p. Maggi e p. Pagola commentano il vangelo

p. Maggi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IO SONO LA PORTA DELLE PECORE

Commento al Vangelo della quarta domenica (11 maggio 2014) dopo pasqua di p. Alberto Maggi:

Gv 10,1-10

In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».  Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».


Per aver aperto gli occhi al cieco nato, Gesù è stato considerato dai capi religiosi come un nemico di Dio, un peccatore. Allora adesso è Gesù che si rivolge a loro direttamente, Gesù parla ai farisei al capitolo 10 del vangelo di Giovanni, descrivendo i sedicenti pastori di Israele con le stesse caratteristiche dei lupi. Come i lupi, infatti, sono dei ladri e dei briganti. Ladri perché si sono impossessati di ciò che non è loro, e briganti perché usano la violenza per sottomettere il popolo. Ma vediamo questo brano importante di Giovanni che contiene un monito molto severo a quelli che pretendono essere i pastori del popolo. Gesù dichiara apertamente che tutti quelli che hanno preteso essere le guide del popolo, sono briganti – hanno usato la violenza – e sono dei ladri perché si sono impossessati del gregge che era di Dio, non certo loro. Ora invece appare Gesù, il legittimo pastore. E il legittimo pastore si descrive come colui che “entra dalla porta” e “le pecore ascoltano la sua voce”. Perché le pecore? Il gregge è immagine del popolo. Perché ascoltano la sua voce? Perché la gente riconosce nelle parole di Gesù la risposta di Dio al bisogno di pienezza di vita che ogni persona si porta dentro. Questa è la forza del messaggio di Gesù. Ebbene, quando si ascolta questa voce, si vede nel messaggio di Gesù la risposta al proprio bisogno di pienezza di vita, Gesù instaura un rapporto personale con ciascuno, “chiama ciascuna pecora per nome e le conduce fuori”. Il termine “condurre” è lo stesso adoperato nell’Antico Testamento per indicare l’esodo. Quella di Gesù è una liberazione, toglie il gregge dal recinto, dall’atrio dell’istituzione religiosa giudaica, non per rinchiuderle in un altro recinto, ma per dare loro la piena libertà. Infatti, scrive l’evangelista, che quando Gesù “ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti ad esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce”. Quello che mantiene la fedeltà alla sequela di Gesù è che nella voce di Gesù si sente la risposta ai bisogni dell’uomo. Quindi Gesù non rinchiude le pecore in un altro recinto, ma dona loro la libertà. Poi, più che una costatazione, è un consiglio quello che Gesù sembra dare, “Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui”. Fuggire, questo è il consiglio che Gesù dà. Fuggire da quelli che sembrano pastori, in realtà sono lupi. E, come tali, portano soltanto la distruzione. Fuggiranno via da lui perché? “Perché non conoscono la voce degli estranei”. Le pecore, il gregge, il popolo conosce la voce di chi le ama, ma non la voce di chi le vuole sfruttare. Sono estranei perché? Perché non ascoltano la voce del popolo, non sono vicini alla gente. Ecco allora che il popolo poi non ascolta la loro voce, perché non hanno nulla da dire loro. Ebbene, commenta l’evangelista, “Gesù disse loro”, ai farisei, “questa similitudine”, molto molto chiara e molto severa, “ma essi non capirono di che cosa parlava loro”. Come mai non capiscono? Perché non sono le sue pecore. Non hanno desiderio di pienezza di vita. Loro naturalmente non sono dei sordi, ma degli ostinati. Capiscono che, se accolgono il messaggio di Gesù, devono perdere tutto il loro potere, il loro prestigio, e, anziché dominare, devono mettersi, come sta facendo Gesù, a servizio degli altri. E questo le autorità, i capi, i farisei, non lo vogliono. Loro vogliono esercitare il dominio sul popolo, non il servizio. Allora Gesù, visto che non hanno capito, ancora in maniera più cruda e più chiara, rivendica di essere “la porta delle pecore”, e, afferma Gesù, “«Tutti quelli che sono venuti prima di me sono ladri e briganti; ma …»”, ecco la costatazione, “«… le pecore non li hanno ascoltati.»” Il popolo può essere sottomesso per paura, ma non per scelta. Il popolo può essere dominato, può essere soggiogato, ma quando finalmente ascolta il messaggio di libertà, ascolta un messaggio d’amore, ecco che il popolo rinasce. Quindi Gesù assicura che il popolo non li ha mai ascoltati. Loro hanno imposto il loro messaggio, lo hanno obbligato, ma non li hanno convinti. Gesù invece non impone il messaggio, proprio perché la sua parola convince. Questa è la caratteristica che contraddistingue il messaggio che viene da Dio e quello che non viene da Dio: il primo viene offerto, perché è un messaggio d’amore e l’amore può essere soltanto offerto, e mai imposto. Il messaggio delle autorità religiose invece viene imposto, è una dottrina che viene imposta, perché? Perché i capi sono i primi a non credere nei suoi benefici.  Se qualcosa è buono non c’è bisogno di imporla. E continua Gesù, rivendicando ancora di essere la porta, una porta che però non si chiude. Dice Gesù: “«Se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà …»”. Gesù non viene a rinchiudere in un altro recinto, ma a dare la piena libertà, perché, soltanto dove c’è la piena libertà c’è la dignità e la pienezza dell’uomo. E qui l’evangelista scrive che “«troverà pascolo»”. E adopera il termine pascolo che in greco è nomè, che assomiglia molto a nomos, che significa “legge”. In Gesù non si trova una dottrina da osservare, ma un pascolo, l’amore che alimenta la vita delle persone. E infine la conclusione di nuovo, “«Il ladro non viene
se non per rubare, uccidere e distruggere»”, quindi Gesù associa i pastori ai ladri, cioè ai lupi. Quelli che sembrano i pastori che dovrebbero difendere il gregge dai lupi, sono peggio dei lupi, perché uno dei lupi ha paura, invece di pastori si fida. E, conclude Gesù: “«Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza»”. I capi del popolo si sono impossessati della gente, portandola alla rovina. Sono loro che, in nome di Dio, hanno sfruttato il popolo, sacrificandolo alle loro ambizioni, alla loro sete di potere, insensibili ai sacrifici che impongono e alle sofferenze che causano. Ma ora è venuto Gesù è il suo messaggio è la risposta di Dio al bisogno di pienezza di vita che ogni persona si porta dentro. E, quando si ascolta questa voce, tutte le altre perdono importanza.

