione e combattendo le discriminazioni. Ne deriva un’immagine dell’operatore pastorale che sa immedesimarsi con l’escluso e che sa andare verso l’ ‘altro’-

Thérèse Poisson descrive la storia di Marianna che assomiglia sicuramente a quella di molte altre storie plasmate da tanta lotta e piene di energia.

I ‘gruppi di studio’, tentando di superare le barriere segnate dal multilinguismo, hanno rappresentato come sempre una bella occasione di incontro ravvicinato delle persone, dei loro ‘racconti’ e delle loro proposte per superare i muri più resistenti, nelle società civili e nelle chiese, che impediscono un incontro libero e aperto tra rom e gagé.

Come sempre ricca di umanità, di vivande condivise (le migliori, non occorre dirlo, sempre quelle italiane!), di festa e di danza la serata del sabato che esprime i segni del superamento di ogni barriera nazionale e della comunione in atto tra sinti e rom e amici gagé operatori della pastorale di ‘comunione’.

video 2

https://www.youtube.com/watch?v=MF8ZSIMUn68

https://www.youtube.com/watch?v=XIFT_legAMk

https://www.youtube.com/watch?v=Zrno3US2g_I

https://www.youtube.com/watch?v=QmgcKhQve7I

video 3

vide4

Un bel giro su Venezia ci ha permesso anche di fruire delle bellezze della natura e della cultura.   

venezia1     venezia2s. marco

 

 

 

Il tutto non avrebbe avuto una riuscita così felice senza la dedizione, il servizio e la gentilezza del gruppo dei  ‘giovanissimi’ e la capacità e l’esperienza di Cristina Simonelli

cristina 2

 

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claude dumas al c.c.i.t

romni

INTRODUZIONE

Claude Dumas

Mentre Gesù partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”. Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”. Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. Chiamarono il cieco, dicendogli: “Coraggio! Alzati, ti chiama!”. Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. E il cieco gli rispose: “Rabbunì, che io veda di nuovo!”. E Gesù gli disse: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada. (Marco 10/46-52) “Distruggere i muri dell’isolamento e dell’esclusione : sfida evangelica di una dinamica sociale”tale è l’enunciato di un tema che abbiamo scelto per il nostro incontro. A questo ci invita il vangelo di Marco ma prima di entrare negli scambi, vorrei come presidente di questa assemblea augurare a tutti il benvenuto : il benvenuto alle autorità presenti che hanno ben voluto rispondere a questo invito e che testimoniano così l’interesse che portano a questo incontro, il benvenuto a tutti quelli che ci raggiungono per la prima volta.
Saluto anche e ringrazio già il mio amico Piero Gabella, Cristina e tutto il gruppo d’Italia che si sono adoperati per questo incontro e hanno spiegato la loro energia per accoglierci per il meglio in questo spirito di grande fratellanza che ben caratterizza il CCIT. Grazie anche alla direzione di questo istituto che ci apre calorosamente le porte per il tempio di questo week-end.
Terminerei questi saluti trasmettendo un saluto fraterno a tutti quelli che non hanno potuto raggiungerci e che si sono scusati di non poter essere con noi…
“Distruggere i muri dell’isolamento e dell’esclusione…”
Una sfida che lancia la Chiesa come ce lo ricorda il Consiglio Ecumenico delle Chiese del 2003 io cito : “Oggi, i muri di separazione sono fatti di vergogna, di pregiudizi, di odio, di concorrenza, di timore, d’ignoranza, di pregiudizi teologici e incomprensione culturale. La Chiesa è chiamata ad essere una comunità inclusiva, a abbattere tutti questi muri di separazione.”
Ma anche una sfida che ci lancia la società : Oggi un po’ dovunque in Europa constatiamo che muri s’innalzano per separare gli uomini gli uni dagli altri. Bisogno di sicurezza o rifiuto di avvicinare “certa gente” che non è come noi, vestita in modo diverso dal nostro, con altri costumi…? Davanti a tali comportamenti, dobbiamo reagire, riflettere sui nosti atteggiamenti… a questo ci invitano gli incontri del CCIT.
Il vangelo ci insegna ad abbattere i muri, a guardare d’altro non come uno straniero, un uomo da non frequentare… “un emarginato”. L’incontro con Bartimeo è un passaggio fondamentale del vangelo di Marco. Il cieco è un emarginato totale nella società dell’epoca, equiparabile quasi a un appestato, ridotto alla mendicità. La sua marginalità è ben mostrata dal fatto che egli è seduto sul bordo della strada. Egli ha costantemente bisogno degli altri per vivere.., è simbolo dell’umanità decaduta. Quando Gesù s’avvicina, Bartimeo ha l’intuizione che Gesù potrà fare qualche cosa per lui. Grida, non si vergogna di quello che pensano gli altri, ne del resto di quello che possono dire o fare gli altri ! Si tratta di qualche cosa d’importante, d’essenziale nella sua vita.
Senza voler fare un paragone affrettato, Bartimeo non ha oggi il viso di quei Rom seduti sui nostri marciapiedi, ridotti in molti alla mendicità, lo sguardo dei quali ci chiama con la speranza che noi possiamo fare qualche cosa per loro…
“Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me I”
Bartimeo domanda semplicemente che il Cristo si fermi su di lui e che il suo sguardo lo ristabilisca, forse per un momento, nella sua dignità umana. Ma come osa abbordare Gesù, lui l’impuro, il pidocchioso… Non ha un posto nella società. Qui la gente lo maltratta perché lui osa prendervi il suo posto apostrofando Gesù con il suo titolo messianico : “Figlio di Davide.” Questo grido dà fastidio alla gente che lo rimprovera “sta’ zitto, non si fa, non fare scandalo…” Si, è un seccatore !
Il primo riflesso della folla è quello di rigettare Bartimeo. La folla ha paura dell’escluso, dell'”anormale”, del marginale reagisce come i discepoli che sgridano i bambini. E come la folla attuale, come la società che tende a rigettare quello che le sembra inopportuno, quello che lei non capisce, quello che è “altro” e i Rom dei nostri paesi, bisogna ben dircelo sono percepiti particolarmente come dei seccatori.
Ma Bartimeo non ne tiene conto e grida “più di prima.” Il grido è vitale : un bimbo non può fare altro che gridare per attirare l’attenzione di sua madre, non ha un altro mezzo. Il cieco sa in fondo a lui che è l’occasione della sua vita e non vuole perderla. Tanto, peggio per la convenzioni sociali.., tentare la sorte attraversando la frontiere per fuggire le discriminazioni… questo dovrebbe interpellarci !
La folla vuole marginalizzarlo, rinchiuderlo in un’infermità totale, se non può impedirgli di sentire, vuole impedirgli di parlare.
I poveri hanno raramente i mezzi per difendersi. Spesso molto dipendenti dai ricchi non possono permettersi di alzare il tono della voce per spiegarsi. La miseria rinchiude in una torre dalla quale è molto difficile uscire.
Gesù si ferma. Ha sentito il grido dell’uomo sul ciglio della strada. Si lascia toccare, disorientare da questo grido. Si ferma per ascoltare e incominciare a dialogare, per dare la risposta più adatta alla miseria dell’uomo. Con la sua fermata, Gesù mostra bene che il suo messaggio si rivolge anche agli esclusi che vuole riabilitare nella società al di là dei pregiudizi.
Eppure malgrado questa ostilità, Bartimeo non rinuncia : insiste “Abbi pietà di me I” La sua preghiera è insistente ma non provocatrice è fiducia, e per questa ragione Gesù gli risponde, a lui l’escluso, il quasi appestato… “Chiamatelo I” la folla cambierà parere e domanderà a Bartimeo di venire, “Alzati, ti chiama.” Questo “alzati” non è detto a caso, perché è il segno del nostro innalzamento verso Dio. Gesù è venuto affinché l’uomo si alzi. Gesù lo fa “alzare” e camminare di nuovo, prima di farlo “vedere di
E nuovo.” Non è poi cosi strano, se si pensa a quello che si verifica nell’esperienza umana della relazione con l’altro : arriva sempre un momento in cui si deve fare fiducia, dare il proprio accordo senza sapere dove si sarà condotti, rinunciando a “conoscere l’altro” per poter camminare con lui. Tale è la via di ogni impegno.
Il cieco getterà via il suo mantello, il suo solo bene. Con questo gesto, rigetta la sua condizione d’escluso poiché il vestito è simbolo della condizione nella società dell’epoca (ma c’è veramente un cambiamento nella società attuale ?) Questo salto nella sua notte è quello dalla notte alla Luce, salto verso la fede, slancio irresistibile che permette di superare la frattura dell’esclusione per raggiungere la società.
Gesù allora gli porrà una domanda, non per confonderlo, ma perché parli, perché compia il suo intervento. Gesù ci mostra qui il suo rispetto della libertà dell’uomo. Evidentemente Gesù sa quello che Bartimeo vuole, ma lo rispetta, aspetta, aspetta la sua risposta.
Bartimeo dunque vuole ritrovare la vista, ricuperare un bene perduto e non uno qualsiasi ! Bene chi gli permetterebbe di vedere di nuovo, d’avere la luce, di discernere, di lavorare, di appartenere a un corpo sociale, economico e religioso, di superare il muro. Davanti a una tale determinazione, davanti a questa fede fiduciosa, Gesù dice : “Va’, la tua fede ti ha salvato .1” La guarigione è una salvezza. Ritrovare la salute, è ritrovare il cammino della vita e uno stato di vita funzionale.? D’ora in poi, può camminare sul cammino della vita senza pericolo, vivere con e in mezzo alla gente, lavorare, essere accolto di nuovo sa tutti e andare alla sinagoga senza sentirsi a disagio o senza paura. Può finalmente vivere pienamente.
Gesù reinserisce il cieco nella società, ripristina le sue capacità relazionali.
Questo miracolo non è solo materiale, è legato alla Buona Novella, segno della sua presenza. È segno della comunicazione della grazia salvatrice di Cristo alle nazioni, agli uomini. Gesù vuole liberarci, spiritualmente ma anche socialmente !Gesù vuole che tutti diano stabiliti o ristabiliti nella comunicazione con Dio, ma vuole anche che gli esclusi siano riabilitati nella società, in questo mondo che è slancio verso Dio ! In breve, Gesù vuole salvare tutti gli uomini riabilitandoli nel mondo, ma anche integrandoli nella comunità dell’Amore !
L’opera di Gesù è di aiutarci ad abbattere i muri eretti nei cuori affinché la sua vita si diffondo e si espanda. Qualunque sia la muraglia dietro la quale l’uomo si nascondo e si protegge, è prigioniero. Ora, il Signore è venuto per liberare da ogni forma di detenzione e di reclusione per permettere all’individuo di vivere la libertà secondo i Vangeli.
Non si sono muraglie o muri che non crollino!
Non ci sono muri che non divengano inutili (Jacques. Lancelot)
Buon lavoro a voi tutti nell’amicizia e nella gioia di esserci ritrovati.

