Siamo liberi? no! anzi si!!!

cammino

Siamo liberi?

di María López Vigil
in “Adista” – documenti – n. 37 del 26 ottobre 2013

Non siamo liberi di scegliere chi ci genera, da chi nasciamo, chi saranno nostro padre e nostra madre, i nostri fratelli o sorelle, quali geni ci saranno trasmessi in questa nuova combinazione con la quale il puro caso ci segna dal volto fino all’anima. Non siamo liberi di scegliere molto di ciò che ereditiamo nel gioco della vita. Però sì siamo liberi di decidere ciò che faremo, che personalità costruiremo con questo ingranaggio di geni unico e irripetibile, con i suoi vantaggi e i suoi svantaggi, con le sue potenzialità, le sue possibilità e i suoi limiti. Non siamo liberi di sceglierci il sesso con il quale nasciamo, bambino o bambina, maschio o femmina, con un orientamento sessuale o con un altro. Però sì siamo liberi per apprendere e per decidere di vivere e gioire della nostra sessualità sempre come espressione di amore e di comunicazione, e mai come espressione di potere e di violenza. Non siamo liberi di scegliere il colore della nostra pelle. Però sì siamo liberi di non disprezzare o invidiare chi non ha il nostro colore. E lo siamo anche per rispettare, valorizzare e celebrare i colori di tutte le pelli. Non siamo liberi di scegliere la lingua con la quale impariamo a parlare o parole e sfumature con le quali diamo nome alle cose. Però sì siamo liberi di scegliere le parole di questa lingua che useremo, a chi le rivolgeremo e per quale motivo le utilizzeremo. Resi umani grazie al linguaggio, grazie al potere della parola potremo opprimere o liberare, insegnare o instupidire, potremo fare danni o sanare, creare e cambiare oppure ripetere e ancora ripetere. Potremo abbellire il mondo o renderlo più brutto. Potremo anche apprendere nuove lingue e nelle loro parole altre scoprire i molti altri accenti attraverso i quali altre genti danno nome alle cose del mondo. Non siamo liberi di scegliere la religione nella quale saremo educati. Perché tutte le religioni sono espressione del Paese, della cultura, del popolo o della famiglia nella quale nasciamo. Tutte sono cammini, differenti, alla ricerca della Realtà Ultima. Tutte possiedono scelte errate e svolte che si aprono su meravigliosi paesaggi. Però sì siamo liberi di accettare o rifiutare le credenze, i dogmi, le pratiche, i riti, i mediatori, le autorità della religione appresa. E lo siamo anche per rivedere queste tradizioni, per ripensarle e decidere se ci nutrono, se ci donano senso, allegria e libertà. O, al contrario, se sono sbarre di una prigione ideologica dove abbondano colpe, paure, repressioni, un carcere dal quale siamo liberi di scappare. Non siamo liberi di scegliere di nascere nella povertà o nella ricchezza, in una vita tranquilla o precaria. Però sì siamo liberi di scegliere se condividere o meno ciò che abbiamo, se correre o meno rischi nella lotta per fare meno diseguale questo mondo nel quale ci è toccato vivere, se vivere contemplando le ingiustizie del mondo o contribuire a trasformarlo. Non siamo liberi di scegliere il Paese in cui nasciamo. Però sì siamo liberi di scegliere un altro Paese in cui vivere, lavorare, lottare e anche morire. E in questo Paese di adozione siamo anche liberi di dare il nostro contributo perché vivano con dignità coloro che sono arrivati fino allo stesso porto però non liberi, ma spinti forzatamente dalla mancanza di lavoro, dalla fame, dalla guerra o dalla violenza. Non siamo liberi di smettere di aver paura, timore e finanche panico, uno dei due meccanismi che la saggia legge dell’evoluzione lasciò scritto dentro di noi e radicò nella nostra psiche per garantirci la sopravvivenza. Però sì siamo liberi di divenire padroni della paura, di confessare, senza vergognarci, che la proviamo e di accompagnare le paure dei nostri fratelli e le nostre sorelle finché non riescano a superarle. Non siamo liberi di scegliere l’epoca nella quale ci tocca vivere né determinare il modo con il quale  ci ricorderanno.

Però sì siamo liberi di lottare per la giustizia durante gli anni che ci sono dati da vivere, con le loro incertezze, le loro sfide e le loro speranze. Sì, siamo liberi per mettere in gioco tutto il cuore che abbiamo. Nel futuro, saremo ricordati per il fuoco che avremo saputo porre in questa lotta.

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“Santità, intraprenda un viaggio nell’inferno degli abusi sessuali”

 

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

una lettera molto affettuosa (e anche molto pia e devota … ) a papa Francesco da parte di una signora americana che ha subito da giovane violenza sessuale e vuole ‘accompagnare’ il papa amato ad un passo non eludibile: farsi carico della croce dei peccati della chiesa:

Marco Politi
in “il Fatto Quotidiano”

del 22 ottobre 2013

C. M. è una signora americana dai capelli bianchi, ultrasessantenne. È stata abusata da bambina in una parrocchia dedicata a san Francesco. Dopo l’elezione di Bergoglio si è fatta coraggio e ha deciso di scrivergli una lettera. Non sapeva ancora che il nuovo papa a volte prende il telefono e cerca chi gli ha scritto. Voleva però che la lettera gli arrivasse. Così è partita dalla Pennsylvania, si è recata in Europa, ha cercato un vescovo di cui conosceva l’impegno nel combattere gli abusi sessuali compiuti dal clero ai danni di bambini e bambine, e gli ha consegnato la lettera. C.M. non sa se è stata poi recapitata a papa Francesco come le era stato promesso. Il testo rappresenta quel “grido di dolore”, che migliaia di vittime sconosciute e – ricorda l’anziana signora – spesso svilite da esponenti del clero ancora decenni dopo, rivolgono alla suprema autorità della Chiesa cattolica perché sia fatta giustizia. La questione di come contrastare più efficacemente i crimini di pedofilia e di togliere ai delitti la protezione di archivi ostinatamente chiusi è un capitolo del pontificato di papa Francesco ancora da scrivere. L’appello dell’anziana signora non è di chi alza la voce. Lo stile, pervaso di religiosità quasi poetica, potrà stupire qualche lettore europeo abituato al confronto- scontro. Ma la tradizione della fede in America è intrisa di immagini spirituali. E questa donna, una sopravvissuta all’inferno dell’abuso, ha fiducia in Francesco. Con delicata chiarezza gli chiede di affrontare il tema dei crimini sessuali nella Chiesa “senza cecità”, di entrare volontariamente nell’ “inferno degli abusi”, di non arretrare davanti al “calderone di peccati” della Chiesa. Di partecipare lucidamente alla “crocifissione” di migliaia e migliaia di bambini abusati. È proprio l’afflato religioso a rendere particolarmente forte l’appello di C.M. poiché nasce dall’interno del cattolicesimo profondo, lì dove si è scioccati per i crimini commessi da preti e ci si volge al papa di Roma perché sani le ferite inflitte da chi ha strumentalizzato il potere sacro. Guai, ricorda la Bibbia, quando gli umili sono calpestati e invocano il Signore. La lettera di C.M. è un documento tragico nella sua dolorosa mitezza. Potrebbe essere stata scritta da un’abusata o un abusato in qualsiasi parte dell’orbe cattolico. In America latina, in Asia, in Africa, in Europa, nella diocesi suburbicaria romana di Porto e Santa Rufina, dove il vescovo mons. Gino Reali – interrogato a proposito di un prete abusatore – ha risposto in tribunale: “Non posso correre dietro a tutte le voci… Faccio il vescovo, non l’istruttore”.