 

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NUOVA RELAZIONE CON GESÙ

il commento di p. Pagola:

Nelle comunità cristiane dobbiamo vivere un’esperienza nuova di Gesù ravvivando la nostra relazione con lui. Metterlo decisamente nel centro della nostra vita. Passare da un Gesù confessato in maniera routinaria ad un Gesù accolto vitalmente.

Il vangelo di Giovanni da alcuni suggerimenti importanti parlando della relazione delle pecore col suo Pastore.
La cosa prima è “ascoltare la sua voce” in tutta la sua freschezza ed originalità. Non confonderla col rispetto delle tradizioni né con la novità delle mode. Non lasciarci distrarre né stordire da altre voci strane che, benché si ascoltino nell’interno della Chiesa, non comunicano la sua Buona Notizia.
È importante sentirci chiamati da Gesù “con il nostro nome”. Lasciarci attrarre personalmente da lui. Scoprire poco a poco, ed ogni volta con più gioia che nessuno risponde come lui alle nostre domande più decisive, ai nostri aneliti più profondi e alle nostre necessità ultime.
È decisivo “seguire” Gesù. La fede cristiana non consiste in credere cose su Gesù, bensì in credergli: vivere confidando nella sua persona. Ispirarci al suo stile di vita per orientare la nostra propria esistenza con lucidità e responsabilità.

È vitale camminare avendo Gesù “davanti a” noi. non fare il percorso della nostra vita in solitudine. Sperimentare in qualche attimo, benché in maniera rozza che è possibile vivere la vita a partire dalla sua radice: da quel Dio che ci viene offerto in Gesù, più umano, più amico, più vicino e salvatore più delle nostre teorie.
Questa relazione viva con Gesù non nasce in noi in maniera automatica. Si va svegliando nel nostro interiore di forma fragile ed umile. Al principio, è quasi solo un desiderio. In generale, cresce circondata di dubbi, interroganti e di forma resistente. Ma, non so come, arriva un momento nel quale il contatto con Gesù incomincia a segnare decisivamente la nostra vita.
Sono convinto che il futuro della fede tra noi si sta decidendo, in buona parte, nella coscienza di chi in questi momenti si sente cristiano.

In breve, la fede si sta ravvivando o si va estinguendo nelle nostre parrocchie e comunità, nel cuore dei sacerdoti e dei fedeli che le formiamo.
La nostra diminuzione di fede incomincia a penetrare in noi dallo stesso momento in che la nostra relazione con Gesù perde forza, o rimane addormentata a causa della routine, dell’indifferenza e della superficialità. Per questo motivo, il Papa Francesco ha riconosciuto che “dobbiamo creare spazi motivanti e risanatori… posti dove rigenerare la fede in Gesù”.

Dobbiamo ascoltare la sua chiamata. Relazionati con Gesù, egli ti chiama con il tuo nome.

José Antonio Pagola

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Panikkar e la possibilità di parlare di Dio

Nove modi per non parlare di Dio

Nove modi per non parlare di Dio (Raimon Panikkar)

Raimon Panikkar

Raimon Panikkar ha una idea precisa non di ciò che  Dio è, ma di ciò che Dio non è. Tuttavia anche quest’idea cade sotto la sua stessa critica.

Scopo dei seguenti nove punti è di contribuire a risolvere un conflitto che lacera molti dei nostri contemporanei. Sembra infatti che molte persone non riescano a risolvere il seguente dilemma: se credere in una caricatura di Dio che altro non è se non una proiezione dei nostri desideri insoddisfatti o non credere assolutamente in nulla e, di conseguenza, nemmeno in se stessi.

A partire almeno da Parmenide in poi, la maggior parte della cultura occidentale si è centrata sull’esperienza-limite dell’Essere e della Pienezza. Una larga parte della cultura orientale, invece, almeno a partire dalle Upanishad, si è centrata sulla coscienza-limite del Nulla e della vacuità. La prima è attratta dal mondo delle cose, in quanto rivelano la trascendenza della Realtà, mentre la seconda è attratta dal mondo del soggetto conoscente, che ci rivela l’impermanenza di quella stessa Realtà. Entrambe si preoccupano di ciò che è “ultimo”, ossia di ciò cui molte tradizioni hanno dato il nome di Dio. Le nove brevi riflessioni che vi sottopongo non dicono nulla di Dio.