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suor karolina miljak al ccit 2014

sinti_interna

 

Tentativi pastorali per l’abbattimento del muro dei pregiudizi e delle discriminazioni

Sr Karolina Miljak

Introduzione
Fin dell’inizio della storia della salvezza si è sostenuto che l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio e come tale meritevole di ogni stima e rispetto a qualsiasi razza, stato sociale, economico e politico appartenga. Questa realtà nel campo teologico e biblico esclude l’esistenza e il sostegno a alcun fenomeni discriminatori sia da parte della Chiesa che da parte della società in genere. Però, siccome la storia della salvezza si realizza attraverso gli uomini, spesso sussistono discriminazioni nei diversi campi della vita umana, Questo esige un’azione preventiva e un continuo lavoro per abbattere i pregiudizi e impedire ogni discriminazione
1. GESU’ : DIO- UOMO ABBATTE I MURI DEI PREGIUDIZI SPERIMENTANDO LA DISCRIMINAZIONE
Figlio dell’uomo Gesù Cristo venendo al mondo già con la sua nascita comincia ad abbattere i muri dei pregiudizi .Egli sperimenta l’esclusione nella sua terra a causa del suo stato sociale dovendo nascere fuori della città di Betlemme (Cfr. Lc2,7 e tradizione della Chiesa) Durante la sua vita terrena spesso Egli ha sperimentato sulla sua pelle i pregiudizi degli altri e l’esclusione dalla vita politica, religiosa, sociale Come bambino egli vive la sua infanzia nel tempo identificandosi con tutti i fanciulli del suo paese(Cfr Lc 2,51) Come maestro della parola di Dio spiega la sua missione di annunciare la salvezza a tutti, ma specialmente per aiutare i poveri, liberare gli schiavi , ridonare la vista ai ciechi, insomma si rivolge a tutti ,ma preferisce gli esclusi, i deboli, i poveri. Lui stesso fu escluso da quelli della sinagoga e buttato fuori dal tempio(Cfr. Lc2,7 e tradizione della Chiesa). Ci sono tanti momenti della sua vita pubblica dove è evidente che anche lui stesso ha vissuto discriminazioni sentendosi escluso dalla vita dei suoi contemporanei per la durezza della loro mentalita’ ,delle idee e pregiudizi di cui erano prigionieri. Insomma anche Gesù stesso in persona ha sperimentato pregiudizi e discriminazioni
2. GESU’ ABBATTE I MURI DEI PREGIUDIZI E COMBATTE CONTRO LE DISCRIMINAZIONI
Con i suoi gesti salvifici Gesù abbatte i muri dei pregiudizi ed impedisce le discriminazioni. Egli libera dai pregiudizi e dalle esclusioni: la guarigione del lebbroso escluso dalla vita sociale (cfr, Lc 5,12) la guarigione dell’infenno(cfr. Ic 5,17) . Gesù annuncia l’amore verso il nemico cambiando completamente la mentalità del tempo(cfr.1c5,17). Il suo atteggiamento verso coloro che erano guardati con disprezzo: adultere(gv,8,3) pubblicani e peccatori secondo il giudizio dei farisei e degli scribi, pagani (cfr lc 7,2…..) ci dimostra che lui è il vero liberatore da ogni pregiudizio ed esclusione. In definitiva tutta l’azione salvifica di Gesù era orientata ad abbattere i muri innalzati contro la dignità dell’uomo2
3. LA CHIESA- AZIONE CONTRO I PREGIUDIZI
La chiesa nella sua storia nasce e vive con un atteggiamento anti pregiudizi e con il suo insegnamento si adopera insistentemente per abbattere il muro delle discriminazioni. E’ vero che nella sua storia sono presenti dei comportamenti contrari alla sua missione ,ma sono pochi. La maggioranza dei documenti ecclesiali dell’insegnamento della chiesa: documenti del concilio vaticano II, le encicliche e i motuproprio dei papi, vescovi e delle altre istituzioni gerarchiche e pastorali sono ricchi di orientamenti antipregiudizio e di richiami ad eliminare ogni discriminazione in tutti i campi della vita umana. Un’azione di prevenzione risiede nel carisma della comunione nella Chiesa. Il fatto che le prime comunità cristiane condividevano tutto e tra loro non c’erano distinzioni tra ricchi e poveri (cfr Atti 4,32-37) è segno evidente del riconoscimento della dignità di ogni uomo nel contesto storico in cui vive.
4 AZIONE DELL’OPERATORE PASTORALE NEL CAMPO DELLE DISCRIMINAZIONI
L’azione pastorale è il campo primario per realizzare la vera lotta contro discriminazioni e pregiudizi cioè lì dove l’umano e il divino s’incontrano ,dove la vita materiale si unisce a quella spirituale. Nella sua azione l’operatore è chiamato a mettere in pratica la vita di Gesù e ad operare come Lui
4a. IMMEDESIMARSI CON L’ESCLUSO
La sua prima missione è identificarsi con l’escluso di oggi così come Gesù si è immedesimato con le vittime di pregiudizi ed esclusioni del suo tempo nel campo religioso, nazionale e regionale. Fondamento dell’ azione dell’operatore è l’amore che ci fa entrare nella vita di coloro con cui siamo in cammino. Questo amore ci fa liberi dentro, cambia i nostri pensieri e ci fa capaci di capire i bisogni degli altri sentendoli non come esseri inferiori ,ma come coloro che camminano insieme a noi verso la meta della salvezza. Con questo atteggiamento interiore l’operatore favorisce l’abbattimento graduale di pregiudizi, chiusure, risentimenti tra individui e nei vari gruppi. Ci sono tanti esempi di operatori pastorali o associazioni laiche o singole persone che, stando insieme alle vittime dei pregiudizi, riescono ad ottenere risultati positivi per l’eliminazione di gravi e ingiusti comportamenti. E’ un processo lungo, ma in continua evoluzione.
4b. ANDARE VERSO L’ALTRO- FONDAMENTO DELLA PASTORALE PER ABBATTERE I PREGIUDIZI
Durante tutta la sua vita pubblica Gesù si muoveva verso gli altri. Quindi la pastorale non è un’azione statica, ma dinamica, attiva. Essa non concede di aspettare che qualcuno dal di fuori si muova per primo, ma esige dall’operatore che per primo prenda l’iniziativa e vada verso l’altro. Muoversi verso l’altro significa essere liberi da ogni pregiudizio,cosi l’operatore pastorale apre la strada al dialogo con l’altro, con il diverso. Entrare in dialogo con l’altro significa farsi conoscere e nello stesso tempo conoscere la mentalità, i pensieri,i sentimenti,le pene di colui che ti viene incontro nel dialogo. Gradatamente si conosce dell’altro il modo di pensare, di vivere ,di guardare la realtà della vita e del mondo. Però prima di andare verso gli altri bisogna lasciare che Gesù entri nella nostra vita in tutti i suoi aspetti: familiare, lavorativo, sociale, religioso.
4c. ALCUNE REALTÀ FAVORISCONO L’ABBATTIMENTO DEL MURO DEI PREGIUDIZI
Guardando la pastorale nel suo complesso e in particolare quella per gli Zingari in Europa dobbiamo constatare un graduale abbattimento dei pregiudizi nei loro riguardi. Grazie anche a coloro che con fatica lavorano per realizzare questo fine: eliminare le tante barriere e ostacoli e realizzare un mondo migliore per coloro che sono vittime di vecchi pregiudizi e inutili discriminazioni. Ciò è evidente particolarmente nel rapporto tra Zingari e Gagè. Pensando alla pastorale per gli Zingari notiamo che l’opera dell’ assistente fra di loro contribuisce a creare un clima di comprensione che favorisce anche l’apertura degli Zingari verso i Gagè. Ci sono tanti esempi nel mondo che confermano questa tesi: gli Zingari e i Gagè vivono insieme, entrano nella vita gli uni degli altri scoprendo quello che li accomuna e non quello che li divide. Un fatto positivo molto concreto sono i matrimoni tra diversi e ciò contribuisce praticamente ad abbattere incomprensioni ,discriminazioni e pregiudizi. Ci sono molti matrimoni tra Zingari e Gagè Tanti progetti dei vari Stati, tante iniziative di associazioni private, tante realtà educative e di catechismo permettono di sgombrare la strada per raggiungere l’altro, il diverso , l’escluso nella sua vita quotidiana e nella sua dimensione sociale. La Comunità Europea ha imposto agli Stati la Decade che, oltre ad elargire aiuti per alcuni segmenti della vita degli Zingari, contribuisce a favorire l’eliminazione di discriminazioni nel settore della scuola e dell’impiego nelle istituzioni governative locali. La Chiesa collabora con la Comunità Europea e con gli Stati dove ci sono molte persone vittime di discriminazioni e pregiudizi mettendo in pratica la Decade e aprendo così la strada all’eliminazione graduale delle discriminazioni nel mondo

