il vangelo dell’Ascensione commentato da p. Maggi, Casati e Castillo

Mt 28,16-20

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

A ME E’ STATO DATO OGNI POTERE IN CIELO E SULLA TERRA 

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi

maggi

Può sembrare alquanto strano che proprio per la festa dell’ascensione la liturgia ci presenti un vangelo dove questa non appare. L’ascensione viene narrata nel vangelo di Luca, in quello di Marco, ma non in Matteo. Ebbene il brano è proprio di Matteo, ma perché questo? Perché l’ascensione non è una separazione di Gesù dall’umanità, ma una vicinanza ancora più intensa, non è un’assenza, ma una presenza ancora più viva e partecipata. Ma vediamo il vangelo. E’ il  capitolo 28 di Matteo, dal versetto 16. Sono gli ultimi versetti del vangelo di Matteo, il finale. “Gli undici discepoli”, manca Giuda. Egli ha fatto la sua scelta. Gesù ha detto “Non potete servire Dio e il denaro”, lui ha scelto il denaro che, dome tutti i falsi idoli, distrugge chi lo adora. Quindi Giuda non c’è. “Andarono in Galilea sul monte che Gesù aveva loro indicato”. Ecco questo è abbastanza strano. E’ vero che per tre volte c’è stata l’indicazione che Gesù sarebbe stato visibile in Galilea; non a Gerusalemme. Gesù risuscitato non appare mai in questa città sinistra, luogo dell’istituzione religiosa, segno di morte. La vita è incompatibile con la morte. E per tre volte c’è l’invito ad andare in Galilea, ma mai in nessuno di questi inviti veniva specificato il luogo. Invece qui gli undici vanno a colpo sicuro, “su il monte”, non un monte dei tanti che componevano la Galilea, ma “il monte che Gesù aveva loro indicato”  Qual è questo monte? L’espressione “il monte” è apparsa all’inizio del vangelo, al capitolo 5, per indicare il monte delle beatitudini, dove Gesù ha annunziato il suo messaggio. Le beatitudini erano otto perché otto è il numero della risurrezione – Gesù è risuscitato il primo giorno dopo la settimana – e la cifra otto indica la pienezza di vita capace di superare la morte. Con Gesù la morte non solo non interrompe la vita, ma le permette di liberare tutte le sue energie e di fiorire in una forma nuova, piena e definitiva. Per questo gli undici vanno su il monte che è il monte delle beatitudini. Cosa vuole dire l’evangelista? Che l’esperienza del Cristo risuscitato non è stato un privilegio concesso duemila anni fa a un gruppo di persone, ma una possibilità per tutti i credenti. Basta accogliere il messaggio di Gesù, praticare le beatitudini e fra queste c’era appunto quella che diceva “Beati i puri di cuore perché essi vedranno Dio”. Infatti l’evangelista scrive: “Quando lo videro”, che non riguarda la vista fisica, ma la vista interiore, quella della fede, “si prostrarono”. Quindi vedono Gesù risuscitato, si prostrano, cioè riconoscono in lui la condizione divina. Ma c’è una stranezza, “Essi però dubitarono” Ma di che cosa dubitano? Non che sia risuscitato, dato che lo vedono. Non che Gesù abbia la condizione divina, dato che si prostrano. Di cosa dubitano? Questo verbo “dubitare” appare solo due volte in questo vangelo e la prima volta era al capitolo 14, versetto 31, quando Pietro aveva voluto camminare sul mare, sulle acque, cosa che significava avere la condizione divina. Ma, ben presto, cominciò ad affogare perché si spaventò del vento. Pensava che la condizione divina provenisse da un privilegio concesso dall’alto e non per un impegno da parte dell’uomo di affrontare le avversità. Ebbene quando sta per affogare Gesù lo rimprovera “Uomo di poca fede perché hai dubitato?” Allora qui di cosa dubitano questi discepoli? Dubitano di essere  di raggiungere anch’essi la condizione divina, perché hanno visto cosa costa: l’infamia del tradimento, dell’abbandono e della croce. Sono loro che, quando nell’ultima cena insieme a Pietro avevano assicurato a Gesù che non lo avrebbero rinnegato, invece, appena Gesù è stato arrestato, lo hanno tutti abbandonato. Per questo dubitano, di essere capaci di sopportare quello che Gesù ha sopportato, cioè l’abbandono, il tradimento e l’infamia della croce. Gesù si avvicina a loro e dice che gli è stato dato ogni potere in cielo e in terra, cioè la pienezza della condizione divina, e poi li invia. La relazione con Gesù è una relazione dinamica. L’amore di Dio non si centra su se stesso, ma vuole espandersi. Li manda a fare discepoli tutti i popoli, le nazioni pagane. E come? All’inizio del vangelo Gesù quando aveva chiamato i discepoli aveva detto: “Venite dietro di me e vi farò pescatori di uomini”. Cioè si trattava di togliere gli uomini dall’elemento mortale, l’acqua, per portarli in quello che dava loro la vita. Adesso Gesù dice dove e come. Dove? In tutta l’umanità. Il campo di lavoro dei discepoli di Gesù è tutta l’umanità. Come? Battezzandoli. Il verbo “battezzare” non ha il significato liturgico che poi renderà il verbo battezzare, che significa “immergere”.  “Battezzandoli nel nome”, cioè nella realtà, “del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Il numero tre indica la pienezza, e qui vuole indicare la triplice realtà della condizione divina, cioè un amore incondizionato e illimitato. Sarebbe a dire: “Andate e ogni persona immergetela, impregnatela di questo amore”. “Insegnando”, ed è l’unica volta in cui Gesù autorizza i suoi discepoli ad insegnare, “a osservare”, letteralmente “a praticare”, “tutto ciò che vi ho comandato”. E l’unica cosa che Gesù ha comandato in questo vangelo, nel quale appare il termine “comando”, sono le beatitudini. La pratica delle beatitudini significa orientare la propria vita al bene degli altri. Questo non può essere insegnato con una dottrina, ma attraverso comunicazioni ed esperienze di vita. Ebbene, se c’è questo, ecco l’assicurazione di Gesù, “Io sono con voi”, infatti all’inizio del vangelo Matteo aveva presentato Gesù come “il Dio con noi”, un Dio che non era da cercare, ma da accogliere, e, con lui e come lui andare verso l’umanità. “Io sono con voi tutti i giorni fino …”, e non è la fine del mondo ma “… alla fine del tempo”. Gesù non sta dando una scadenza ma una qualità di una presenza. Ecco allora ritornando al tema dell’ascensione che non é una separazione di Gesù dagli uomini, ma una presenza ancora più intensa. Non è una lontananza, ma una vicinanza continua, crescente, tutti i giorni.