Spero con esse, invece, di indicare le circostanze in cui il discorso su Dio può essere adeguato e mostrarsi fruttuoso, anche solo per vivere le nostre vite più pienamente e liberamente. Non le offro come una scusa, ma forse come la più profonda intuizione: non si può parlare di Dio così come si parla delle altre cose.

È importante considerare il fatto che la maggior parte delle tradizioni umane parlano di Dio al vocativo. Dio è un’invocazione. La mia novemplice riflessione è uno sforzo per formulare nove punti che, mi sembra, dovrebbero essere accettati come la base di un dialogo che la conversazione umana non può più a lungo reprimere, a meno che non accettiamo di essere ridotti ad essere null’altro che robot completamente programmati. A ogni punto ho aggiunto poche frasi, concludendo con una citazione cristiana come esempio.

1. Non si può parlare di Dio senza aver prima raggiunto il silenzio interiore.

Proprio come è necessario fare uso di una macchina Geiger e di matrici matematiche per poter parlare di elettroni con cognizione di causa, così abbiamo bisogno di una purezza di cuore che ci consenta di ascoltare la Realtà senza alcuna interferenza autoriferita. Senza un tale silenzio dei processi mentali non si può elaborare alcun discorso su Dio che non sia riducibile a estrapolazioni mentali.

Questa purezza di cuore è equivalente a ciò che altre tradizioni chiamano Vacuità, ossia il conservarsi aperti alla Realtà, senza preoccupazioni pragmatiche né aspettative da un lato né risentimento o idee preconcette dall’altro. Senza una tale condizione, stiamo solo proiettando le nostre preoccupazioni, buone o cattive che siano. Se cerchiamo Dio per far uso del divino a qualche scopo, stiamo sovvertendo l’ordine della Realtà.

«Tu invece, – dice il Vangelo – quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto» (Mt 6, 6).

2. Parlare di Dio è un discorso sui generis.

È radicalmente diverso da ogni altro discorso che riguardi ogni altra cosa, perché Dio non è una cosa. Rendere Dio una cosa vuol dire farne un idolo, anche soltanto un idolo della mente.

Se Dio fosse semplicemente una cosa, nascosta o superiore, una proiezione del nostro pensiero, non sarebbe necessario dargli un tale nome. Sarebbe più corretto parlare di un super-uomo, di una super-causa, di una meta-energia o meta-pensiero, non sarebbe necessario chiamarlo Dio. Non sarebbe necessario, allo scopo di immaginare un architetto molto intelligente o un ingegnere estremamente potente usare il termine Dio; sarebbe sufficiente parlare di un super-sconosciuto che sta dietro le cose e che non siamo giunti a conoscere completamente. Questo è il Dio delle lacune, le cui ritirate strategiche ci sono state rivelate nel corso degli ultimi tre secoli.

«Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio», dice la Bibbia (Es 20, 7).

3. Il discorso su Dio è un discorso del nostro intero essere.

Non è solo una questione di sensazioni, ragionamenti, di corporeità di filosofia accademica o di teologia. Il discorso su Dio non è la specialità elitaria di alcuna classe. L’esperienza umana, in ogni epoca, ha sempre cercato di esprimere “qualche cosa” di un altro ordine, che è nello stesso tempo alla base e alla fine di tutto ciò che siamo, senza nulla escludere. Dio, se Dio “esiste”, non sta a destra né a sinistra, né sopra né sotto in qualunque senso di queste parole. Pretendere di piazzare Dio al nostro fianco é semplicemente una bestemmia.

«Dio non rispetta nessuno», dice san Giovanni.

4. Non è un discorso su qualunque chiesa, religione o scienza.

Dio non è il monopolio di nessuna tradizione umana, nemmeno di coloro che si definiscono teisti o si considerano religiosi. Ogni discorso tendente a imprigionare Dio in una qualunque dottrina è semplicemente settario. È perfettamente legittimo definire il campo semantico delle parole, ma non lo è limitare il campo di Dio all’idea che un dato gruppo umano adempie agli scopi di Dio difendendo una concezione settaria. Se esiste “qualcosa” che corrisponde alla parola “Dio” non possiamo confinarla nell’ambito di alcun apartheid.

Dio è il tutto (to pan); anche la Bibbia ebraica lo dice e lo ripetono le scritture cristiane.

5. È un discorso che avviene sempre per mezzo di una credenza.

È impossibile parlare senza un linguaggio. Analogamente non c’è linguaggio che non convogli una qualsiasi credenza. Cionondimeno non dovremmo mai confondere il Dio di cui parliamo col linguaggio delle credenze che da’ espressione a Dio. C’è una relazione trascendentale tra il Dio simbolizzato dal linguaggio e ciò che effettivamente diciamo di Dio. Le tradizioni occidentali hanno spesso parlato del mistero, che non significa un enigma o l’ignoto. Ogni linguaggio è condizionato e legato a una cultura. Per di più ogni linguaggio dipende dal contesto concreto che lo nutre dei suoi significati e dei suoi limiti nello stesso tempo. Abbiamo bisogno di dita, di occhi e magari di un telescopio per localizzare la luna, ma non possiamo identificare la luna con i mezzi di cui facciamo uso per osservarla. È necessario tenere in conto l’intrinseca inadeguatezza di ogni forma di espressione. Per esempio, le prove dell’esistenza di Dio che furono sviluppate dalla filosofia scolastica possono solo dimostrare la non-irrazionalità dell’esistenza divina a coloro che già credono in Dio. Altrimenti essi come potrebbero mai essere in grado di sapere che la prova dimostra quello che cercano?