 

 

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thérèse poisson al c.c.i.t. 2014: marianna

 

MARIANNA

Thérèse Poisson

rom

“Con mio padre e mia madre e l’uomo che ci ha aiutato a passare il confine di nascosto abbiamo camminato tre giorni e tre notti nella foresta, senza mangiare né bere … avevo molta paura . Ci ha portato a Nanterre nella baraccopoli. Abbiamo ritrovato i Rom del nostro villaggio. Poi sono andata a chiedere l’elemosina per strada. Non ero abituata, ma eravamo in miseria e bisognava mangiare. Nel villaggio sono andata a scuola … Qui in Francia ho sposato mio cugino, ci vedevamo da quando avevamo 12 anni e ho avuto mio figlio Gimmy. Presto ho capito e mi sono vestita come una gagé e chiedendo l’elemosina ho incontrato tanta gente, donne che parlavano con me e ho chiesto un lavoro come domestica … E’ a Nanterre (in Francia ) nel 1992, che ho incontrato Marianna, di 14 anni, la prima volta. Spontaneamente, mi ha messo suo figlio Gimmy tra le braccia. Successivamente, Marianna pur essendo molto gracile si è sempre mostrata energica, volitiva e determinata, come la sua famiglia: “Abbiamo scelto di vivere qui e faremo di tutto per riuscirci”. La baraccopoli di Nanterre si é formata con l’ arrivo a scaglioni di Rom negli anni 1989/1990. Era enorme ed era composta da diversi quartieri. Una strada fatta da tante piccole roulotte una incollata all’altra, che formavano un budello. E’ lì che Marianna abitava con tutti i suoi parenti . In un’altra zona, i Rom avevano costruito con materiale di recupero delle piccole capanne; il loro allineamento formava delle strade. Al calar della notte, i topi si infilavano dappertutto e bisognava proteggere i bambini per tutta la notte. E ‘ in una di queste strade che ho incontrato Della con i suoi due figli. Più tardi, ha sposato Alexandre Romanes, un circasso. Un’altra area fatta da grandi roulotte era difficilmente accessibile perché pericolosa. Ad ogni visita alla baraccopoli di Nanterre diciamo il ” Padre nostro ” e apriamo la Bibbia tradotta da Padre Barthélémy, Yoska. Che emozione leggere la Parola di Dio nella loro lingua! La famiglia di Marianna è ortodossa, ma non abbiamo trovato nessun Pope disposto a fargli visita. Avevano un grande desiderio di offrire il loro figlio a Dio e sono andati con tutta la famiglia alla Chiesa del Sacro Cuore a Monmartre. All’epoca, il governo francese vedendo arrivare tutta quella gente si è posto il problema di come rimandarla indietro! Una mattina, tutti i capi di famiglia sono stati arrestati e rimpatriati il giorno successivo in Romania, con un volo charter … Il governo pensava che le donne e i bambini li avrebbero seguiti, ma loro sono rimasti ed hanno aspettato …che gli uomini tornassero! Il terreno di Nanterre era destinato alla costruzione di case, le espulsioni sono cominciate e tutto è stato distrutto con grande violenza. E’ stata una prova terribile! Tutto ciò che era stato iniziato: la scuola per i bambini, i documenti in via di regolarizzazione, ecc … tutto da ricominciare! Ma i Rom non abbassano mai le braccia, espulsi da un luogo, si sono messi alla ricerca di un nuovo posto. Ed é così che la famiglia di Marianna, con molti altri, è venuta a stabilirsi con le sue piccole roulotte su un grande terreno abbandonato vicino alla metro di LIEUSAINT. Su questo terreno sì sono radunate circa 700 persone. ( Rom recentemente espulsi e nuovi arrivati dalla Romania).  Dopo aver ricevuto molti inviti, abbiamo deciso di andare a passare il fine settimana del 15 agosto in roulotte, nel campo di LIEUSAINT. Jean-Marie e sua moglie Michèle, anch’essi incaricati pastorali dei viaggianti di Francia, sono venuti con me. Non sapevamo come sarebbe andata a finire! Appena i bambini si sono accorti di noi, ci sono corsi incontro e subito dopo il nostro arrivo al campo la nostra roulotte è stata sistemata, in un attimo, vicino ai genitori di Marianna. Ci hanno preso sotto la loro protezione e hanno capito pian piano che noi eravamo andati lì per tutti.

Siamo stati bombardati da domande: la scuola, il lavoro, le cure mediche, un parto che doveva avvenire di lì a poco, richieste di aborti … le vessazioni della polizia , ecc :Un pomeriggio, ho incontro una donna nella sua roulotte. Era stesa su una panca e non poteva più alzarsi . Allora ho preso dell’olio sul tavolo e l’ho massaggiata lungamente. Durante tutto il tempo, lei parlava. Quando si è seduta mia ha detto: “Mi hai guarito ! “Quanta sofferenza e quanta miseria nascoste! La sofferenza per il rifiuto, per la disumanità, per il disprezzo, per l’angoscia delle espulsioni, per le situazioni senza soluzioni.. .ascoltandola, mi sono venute in mente le parole:

“Erano come pecore senza pastore” “Mc 6,34

“Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi per le doglie del parto ” Rin 8 ,22

Il tempo passa tra visite, caffè, ascolto e finisce molto tardi, ognuno racconta la sua vita. Una sera è arrivato un uomo; parlando ad alta voce mi chiede “Tu, Gagè che parli la nostra lingua, aiutaci a pregare ! “Improvvisamente un gruppo mi circonda. Presa alla sprovvista con la mia voce fioca e timida, ho sentito intonare il “Padre Nostro” in Romanes. Allora li ho visti alzare le braccia e ho sentito un mormorio che mi sosteneva e mi accompagnava, siamo veramente un cuore solo!

Il giorno successivo, parliamo dell’Assunzione, una grande festa ortodossa in Romania. La nostra roulotte diventa il TM.onastero’,é così che lo chiamano. ‘La vigilia del .15 agosto, da noi, dice una donna, preghiamo tutta la notte davanti l’icona con tante candele!. Allora mettiamo l’icona fuori sotto la tenda con le candele e l’incenso. Minaccia un temporale, gli uomini vanno in fretta nel bosco per costruire dei ripari; Adrian si prepara a leggere il Vangelo in Romanes, in quel momento arriva un vicino pentecostale, che ci rimprovera di pregare con delle immagini e degli idoli. ‘E’ l’amore di Dio e dei nostri ,fratelli che ci ha riunito qui su questo terreno’ abbiamo ribattuto. Subito dopo sono sgorgate invocazioni per una vita migliore e per le famiglie rimaste in Romania. ‘Non ci sono quelli di qui e quelli di laggiù’, fa allora notare il capofamiglia: “Siamo un solo popolo !”

Ho rivisto Marianna lo scorso ottobre. Che gioia ritrovarsi e ascoltarla mentre mi racconta: Sai, contrariamente a quanto pensano i Gagé, noi .Rom lavoriamo duramente per sopravvivere. Molto presto ogni mattina, prendevo la metro per fare le pulizie ad ore nelle case e ritornavo al campo solo nel pomeriggio. Dopo diversi anni ho avuto un contratto di lavoro per ,fare le pulizie nel supermercato e anche mio marito Gimmy e gli altri bambini sono andati a scuola.

lo non nascondo mai la mia nazionalità, e dico che sono zingara . Sono orgogliosa di essere zingara • Ho fatto delle lezioni di francese ed ho chiesto la nazionalità francese. Attraverso il mio lavoro mi sono fatta degli amici. Quelli dove facevo le pulizie prima sono invecchiati e continuo ad andare a trovarli. Sai che Ginmly lavora ed è padre di due bellissimi bambini che vanno a scuola?’

La storia di Marianna, è una storia che assomiglia sicuramente a quella di molte altre storie plasmate da tante lotte e piene di energia. lo non faccio che riportare qualche momento, qualche aspetto, qualche frammento di vita … non so se questo potrà rispondere alle grandi domande sollevate dalla signora Suzana Jovanovic ?

Per quanto mi riguarda, lo considero una grande opportunità aver potuto condividere dei momenti di vita con Marianna, con la sua famiglia e con molti altri Rom dei campi dì Nanterre, LIEUSAINT ed altri campi. E’ stata anche una grande opportunità aver potuto vivere questi momenti con altri membri della Chiesa e delle associazioni. Quando ci ripenso mi rendo conto che l’incontro con l’altro è una grande ricchezza. E’ anche più di una ricchezza, é una Grazia. E’ la Grazia di costruire insieme una’ fraternità’ autentica. Grazia di riconoscere che Dio è sempre davanti a noi e la certezza che è Lui che noi incontriamo nell’altro. Sì, io credo di poter dire che attraverso gli incontri con i Rom, ho visto e riconosciuto la presenza di Dio. Ho avuto come l’impressione di ‘toccare Dio. Inoltre, il contatto con loro, la loro energia e la loro capacità di risollevarsi mi ha sempre incoraggiato e stimolato ! E’ un popolo che guarda avanti, che guarda in avanti e in questo senso, credo che abbia qualcosa da dire alla società e alla Chiesa

 

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suzana jovanovic al ccit 2014

I MURI DELLA DISCRIMINAZIONE
UN PREGIUDIZIO D’ORIGINE

 

lacio drom, vita da sinti

 

 

suzana

Suzana Jovanovic

 

Suzana Jovanovic ha conseguito la Laurea triennale in Storia presso l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia, discutendo la tesi dal titolo Come restare zingari nel mondo dei gagè? Sta per conseguire la Laurea Magistrale in Lavoro, cittadinanza sociale, interculturalità presso l’Università “Ca Foscari” di Venezia. Attualmente lavora come Assistente di Ricerca nell’ambito del Progetto Europeo MigRom12 – The immigration of Romanian Roma to Western Europe: Causes, effects, and future engagement strategies (Mig Rom12 – Project Number 319901), coordinato dal prof. Leonardo Piasere presso l’Università degli studi di Verona.