Santità, nostro prezioso Fratello Francesco: la pace di Dio sia sopra di voi, ora e sempre. Il mondo ha gioito quando il fumo bianco ha annunciato la scelta di uomo umile, che ha scelto il nome di Francesco – un santo che rinunciò ai suoi averi, persino alle sue vesti, iniziando il suo ministero nudo, senza alcuna protezione tranne quella di Dio. Vi scriviamo mosse da un profondo amore per voi e da un immenso dolore per la Chiesa e le sofferenze causate da esponenti della Chiesa… Vi invitiamo a compiere un viaggio all’inizio del vostro pontificato – un viaggio che richiederà tutto il vostro coraggio e la fiducia in Dio, che vi ama smisuratamente. Vi esortiamo a entrare volontariamente in ciò che sarà per voi Giardino di Getsemani, crocifissione, sepolcro e resurrezione mentre vi trasformate pienamente nel leader, di cui la Chiesa ha disperatamente bisogno. Nella vostra esperienza di crocifissione, se voi seguirete questa chiamata, voi resterete senza difese. Guarderete senza cecità nel calderone di peccati all’interno della Chiesa. Sperimenterete, con le braccia di Cristo strette affettuosamente intorno a voi, l’intensità delle sofferenze dovute all’attività e all’inattività di esponenti ecclesiastici attraverso i decenni e i secoli trascorsi. Sarete trafitti dalle male azioni della Chiesa a tutti i livelli. Sarete spogliato da ogni falsa illusione che possiate avere sulla Chiesa. Discenderete, come Gesù, nell’inferno della sofferenza. Sarete bagnati dalle sue lacrime e dalle vostre.
Sperimenterete il terrore di migliaia e migliaia di bambini, molti dei quali sono nuovamente traumatizzati da adulti da esponenti della Chiesa, che li sviliscono e impiegano manovre legali per evitare di assumere ogni responsabilità. Soffrirete il senso di vuoto di coloro, che ancora hanno paura di parlare. Sentirete il dolore che la Chiesa, usando la Scrittura, ha inflitto alle persone sulla base di razza, etnia, religione, genere e orientamento. Scavando profondamente nell’anima della Chiesa, scoprirete molti altri gruppi feriti. Sentite il loro dolore come se fosse il vostro. Non cedete alla tentazione di nascondervi da ciò che vedrete. Abbracciatelo. Soltanto sentendosi sinceramente amate le parti frantumate potranno essere guarite… Soltanto vivendo volontariamente la vostra crocifissione, potrete emergere pienamente come il leader, che siete chiamato ad essere. Soltanto allora sarete capace di parlare trasparentemente con la saggezza, la chiarezza, la gioia e la compassione del Cristo risuscitato… Sembra che San Francesco nel suo amore per la semplicità e la povertà abbia subito attacchi da parte dei propri frati, con il risultato delle sue dimissioni… Anche voi (papa Francesco) sarete attaccati dalla gente, specie da coloro che a ragione rifiutano di riconoscere ed affrontare i fallimenti della Chiesa… Voi siete il nuovo Francesco. Io solamente un fragile canale. Insieme a persone di tutto il mondo io vi trasmetto teneramente il messaggio indirizzato a voi: “Ripara la mia chiesa”. Entrate nella vostra crocifissione ed emergete come colui che, con grande tenerezza e vulnerabilità, restaura il corpo di Cristo a livello delle cellule. Curate anche il vostro corpo mentre fate il vostro cammino. È il veicolo attraverso il quale queste opere potranno essere compiute. Vostra in Cristo. Fatto con amore. C.M.

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ironia del tempo che viviamo: la ‘profezia’ che parte dalla massima istituzione anziché dal basso

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

anche ‘il Foglio’ non può resistere di fronte al ‘ciclone Francesco’ e deve riconoscere in una ‘apologia disincantata’ una vera ironia dello Spirito che manifesta la sua creatività profetica più che nella ‘base’ ecclesiale, nei suoi vertici istituzionali: 