6. È un discorso su un simbolo, non su un concetto.

Dio non può essere l’oggetto di alcuna conoscenza o di alcuna credenza. Dio è un simbolo che è insieme rivelato e nascosto nello stesso simbolo di cui stiamo parlando. Il simbolo è tale perché simboleggia, non perché viene interpretato. Non c’è ermeneutica possibile per un simbolo perché è esso stesso l’ermeneutica. Ciò di cui ci serviamo allo scopo di interpretare un cosiddetto simbolo è il vero simbolo.
Se il linguaggio è solo uno strumento per designare gli oggetti, non può esserci possibile discorso su Dio. Gli esseri umani non parlano solo per trasmettersi informazioni, ma perché sentono l’intrinseca necessità di parlare: ossia di vivere pienamente partecipando linguisticamente in un dato universo.

«Nessuno ha visto Dio» dice san Giovanni.

7. Il discorso su Dio ha necessariamente molti significati.

Non può essere limitato a uno stretto discorso analogico. Non può avere un “analogato primo” poiché non può esserci una meta-cultura dalla quale sia costituito il discorso, perché essa già sarebbe comunque una cultura. Esistono molti concetti di Dio, ma nessuno lo “concepisce”.

Ciò significa che cercare di limitarlo, definirlo o concepirlo è un’impresa contraddittoria e produrrebbe solo una creazione mentale, una creatura.

«Dio è più grande del nostro cuore» dice san Giovanni in una delle sue epistole.

8. Dio non è l’unico simbolo che indichi ciò che la parola “Dio” vuole trasmettere.

Il pluralismo è inerente, in ultima analisi, alla condizione umana. Non possiamo “capire” o significare ciò che la parola “Dio” vuol dire nei termini di una singola prospettiva, nemmeno partendo da un singolo principio di intellegibilità. La stessa parola “Dio” non è necessaria.

Ogni tentativo di assolutizzare il simbolo “Dio” distrugge non solo i legami con il mistero (che allora non sarebbe più assoluto, ossia oltre ogni relazione), ma anche con gli uomini e le donne di quelle culture che non sentono la necessità di quel simbolo. Il riconoscimento di Dio procede sempre in tandem con l’esperienza della contingenza umana e della nostra propria contingenza nella conoscenza di Dio.

Il catechismo cristiano riassume questo concetto dicendo che Dio è infinito e incommensurabile.

9. È un discorso che inevitabilmente si completa ancora in un nuovo silenzio.

Un Dio che fosse completamente trascendente, oltre che contraddittorio della speranza, sarebbe superfluo, se non un’ipotesi perversa. Un Dio completamente trascendente negherebbe la divina immanenza e nello stesso tempo distruggerebbe l’umana trascendenza. Il divino mistero è ineffabile e nessun discorso può descriverlo.

È una caratteristica dell’esperienza umana riconoscere di essere limitata, non solo in denso lineare dal futuro, ma anche intrinsecamente dal fondamento che le è dato. Se amore e saggezza, corporeità e temporalità non sono uniti non c’è esperienza. “Dio” è una parola che compiace alcune persone e dispiace ad altre. Questa parola, rompendo il silenzio dell’essere, ci permette di riscoprirlo ancora una volta.

Noi siamo l’ex-sistenza di una “sistenza” che ci permette di prolungarci (nel tempo), estenderci (nello spazio) di essere sostanziali (col resto dell’universo) quando noi in-sistiamo, allo scopo di vivere, nell’andare avanti con la nostra ricerca, resistendo alla viltà e alla frivolezza e sus-sistendo precisamente in quel mistero che molti chiamano Dio e altri preferiscono non nominare.

«Fermati, e sappi che IO SONO Dio», canta un salmo.

Alcuni obietteranno che, a dispetto di tutto quel che ho detto ho, invece, una precisa idea di Dio. Risponderò che ho, piuttosto, una idea molto precisa di ciò che Dio non è e che anche quest’idea cade sotto l’attacco di questa critica in nove punti. Cionondimeno ciò non costituisce un circolo vizioso, ma piuttosto un nuovo esempio del circolo vitale della Realtà. Non possiamo parlare della Realtà ponendoci fuori di essa, o fuori dal pensiero, proprio come non possiamo vivere senza amore. Forse il divino mistero è ciò che da’ significato a tutte queste parole. L’esperienza più semplice del divino consiste nel divenire coscienti di ciò che scuote il nostro isolamento (solipsismo) e che nello stesso tempo rispetta la nostra solitudine (identità).