SALUTI ( in italiano, romane, serbo-croato)
RINGRAZIAMENTI
Ringrazio gli organizzatori di quest’incontro, e tutti i partecipanti, per darmi l’opportunità di dar voce a un pensiero che per moto tempo è stato ignorato.
INTRODUZIONE
Questo mio contributo prende le mosse dalla mia esperienza personale e poi si sviluppa attorno alla comparazione fra una situazione contemporanea, scelta fra quelle per me più verificabili e dunque relativa a Venezia stessa, e bandi di età moderna diventati ormai dei classici di questo tipo di studi. Anticipo pertanto che l’uso di Stato/statuale è riferito in primo luogo al modello politico che si viene formando in Età moderna e le mie analisi intendono affrontarlo dal punto di vista delle dinamiche culturali e di storia delle dottrine politiche. La mia intenzione è, semplicemente, quella di riflettere su delle categorie/pregiudizi, istituzionali, collettivi di lunga durata dati per “naturali”.
LA MIA VITA NEL PREGIUDIZIO
Vorrei iniziare questo nostro incontro partendo dalla mia personale esperienza. Ho abbandonato la mia gente quando avevo 18 anni. Delle vicende personali mi hanno portata a percepire il mio mondo troppo stretto e a vedere nel mondo dei gagè un opportunità. E così è stato. Il mondo dei gagè per me è stato un nuovo inizio, l’apertura e la decolonizzazione della mia mente, a caro prezzo, però. La prima cosa che mi hanno insegnato i gagè, è quella di vergognarmi di essere zingara. E questo l’ho assorbito così bene che l’ho subito messo in pratica. L’ essere zingari è un peccato originale. Le persone che mi sono vicino mi stimano moltissimo e io- Io non solo facevo una sana e costruttiva auto-critica di me, ma ero andata oltre: ero arrivata ad applicare su me stessa il pregiudizio razziale che i gagè hanno nei miei confronti! Ho scoperto che al pari dei rom, i gagè dividono il mondo in categorie binarie dove gli zingari sono considerati individui associali, che non hanno la minima capacità organizzativa e di programmazione, privi di ogni morale, esseri irrequieti che non sanno stare fermi ( Pietro Brunello, a cura di, l’urbanistica del disprezzo, 1996). Ho iniziato anch’io a pensare la stessa cosa degli zingari, ma il mio era un pregiudizio assolutamente strumentale ( e forse lo è anche quello dei gagè). A me faceva comodo prendere in prestito il pregiudizio sociale che vigeva ( e vige) nei confronti degli zingari per raggiungere il mio scopo:staccarmi dal mio mondo originarlo — pieno di senso e affetto — per radicarmi in uno nuovo che in quel momento per me era vuoto e privo di affetto. Avevo ridiviso il mondo in due parallele e la cosa mi è risultata facile per il semplice fatto di essere abituata ad una divisione binaria dell’umanità: Rom contro gagè!
MONDI PARALLELI
Rom e gagè vivono su due parallele immaginarie. Come i gagè costruiscono gli stereotipi nei confronti degli zingari, così gli zingari li costruiscono nei confronti dei gagè e io non ho fatto altro che trasportare le mie categorie di divisione binaria nel mondo dei gagè dove hanno attecchito benissimo perché anche lì erano presenti! Il pregiudizio è reciproco! I rom hanno paura dei gagè e i gagè hanno paura dei rom! I rom hanno paura del gagiò perché lo percepiscono come un qualcosa che può far loro male non solo socialmente e culturalmente, ma anche fisicamente. L’unico modo per salvarsi dal gagiò è quello di stargli più alla larga possibile. In Italia, i rom nomadi di cui facevo parte, percepiscono il gagiò come persecutore e questo li spinge ad avere con lui il minor contatto possibile per non scatenare la sua ira. I gagè, invece, hanno paura degli zingari perché li avvertono come un potenziale nemico dell’organizzazione statuale della società. La mobilità di alcuni rom e sinti appare come il segno tangibile della loro mentalità anti stato — ovvero una concezione organizzativa diversa, concepita come egualitaria e democratica che si regge sul rapporto di reciprocità, senza imposizioni gerarchiche calate dall’alto – e questo potrebbe costituire un serio problema per le società che fino a ieri combattevano contro la mobilità delle persone. Uno Stato che sorge e si legittima mediante il radicamento delle persone a un territorio deve combattere il più possibile sia la mobilità che la diversità. E ciò è dimostrato dal processo di formazione dello Stato nazionale (Giorgio Chittolini, Anthiny Molho, Pierangelo Schiera, a cura di, Origini dello Stato, 1993) che è culminato in quella sorta di federazione degli Stati chiamata Unione Europea.
SEDENTARISMO VS NOMADISMO
Nel processo di formazione degli stati nazionali – iniziato nel Cinquecento – che si conclude con la nascita dell’Unione Europea, si può vede il progressivo cambio di mentalità che porta dalla non accettazione della mobilità (dimostrato dalla proliferazione dei bandi nei confronti degli zingari in tutta Europa medievale), e condanna della doppia cittadinanza, ad una sua valorizzazione e auspicabilità ( e dunque mobilità) da parte dell’Unione Europea ( Lauso Zagato, a cura di, Introduzione ai diritti di cittadinanza, 2011). Anzi, una delle massime tutele dei cittadini europei deriva proprio dalla loro mobilità. Dal loro essere cittadini fluidi ( ibidem). La storia ci mostra come la formazione degli stati nazionali sia nata combattendo la mobilità dei popoli, creando delle categorie da combattere al fine di usarle come esercizio di sviluppo della propria autorità e in questo contesto iniziano i bandi nei confronti degli zingari ( Benedetto Fassanella, Vite al Bando, 2011). In altre parole, la lotta alla mobilità degli zingari del Cinquecento aveva un senso nella misura in cui le persone dovevano costruire le radici di una legittimazione, ma ai giorni nostri non trova spiegazione. Perché tutti i gagè si possono muovere e gli zingari no? Perché i gagè acquisiscono diritti dalla loro mobilità e gli zingari no? Perché nel momento in cui le comunità si immobilizzano gli zingari sono costretti alla mobilità mediante i bandi e ora che le comunità si mobilizzano gli zingari li si vorrebbe immobilizzare? Una delle possibili risposte è che lo stato nazionale ha bisogno di due tipi di umanità per legittimare se stesso: la prima, è l’umanità di prima scelta, conforme che deve stare legata o slegata al territorio in base al concetto di stato, la seconda, è l’umanità scartata, l’umanità anti stato che deve servire da esercizio di potere di un “organismo” che vuole legittimare se stesso e lo zingaro, per antonomasia, è l’ami stato. Lo stato è nato creando quella che gli antropologi chiamano l’ « immagine rovesciata di sé » ( Povolo, Storia del Mediterraneo, Ca’ Foscari Venezia, 2012), inventando un’umanità il cui stile di vita è assolutamente da scartare ( Zygmund Bauman, Vite di Scarto, 2008) che si materializza nello zingaro. Progressivamente si costruisce un’umanità inquinata, poi la si trasforma in umanità inquinante ( Mary Douglas, Purezza e Pericolo, 1970) che rischia di compromettere il progetto statuale. Si crea uno stereotipo di umanità che viene messa al bando ( B. Fassanella, 2011), perché inquinata e inquina, al fine di esemplificare cosa succederà a chi non si sottometterà al potere centrale. Questa idea di stato, sostenuta dalla pratica del bando, porta alla necessaria mobilità dei non conformi che si trovano costretti a vivere ai confini tra uno stato e l’altro ( Leonardo Piasere, I rom d’Europa, 2009). Il confine statuale ha, però, determinato un confine ideale tra i perseguitati e il persecutore al punto tale che le due comunità si sono auto escluse l’una dall’altra mediante la creazione di un muro ideologico, sociale e culturale che ancora oggi persiste. E questo – a mio avviso- spiega perché la mobilità — vera o immaginata- degli zingari è la discriminante che li catapulta nel non riconoscimento e nella discriminazione sociale, giuridica e culturale. A furia di bandire gli zingari, i gagè non sanno più immaginarli capaci di star fermi e questo porta alla discriminazione nei loro confronti. Nascono, così, i muri ideologici
DINAMICA DEL MURO IDEOLOGICO
La dinamica del muro ideologico è ben spiegata da Anna Foa ( A. Foa, Ebrei in Europa, pag, 156, Laterza, 1992) che dimostra come tale muro sia caratterizzato da un fenomeno che rinchiude in sé la reclusione, l’inclusione e l’esclusione. L’ideologia porta all’emanazione di leggi che fanno mettere in atto pratiche di reclusione che, allo stesso tempo, isolano e includono alcune categorie di persone a scopo strumentale: costruire un sentimento identitario all’interno della comunità in cui il “campione” è isolato. Ma nel fare questo, il persecutore non tiene conto di un elemento fondamentale: la reclusione, l’isolamento fisico delle persone porta, inevitabilmente, alla creazione e rafforzamento di un’identità guscio del recluso. Il discriminato prende atto della sua discriminazione e la rielabora per poterla sopportare: per non soccombere, accetta di essere ciò che il persecutore dice di lui, ma dato che è un individuo che deve sopravvivere, si costruisce un identità sulla base del pregiudizio che il persecutore ha di lui ( Goisis, 2013). Il pregiudizio — forse sembrerà banale dirlo- crea pregiudizio. È il caso della creazione dei ghetti, tra il Cinquecento ed il Settecento, come lo è il secolare mettere al bando ( B. Fassanella, 2011) gli zingari, che ai giorni nostri è caratterizzato dalla costruzione / smantellamento dei campi dove vengono stipati i rom. Il primo luogo recintato ad uso umano , da cui poi deriverà il termine “ghetto” inteso come luogo di segregazione e di discriminazione, nasce a Venezia nel 1516 ( A. Foa, Ebrei in Europa, Laterza 1992). Io, però, mi concentrerò sul ghetto di Roma, istituito da papa Paolo IV nel 1556, che ci mostra come l’ideologia venga usata strumentalmente ai fini del potere, creando delle gravissime conseguenze sociali. La cosa sconvolgente è che dal Cinquecento ai giorni nostri la forma propagandistica è la stessa. È un caso esemplare che ci mostra come si costruisce un’ideologia negativa, un pregiudizio, una discriminazione verso un popolo, e come alla base dell’azione autoritaria ci sia sempre un’ideologia, un fine, un’utilità politica, ieri come oggi, conseguita trasformando un elemento neutro, la differenza, in un barriera insormontabile. Trasformando, cioè la naturale differenza che esiste tra gli esseri umani in qualcosa di cristallizzato e monolitico che legittima la persecuzione del diverso. A. Foa sottolinea il muro culturale che nasce dall’isolamento fisico e visivo rappresentato dal ghetto: la costrizione di doversi muovere in uno spazio interno- fisicamente e culturalmente — determina un’ identità isolata rispetto alla comunità che circonda il ghetto -ovviamente, la stessa cosa vale anche per il campo- e dall’esterno cresce lo stereotipo, fino a radicarsi in una ideologia negativa, nei confronti dei segregati ( A. Foa, Ebrei in Europa,).