Apologia disincantata

di Marco Burini
in “Il Foglio” del 22 ottobre 2013

Non ho mai seguito tanto un Papa come negli ultimi sette mesi, e dire che sulla barca di Pietro ci sto da una vita. Prima non è che occupasse così tanto le mie giornate. Magari ne scrivevo per questo giornale, papista quant’altri mai, ma era solo uno degli argomenti sui quali esercitare i miei attrezzi del mestiere. Lo facevo volentieri, Ratzinger era (è) un teologo e questo mi bastava. Adesso no, è un’altra cosa, i piani mi si confondono. Sarà perché qui a Tv2000 lo seguiamo passo dopo passo, anche un po’ pedissequamente. Ci fa ascolto, e noi lo facciamo ascoltare e vedere il più possibile. Ma il problema è proprio questo, il palinsesto, che per un giornalista tende a sovrapporsi alla vita (ma temo sia un guaio diffuso: la comunicazione è la bolla in cui respiriamo e soffochiamo tutti). Non sono mai stato tanto inseguito da un Papa come negli ultimi sette mesi. E’ ovunque, in tutte le salse, in tutti i menu, cattolici e laici senza distinzione. Senza distinzione, purtroppo: noi cattolici – bestemmio in chiesa, mi rendo conto – dovremmo parlarne di meno, dovremmo sottrarci alla papolatria mediatica imperante, e in ogni caso non dovremmo ricondurre tutto a lui ma semmai fare di lui un punto di partenza per arrivare al nocciolo della questione, per dirla con quel vecchio cattolicastro di Graham Greene. Intanto però ne parlo anch’io, e me ne scuso, un po’ per combattere il senso di saturazione facendo un po’ d’ordine nelle mie idee, un po’ perché qualche giorno fa ho ingaggiato con Giuliano una piccola controversia teologica, una di quelle che ogni tanto ci piace affrontare faccia a faccia e che poi trovano spazio su questo giornale (e solo su questo, perché di controversie teologiche sull’Osservatore o sull’Avvenire non c’è traccia). Il fatto è che il direttore di questo giornale si è convinto, e lo ha ripetuto più volte, che questo Papa sia un abile predicatore, un gesuita maestro della dissimulazione – onesta, ça va sans dire – che di fronte al mondo si sta giocando la carta del cristianesimo tutto misericordia e amore, “un credere del cuore, relativizzabile al soggetto che sente cum ecclesia ma non razionalizzabile nello spazio del discorso pubblico”, e sta invitando i suoi a pregare “in un modo che sembra implicare la rinuncia al pensare, al dubitare o di converso all’ottemperare a un pensiero codificato nei secoli da filosofia e teologia”. Questo sarebbe un passo indietro o comunque alternativo rispetto al magistero dei due papi precedenti che invece hanno ingaggiato una battaglia culturale con il mondo moderno e le sue derive antropologiche nel nome di un’alleanza fede-ragione. Rispunterebbe così, con Bergoglio, lo spettro del “soggettivismo modernista”, la “morale dell’intenzione”, insomma un cristianesimo dove “la fede è tutto, la dottrina niente”, “una posizione del cuore, un flatus evangelico in presa diretta con il Signore”. Certo, se il cuore di cui parla Bergoglio fosse quello dei romantici e dei loro epigoni sanremesi; se l’amore che ci raccomanda fosse quello cantato prima dai trovatori e poi su su fino a Wagner, cioè una figura narcisistica e fondamentalmente gnostica (De Rougemont docet); se la misericordia con cui ci martella un giorno sì e l’altro pure fosse un affare puramente sentimentale, emotivo, Ferrara avrebbe ragione. Credo però che il lessico bergogliano sia schiettamente biblico. E la Scrittura ha giocato e gioca un ruolo fondamentale nella vita di quest’uomo non perché sia un prete, e quindi fa parte del corredo, ma perché c’è stato un momento in cui l’ha ripresa in mano e in controluce vi ha riletto la sua vita (succede in tutte le grandi storie di fede, da Francesco d’Assisi a Ignazio di Loyola). Ebbene, per la Scrittura cuore è sinonimo di libertà, è il luogo della scelta, dei ricordi e anche delle idee perché gli ebrei son gente pratica e non amano le astrazioni: tutto si decide nei precordi. L’amore, sempre biblicamente parlando, è uno strano impasto di eros e agape, Cantico dei Cantici e Prima lettera di Giovanni, iniziativa di Dio e linguaggio degli uomini. E, per dirla con Balthasar, solo l’amore è credibile. Ci vuole sprezzo del ridicolo per affermarlo, oggi che siamo tutti disincantati spettatori di naufragi altrui, eppure l’esperienza questo ci suggerisce: ciò che conta sono le persone care, quelle poche che amiamo e soprattutto quelle che ci hanno amato e che un giorno speriamo di rivedere, su questo solo possiamo spendere gli ultimi scampoli di fede che ci restano. Rileggersi, prego, le ultime pagine dei “Fratelli Karamazov” (ricordo che Dostoevskij è tra i preferiti di Bergoglio). Anche su “soggettivismo” e “protestantizzazione”, che pure qualche membro del Sacro collegio gli imputa sottovoce, ci andrei piano. Mi pare che il ruolo della chiesa nell’esperienza credente non venga affatto sminuita nella sua predicazione, tutt’altro. Basterebbe rileggere, anzi riguardare e risentire perché mimica e timbrica sono fondamentali, le sue ultime catechesi del mercoledì in Piazza San Pietro in cui ha commentato gli articoli del Credo che riguardano la chiesa “una, santa, cattolica e apostolica”. Altro che “presa diretta con il Signore”: extra ecclesia nulla salus! Con Bergoglio la dottrina non è in discussione – o meglio lo è come sempre perché, con buona pace di qualche giapponese ancora asserragliato nella foresta, lo sviluppo del dogma è un dogma – e tantomeno è in pericolo la tradizione. Diciamolo una buona volta: tradizione non è l’enorme monolite sospeso nell’aria che dipingono ossessivamente certi cattolici un po’ surrealisti e molto lefebvriani, un’entità fuori dal tempo, ma una cosa viva che passa di mano in mano, “quasi per manus traditae” come recita il Concilio di Trento (Trento, dico), di generazione in generazione. Insomma, il lessico bergogliano non va preso sotto gamba né frainteso. Certo, a volte è lui che non aiuta. Quando lo sento parlare di solidarietà mi viene il prurito perché è una parola totalmente sputtanata. Lui invece la usa in continuazione, il 22 settembre a Cagliari ha sostenuto che solidarietà “rischia di essere cancellata dal dizionario perché è una parola che dà fastidio, dà fastidio!”. A me pare esattamente il contrario: è un termine innocuo, a buon mercato, sulla bocca e nel portafoglio di tutti. Chi è così iena da rifiutare l’obolo per una buona causa? Chi oggi non fa solidarietà? Persino quando ricarichi il cellulare c’è un’opzione per devolvere automaticamente un euro in beneficenza! Un’aberrazione, a pensarci bene: il farsi prossimo del buon samaritano di evangelica memoria, gesto personale e concreto, si perverte in tic anonimo e irriflesso, si istituzionalizza e perde sapore. Ecco perché non mi è piaciuto quando ha raccomandato ai suoi di accontentarsi di un’auto piccola, cosa intelligente peraltro, pensando a “quanti bambini muoiono di fame”. Ma come, già non riesco a farmi carico di chi ho intorno e devo pure sentirmi in colpa per chi non ho mai visto e mai conoscerò? Sindrome di Lampedusa: rispondere sempre e di chiunque. Invece no. A meno che io non sia pazzo, posso essere responsabile soltanto di ciò per cui posso fare qualcosa davvero, concretamente, qui e oggi. Non è affatto la solidarietà che rischia di scomparire ma il farsi prossimo, la carità di evangelica memoria. Ci è rimasto il surrogato, ma non è la stessa cosa. C’è da dire però che Bergoglio su questo punto – malati, poveri, affamati – si sbatte parecchio. Sente l’urgenza del momento. E’ un Giona allegro, ben disposto, l’opposto del malmostoso profeta biblico che non ne voleva sapere di evangelizzare Ninive. Questo, che te lo dico a fare, è voglioso assai, non lo ferma nessuno. Ha una fretta dannata, sente un’urgenza epocale, un kairos. E quando lui stesso ha usato questo termine tecnico che piace tanto a noi teologi dilettanti, sull’ormai celebre volo di ritorno dalla Giornata mondiale della gioventù di Rio de Janeiro, il 28 luglio scorso, avrei voluto abbracciarlo. Perché era la conferma che aveva colto nel segno, che aveva capito che non c’era tempo da perdere, che il momento è tragico non perché fede e ragione non hanno ancora trovato la giusta sintesi (schermaglie buone per noi intellettuali) e nemmeno perché i valori non negoziabili sono usciti dall’agenda dei palazzi sacri e non (si è cominciato a parlare di valori quando è finita la morale), ma perché stiamo andando in frantumi sotto il peso di un sistema disumano che ci toglie la terra sotto i piedi. Come uscirne prima che sia troppo tardi? Ci vuole un pensiero credente all’altezza, cioè un pensiero profetico, critico verso il potere. Altrimenti meglio scomparire prima di ridurci del tutto a folclore, a riserva di energia per altri mondi, come diceva De Certeau. Certo, è un’ironia dello Spirito che la voce profetica sia quella del Papa, ovvero l’istituzione suprema. Perché così si innesca una tensione continua che può mandare in cortocircuito l’apparato, e qualche segnale in questo senso c’è già… Il problema è che, come scrive Paolo Prodi, la chiesa ha smarrito da un pezzo la vocazione profetica e ha preferito buttarsi sulla mistica, le visioni, le apparizioni. “Dopo il Concilio Vaticano II non abbiamo avuto, salvo alcune eccezioni, lo sviluppo  della profezia che pure sembrava implicito nelle grandi intuizioni di Papa Giovanni XXIII e nelle deliberazioni conciliari sulla chiesa e il mondo moderno”. Si è scelta un’altra strada, quella dell’utopia, la via orizzontale dei movimenti ecclesiali di base e della Teologia della liberazione che ben presto “si trasformò in ideologia della rivoluzione”. E adesso si danno pure la pena di riabilitarla, quando non conta più nulla: la solita operazione di recupero fuori tempo massimo di cui sono specialisti i Sacri palazzi. Ci vuole la tempra dei profeti per scuotere questo mondo che cancella gli ultimi, “le piaghe di Gesù” come ama dire il Papa recuperando una squisita espressione della pietà popolare. Questa non è sociologia, questa non è rinuncia al pensiero. “Prima gli ultimi” non è una correzione di rotta, è il Vangelo di sempre che richiede una nuova intelligenza della fede. E qui il logos, maiuscolo o minuscolo, c’entra eccome, perché siamo tutti greci, oltre che ebrei, e quindi la lezione di Ratzinger, l’ultimo dei platonici ma non l’ultimo degli agostiniani, è tuttora valida. E la verità nascosta di quella lezione l’abbiamo vista l’11 febbraio: un gesto semplice ed epocale che è stato archiviato in fretta, non solo dalla comunicazione ma dallo stesso apparato ecclesiastico; invece lì c’è davvero qualcosa di profetico, un giudizio sul potere non neutro ma vissuto in prima persona. Se il papato imboccasse sul serio questa strada potrebbe tornare a essere fattore di novità istituzionale, come fu agli albori dell’età moderna quando gli stati nazionali si formarono ispirandosi proprio allo stato pontificio. Certo, oggi le condizioni sono diversissime, le istituzioni sono tutte in profonda crisi e la partita si gioca su scala globale. Bergoglio stesso ne è consapevole, tant’è vero che guarda soprattutto all’Asia, e non da oggi. Quand’era giovane voleva partire missionario in Giappone: i gesuiti ce l’hanno nel Dna, lo sguardo a est, fin da quando dovettero trangugiare la sconfessione romana di Matteo Ricci e compagni. Secondo me la stoffa del global player, come si usa dire, ce l’ha. Ma forse questo ragionamento da “mondanità spirituale” non gli si addice. Poi, certo piace, alla gente che piace, e vabbé, ma in una patria senza padri (ha ragione il lacaniano Recalcati) e in un mondo povero di leader è comprensibile. Piace ma non è affatto compiacente, non strizza l’occhio al mondo. “Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?”, ha detto in quella famosa conferenza stampa ad alta quota. Tutti a esultare per la clamorosa apertura, finalmente un Papa umano e via banalizzando. Salvo trascurare quello che ha aggiunto subito dopo e cioè che “il problema non è avere questa tendenza, no, dobbiamo essere fratelli… Il problema è fare lobby di questa tendenza: lobby di avari, lobby di politici, lobby dei massoni, tante lobby…”. Il vero discrimine è questo, tra fraternità e confraternite; tra chi cerca il Signore, etero gay o trans che sia, e chi si trastulla col potere. Colui che giudica i cuori, in ogni caso, abita al piano di sopra. Bergoglio non ha bisogno di atteggiarsi a “omofilo” perché non è mai stato omofobo. E’ un uomo risolto, che sta bene nella sua pelle, è evidente. Ci sta tanto bene che si prende il lusso di dialogare con chi vuole, anche con i patriarchi dell’opinione pubblica. Eppure nel colloquio con Scalfari (confesso che l’ho invidiato: anch’io avrei tante cose da chiedergli) mi è parso più preoccupato di istruire i suoi che di vellicare l’ego del Fondatore; diciamo che quella è una tassa da pagare al sistema mediatico, è consapevole che il gioco non lo conduce lui. E poi oggigiorno basta essere un antidivo per diventare una star. Ma questi sono ragionamenti nostri, da addetti ai lavori. A lui in fondo preme scuotere la sua gente, la sua sposa che sì, è infedele, ma questo lo sapevamo dai tempi del profeta Osea. Obiezioni: telefona troppo, gigioneggia senza ritegno, è populista, peronista (nessuno sa bene cosa vuol dire ma funziona sempre con i latinoamericani). Che dite, con lui s’è persa l’aura del mistero, la sacralità della funzione? Benvenuti nel presente, l’ultimo Pastore Angelico ha lasciato questa valle di lacrime da un pezzo. Ma consolatevi, finché c’è un uomo sulla terra il sacro non scomparirà, si tratta piuttosto di captarne le tracce, come dei rabdomanti, nella città degli uomini. La messa in latino è un falso problema, se non per gli esteti. Per i credenti conta che la liturgia edifichi, in tutti i sensi, la comunità. In vita mia ho girato centinaia di chiese e sentito predicare migliaia di preti ma uno come don Sergio Colombo, parroco nel quartiere bergamasco di Redona morto pochi giorni fa, non l’ho più trovato: uomo del suo tempo, fervente sostenitore della svolta conciliare, celebrava e predicava da Dio, faceva pregare e cantare la sua gente con una finezza inconfondibile, senza bisogno di gregoriano (lasciamolo ai monaci) e di orpelli anacronistici (lasciamoli ai feticisti). Quanto al ridere e al fare casino, ce n’è già stato uno bollato come mangione e beone, amico di puttane e senzadio. Se il suo predecessore teorizzava il buonumore, Bergoglio lo incarna. Secondo me si sta pure trattenendo per senso dell’istituzione, altrimenti lo avremmo già incrociato sulla linea rossa del metrò a conversare con i viaggiatori. Come un buon parroco ha deciso di venirci incontro prima che sia troppo tardi, per lui e per noi. Molta gente ne è conquistata, altrettanta e forse di più è già stufa, ha cambiato canale. Per qualcuno è solo un’operazione di marketing ecclesiale, la sempiterna abilità dei preti di riciclarsi per conservare il potere. E i soldi. E le anime dei credenti. I quali, si sa, tutto fanno fuorché pensare con la propria testa. Gli addetti ai livori sono sempre all’opera, e pazienza. Ma per chi conserva ancora qualche briciolo di curiosità e benevolenza il consiglio è quello di aspettare. Il bello deve ancora venire, siamo solo all’inizio.