Raimon Panikkar

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i vescovi brasiliani ammettono l’appoggio alla dittatura

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LA CHIESA BRASILIANA AMMETTE:
ALCUNI VESCOVI APPOGGIARONO LA DITTATURA

«Se è vero che, all’inizio, alcuni settori della Chiesa appoggiarono le mobilitazioni che si tradussero nella cosiddetta “rivoluzione” [così fu chiamato il colpo di Stato del ‘64] al fine di combattere il comunismo, è anche vero che la Chiesa non tacque appena si rese conto dei metodi usati dai nuovi detentori del potere che non rispettavano la dignità della persona e i suoi diritti»
Tale ammissione di connivenza è contenuta nella “Dichiarazione per i tempi nuovi di libertà e democrazia” emessa dalla Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb) nel 50° anniversario del colpo di Stato che originò, il 1° aprile del 1964, una dittatura durata 21 anni.

Nel testo, i firmatari – il presidente della Cnbb, card. Raymundo Damasceno Assis, il vicepresidente, dom José Belisário da Silva, e il segretario, dom Leonardo Ulrich Steiner – motivano innanzitutto la Dichiarazione: «Raccontare i tempi del regime d’eccezione – affermano –  ha senso in quanto ci porta a comprendere l’errore storico del golpe, ad ammettere che non a tutto è stato posto rimedio e ad allertare le generazioni post-dittatura perché si mantengano sempre attive nella difesa dello Stato democratico di Diritto». E descrivono la situazione dalla quale non tutti i vescovi seppero prendere le dovute distanze: «Si stabilì una spirale di violenza con la pratica della tortura, la soppressione della libertà di espressione, la censura della stampa, la decadenza dei politici; furono instaurate la paura e il terrore. In nome del progresso, che non si realizzò, diversi popoli furono espulsi dalle loro terre e altri decimati. Molti i morti che non poterono essere seppelliti dai loro familiari». E «ancora oggi molte ombre coprono la verità sui 21 anni che ridussero il Brasile ad un Paese di dolore e lacrime. Ci aiuta a pagare questo debito storico con le vittime del regime la Commissione Nazionale della Verità», istituita nel maggio del 2012, «il cui obiettivo è far luce, senza revanscismi né vendette, su quello che è rimasto nascosto negli abissi della dittatura».

Un orrore cui hanno posto fine «quanti hanno creduto e lottato per il ritorno alla democrazia, alcuni con il sacrificio della loro vita», e grazie ai quali «viviamo tempi nuovi, respiriamo l’aria della libertà e della democrazia». E tuttavia, sottolinea la Dichiarazione, «è necessario superare l’ingiustizia, la disuguaglianza sociale, la violenza, la corruzione, la non credibilità della politica, il non rispetto dei diritti umani, la tortura… La democrazia – mettono in guardia dal vertice dell’episcopato brasiliano – esige la partecipazione costante di tutti». Da parte sua, «fedele alla sua missione evangelizzatrice, la Cnbb riafferma l’impegno per la difesa di una democrazia partecipativa e feconda di giustizia sociale per tutti» e «chiama la società brasiliana ad essere protagonista di una nuova storia, libera dalla paura e forte nella speranza».
Verità, “dovere di solidarietà”

Anche la Commissione Nazionale della Verità, in una nota del 31 marzo, ha voluto ricordare i 50 anni dall’inizio della dittatura, «un regime autoritario che disprezzava i diritti umani; nel quale i diritti sociali di molti erano ignorati e oppositori e dissidenti erano sistematicamente perseguitati con la perdita dei diritti politici, la detenzione arbitraria, la prigione, l’esilio; e dove la tortura, gli omicidi, le scomparse forzate di persone erano regolarmente utilizzati contro quanti insorgevano». In questo cinquantenario, «la Commissione Nazionale della Verità vuole rendere omaggio a queste vittime e riaffermare la sua determinazione a costruire con gli altri un Brasile sempre più democratico e più giusto».

La Cnv è nata, ricorda la nota, «con l’obiettivo di esaminare e chiarire le gravi violazioni dei diritti umani praticate in quel periodo», e poggia «sulla convinzione che la verità storica ha come fine non solo l’affermazione della giustizia, ma anche l’avvio alla riconciliazione nazionale». «Nella certezza – aggiunge infine l’organismo – che il chiarimento circostanziato e l’accertamento della responsabilità dei casi di tortura, morte, scomparsa forzata, occultamento di cadavere, nonché l’identificazione di locali, istituzioni e circostanze relazionate alle gravi violazioni dei diritti umani costituiscano un dovere elementare di solidarietà sociale e un imperativo di decenza reclamati dalla dignità del nostro Paese».

eletta cucuzza su Adista

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in morte di dom Tomas Balduino

dom Tomas Balduino

 

questa notte è morto – a 91 anni – Dom Tomas Balduino, fondatore della Commissione Pastorale della Terra, vescovo degli indios e dei senza terra brasiliani.

OMAGGIO DEI SEM TERRA a DOM TOMAS BALDUINO

La nostra eterna gratitudine a Dom Tomas Balduino con le parole del poeta Pedro Tierra
Si è spenta una voce degli oppressi
Si è spenta la voce di Tomás Balduino,
in questa notte del 2 di maggio.
Una voce che non volle mai essere solitaria,
sapeva, dagli anni di piombo:
che una voce solitaria non fa sorgere il mattino.

Volle essere una voce tra le voci.
Ha innalzato la sua voce nel vasto coro degli oppressi:
tra gli indios, i posseiros, i contadini,
i retiranti per la siccità e per le recinzioni,
e tra quelli che si ribellano a tutto questo;
tra le donne, i negri, i migranti, i pellegrini
per stimolare la luce, per insegnare l’alba.