La prima operazione ideologico/propagandistica nella costruzione di un’ideologia negativa verso un gruppo, ieri come oggi, è quella di legittimare la propria azione facendola percepire come assolutamente necessaria. Per questo propongo, come anticipato nella introduzione, la lettura comparata di un’ordinanza contemporanea (locale.., ma esempio di molti altri possibili “muri”!) e un bando cinquecentesco.
IERI:
« Poiché abbiamo appreso che a Roma ed in altre località sottoposte alla Sacra Romana Chiesa la loro sfrontatezza è giunta a tanto che essi si azzardano non solo a vivere in mezzo ai cristiani, ma anche nelle vicinanze della chiesa senza alcuna distinzione di abito, e che anzi prendono in affitto delle case nelle vie e nelle piazze principali, acquistano e posseggono immobili [ ci siamo veduti costretti a prendere i seguenti provvedimenti» ( Milano 1963:247, in A. Foa, Ebrei in Europa, pag 155, 1992).
OGGI:
«Premesso che
– presso il sito di via Vallenari 19 e 19/A è presente una comunità di etnia Sinti;
Verificate dalla Direzione Politiche Sociali, Partecipative e dell’Accoglienza le gravi condizioni in cui versa la popolazione dei Sinti ivi allocata, e in particolare:
• gravissimi inconvenienti di natura igienico-sanitaria, legati all’inadeguatezza dei servizi igienici (12 turche e appena 4 docce prive di acqua calda per oltre 160 residenti);
• proliferazione di topi e altri animali che rende necessaria l’immediata disinfestazione;
• costrizione alla conduzione della vita quotidiana all’aperto che, con l’approssimarsi della stagione fredda, comporta l’accensione di incontrollati fuochi per potersi riscaldare, nonché la diffusione di malattie; […]
ORDINA
lo sgombero dell’area di via Vallenari 19-19/A […1». ( Comune di Venezia, Ord. Di sgombero del 23 nov. 2009).
Emerge, a prima lettura, la “necessità”, l’ “eccezione”, l’ “emergenza” ( G. Agamben, Stato di eccezione, 2010) dell’azione di forza per porre rimedio a delle “gravi” colpe ( M. Douglas, Purezza e Pericolo, 1996) che hanno le persone da perseguire. Ovvero, la legittimazione dell’azione avviene mediante:
a.la demonizzazione dei perseguitai’ e la loro trasiormazione in quaicosa inquinato: per esempio, dicendo che sono così… non c’è nulla da fare… sono sporchi… mal sani…hanno bisogno di essere salvati ecc. Trasformando il diverso in umanità mal sana, inquinata.
Nel caso degli ebrei del Cinquecento, la loro “sfrontatezza” nel vivere tra la comunità maggioritaria, “azzardando” a considerarsi sua pari, è il segno tangibile della loro inferiorità morale: «[ha loro sfrontatezza è giunta a tanta che essi si azzardano non solo a vivere in mezzo ai cristiani, ma anche nelle vicinanze della chiesa senza alcuna distinzione di abito, e che anzi prendono in affitto delle case nelle vie e nelle piazze principali, acquistano e posseggono immobili [ ]». Gli ebrei sono moralmente impuri e la loro impurezza rischia di contaminare la comunità sana ( ibidem). La motivazione ideologica è di stampo religioso: gli ebrei sarebbero i responsabili della crocifissione e dell’uccisione di Gesù. ( www. Treccani.itienciclopedia). L’accusa di popolo deicida agli Ebrei è un tema che è durato fino al 1965, quando il Concilio Vaticano II — iniziato da papa Giovanni XIII e terminato da papa Paolo VI — abolì la definizione “Ebrei deicidi”. Nel caso degli zingari dei nostri tempi, le loro condizioni materiali di miseria e povertà è il segno tangibile della loro inferiorità, del loro essere infetti, contaminati da qualche strana malattia: quasi che il loro aspetto esteriore fosse un segno tangibile della loro anima infetta: «Verificate[…1» le gravi condizioni igienico-sanitarie dei sinti, il sindaco ordina lo sgombero. Ovvero, gli zingari sono sporchi, puzzolenti, vivono come animali all’aperto ecc. E bisogna allontanarli. Qui siamo ancora in ambito umano. Ma c’è un ulteriore passaggio.
b. la trasformazione del perseguitato in qualcosa di inquinante, in qualcosa che rischia di contaminare la comunità “sana”. Ovvero, disumanizzando il perseguitato si rappresenta la propria azione come assolutamente necessaria.
Nel caso degli ebrei medievali, ciò avviene mediante il vietare loro di «[…1 vivere in mezzo ai cristiani […]», nella misura in cui la parola “cristiano” è sinonimo di uomo intese nella sua massima umanità civilizzata caratterizzata dalla conformità con il resto degli individui della sua comunità. Chi non è cristiano, in un certo senso, non è uomo e lo si deve umanizzare mediante il maltrattamento ( ancora non esistevano i diritti degli animali, tipici della nostra moderna e democratica società di diritto) e si dispone, per ciò, la sua reclusione:«[…] ci siamo veduti costretti a prendere i seguenti provvedimenti». Nel caso degli zingari del nostro presente, la metamorfosi avviene mediante l’esaltazione delle loro pessime condizioni di vita: «Ritenuto che la permanenza della rappresentata situazione igienico-sanitaria costituisce grave pericolo per la salute degli occupanti delle abitazioni vicine, per gli stessi insediati e comunque per l’intera collettività». La comunità bisognosa d’aiuto si è trasformata in un parassita infetto che rischia di far ammalare l’intera società. Preso atto delle loro necessità, non si predispone di un piano per aiutarli, ma si «ORDINA lo sgombero dell’area […1». Probabilmente, la stirpe maledetta non ha ancora espiato le sue colpe ( L. Piasere, La stirpe di Cus, 2011) e basta dichiarare l’azione rivolta agli zingari perché sia moralmente legittimata.
c.Emanazione della legge che porta alla pratica persecutoria e segregazionista:
la bolla Cum nimis absurdum. emanata da papa Paolo IV nel 1555 che “ istituiva il ghetto di Roma” (A. Foa, Ebrei in Europa, pag. 155, Laterza, 1992);
Ordinanza del Sindaco Massimo Cacciari del 23 novembre 2009 che «ORDINA lo sgombero dell’area di via Vallenari 19-19/A(…)».
MOTIVO POLITICO DELLA DISCRIMINAZIONE
Apparentemente, l’azione sembra dettata da una “semplice” convinzione ideologica, ma in realtà, dietro ad entrambe le azioni c’è un motivo politico. Con il Pontefice, siamo in un momento in cui stanno nascendo gli stati nazionali e la legittimazione dell’accentramento del potere e del monopolio dell’uso della forza deve essere giustificato. Ciò avviene facendo percepire al popolo l’assoluta necessità di intervento da parte del potere centrale per garantire l’incolumità del popolo e la pace sociale. Si crea un “nemico” così pericoloso di fronte al quale le persone si sentono minacciate e impotenti a tal punto che accettano volentieri una loro sottomissione ad una autorità “superiore” che manifesta la sua capacità di azione mediante l’emanazione di leggi a tutela della comunità. In altre parole, la ghettizzazione degli ebrei ha uno scopo politico: l’affermazione del potere temporale del Papa. La ghettizzazione è un esercizio di potere. E’ la messa in pratica della teorizzazione/astrazione dell’accentramento e gerarchizzazione del potere. Ciò che mi ha colpito, è l’estrema capacità del Papa di cogliere la modernità dei suoi tempi – su esempio di Venezia crea subito un ghetto – e di anticipare pratiche propagandistiche tipiche dei nostri. La similitudine tra la ghettizzazione degli ebrei di quasi cinquecento anni fa e la campizzazione degli zingari odierni – sia nella sua forma propagandistica che pratica – è sconvolgente e ci catapulta nell’attualità: l’uomo disumanizzato — nonostante la dichiarazione dei diritti degli animali — è ancora strumentalmente maltrattato. L’azione disumanizzante del sindaco di Venezia, al pari del Pontefice di cinquecento anni fa, è politica. Lo sgombero del campo di Via Vallenari è un’azione puramente politica. È un braccio di ferro tra le correnti politiche di Destra e di Sinistra. Lo sgombero è stato una propaganda politica dell’allora Amministrazione comunale che doveva restare fedele a se stessa mediante un’azione ideologicamente paternalistico-filantropica. E’ così che fu rappresentata l’azione. L’assistente sociale che seguì il caso, Radiana Gregoletto, definì lo sgombero come il risultato di un progetto di “ordinaria” amministrazione. La stessa, precisava che non si trattava di uno sgomberi, ma dello spostamento di individui, assolutamente consenzienti, da una realtà abitativa indigente ad una che dava più dignità umana.
E tutto questo avveniva — fa notare la Gregoletto – « mentre gli altri comuni facevano sgomberare i campi senza trovare una soluzione abitativa alternativa». Anche qui la similitudine col passato è forte: L’assistente afferma che lo “spostamento” (da un campo all’altro) è avvenuto per il bene dei sinti, così come lo era la ghettizzazione per gli ebrei: « Nell’arco di due secoli, [ dal Cinquecento] fino al Settecento tutti gli Stati italiani che non avevano espulso gli ebrei finirono per chiuderli nei ghetti». ( A. Foa, 1992) Per gli ebrei di ieri, come per gli zingari di oggi, l’alternativa è espulsione o reclusione.
PIANO IDEOLOGICO
Il piano ideologico in base al quale agisce il Sindaco di Venezia è confermato dalle parole dell’assistente che ribadisce come non ci fosse nessuna emergenza sanitaria derivata dai sinti e che l’indagine igienoco-sanitaria “scientifica” «era solo un pretesto per motivare lo sgombro. Il sindaco lo può fare… – chiarisce la Gregoletto – ». Il Sindaco diventa esecutore di un discorso ideale: agire a favore dell’ordine pre -costituito sulla base di leggi preesistenti in nome della comunità legittima e secondo la sensibilità e l’ideologia della stessa. E’ questo il punto, la sensibilità e l’ideologia della comunità, in nome della quale agisce il Sindaco, che considera legittima l’azione solo perché è rivolta agli zingari. Il Sindaco agisce verso qualcuno che è “altro” rispetto alla sua comunità (anche se le persone in questione vivono in zona da mezzo secolo e sono cittadini italiani). Agisce verso qualcuno che è al di fuori della comunità alle cui leggi deve rispondere. Agisce verso dei fuori legge, ovvero, degli individui che non sono soggetti alla legge della sua comunità perché considerati “eccezionali” . Il sindaco mette in atto un’azione complicatissima che esprime la più profonda cosmologia dei gagè: uno, mai presentare le proprie azioni come dettate dall’ideologia o su base etnica; due, ufficialmente, l’amministrazione pubblica non deve gestire la comunità in modo discrezionale. L’amministrazione pubblica deve, sempre, risolvere i problemi della comunità sulla base di accordi sociali preesistenti. Lo Stato presenta se stesso come comunità fondata sul diritto. La protezione di coloro che sono considerati interni alla comunità, ossia, di coloro che sono considerati cittadini a « pieno diritto» (Lauso Zagato, a cura di, Introduzione ai diritti di cittadinanza, p.15, Venezia, Cafoscarina, 2011) avviene sulla base di una legislazione preesistente. Non è ammesso l’uso della discrezionalità nella gestione della comunità riconosciuta. Ma, la “gestione” del “problema zingari” avviene in forma totalmente discrezionale da parte delle autorità. E ciò mostra che i rom, in generale, sono assolutamente disconosciuti.