 

commento al vangelo di don Angelo Casati

 

Casati

 

 

 

 

 

Un pastore della chiesa riformata, il pastore Paolo Ricca, scrivendo in questi giorni dell’Ascensione, diceva che “un po’ dappertutto l’Ascensione è diventata o tende a diventare la cenerentola delle feste cristiane”.

Ascensione, festa cenerentola. E si chiedeva perché, come mai?

Eppure dell’Ascensione si parla ampiamente nelle Sacre Scritture. A confronto per esempio col Natale, molto più ampiamente. Eppure vedete quanta importanza diamo al Natale, e quanta meno all’Ascensione. Perché? Come mai?

“La risposta” -scrive Paolo Ricca- “non è difficile: l’Ascensione è poco festeggiata perché la Chiesa esita a far festa nel momento in cui il suo Signore “se ne va”. La Chiesa festeggia volentieri il Signore che viene, ma non il Signore che parte; acclama colui che appare, ma non colui che scompare”.

Con l’Ascensione Gesù diventa invisibile.

L’invisibilità fa problema: mi ha colpito questa citazione di Dietrich Bonhoeffer, che scriveva: “L’invisibilità ci uccide”.

Sì, questo è un pericolo. Non è forse vero che nell’invisibilità ci si allontana a volte? Abbiamo perfino coniato un proverbio: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.

Quasi a dire che quando viene meno la visibilità -lontano dagli occhi- viene meno anche il rapporto la relazione.
E non è proprio questo quello che accade sul monte degli Ulivi, e cioè l’andare lontano dagli occhi? E’ scritto: “Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo…”.

Lontano dagli occhi. Ma ci chiediamo, lontano anche dal cuore questo Signore?

Ecco, la storia che seguì -e la storia che segue è certo quella narrata negli Atti degli Apostoli, ma anche quella narrata nei secoli successivi, è la storia anche dei discepoli di oggi- ebbene, la storia che segue contiene una sfida al proverbio, sta a dimostrare che la lontananza dagli occhi di Gesù, la sua invisibilità, non l’ha cancellato dal nostro cuore.
“L’invisibilità” -scrive Paolo Ricca- “non significa assenza, ma un altro tipo di presenza, quella dello Spirito con il quale Gesù paradossalmente è più vicino di prima ai suoi discepoli: prima stava “con loro”, adesso dimora “dentro” di loro”.