Tomás è parola.
La parola che bagna come balsamo.
La parola che fustiga.
Incendia.
La parola che perdona
ma indica –sempre- il cammino della Giustizia.
E cosa siamo nella vita?
Siamo i resti delle parole
che popolano il cammino di pietra o fiori,
che fanno sanguinare i piedi dei nostri figli.

Tomás è sertão.
Il sertão e le sue trappole
Il sertão e le sue infinite contraddizioni.
Tomás è sertão
dove si intrecciano i venti di Goiás e Minas,
dove nascono le acque
in questa infinita geografia
che alimenta le nostre speranze.
Si è spenta la voce di Tomás Balduíno.
Resterà la sua parola
Tomás è sertão:
gesto di fede in questa gente che non si piega
Brasilia, 3 maggio 2014

 

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p. Maggi e p. Pagola commentano il vangelo della domenica

p. Maggi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3a domenica di Pasqua

  ( 4 maggio 2014)

 

Lc 24,13-35

Ed ecco, in quello stesso giorno [il primo della settimana] due dei [discepoli] erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro:
«Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo.
Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più
lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al
tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la
via, quando ci spiegava le Scritture?».
Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi:

lo riconobbero nello spezzare il pane

 

 

Dai vangeli traspare che i discepoli sembrano essere più delusi della risurrezione di Gesù che della sua morte. Nel vangelo più antico, che è quello di Marco, il testo termina con l’annunzio della risurrezione di Gesù alle donne, ma queste non dicono nulla a nessuno. La stessa delusione traspare dal vangelo di Luca con l’episodio dei discepoli di Emmaus. Perché questa delusione per la risurrezione di Gesù? Se Gesù è morto significa semplicemente che hanno sbagliato messia, perché il messia non può morire. Quindi se Gesù è morto, hanno sbagliato personaggio e c’è soltanto da attendere un nuovo messia. A quell’epoca i messia nascevano come funghi, quindi significava che s’erano sbagliati. Ma, ed è questa la delusione, se Gesù è risuscitato, allora tutte quelle speranze di restaurazione del regno di Israele, di dominio sopra gli altri popoli pagani, vanno a farsi benedire. Ecco la delusione che traspare in questo brano in cui ci sono questi discepoli che si recano dove? E’ importante la località. Èmmaus era un luogo importante perché era il paese dove c’era stata una battaglia tra Giuda Maccabeo e i pagani, ed era stata vinta dagli ebrei. Era il luogo della speranza del Dio liberatore, con la sconfitta dei pagani e la liberazione di Israele. Ebbene Èmmaus richiamava tutto questo, la vittoria sui pagani e la liberazione di Israele. Quindi, visto che Gesù è morto, e non era lui evidentemente il messia, ecco che questi discepoli se ne tornano nel luogo che per loro è quello della rivincita e della vendetta di Dio sui pagani. Di questi discepoli soltanto di uno viene detto un nome, che è tutto un programma. Si chiama Clèopa,
che è un’abbreviazione di Cleopatros, che significa “del padre  illustre, del padre glorioso”. Ecco, questi discepoli sono infarciti di ambizione, di gloria, di successo. E’ questo il messia che loro vogliono, il messia trionfatore. Incontrano Gesù e, naturalmente, non lo riconoscono. Loro guardano al passato e non possono scoprire il Gesù che si presenta nel nuovo e a lui confidano tutta la loro delusione. “Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele”. Ma Gesù non è venuto a liberare Israele, Gesù è il salvatore dell’umanità. Gesù non è venuto a restaurare il defunto regno di Davide, ma ad inaugurare il regno di Dio. E ancora negli Atti degli Apostoli si legge che, visto che i discepoli non hanno compreso questo, una volta risuscitato Gesù, per ben quaranta giorni li riunisce e parla loro di un’unica tematica: il regno di Dio.
Ebbene, al quarantesimo giorno, uno dei discepoli gli chiede “Ma è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno di Israele?” Gesù parla del regno di Dio, ma loro non intendono, sono ciechi e sordi, perché la  loro idea e la loro speranza è la restaurazione del regno di Israele. Allora Gesù “cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò…”
Il termine utilizzato dall’evangelista è quello da cui deriva il termine “ermeneutica”, termine tecnico che significa interpretazione. Quindi Gesù più che spiegare, interpreta la scrittura. Perché questo? Perché la scrittura può essere appresa soltanto con l’amore. Chi mette al primo posto, come valore assoluto, il bene dell’uomo, può comprendere la scrittura. Questa è la chiave d’interpretazione dell’antico e del nuovo.
Ebbene, quando sono vicini al villaggio – il villaggio nei vangeli è sempre simbolo di tradizione, di incomprensione del messaggio di Gesù – i discepoli sono diretti al villaggio, sono diretti alla tradizione, non riescono a comprendere il nuovo, mentre Gesù, scrive l’evangelista, “fece come se dovesse andare più lontano”. Gesù va verso il nuovo e loro invece vanno verso il vecchio. Comunque chiedono a Gesù di rimanere con loro. E “quando fu a tavola con loro, prese il pane”, come ha fatto nell’ultima cena, ripete gli stessi gesti, “recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro”. “Allora”,
scrive l’evangelista, “si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”. Gesù è riconoscibile quando il pane viene preso e spezzato. Gesù, il figlio di Dio, si fa pane, spezza la sua vita per gli uomini, perché quanti lo accolgono e sono capaci a loro volta di farsi pane e alimento di vita per gli altri, diventino figli dello stesso Dio.
E’ questa l’esperienza che rende percepibile la presenza di Gesù. “Ma egli” … non sparì come è scritto nella traduzione, ma letteralmente “… divenne invisibile”. Gesù non è scomparso, ma è invisibile perché
Gesù ormai è visibile soltanto nel pane che si spezza, nel pane che è condiviso, nella comunità che si fa pane per gli altri. Infatti, quando tornano a Gerusalemme dagli altri discepoli, quello che i due di
Èmmaus raccontano … “narravano di ciò che era accaduto lungo la via”. “Lungo la via” era il luogo della semina sul terreno, che Gesù già aveva spiegato … “viene il satana”, che è l’immagine del potere che toglie via il messaggio. Ecco perché loro non avevano capito l’annunzio, le parole di Gesù, perché sono immersi in questa ideologia di potere che li rende refrattari alla parola del Signore. E come l’avevano riconosciuto? Nello spezzare del pane. Questo  criterio era valido allora ed è valido ancora oggi. Gesù è riconoscibile nel suo corpo e il suo corpo è la comunità che si riunisce per farsi alimento per gli altri.