UNA PROSPETTIVA DI LUNGA DURATA
Ora, come accennavo sopra, la cosa sorprendente è che, a quasi mezzo millennio di distanza, in una società che proclama l’universalità della pari dignità dell’uomo e dei diritti umani, che si dichiara società di diritto, certe prassi esistano ancora. E lo dimostrano benissimo le continue pratiche di creazione e smantellamento dei campi creati per gli zingari che vengono, paradossalmente, chiamati campi “nomadi” per distinguerli dai campi di concentramento nazisti. Dico paradossalmente perché è assurdo chiamare “campi nomadi” dei luoghi che non hanno nulla a che fare col essere nomadi! A parte il fatto che non tutti i rom sono nomadi, se sono nomadi perché li si rinchiude in un campo? Ho fatto una comparazione tra la creazione dei ghetti del Cinquecento e le pratiche di campizzazione/sgombero dei nostri tempi per dimostrare come certe pratiche persecutorie, che esistono anche oggi nei confronti degli zingari, siano di lunghissima durata: ieri ebrei, oggi zingari, e domani? Come, anzi, le pratiche persecutorie verso gli zingari, siano ormai naturalizzate sia dai gagè che dai rom. Come nel Cinquecento, anche oggi si parte dalla fondamenta ideologiche di stampo etnico — ieri ebrei, oggi zingari — per costruire un umanità non conforme, nei confronti della quale le autorità sono giustificate ad agire con forza. Ma questo atteggiamento non è naturale, bensì un atteggiamento culturale che dura da secoli! Quando finirà?
La procedura ideologica è semplice e avviene mediante:
• l’uso di terminologia specifica che indica una comunità come “altro” rispetto a quella maggioritaria;
• la rappresentazione della comunità oggetto del provvedimento come potenziale pericolo di contaminazione;
• la rappresentazione della comunità vittima come inferiore (e, quindi, colpevole e meritevole di tale azione discriminatoria): nel Cinquecento mediante la sua inferiorità morale. Ai giorni nostri, mediante la sua inferiorità materiale (comunità indigente che vive in grave condizioni igienico-sanitaria). Ovvero, le vittime della segregazione e del pregiudizio sono rappresentate come bisognose di un aiuto, di una correzione, ecco allora che li si chiude nei ghetti/campi per aiutarli, per correggerli. (A. Foa, 1292).
LA CONSEGUENZA DI TUTTO CIÒ, E’
l’appropriazione delle categorie persecutorie da parte del perseguitato per costruirsi una propria identità isolata dal sistema maggioritario e spesso in conflitto con esso. Il perseguitato dà origine a una cultura che genera una società chiusa al mondo che la circonda.
OPINIONE PUBBLICA
Ma c’è una differenza sostanziale tra le due azioni: quella della nostra epoca è un’azione “scientifica”, messa in atto solo dopo aver verificato “oggettivamente” le pessime condizioni di vita della comunità da sgomberare. Inoltre, nella nostra società, l’uso del potere dittatoriale, discrezionale deve essere giustificato, legittimato, a differenza dei papi Medievali poco attenti all’opinione pubblica in materia di dignità umana e che agivano solo su base ideologica. Infatti, al cinquecentesco pontefice basta citare la “sfrontatezza” degli ebrei per giustificarne la chiusura in un ghetto. Ossia, il Pontefice non deve mascherare il suo pregiudizio etnico – i suoi tempi non lo richiedono. Al contrario, al sindaco dei nostri tempi è necessario un attento richiamo alle norme che giustificano l’uso del suo potere eccezionale in modo discrezionale, e per richiamarle viene inscenata un’emergenza sanitaria (S. Jovanovic, 2012) che formalizza l’uso della discrezionalità nei confronti degli zingari. Il cinquecentesco pontefice deve ancora esplicitare l’ideologia che lo spinge all’azione, il sindaco dei nostri tempi non ne ha più bisogno. Basta che l’azione sia rivolta agli zingari ed è moralmente accettata: «Premesso che – presso il sito di via Vallenari 19 e 19/A è presente una comunità di etnia Sinti […lisi] ordina lo sgombero dell’area […] ».
SINTESI
In sintesi, possiamo concludere dicendo che la paura dell’altro – forse- è umana e tollerabile, ma usarla a scopo strumentale, per coltivare e rinforzare una certa fede filosofica o sociale, è di fatto omicidio. Usare la paura dell’altro per alterare la percezione del pericolo della “propria” comunità umana nei confronti di un’altra comunità umana disumanizzando quest’ultima e trasformandola in parassita pericoloso per la propria società (S. Jovanovic, 2012) non solo non è tollerabile, ma è assolutamente da condannare. Un società – come quella in cui viviamo – che si dichiara razionale, scientifica, moderna, umanitaria, democratica, civile, di diritto, rispettosa dei diritti umani, e anche di quelli degli animali, e del suo prossimo, interculturale — non può plasmare un’umanità il cui principio fondamentale è evitare la contaminazione. Non esiste la cultura pura e di conseguenza non esistono le società pure sterilizzate da ogni forma di diversità.
Ciò che mostra questa mia breve analisi è che le gerarchie sociali hanno sempre qualche interesse che le porta a costruire dei muri di intolleranza che possono assumere svariate forme, ma noi singoli individui abbiamo il libero arbitrio di scegliere se aderirvi o meno.
Bisogna fare una critica dell’altro, ma bisogna anche fare una autocritica. Non dobbiamo abituarci all’intolleranza, alla discriminazione, alla indifferenza, all’odio verso il diverso da noi, al razzismo istituzionale, sociale e culturale. Non dobbiamo negare a noi stessi la possibilità di migliorare il nostro rapporto con l’altro, la nostra tolleranza e accettazione del diverso.
L’espulsione degli zingari – intesa anche come persecuzione/segregazione/tortura – è una pratica secolare che nella nostra Era viene riutilizzata mediante la costruzione, lo sgombero, lo smantellamento dei campi per zingari e il tollerare la loro presenza nei luoghi di scarto. E’ un rito, un momento in cui la società riflette sul tipo di umanità che vuole costruire, un momento di propaganda delle proprie antropologie implicite. Ma a differenza delle “società primitive” in cui questa riflessione avveniva in un momento predeterminato, al fine di dare all’individuo la libertà di esprimere la propria ‘umanità’, nella nostra società ciò avviene in modo continuo e quotidiano per non darci il tempo di riflettere e percepire, così, le pratiche persecutorie e discriminanti come qualcosa di naturale e indispensabile. La secolare persecuzione verso gli zingari non solo ha creato un muro ideologico “invalicabile”, ma ha anche blindato il pensiero e la capacità critica degli individui. La caratteristica della nostra società è quella di non limitarsi a “civilizzare” le persone, ma di renderle disumane e far passare questa disumanizzazione collettiva come il massimo benessere, individuale e sociale, auspicabile. Gli zingari vengono presentati come “altro” rispetto alla società, ma non è così. Gli zingari non sono “altro” rispetto alla società, ma sono una componente della società. Gli zingari non sono alieni, non sono persone sub-umane arrivate da chi sa dove, sono la componente sociale le cui istanze non hanno trovato nessun uditore. In questo senso sì che sono lo “scarto” della società, ma perché la società è incapace di ascoltare e dar voce a tutte le sue componenti sociali e ha rafforzato questa mancanza costruendo delle barriere percettive/ideologiche che hanno ucciso le istanze non ascoltate…
Concluderei questo incontro con un umile adesione all’invito di Foucault:
«Interrompo qui questo libro che deve servire da sfondo storico a diversi studi sul potere di normalizzazione e sulla formazione del sapere nella società moderna» ( Michel Foucault, 1997. explicit di Sorvegliare e punire)
Ovvero, il mio invito è quello di guardare in profondità la storia ( di ieri e di oggi), analizzare le dinamiche che fanno nascere il pregiudizio, la discriminazione e la soggezione tra individui e tra culture. Bisogna riflettere sul proprio vissuto per determinarne le criticità e poter arrivare a un dialogo collettivo tra rom e gagè, nel pieno rispetto delle rispettive differenze. Solo così la differenza non sarà più strumento di umiliazione e sottomissione. I gagè non potranno più sbandierare la differenza etnico-culturale dei rom per discriminarli. Rom e gagè devono riflettere sulle rispettive culture, società, categorie e trovare un dialogo rispettoso della reciproca umanità differenziata. Non è facile, ma è possibile! I rom devono rivedere alcune delle proprie strategie sociali più critiche. Non devono certo soccombere, ma devono smussare le loro spigolature più acute, se vogliono il dialogo rispettoso. I gagè devono smettere di disumanizzare e maltrattare gli zingari, ma il riconoscimento degli zingari dipende anche da loro. Dipende dalla loro capacità di autocritica, dalla loro capacità di coesione, dalla loro capacità di dialogare con il diverso da loro, dalla loro capacità di dimostrare che non sono “inferiori” ai gagè. Rom e gagè devono dialogare, comunicare, riconoscersi reciprocamente. Devono far sì che le rispettive società/culture non costituiscano più un reciproco ignoto che paralizza e porta al pregiudizio e alla discriminazione. In sostanza, i rom devono smobilitare i loro diritti e la loro cultura mediante la scolarizzazione- anche delle donne!- , la riflessione sulla propria situazione interna ed esterna e il dialogo, alla pari, con i gagè. I rom devono dare vita ad un “partito politico” internazionale che promuova una profonda conoscenza di quali sono i loro diritti e doveri umani, civili e politici. Devono mobilitarsi mediante una rigorosa analisi delle loro attuali condizioni: da che cosa sono originate e quali possono essere le possibili soluzioni. Ovvero, iniziare a dotarsi degli strumenti necessari per un cammino basato sulla pari dignità tra esseri umani e porre fine al secolare «spregio» basato sulla privazione dei diritti e l’emarginazione sociale derivata dal non essere riconosciuti come persone capaci di intendere e volere ( A. Honneth, Riconoscimento e disprezzo, p.27, 1993).
Noi romnia siamo pronte a lottare contro il secolare maltrattamento e umiliazione… e gli uomini?