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Quei lager made in Italy

Un reportage tv andato in onda su Tv7 (Raiuno) svela indirettamente anche le ambiguità dell’attuale missione militar-umanitaria. La denuncia delle reali condizioni in cui versano i rifugiati somali detenuti in Libia per conto dell’Italia. Ad Agrigento cerimonia senza bare per le vittime del naufragio del 3 ottobre fra le polemiche. Il sindaco: «Questi funerali sono una farsa di Stato»
«Freedom… freedom freedom», il televisore rimbomba di grida quasi sincopate: sono persone giovani, alcune adolescenti, che urlano, cantano, ritmando dietro le sbarre di prigioni-container. È il reportage di Amedeo Ricucci sulla condizione reale dei migranti africani nella nuova Libia, andato in onda venerdì su Tv7. Un documento, eccezionale quanto inequivocabile, che illumina le responsabilità italiane.  Il giornalista Rai, già collaboratore del manifesto, ha raccontato la disperazione di tremila immigrati rinchiusi in un centro di detenzione a 50 km da Tripoli, controllati armi alla mano da miliziani del Jebel Nafusa «che sanno fare la guerra», tutti catturati mentre erano in procinto di lasciare il territorio libico per raggiungere l’Italia e l’Europa. In fuga dalla guerra e dalla miseria della Somalia. Sono loro stessi a dirlo. Ma ora vivono da molti, moltissimi mesi rinchiusi nelle gabbie dei «centri di accoglienza» libica, i campi di concentramento che l’Italia finanzia e organizza con le “autorità” libiche. E dal reportage emerge che in quella condizione ci sono più di 50mila persone e che altrettante sono state rispedite nei luoghi di provenienza. Mentre urlano da dietro le sbarre il bisogno di libertà, di una condizione migliore della fame, delle guerre. Per «il diritto di cambiare il mio destino» ripete ossessivamente un ragazzo recluso. Smistati come animali. Infatti sono stati raccolti prima nell’area dello zoo di Tripoli prima di finire nell'”accoglienza” dei containerlager. E vengono tenuti in galera per noi. Perché quei campi di concentramento altro non sono che il risultato diretto dei trattati voluti dall’Italia e firmati con la Libia, prima tra Gheddafi e Berlusconi (con approvazione bipartisan del parlamento italiano) e poi riattivati dopo l’ottobre 2012 con le nuove “autorità” dopo la caduta nel sangue del Colonnello libico. E che ora vengono ripristinati dal governo Letta-Alfano come risposta ai naufragi a mare dei barconi e alle stragi di Lampedusa e Malta. La denuncia del reportage televisivo sulla condizione reale dei migranti africani sequestrati in Libia, arriva negli stessi giorni in cui solerti funzionari del governo italiano trattano con il “governo” libico sui rimpatri, la sicurezza dei porti e il pattugliamento a mare. Mettiamo le virgolette alla parola governo, perché in Libia non esistono autorità, le istituzioni ufficiose centrali per “governare” usano milizie armate spesso contrapposte, come dimostrano la cattura recente del premier Zeidan, gli assalti e gli incendi dei ministeri, gli attentati alle ambasciate e l’uccisione, solo venerdì scorso, del capo della polizia. Sarebbe davvero interessante sapere con quale banda armata tratta il governo Letta-Alfano. Intanto l’Italia ha avviato, senza discuterne in parlamento, la «missione militare-umanitaria» per il soccorso a mare dei barconi di esseri umani in fuga e per il contrasto dell’immigrazione clandestina. Una commistione d’intenti che rischia di trasformarsi, in mare, in pericolosa ambiguità. Come definire altrimenti la doppiezza governativa? Con il cittadino Letta che si augura la fine della Bossi-Fini e il ministro Alfano che la difende e che insiste sulla perseguibilità del reato di clandestinità. Due le soluzioni, entrambi sulla pelle delle persone migranti. Male che vada, come purtroppo è prevedibile – al di là dell’umanità dei militari impegnati e delle storiche regole del mare – il contrasto umanitario che perseguita il reato di clandestinità pretende aggressività, volontà d’ordine, repressione, abbordaggio contro gli scafisti, recupero e accompagnamento al porto vicino più sicuro e anche a quello di provenienza. È l’ingaggio strabico che non è stato dichiarato da nessuno, ma che così dovrà essere applicato. Senza memoria di quello che fu nel marzo 1997 la tragedia annunciata della Kater I Rades, contrastata in mare dalla Sibilia della Marina militare che provocò 108 vittime, perché applicava il blocco navale militar-umanitario deciso davanti all’Albania dall’allora governo di centrosinistra. E invece, bene che vada, l’attuale missione militar-umanitaria, riporterà gli esseri umani che ci ostiniamo a considerare clandestini, in Libia (o a Malta perché tornino il Libia o a Lampedusa perché poi tornino in Libia), nei lager descritti nel reportage di Amedeo Ricucci. Una inchiesta, la sua, che dovrebbe essere vista dal parlamento italiano, che dovrebbe sentire l’autore nelle sue commissioni esteri e interni. Ci auguriamo che accada. Temiamo invece che non accadrà nulla. Solo un rumoroso silenzio militar-umanitario e tante lacrime e parole di circostanza ai funerali senza bare ad Agrigento delle 387 vittime del massacro di Lampedusa. Solo le ultime delle migliaia delle quali siamo responsabili.
 Tommaso Di Francesco – ‘il manifesto’
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La sedicenne di Modena che ci svela il nostro abisso