commento al vangelo di p. A. Pagola:

accogliere la forza del vangelo

 

Due discepoli di Gesù vanno allontanandosi da Gerusalemme. Camminano tristi e desolati. Nel loro cuore si è spenta la speranza che avevano riposto in Gesù, quando lo hanno visto morire sulla croce. Tuttavia, continuano a vivere pensando a lui. Non possono dimenticarlo. Sarà stata tutta un’illusione?
Mentre conversano e discutono di tutta la cosa da loro vissuta, Gesù si avvicina e si mette a camminare con loro.

Tuttavia, i discepoli non lo riconoscono. Quel Gesù nel quale tanto avevano confidato e che avevano amato forse con passione, sembra loro ora un viandante strano.
Gesù si unisce alla loro conversazione. I viandanti lo ascoltano in un primo momento sorpresi, ma poi qualcosa si va a poco a poco svegliando nel loro cuore. Non sanno esattamente che. Più tardi diranno: “Non stava ardendo il nostro cuore mentre ci parlava per la strada?”
I viandanti si sentono attratti dalle parole di Gesù. Arriva il momento in cui hanno bisogno della sua compagnia. Non vogliono lasciarlo andare: “Rimani” con noi”.

Durante la cena, saranno aperti loro gli occhi e lo riconosceranno. Questo è il primo messaggio del racconto: Quando accogliamo Gesù come compagno del nostro cammino, le sue parole possono svegliare in noi la speranza persa.

Durante questi anni, molte persone hanno perso la loro fiducia in Gesù. A poco a poco, Egli è stato trasformato dentro di loro in un personaggio strano e irriconoscibile. Tutto quello che sanno di lui è quello che possono ricostruire, in maniera parziale e frammentaria, e tutto a partire da quello che hanno ascoltato da predicatori e catechisti.

Senza dubbio, l’omelia delle domeniche compie un compito insostituibile, ma risulta chiaramente insufficiente affinché le persone di oggi possano entrare in contatto diretto e vivo col Vangelo. Come si può portare a termine, davanti ad un popolo che deve rimanere muto, senza esporre le proprie inquietudini, domande,e problemi? E’ difficile che si riesca a rigenerare a volte la fede vacillante di tante persone che cercano, senza saperlo di ritrovarsi con Gesù.
Non è che sia arrivato il momento di instaurare, al di fuori del contesto della liturgia domenicale, uno spazio nuovo e differente per ascoltare insieme il Vangelo di Gesù?

Perché non riunirci laici e presbiteri , donne ed uomini, cristiani convinti e persone che sono interessati per mezzo della fede, ad ascoltare, condividere, dialogare ed accogliere il Vangelo di Gesù?
Dobbiamo dare al Vangelo l’opportunità di entrare con tutta la sua forza trasformatrice in contatto diretto ed immediato coi problemi, con le crisi, con le paure e le speranze della gente di oggi. Presto sarà troppo tardi per recuperare tra noi la freschezza originale del Vangelo.
José Antonio Pagola

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V.Mancuso rilegge il ‘cantico delle creature’alla luce del venerdì santo san Francesco

San Francesco e il Cantico delle creature

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Vorrei riflettere sullo scritto più famoso di Francesco d’Assisi, che è al contempo la pagina più antica della letteratura italiana, nella luce del venerdì santo, lo leggerò come un canto della creature sotto la croce, al cospetto della sofferenza che attraversa la vita e che è la vita, come insegna la prima nobile verità del Buddha che parla della natura vivente come di “un aggregato di dolore” (Il grande discorso della distruzione della brama, ed. it. p. 33). Il Cantico della creature diviene così una Via crucis delle creature, ma forse questa è l’unica prospettiva per rimanere fedeli alla verità dell’esistenza…

 