 

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pamela adami e agostino rota martir al ccit 2014

bambino rom

 

Sinti e rom in Italia: lettura socio-culturale e quadro pastorale

Di cosa e chi parliamo? lettura socio-culturale

Pamela Adami

Questa prima parte presenta dei dati: dunque sembra che il problema sia solo trovarli [i dati] e enumerarli, indicando suddivisioni e mostrando proporzioni. In realtà anche questo primo punto richiede alcuni rilievi critici, che spiegano la difficoltà a individuare “numeri” precisi: – un censimento su base etnica è sempre implicitamente discriminatorio – quando è stato compiuto in Italia in regime di presunta “emergenza” ha avuto tratti intimidatori che sono stati anche denunciati alle autorità di garanzia – c’è comunque molta reticenza a dichiarare un’identità disprezzata: questo l’ha ben spiegato la dott.ssa jovanovic. Anche chi non vuole essere identificato su base etnica “esiste” e deve comunque essere rispettato.
Anche il rapporto UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscrimazioni Razziali), cioè il documento che delinea le strategie di inclusione 2012-2020, in risposta alla Comunità Europea’ parla di questa difficoltà. Di fronte alla richiesta di dati numerici, anche l’autorevole documento riferisce la stima complessiva ormai tradizionale – da 110.000 a 180.000 unità – pari allo 0,23% della popolazione nazionale. Quando presenta prospetti su base regionale, si limita a dividere proporzionalmente la cifra. Molto probabilmente questi rilievi sono sottodimensionati, ma in ogni caso i numeri non sono neppure lontanamente paragonabili a quelli degli altri paesi europei, soprattutto dell’Est. E’ importante osservare tuttavia che a fronte di una esiguità numerica, la presenza rom è spesso oggetto di interventi dei mass-media e pretesto per campagne politiche identitarie e razziste. La relazione che si instaura tra contesto maggioritario e fenomeno rom è perciò una sorta di “termometro” della salute nazionale.
Presentiamo dunque la situazione dal punto di vista a) delle denominazioni b) delle appartenenze religiose c) della cittadinanza d) delle tipologie abitative e) dell’emergere di associazioni politiche e culturali rom.
a) Le denominazioni. Ci riferiamo, come d’abitudine nella realtà italiana, a Sinti e Rom, coppia di termini [endiadi] che attraverso le due suddivisioni principali vuole indicare tutti i gruppi romane presenti in Italia. Per noi – per la mia personale esperienza e per la pastorale italiana – il termine zingari è dispregiativo e per questo evitiamo di utilizzarlo2. Quando utilizziamo il termine Rom lo facciamo in senso generale, senza badare alle sottodistinzioni, alle diverse forme di plurale “includendo” il femminile.
b) Appartenenza religiosa. Data la particolare “ingegneria culturale” praticata [assunzione selettiva di elementi del contesto maggioritario di inserimento] non stupisce che un grande numero sia battezzato nella chiesa cattolica; i rom di origine serba e dei paesi vicini sono prevalentemente ortodossi; quelli originari di Kossovo, Macedonia, Montenegro, Bosnia sono musulmani, con una presenza anche di Dervisci, soprattutto fra i Kossovari e Macedoni. Pur a prezzo di generalizzazione, si può affermare che una religiosità molto profonda spesso si accompagna a scarsa fidelizzazione alle istituzioni confessionali. In questo senso le eccezioni confermano la regola: tale è il caso delle famiglie che da anni sono legate a gruppi di presenza pastorale e che sono più consapevolmente “appartenenti” a una chiesa di riferimento, con relativa iniziazione e pratica sacramentale. Diversa l’appartenenza evangelical pentecostale, caratterizzata da pratica assidua, spesso dalla manifestazione di profonde convinzioni che entrano a far parte non tanto di quello “che si dice se richiesti” ma della autoconsapevolezza di gruppo. In questo caso l’appartenenza religiosa alla Missione Evangelica Zigana3 legata alle Assemblee di Dio in Italia fa parte di un più ampio fenomeno di identità e visibilità, che si manifesta sia in prospettiva religiosa che culturale e politica.
c) Cittadinanza. In maggioranza si tratta di cittadini italiani da molte generazioni (Sinti; Rom detti abruzzesi – italiani.. da quando esiste un’anagrafe nazionale (!) e Rom kalderasha cittadini dalla fine dell’800) e di cittadinanze più recenti, fra i discendenti di persone [di origine istriana, slovena e croata] che hanno fatto l’opzione per la cittadinanza italiana dopo il secondo conflitto mondiale. Vi sono poi cittadini “comunitari” UE, come i Rom rumeni di relativamente recente immigrazione e alcuni “extracomunitari”, con passaporti delle repubbliche ex-Jugoslave, come i Rom di origine Serba e Kosovara. Difficile in questo senso la situazione di coloro che sono giunti negli anni ’60 da Bosnia e Montenegro: i loro figli e nipoti sono nati qui, ma spesso non hanno documentazione valida né del paese di provenienza, che non “esiste più” come tale, né italiana. Come suggestivamente si esprime Leonardo Piasere, si tratta di un “mondo di mondi” (Piasere 1999), la cui storia in Europa (Piasere 2004) si ricostruisce soprattutto attraverso i bandi di cacciata e le persecuzioni, fino alla Shoà o ad iniziative raccapriccianti come quelle realizzate dalla Pro luventute, che sottraeva i bambini jenisch alle loro famiglie, sterilizzando le bambine. Ricerche italiane – su finanziamento Migrantes – hanno permesso di mostrare anche un fenomeno di adozioni, tale da poter parlare di “sottrazione di bambini rom” (Saletti Salza).
d) Situazione abitativa. Si deve distinguere fra le metropoli – Milano, Roma, Napoli – e il più vasto territorio italiano. Nelle grandi città ci sono insediamenti numerosi e a questa realtà si riferisce in prevalenza la realizzazione dei “campi” (campo= lager; terrain). Vi è però anche una presenza sul territorio nazionale molto diffusa: a fronte di alcuni campi pubblici e/o riconosciuti, vi sono insediamenti in roulottes/case mobili in terreni privati – di affitto o proprietà; famiglie che abitano in case rurali e anche in appartamenti in città, questi prevalentemente di edilizia popolare. Nel sud italiano i grandi concentramenti sono soprattutto di rom di origine
rumena e kossovara, mentre i cosiddetti “rom italiani” abitano in case, spesso vicini tra loro. Come si è detto sopra, non sono infrequenti i casi di persone che, qualora sia possibile, non svelano la propria origine rom. Non si può nascondere che a fronte di un interesse diffuso e di buone pratiche – o comunque di buone intenzioni nello svolgerle – si deve registrare molto pregiudizio, che arriva a posizioni intolleranti, a atteggiamenti razzisti, a pratiche escludenti.
e) associazioni e studiosi rom: anche se non si può paragonare la situazione italiana con il resto dell’Europa, sempre di più si sta facendo strada un ceto intellettuale rom e soprattutto un associazionismo che prende parola sul terreno politico ed è in costante contatto sul web.