nel bicchiere

un bel commento di Concita De Gregorio sulla violenza di gruppo su una sedicenne da parte dei suoi amici  avvenuto a Modena in un contesto di festa di gente ‘bene’:

Verrà il giorno in cui questo tempo avariato scadrà e sarà buttato come uno yogurt andato a male e ricominceremo tutti, dalle case, dalle televisioni, dai giornali, dalle scuole elementari a dire alle bambine: quando ti chiedono di stare al loro gioco, digli di no. È un gioco sbagliato, non è il tuo gioco, non è nemmeno un gioco

di CONCITA DE GREGORIO

Ce l’avete, ce l’avete avuta una figlia di sedici anni? Che si veste e si trucca come la sua cantante preferita, che sta chiusa in camera ore e a tavola risponde a monosillabi, che quando la vedete uscire con il nero tutto attorno agli occhi pensate mamma mia com’è diventata, ma lo sapete, voi lo sapete che è solo una bambina mascherata da donna e vi si stringe il cuore a vederla uscire fintamente spavalda. Dove va, a fare cosa, con chi. Ve li ricordate, i vostri sedici anni? Quando Facebook non c’era e passavate pomeriggi al telefono fisso a dire no, sì, ma dai…, e poi quando vostro padre vi diceva ora basta, libera quel telefono vi chiudevate in camera, anche voi, a scrivere a penna su quaderno ché il computer non c’era, e se c’era era uno solo, enorme, sempre spento, inaccessibile. Ecco, fate lo sforzo di ricordare perché una ragazza di sedici anni è quella cosa lì, da sempre e per sempre anche se cambiano i modi e le mode, i vestiti e le canzoni, i modi di parlarsi perché con la chat si fa più in fretta ma è uguale, in fondo.
È come stare pomeriggi interi al telefono, a canzonare il tempo a prenderlo in contropiede e ingannarlo. Una ragazza di sedici anni è una persona a cui la vita deve ancora succedere e non lo sa, e ha un po’ paura e un po’ fretta, e molto desiderio che passi veloce il momento e che arrivi quello, alla meta dei diciotto, in cui “nessuno mi può obbligare, ora”.
Io non lo so, nessuno lo sa tranne lei e quelli che erano lì, cosa è successo alla ragazzina di Modena che  –  dicono gli investigatori, i parenti, ora anche gli adulti che rivestono incarichi pubblici – una sera d’estate a una festa di compagni di scuola è stata violentata da cinque, sei, non è sicuro quanti amici. Amici, attenzione. Nessun livido, nessun graffio, nessun segno di violenza che segnali la sopraffazione fisica in senso proprio. Erano compagni di scuola. Alcuni maggiorenni da poco, varcata l’agognata meta dei diciotto, altri, almeno uno, no. Aveva bevuto lei, avevano bevuto probabilmente tutti perché come sa chi si guarda intorno gli adolescenti, oggi, bevono. Superalcolici, moltissimo. Costano meno delle droghe, spesso si trovano nelle case già disponibili all’uso. Shortini, alla mescita. Pochi euro a bicchiere, nessuno chiede la carta d’identità. Bevono i quindicenni come i trentenni, uguale.
Io non lo so com’è andata, quella sera, in una casa della più rassicurante delle città emiliane, la Modena delle scuole modello degli imprenditori che non si arrendono al terremoto, delle donne imprenditrici che vendono figurine nel mondo, dei ristoranti celebrati oltreoceano. Uno faceva il palo, scrivono gli agenti di polizia, gli altri a turno nella stanza “avevano rapporti sessuali completi” con la ragazzina. Non c’è niente di più algido di una relazione, niente di meno adatto a descrivere il tumulto, il disordine, lo sgomento, la resa. Lei cosa pensava, come stava, cosa voleva, cosa diceva? Non si sa, nessuna relazione può raccontarlo.
Dicono, i verbali, che erano tutti ragazzi “incensurati e di buona famiglia”. Aggiungono, le cronache, che sono passati quasi due mesi dall’evento e che nessuno  –  nessuno  –  ha fatto un gesto o ha detto qualcosa, né a scuola né in famiglia, nelle molte famiglie coinvolte, che somigliasse alla presa d’atto di un reato, o quanto meno di una vergogna, di una colpa, di un dispiacere. Niente, silenzio. Il sindaco ieri ha detto che “inquieta che questi ragazzi non distinguano il bene dal male”. Inquieta, certo. Pone il problema della responsabilità. È loro, che geneticamente, naturalmente non sanno distinguere o è della generazione che li ha cresciuti, e non gli ha fornito i ferri essenziali per l’opera di elementare distinzione? È dei figli o dei padri, la colpa?
Anni fa, a Niscemi, Caltanissetta, un gruppo di minorenni massacrò di botte, strangolò con un cavo di antenna e gettò in una vasca di irrigazione una coetanea, Lorena Cultraro, 14 anni. Era incinta, rivelò l’autopsia. Uno degli assassini, quindicenne, chiese al giudice, dopo aver confessato l’omicidio: “Ora che le ho detto cosa è successo posso tornare a casa?”. A vedere la tv, a giocare alla play. Tornare a casa. Era il 2008, cinque anni fa. Si scrissero articoli sgomenti, intervennero psicologi di fama, dissero che certo in quelle zone del Paese, al Sud, è tutto più difficile. Zone d’ombra, povertà di mezzi e di sapere, l’adolescenza sempre un enigma. Ora, cinque anni dopo, siamo a Modena. Emilia culla di bandiera di democratica civiltà e di sapere. Certo questa ragazzina non è morta, per sua fortuna. Forse non ha nemmeno lottato per evitare quel barbaro rituale che chissà, magari era proprio quello che l’avrebbe fatta diventare grande, finalmente. Forse per qualche tempo ha pensato: è stato quello che doveva essere.
Però arriverà, deve arrivare, il momento il tempo e il luogo in cui qualcuno di molto molto autorevole senza essere per questo canzonato e dal coro irriso dica no, non è quello che deve, non è questo che devi accettare per essere accettata. Non devi fare silenzio. Verrà il giorno in cui questo tempo avariato scadrà e sarà buttato come uno yogurt andato a male e ricominceremo tutti, dalle case, dalle televisioni, dai giornali, dalle scuole elementari a dire alle bambine: quando ti chiedono di stare al loro gioco, digli di no. È un gioco sbagliato, non è il tuo gioco. Non è nemmeno un gioco.
Verrà il giorno in cui capiremo l’abisso in cui siamo precipitati pensando che fosse l’anticamera del privé del Billionaire, che fortuna essere ammessi all’harem, e sapremo di nuovo dire, come i nostri nonni ci dicevano: è una trappola, bambina. Quando ti chiedono di mostrargli le mutande non è vero che si alza l’auditel, come dice la canzone scema. Quando te lo chiedono vattene, ridigli in faccia e torna a casa.