L’Ascensione rovescia il proverbio: “lontano dagli occhi, vicino nel cuore”.

Vorrei aggiungere che paradossalmente quella visibilità di Gesù a cui, a volte, guardiamo con nostalgia, la visibilità del passato, quando le folle lo toccavano, quando la donna peccatrice lo ungeva e lo profumava, quella visibilità era anche un ostacolo.

Un ostacolo perché tratteneva Gesù: lo tratteneva in un piccolo paese, nei confini che delimitavano la sua azione: quante migliaia di persone lo videro, lo ascoltarono? Poche senz’altro.

Da quando è asceso al cielo, pensate quante storie di uomini e di donne -miliardi, miliardi di storie e noi siamo una di queste storie- quante storie di uomini e di donne hanno stretto un legame con questo invisibile Signore. Voi mi capite, che Gesù -lontano dai nostri occhi- viva, viva con la sua presenza, con la sua parola, con la sua luce, con la sua consolazione, nei nostri cuori.

E da ultimo è anche vero che questa festa dell’Ascensione -lo faceva notare ancora Paolo Ricca- proprio perché sottrae il Signore ai nostri sguardi, ci fa vivere i nostri giorni anche come attesa. Perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno, allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo.

Vivere l’attesa. Non è facile imparare l’attesa. Aspettare Dio. Anche nella religione a volte abbiamo più l’aria di chi possiede, che lo sguardo curioso di chi attende.

Scrive P. Tillich:
“Penso al teologo, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in un edificio dottrinale.
Penso all’uomo di chiesa, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in una istituzione.
Penso al credente, che non aspetta Dio rinchiuso nella sua propria esperienza.
Non è facile sopportare questo non avere Dio, questo aspettare Dio…”.

E’ quello che ci insegna la festa dell’Ascensione.

croce

l commento del teologo Castillo:

 

Si legge nel Vangelo di oggi, festa dell’ASCENSIONE:
“Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato”
.”Questo finale del vangelo di Matteo (scritto dopo il 70 d.c., anno della distruzione di Gerusalemme) è la proiezione di un desiderio provocato dalla emarginazione religiosa causata dai conquistatori romani; il desiderio di trasformarsi nella religione universale, che si impone alle altre religioni e che, con il passare del tempo, è stata – con il papato – il prolungamento del preteso imperialismo universale di Roma. Ebbene, in problematiche di «religione», le pretese di universalità si traducono
inevitabilmente in violenza, divisioni, sfide, conflitti, desideri di dominio e di prepotenza.
Un «dio» che pretende di essere universale, per questo stesso motivo pretende
ugualmente di annullare gli altri «dèi», frutto di culture millenarie e costitutive dell’identità di milioni di esseri umani. Non sarebbe più ragionevole intendere e vivere l’esperienza religiosa come l’ha intesa (con il discorso delle beatitudini) e vissuta il Gesù terreno? Non sarebbe, per questo stesso motivo, più logico vivere la fede in Gesù come fede nella bontà, nel rispetto, nella tolleranza, nell’aiuto di tutti per tutti, quali che siano le forme concrete di convinzioni e di pratiche religiose che ogni popolo ed ogni cultura vive in concreto? Ecco una delle questioni più serie che ci pone la festa dell’Ascensione del Signore ”

(P. Josè Maria Castillo).

“Dio è diverso dai padroni”

dente di leone

omelia di don Angelo Casati in  commento alle letture della liturgia della domenica 19° del tempo ordinario e del vangelo: Lc 12, 32-48

 

Nel cuore dell’estate tre parabole dal Vangelo di Luca che invitano alla vigilanza. Apparentemente sembrano fuori tempo; noi siamo soliti collocarle nei giorni dell’Avvento, giorni che ci parlano degli accadimenti dell’ultima ora, delle ultime cose.

E forse c’è una ragione se Luca, a differenza di Matteo, colloca queste parabole dentro le istruzioni del viaggio, quasi a dire che la vigilanza è dimensione permanente, appartiene al viaggio, a tutte le ore del viaggio.

E’ un’opinione personale, e quindi discutibile, ma a me sembra che proprio d’estate andrebbe raddoppiata la vigilanza, perché d’estate, quando l’attenzione di un popolo è meno vigile, si tentano a volte operazioni di una gravità estrema.