1 Il documento si può scaricare agevolmente: http://109.232.32.23/unar
2 Il termine “zingari”, che ha dei corrispettivi in tutte le lingue europee, è una categoria sintetica che si riferisce con uno stigma negativo a gruppi dalle diverse autodenominazioni, Leonardo :Piasere parla di categoria politetica rossi d’Europa. Una storia moderna, Laterza, Roma-Bari 2004, 3;151 Osserva inoltre: «Ci sono almeno due modi di guardare e descrivere i rom e gli altri gruppi detti “zingari”. Il primo ruota attorno ai concetti di integrazione e anomia, anche quando tali termini non sono apertamente pronunciati. […]. Il secondo considera il rapporto tra rom e non zingari come fortemente radicato nel continuum spazio-temporale della modernità europea e come suo momento strutturale profondo» (ibidem, VII)
3 Httn-//wwwme,italia blogsnot it vvww.adi-mez. it che dà voce alla Missione Evangelica Zigana e alla più recente aggregazione dei Sinti Italiani Evangelici

 Quadro pastorale

Agostino Rota Martir

agostino

Non è certo facile raccontare l’attenzione pastorale della Chiesa verso I Rom-Sinti, è un cammino lungo, articolato e complesso, dove non sono mancati strappi e divergenze. Senz’altro è un cammino ricco di intuizioni, di scelte coraggiose e profetiche, grazie anche a persone che sono state capaci di leggere l’azione dello Spirito che agiva, non solo dentro la Chiesa ma anche dentro la vita dei Rom-Sinti. Basti pensare che fin dal 1930 don Dino Torregiani, con l’aiuto di donne già si dedicava alla cura spirituale di queste persone. Da queste attenzione nascerà all’interno della Chiesa Italiana “L’assistenza religiosa agli spettacoli viaggianti e ai Circhi equestri” e in seguito la “Missione Cattolica tra gli zingari”. Nel 1963 un altro sacerdote don Bruno Nicolini fonderà l’Opera nomadi, che curava soprattutto la promozione sociale e l’O.A.S.N.I. (Opera Assitenza Spirituale Nomadi in Italia). Altre figure si inseriranno in questo percorso, alcune note altre quasi del tutto sconosciute, arricchendolo con le proprie energie, intuizioni e carismi. Lo stesso don Mario Riboldi, prete milanese che poco prima del Concilio Vaticano II è inviato dall’allora cardinale Montini (vescovo di Milano), con il compito di evangelizzare questi gruppi che giravano nel territorio. Quasi contemporaneamente anche una fraternità delle Piccole Sorelle di Gesù andò a vivere in carovana, condividendo la vita dei Rom. Da queste esperienze si svilupperanno altre presenze di sacerdoti, religiosi e laici che andranno a vivere tra i Rom-Sinti in diverse città italiane. Queste presenze tra i campi Rom-Sinti sono espressioni sia della Chiesa locale o di singole Congregazioni religiose, ma non meno importanti quelle di tanti laici e famiglie che attraverso la loro presenza e amicizia con i Rom porteranno un contributo significativo alla nascita dell’U.N.P.R.eS. nel 1987, settore della Migrantes (Ufficio Nazionale Pastorale Rom e Sinti), che di fatto sostituirà l’OASNI. Per vari decenni coloro che faranno riferimento alla “Chiesa che vive tra le carovane”, si daranno fedelmente appuntamento in diverse località per rinnovare la propria fedeltà al Vangelo, per conoscere e approfondire aspetti della cultura Romanes, il senso di una presenza e amicizia con i Rom-Sinti e per leggere e capire meglio le variegate dinamiche sociali. A scadenza biennale veniva anche organizzato un Convegno Nazionale con lo scopo di sensibilizzare e approfondire argomenti di carattere biblico, antropologico e sociale. Era un appuntamento importante che serviva non solo per saldare amicizie e conoscenze, ma anche per rafforzare il senso di appartenenza ecclesiale. Una caratteristica dell’U.N.P.R.eS. sarà quella di essere attenta e rispettosa della cultura dei Rom-Sinti, cercando di vivere di fatto e “dal di dentro la spiritualità dell’incarnazione” (non a distanza!) e di stimolare il più possibile l’attenzione delle Chiese locali verso queste persone. I Rom e i Sinti non sono di chi si “occupa di loro” (Associazioni, singoli..) ma fanno parte della Chiesa di quel territorio: “Voi siete nel cuore della Chiesa”, come ebbe a dire papa Paolo VI ai Rom. Ci siamo riusciti? Difficile dirlo anche perche le difficoltà ci sono, visioni differenti.. e le ferite rimangono tutt’ora aperte.. Dovendo sintetizzare il rapporto attuale della Chiesa Italiana con i Rom-Sinti elenco 3 tipi di linee fondamentali che mi sembra di cogliere, anche se spesso queste 3 presenze a volte s’intrecciano, dialogano ma anche si scontrano tra di loro. Senz’altro, ognuna a modo suo esprime con sensibilità diverse l’attenzione pastorale della Chiesa verso i Rom-Sinti. 1. La Chiesa dei “progetti” per l’integrazione. 2. La Chiesa che evangelizza. 3. La Chiesa con “l’odore delle pecore”.
1. La Chiesa dei “progetti” per l’integrazione.
In genere la società italiana vede i Rom come un problema. Non mancano di certo Associazioni Cattoliche e religiose, Caritas, il ricco mondo del volontariato, le cooperative sociali, la comunità di S. Egidio e altre più nascoste impegnate in tal senso: perché spesso l’imput è quello di “risolvere il problema Rom”, spesso è questo che la società chiede alla Chiesa, di offrire un contributo di fronte a questo difficile problema. E’ quello della Chiesa un impegno variegato, anche se spesso saltuario e discontinuo, che sintetizzo sotto la voce promozione umana e sociale dei Rom e che si propone direttamente la loro integrazione, attraverso l’assistenza, la scolarizzazione, la collaborazione a progetti di inclusione delle singole Amministrazioni locali. Se da un lato c’è da riconoscere un lodevole impegno di collaborazione con le realtà laiche del tessuto sociale, dall’altro spesso queste iniziative non sono studiate con l’effettiva partecipazione e coinvolgimento dei diretti interessati. Avvengono quasi sempre a “distanza di sicurezza” dai Rom e Sinti.
2. La Chiesa che evangelizza.
Anche qui il discorso diventa variegato, ricco di testimonianze e di stimoli differenti tra loro. Le iniziative non mancano e anche ricche di esperienze e approcci significativi. Anche se non sono poche le Diocesi che impegnano personale e catechisti per un annuncio del Vangelo ai Rom-Sinti, soprattutto in occasione dei Sacramenti, o di funerali ma permane nelle singole Chiese locali una diffidenza di fondo o la completa incapacità di porsi in una relazione normale con le famiglie Rom. E’ possibile evangelizzare senza una relazione umana di amicizia e di un minimo di conoscenza del mondo “zingaro”? In questo senso è significativa l’esperienza pluridecennale di don Mario Riboldi capace di coniugare insieme, il ricco e paziente lavoro di traduzioni in diverse lingue romanes di testi della Bibbia con momenti di preghiera e catechesi a diversi gruppi Rom-Sinti.

don Mario

don Mario Rigoldi

Ma c’è anche un annuncio che si sviluppa all’interno della vita dei campi Rom-Sinti, fatto di incontri, di relazioni, di occasioni non programmabili ma altrettanto ricci di fascino evangelico e di Spirito che lavora misteriosamente e in silenzio, senza scalpore o tocco di campane e spesso al’insaputa dei stessi Rom. E’ pur vero che da diverso tempo la Migrantes Italiana sollecita le diocesi all’attenzione pastorale dei migranti, ma quasi sempre questa sollecitazione viene tradotta sempre in percorsi di carità o di progetti sociali: “Diteci cosa fare per risolvere questo problema dei Rom”.
3. Una Chiesa con l’odore delle pecore.
C’è una piccola porzione di Chiesa che “testardamente” crede che è possibile vivere il “Vangelo con i piedi” dentro queste periferie, che in genere sono i campi Rom-Sinti. Non a distanza ma dentro: condividendo, accompagnando e custodendo amicizie, percorsi anche difficili, ma vissuti insieme. La “missione” non è tanto quella di organizzare progetti, nemmeno quella di volerli integrare nei nostri schemi o di porsi come risolutori del “problema Rom”, ma semplicemente essere una “presenza ponte” capace di accogliere, di bene-dire, di comprendere punti di vista diversi. Un campo Rom-Sinti è sempre visto con sospetto e diffidenza e il fatto che dentro ci viva una comunità di suore, dei preti o è frequentato da “gagè” amici di Rom non cancella il sospetto, anzi spesso cade anche su costoro. .è l’odore delle pecore che avvolge chiunque frequenti i Rom-Sinti gratuitamente! Può forse essere credibile uno/a che sta semplicemente dalla loro parte senza offrire contributi di alcun genere? Ma è un “odore” che permette di decifrare il respiro del Vangelo, mischiato a tanti altri. .e di rendere grazie a quel Dio che “non fa preferenza di persone”.

 

 

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