 

     

 


 

 

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L’ecocidio? Un crimine. L’iniziativa dei cittadini europei

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La distruzione ambientale deve diventare un crimine per il quale le persone colpevoli devono essere ritenute responsabili. Per chiedere che l’ecocidio venga reso penalmente perseguibile in Europa, è stata lanciata dai cittadini europei la campagna “End Ecocide Europe”. L’obiettivo è quello di raggiungere un milione di firme.

La distruzione ambientale deve diventare un crimine per il quale le persone colpevoli devono essere ritenute responsabili. Questo crimine ha il nome di ecocidio, che sta ad indicare quei danni ambientali che stanno distruggendo il nostro pianeta e mettendo a rischio gli esseri umani, gli animali, gli ecosistemi.

Per far sì che l’ecocidio venga riconosciuto come crimine anche dalla normativa nazionale e comunitaria è stata lanciata la campagna “End Ecocide Europe”. Si tratta di un’iniziativa promossa dai cittadini europei per chiedere che venga reso penalmente perseguibile l’ecocidio in Europa, ovvero:

  • che sul territorio europeo sarà illegale commettere ecocidio;
  • che saranno illegali attività commesse da compagnie o cittadini europei anche al di fuori dell’Unione Europea;
  • che le compagnie non europee che commettono ecocidio non potranno vendere i loro prodotti nell’Unione Europea.

Attraverso questa iniziativa si invita dunque la Commissione Europea ad approvare una legislazione che proibisca, prevenga ed ostacoli l’ecocidio, ossia il danneggiamento estensivo, la distruzione o la perdita dell’ecosistema di un determinato territorio.

Potenziali casi di ecocidio possono essere ad esempio le sabbie bituminose di Alberta, la fratturazione idraulica (fracking), lo spianamento delle montagne o lo spopolamento degli alveari.

A sostegno di tali richieste servono un milione di firme. La Commissione Europea sarà a quel punto legalmente obbligata a considerare la proposta di legge di conversione dell’ecocidio in crimine.

È possibile firmare fino a gennaio 2014 sul sito www.endecocide.eu.

Da ilcambiamento.it

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lettera al ministro dell’interno francese

leonarda

a margine della discussione pubblica che il caso dell’espulsione della ragazza rom mentre era in gita scolastica, un ex deputato della sinistra ha pubblicato sull’ Humanité una lettera a M. Valls, ministro dell’interno

la lettera è stata messa on line, con qualche perplessità (a motivo di qualche espressione non proprio elegante) e al tempo stesso con convinzione, dal sito www.garriguesetsentiers.org:

Manuel (Valls), ricordati… di Jean-Claude Lefort

Il comitato di redazione di “Garrigues et Sentiers” ha deciso, dopo discussione, di mettere on line questo articolo, che esprime un giudizio che merita di essere preso in considerazione. Deplora solo che le ultime righe, per il tono eccessivo e l’intenzione ingiuriosa, rovinino la moderazione e il ritegno del resto del testo.

Manuel, hai dichiarato su BFMTV che per te la situazione era molto diversa da quella dei rom, in quanto la tua famiglia spagnola era venuta in Francia per fuggire dal franchismo. Sei stato naturalizzato francese nel 1982. Franco è morto nel 1975. Sette anni prima della tua naturalizzazione. Quando sei diventato francese, quindi, non c’era più la dittatura in Spagna. Secondo le tue parole, quindi, tu avevi “vocazione” a ritornare nel tuo paese di nascita, in Spagna. Non lo hai fatto e capisco perfettamente, così come capisco molto bene il tuo desiderio di diventare francese. Senza ombra di dubbio. Tu avevi “vocazione” a tornare a Barcellona, in Spagna, dove sei nato, per usare le tue parole che riguardavano unicamente i rom. Chi ti sta scrivendo è un francese di origine zingara da parte di padre. Mio padre, zingaro e francese, nel 1936 è andato in Spagna a combattere il franchismo, armi in pugno, nelle Brigate internazionali. Per la libertà del tuo paese di nascita, e quindi quella della tua famiglia. Ne è morto, Manuel. In seguito alle ferite inflitte dai franchisti sul fronte della Jarama, nel 1937. Non ti chiedo alcun ringraziamento, e neanche la minima compassione. La rifiuto in anticipo. Sono onorato in verità perché lui ha fatto quella scelta, anche se ha privato la mia famiglia della sua presenza, quando io avevo solo nove anni e mia sorella diciotto. Poi è venuta la guerra mondiale. E i campi nazisti si sono aperti per gli zingari. Tu lo sai. Ma un numero enorme di zingari, di gitani e di spagnoli si sono impegnati nella Resistenza sul suolo francese. Avrebbe potuto esserci anche tuo padre. L’età l’aveva, perché è nato nel 1923. Georges Séguy e altri sono entrati in resistenza a sedici anni. Non gli rimprovero assolutamente di non averlo fatto, evidentemente. Ma ti chiedo il rispetto assoluto per le donne e gli uomini che si sono impegnati nella Resistenza contro il franchismo e poi contro il nazismo e il fascismo. Contro coloro che avevano fatto Guernica. Eppure, seguendo il tuo pensiero, essi avevano “vocazione” a ritornare o a restare nel loro paese d’origine, “quegli stranieri, eppure nostri fratelli” (1)… Manuel, “si” sono accolte la Romania e la Bulgaria nell’Unione europea benché quei paesi non rispettassero, e continuino a non rispettare, uno dei principi fondamentali per diventare o essere membri dell’Unione europea: il rispetto delle minoranze nazionali. Essendo sensibile, per ragioni evidenti, a questo tema, all’epoca mi ero molto preoccupato. In quanto deputato, sono andato a Bruxelles, alla Commissione, per provare e dire che quei paesi non rispettavano quella clausola fondamentale. Mi hanno riso in faccia, figurati. E oggi, in quei paesi, la situazione dei rom si è ulteriormente aggravata. Non migliorata, dico proprio “aggravata”. E hanno “vocazione” a restare nei loro paesi o a tornarvi? Si tratta allora, per te, di una specie umana particolare che potrebbe sopportare le vessazioni, le discriminazioni e le umiliazioni di ogni tipo? Quei paesi d’origine non sono dittature, certo. Ma non sono neppure delle vere democrazie però. Allora tu, lo spagnolo diventato francese, non capisci? Non capisci cosa significhi fuggire dal proprio paese? A meno che tu abbia delle concezioni molto speciali, per le quali ciò che vale per un rumeno non vale per uno spagnolo. Eppure sai che la parola “razza” scomparirà dalle nostre leggi. E giustamente, perché non ci sono razze, c’è una sola specie umana. E i rom ne fanno parte. La fermezza deve essere esercitata dove vi sono delle responsabilità. Non su poveri individui che non ne possono più. Saper accogliere e saper far rispettare le nostre leggi non sono due concetti antagonisti. Quando si è di sinistra, non si ha il manganello al posto del cuore. È un francese di
origine zingara che ti scrive, che scrive a te, solo recentemente diventato francese. È un figlio di militanti della “Brigata internazionale” che si rivolge a te. Ricorda: “Chi non ha memoria, non ha futuro”. Per il momento, Manuel, ho la nausea. Le tue dichiarazioni mi fanno vomitare, e anche peggio. I nostri padri avrebbero fatto tutto questo per niente, o per “questo”? Sono morti per la Francia, Manuel. Perché la Francia vivesse. Compresi “quegli stranieri, eppure nostri fratelli”.
*Lettera a Manuel Valls (ministro dell’interno francese) di Jean-Claude Lefort, ex deputato comunista, pubblicata su L’Humanité del 1° ottobre 2013.
(1) “ces étrangers, et nos frères pourtant”: citazione di una poesia di Louis Aragon (Strophes pour se souvenir), scritta per rendere omaggio ai resistenti “stranieri” arrestati dai tedeschi e fucilati il 21 febbraio 1944.