La condizione di Francesco quando compone il cantico

A portarmi a leggere il Cantico della creature nella prospettiva della passione di tutto ciò che vive è la stessa vita di Francesco d’Assisi, basta considerare la sua condizione quando compose il Cantico. Siamo nel 1225, l’anno dopo, il 3 ottobre 1226, a 45 anni non ancora compiuti, Francesco morirà. È molto malato, così la Vita prima di Tommaso da Celano descrive la situazione: “A seguito di una rottura dei vasi sanguigni dello stomaco, a causa della disfunzione del fegato, ebbe abbondanti sbocchi di sangue… gli si gonfiò il ventre, si inturgidirono gambe e piedi, e lo stomacò peggiorò talmente che gli riusciva quasi impossibile ritenere qualsiasi cibo”, FF, p. 497). In particolare Francesco è quasi cieco a causa di una oftalmia purulenta che lo rende insofferente della luce del sole, per cui le cose gli appaiono quasi del tutto avvolte nelle tenebre (e si consideri che l’altro nome del cantico è Cantico di Frate Sole). È inoltre di ritorno dal Monte della Verna dove aveva ricevuto le stigmate, ulteriore causa di sofferenza (il primo caso nella storia della Chiesa; dopo se ne sono registrati a centinaia).

Alla sofferenza fisica si associa quella spirituale per aver ormai compreso che il suo ideale di vivere il Vangelo sine glossa era fallito; non a caso già quattro anni prima, nel 1221, aveva lasciato la guida dell’Ordine e si era ritirato in disparte con pochi fidati compagni (Leone, Angelo, Illuminato, Masseo), i quali alla sua morte neppure verranno nominati nella prima biografia ufficiale commissionata dal superiore dell’Ordine frate Elia (la Vita di san Francesco di Tommaso da Celano composta nel 1228 e approvata dal papa nel 1229) a evidente dimostrazione di una tensione tra i due rami del francescanesimo, i conventuali istituzionali da un lato e gli spirituali radicali dall’altro.

Ma è molto importante considerare il luogo in cui Francesco compone il Cantico della creature, è il convento di San Damiano ad Assisi, cioè la dimora di Chiara e delle altre giovani che avevano fatto proprio l’ideale francescano (dette allora Povere dame, poi clarisse, presto divise in diverse ramificazioni, di cui oggi se ne contano una decina). A Francesco che era venuto a stare da lei, Chiara fa preparare su un terrazzino una “celletta fatta di stuoie” e lì Francesco passò più di cinquanta giorni tra indicibili sofferenze tra cui, dicono le fonti, le persecuzioni dei topi. Insomma per Francesco la natura era del tutto distante dalla dolcezza irrealistica dell’Arcadia e già solo per questo ogni lettura bucolina del Cantico delle creature è rigorosamente preclusa.

Le fonti non dicono nulla sui rapporti tra Chiara e Francesco in quei due mesi scarsi trascorsi così vicini (benché non sotto lo stesso tetto). È comunque lecito supporre che Chiara lo visitasse spesso e che magari fosse lei stessa a medicargli gli occhi. Ernesto Balducci nel suo bellissimo libro su Francesco ipotizza che la vicinanza con Chiara possa aver avuto un ruolo decisivo nella composizione del Cantico delle creature: “È azzardato supporre che, se da quest’uomo malato e tormentato, si alzò un canto tra i più straordinari che la storia dello spirito umano ricordi, ciò si deve anche al fatto che i due cuori di carne erano vicini?” (p. 121). Si tratta di un’ipotesi che mi convince. In questo mondo di sofferenze, assurdità, sconfitte, è infatti solo l’amore a essere in grado di suscitare quell’energia vitale che nonostante tutto porta alla gioia e alla lode della vita, e l’amore trova la sua pienezza nel sentimento che unisce due esseri umani, l’amore raggiunge la massima intensità quando si moltiplica per due.

Riassumendo, sono quindi queste le condizioni di Francesco quando compose il Cantico della creature: la sofferenza fisica delle stigmate e della quasi cecità, il senso di sconfitta per la burocratizzazione del suo ordine, la vicinanza di quella donna che lo amava. Da questo impasto agrodolce prende origine il Cantico delle creature.

Noi e Francesco

Da Francesco, malato e sconfitto, emerge il cantico più sublime della spiritualità cristiana, il più sublime in quanto privo di funzionalità, di richiami alla dottrina (anzi, come vedremo poi, c’è anche un’affermazione in odore di eresia), di intenzioni didascaliche o catechistiche, privo persino del desiderio di salvezza personale, in quanto l’ego è del tutto assente se non per dire “mi Signore”; un componimento del tutto gratuito in cui la lode raggiunge il vertice della purezza.

Allo stesso modo anche da noi, malati e sconfitti nel nostro modello politico ed economico e così ciechi da non riconoscerlo, può emergere la possibilità di una spiritualità autentica, genuina, non funzionale, non più asservita al potere e alla conformazione che esso esige, una spiritualità che neppure tende alla salvezza personale (spesso vissuta come ultimo atto della volontà che cerca la preservazione dell’io), una spiritualità come pura lode.

Se prendiamo coscienza che anche noi, come Francesco, siamo malati e sconfitti, e tuttavia, come Francesco, continuiamo a credere all’amore, può sorgere da noi qualcosa di nuovo, di inedito, di veramente vitale.

Vito Mancuso, 29 aprile 2014
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