E vorrei iniziare la riflessione dalla prima delle parabole, quella che riguarda i servi nell’assenza del padrone, i servi ai quali viene raccomandata, con immagini ricche di fascino, la vigilanza. Ecco le immagini: la notte, la cintura ai fianchi, le lampade accese.

La notte: la venuta del Signore, la sua incessante venuta, i suoi appelli, i suoi inviti sono dentro le nostre notti, quando è buio, quando non è tutto così chiaro, dentro l’incertezza, l’imprevedibilità della vita.

Penso che tutti voi abbiate colto la bellezza, la poeticità, la suggestione del testo della Sapienza che oggi abbiamo ascoltato, testo in cui gli ebrei ricordano la loro grande notte: “la notte della liberazione desti al tuo popolo, Signore, una colonna di fuoco, come guida in un viaggio sconosciuto, e come un sole innocuo per il glorioso emigrare”.

Glorioso emigrare: bellissimo! Dov’era la gloria? Partire di notte? Guadare il fiume? Camminare quarant’anni?

Glorioso emigrare, perché era il viaggio verso la libertà, lontano dai faraoni, fuori da un servire da schiavi.

Vigilanti, voi mi capite, era notte: pronti a cogliere bagliori di libertà, di liberazione, smascherando i sintomi, spesso nascosti, di una perdita di libertà, smascherando l’avvento dei nuovi, truccati, seducenti faraoni.

“Cinti i fianchi”: l’abito di chi parte, e l’abito di chi lavora, di chi non vuole essere impedito nel viaggio e nel lavoro.

E’ la partenza – dicevamo – per un viaggio di libertà, per un lavoro – aggiungiamo – che non potrà mai essere un lavoro servile, un lavoro da schiavi, perché da questo Dio ti conduce fuori, come dal paese d’Egitto.

Dio è diverso dai padroni: Dio si assenta, Dio lascia a te questa casa, questa terra, queste cose. Le lascia alla tua responsabilità: non vuole schiavi.

Ha rovesciato – bellissimo – l’immagine stessa del padrone, l’ha rovesciata per quanto lo riguarda. L’ha rovesciata nella parabola. E non dite più che Dio è un padrone. E’ un Signore. Ha rovesciato l’immagine del padrone, cingendo lui i suoi fianchi, mettendosi lui a servire. Gesù ha lavato i piedi ai discepoli, come fa il servo. Ma per amore.

E proprio per questo, perché non vuole più faraoni, e lui ci ha dato l’esempio: la cosa che Dio non sopporta, non potrà mai più sopportare né nella chiesa né nella società civile, è che qualcuno approfitti della sua assenza per farla da padrone.

C’è nella parabola una dura condanna per l’amministratore che approfitta del ritardo del Signore per percuotere, mangiare, bere, ubriacarsi. No. L’autorità gli era stata conferita per distribuire armoniosamente. Se viene usata per interesse personale o per altri fini, trova nella parabola la sua condanna. Cinti i fianchi.

“Prenditi cura” -è un verbo evangelico- prenditi cura delle cose di ogni giorno, delle relazioni di ogni giorno, della casa, della strada, della città, delle occupazioni, dei volti di ogni giorno, come se a te fossero stati affidati dal Signore, prima di partire. Ritornerà.

E, infine, le lucerne accese.

Se è vero che il nostro è un andare nella notte, se è vero che gli accadimenti della vita non sono di così facile né immediata interpretazione, se è vero che discernere i segni dei tempi è compito a volte arduo, importanti diventano le lucerne nella notte.

Dio aveva dato al suo popolo ” una colonna di fuoco come guida in un viaggio sconosciuto”.
Oggi, rileggendo le immagini, mi ritornava al cuore la preghiera nel salmo: “lampada ai mie passi è la tua parola, Signore” (Sl. 119,105).

Chiediamoci più spesso che cosa dice non il tale opinionista o quell’altro, ma la parola di Dio. E sia luce, luce critica, luce di giudizio, luce di accompagnamento del viaggio sconosciuto.

L’evangelista Luca, proprio nel capitolo precedente al nostro, parlava di questa luce interiore:

“Stai attento” – diceva Gesù – “che la tua luce non diventi tenebra. Se dunque tu sei totalmente nella luce, senza alcuna parte nelle tenebre, allora tutto sarà splendente, come quando una lampada ti illumina con il suo splendore” (Lc 11,35-36).

image_pdfimage_print