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verso la giornata missionaria mondiale

bel giglio

Missione, dono della fede non dispendio di energie

Nel suo primo messaggio in occasione della Giornata missionaria mondiale, papa Francesco ha di nuovo fatto emergere il carattere profondamente pastorale del suo pontificato: si nota, infatti, che il “taglio” del messaggio è connotato da un’operatività ma anche da una riflessione che scaturiscono da un’esperienza di vivo e diretto contatto con le comunità cri- stiane locali, in particolare le diocesi e le par- rocchie, che rimangono comunque e sempre «il modello ecclesiale permanente e paradig- matico, lungo i secoli» per citare un’afferma- zione di papa Benedetto XVI. Allora, che significa per la Chiesa locale es- sere una Chiesa missionaria? Prendiamo spunto esattamente dal messaggio che papa Francesco ha reso pubblico la domenica di Pentecoste.
La fede, dono da donare. Richiamandosi all’anno della fede che si avvia alla conclu- sione, papa Francesco ci ricorda che «la fede è dono prezioso di Dio». E si tratta di «un dono che non si può tenere solo per se stessi, ma che va condiviso», pena il divenire «cristiani isolati, sterili e ammalati». Un’affermazione simile ha notevoli conse- guenze a livello pastorale. Il papa le ribadisce poco più avanti, quando afferma: «La solidità della nostra fede, a livello personale e comu- nitario, si misura anche dalla capacità di co- municarla ad altri… uscendo dal proprio re- cinto per portarla anche nelle periferie». Ciò significa che possiamo ritenerci cristiani pra- ticanti perché partecipiamo ogni domenica al- l’eucaristia e magari alimentiamo la nostra pratica religiosa con un attivo impegno all’in- terno delle varie attività di una parrocchia o di una comunità. Ma questo non basta per dirsi cristiani sani e portatori di frutto. Se un cristiano non apre la propria esperienza in- tima e profonda del Cristo a una dimensione di testimonianza, di annuncio, di missione, è un cristiano “malato”. E di cristiani “malati” le nostre chiese sono piene. Malati di che? Malati di intimismo, ma- lati di sterili sentimentalismi, malati di no- stalgia per una fede “di massa” che non c’è più, malati di sagrestie luccicanti e di liturgie ro- boanti; malati e asfissiati da una fede che non respira bene perché lascia chiuse le porte e le finestre all’incontro con l’altro, soprattutto con l’altro che fa fatica a credere e che spesso ci mette in discussione. Se non ci apriamo alla dimensione dell’an- nuncio, il cristianesimo malato ci contagerà e ci ucciderà molto più velocemente di qualsiasi persecuzione esterna. Chiaramente, questo comporta e richiede una profonda conver- sione pastorale, a partire anche dalle strutture che la sostengono. Sembra di sentire riecheggiare, in questo messaggio così come in molte altre sue affer- mazioni da quando Bergoglio è stato eletto ve- scovo di Roma, le parole e le tesi presenti nel documento finale della 5ª Conferenza del- l’episcopato latinoamericano di Aparecida (2007), che lo ha visto protagonista, e che parla esplicitamente di «conversione pasto- rale» come di uno stile credente che «esige che si passi da una pastorale di sola conservazione ad una pastorale decisamente missionaria. Solo così sarà possibile che l’unico pro- gramma del vangelo continui a entrare nella storia di ogni comunità ecclesiale con un nuovo ardore missionario, facendo sì che la Chiesa si manifesti come una madre che va in- contro, una casa accogliente, una scuola per- manente di comunione missionaria» (cf. DA 370).
La missione paradigma della vita cri- stiana e della pastorale. «La missionarietà – continua Francesco nel messaggio – non è un aspetto secondario della vita cristiana, ma un aspetto essenziale». E ancora: «La missio- narietà non è solamente una dimensione pro- grammatica nella vita cristiana, ma anche una dimensione paradigmatica che riguarda tutti gli aspetti della vita cristiana». Rischiando di sentirci accusati di eccessivo fanatismo per la missione, quasi dimenticando che prima di guardare ai problemi che ci sono “nel mondo” occorre guardare alla realtà “all’interno” delle nostre comunità (l’annosa questione della di- stinzione tra «missione ad extra» e «missione ad intra»), noi “addetti ai lavori” abbiamo spesso sottolineato che la sensibilizzazione missionaria all’interno di una comunità par- rocchiale o diocesana non è “una delle tante attività da fare”, ma uno stile, un modo di es- sere, una modalità di testimonianza cristiana che pervade completamente la vita di una co- munità. Come ci ricorda il papa, la dimen- sione missionaria all’interno di una comunità si rende concreta nella capacità di «portare con coraggio in ogni realtà il vangelo di Cri- sto, che è annuncio di speranza, di riconcilia- zione, di comunione, di vicinanza di Dio, della sua misericordia…, di amore di Dio che è ca- pace di vincere le tenebre del male e di gui- darci sulla via del bene». Allora, missione è soprattutto un modo di essere nella comunità, non una cosa in più da fare rispetto alle altre. Stabilire delle priorità nella prassi pastorale di ogni singola Chiesa locale ha certamente il suo significato e la sua importanza: non possiamo, tuttavia, permet- terci di ritenere che la dimensione missionaria possa essere considerata un affare per pochi, un’attività per tecnici, una specializzazione pastorale da affidare a chi ha maggior sensi- bilità verso temi come la mondialità, la soli- darietà, la cooperazione internazionale. Ri- schieremmo, nella migliore delle ipotesi, di delegare la missione a un gruppo di fedeli di élite; ma, ancor peggio, la vedremmo come un disturbo all’ordinarietà della prassi pastorale nelle nostre parrocchie; o, addirittura, la ren- deremmo un elemento snaturante dell’iden- tità della Chiesa, ridotta così – come disse il papa ai cardinali all’inizio del suo pontificato – alla stregua di una «ong pietosa» che fa delbene ma che non confessa né annuncia Cri- sto.
Inviare in missione non è una perdita, ma un guadagno. Il messaggio di Francesco, prima di concludere con un ricordo partico- lare per tutti i missionari e le missionarie sparsi in ogni parte del mondo e per i cristiani che vivono situazioni di particolare dramma- ticità e persecuzione a causa della loro fede, ci ricorda un altro aspetto importante, che as- sume sempre di più le caratteristiche di un fe- nomeno di attualità. Ci parla, infatti, del ge- neroso impegno delle giovani Chiese che «in- viano missionari alle Chiese che si trovano in difficoltà, non raramente di antica cristia- nità». Oltre a rilevare che si tratta di un feno- meno molto attuale e sentito nelle Chiese di antica tradizione (solamente in Italia con- tiamo almeno 3.000 tra sacerdoti, religiosi e religiose non italiani presenti nelle nostre co- munità), il papa ci ricorda che questo non de- v’esser visto come una perdita o una sconfitta, né per le Chiese di antica tradizione (in quanto incapaci di avere nuove vocazioni mis- sionarie) né per le giovani Chiese (che, la- sciando partire molti dei loro membri, po- trebbero sentirsi “svuotate” di nuove energie). Invita infatti le Chiese locali, soprattutto nella persona dei vescovi, a «sostenere con lungi- miranza e attento discernimento, la chiamata missionaria ad gentes, sapendo che «donare missionari e missionarie non è mai una per- dita ma un guadagno». E questa dev’essere un’attenzione «presente anche tra le Chiese che fanno parte di una stessa Conferenza epi- scopale o di una Regione», rilanciando così il concetto di missio inter gentes. Ciò significa che non possiamo accampare scuse: non è possibile rinunciare a una pro- fonda e seria pastorale vocazionale missiona- ria solo perché preoccupati di mantenere un numero adeguato di sacerdoti e religiose per le nostre comunità cristiane. Una pastorale di mantenimento non porterà mai frutto, perché induce una comunità a continuare a guardare a se stessa e ai suoi problemi, affogandovi dentro in quanto incapace di offrire una pro- spettiva nuova grazie ad un’ottica diversa e più obiettiva. Aprirsi alla missione ad gentes porta le Chiese di antica cristianità a ritrovare «l’entusiasmo e la gioia di condividere la fede in uno scambio che è arricchimento reci- proco». Insomma, lasciar partire missionari e mis- sionarie dalle nostre comunità non significa perdere “forza lavoro” o avere meno “operai nella messe” di casa nostra: significa piuttosto sapere che una fede donata è una fede raffor- zata, mentre una fede conservata – sia pure con tutti i buoni propositi e le migliori inten- zioni – rischia di ammalarsi e di morire soffocata.
don Alberto Brignoli Ufficio nazionale Cei per la cooperazione missionaria tra le Chiese

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‘depaganizzazione’ del papato

Boff
una bella riflessione, questa, di L. Boff che sottolinea che la configurazione che il papato ha assunto storicamente  ha avuto come riferimenti e ispirazione meno il vangelo che contingenze storiche, soprattutto impostazioni imperiali e assolutistiche, del tutto dimentiche del “tra voi non sia così!”
urgentissima quindi una purificazione di questa immagine dai connotati, per tanti aspetti, paganeggianti!
 Papa Francesco e la depaganizzazione del papato
Le innovazioni nelle abitudini e nei discorsi di Papa Francesco hanno aperto una crisi acuta nei gruppi conservatori che seguivano rigorosamente le linee guida dei due Papi precedenti. Per loro è stato particolarmente intollerabile che il Papa avesse ricevuto in udienza privata uno dei promotori della “condannata” Teologia della Liberazione, il peruviano Gustavo Gutierrez. Sono storditi dalla sincerità del Papa, che riconosce gli errori nella Chiesa e allo stesso tempo, denuncia l’arrivismo di molti prelati, qualificando di “lebbra” lo spirito cortigiano ed adulatore di molti al potere, i cosiddetti “vaticanocentrici”.
Quello che veramente li ha scioccati è l’inversione che fa, mettendo al primo posto l’amore, la misericordia, la tenerezza, il dialogo, assieme alla modernità e alla tolleranza con le persone, anche con quelle divorziate ed omosessuali, e solo dopo le dottrine e discipline ecclesiastiche.
Si sentono già le voci più radicali che, con riferimento a Papa Francesco, chiedono per “il bene della Chiesa” (la loro, ovviamente) preghiere di questo tipo: “Signore, illuminalo o eliminalo”. La rimozione di papi scomodi non è una rarità nella lunga storia del papato. C’è stata un’epoca compresa tra 900 e 1000, quella chiamata “era pornocrática” del papato, in cui quasi tutti i papi sono stati avvelenati o uccisi.
Le critiche più frequenti che circolano nelle reti sociali di questi gruppi, storicamente superati e arretrati, accusano il papa corrente di dissacrare la figura del papato, secolarizzandola e rendendola banale. In realtà, essi ignorano la storia e sono ostaggi di una tradizione secolare che ha poco a che fare con il Gesù storico e con lo stile di vita degli Apostoli, ma ha molto a che fare con il lento paganesimo e con la mondanità della Chiesa, col seguire lo stile degli imperatori romani pagani e dei principi rinascimentali.
Le porte a questo processo sono state aperte nell’epoca di Costantino (274-337), che riconobbe il Cristianesimo, e da Teodosio (379-395), che lo impose come l’unica religione dell’Impero. Con il declino dell’Impero Romano, si sono create le condizioni perché i vescovi, in particolare quello di Roma, assumessero le funzioni di ordine e controllo. Questo è accaduto chiaramente con il Papa Leone I, il Grande (440-461), che fu proclamato prefetto di Roma per affrontare l’invasione degli Unni. Egli fu il primo anche ad usare il nome del Papa, una volta riservato solo agli imperatori. Ha acquisito maggiore forza con il Papa Gregorio Magno (540-604), proclamato anche lui prefetto di Roma, culminando poi con Gregorio VII (1021-1085) che si arrogò il potere assoluto religioso e laico: forse la più grande rivoluzione nel campo della ecclesiologia.
Le attuali abitudini imperiali, principesche e cortigiane di tutta la gerarchia, dei cardinali e dei papi si devono riferire soprattutto a papa Silvestro (334-335). Nella sua epoca era stata creata una falsificazione, la “Donazione di Costantino”, con l’obiettivo di rinforzare il potere papale. Secondo questa falsificazione, l’imperatore Costantino avrebbe donato al Papa la città di Roma e la parte occidentale dell’Impero. Con questa “donazione”, dimostrata come falsa dal Cardinale Nicola Cusano (1400-1460), erano inclusi l’uso delle insegne e dell’abbigliamento imperiali (porpura), il titolo di Papa, il pastorale d’oro, la mozetta sulle spalle adornata di ermellino e orlata di seta, la formazione della corte e la residenza nei palazzi.
Questa è l’origine delle attuali abitudini principesche e cortigiane della Curia Romana, della gerarchia ecclesiastica e dei cardinali, in particolare del Papa. Prende inspirazione dello stile degli imperatori romani pagani e dalla sontuosità dei principi rinascimentali. Quindi, è stato un processo di paganesimo e di mondanità della Chiesa come istituzione gerarchica.
Coloro che vogliono tornare alla tradizione rituale che circonda la figura del Papa non sono nemmeno consapevoli di questo processo storicamente chiuso e condizionato. Essi insistono su qualcosa che non passa attraverso il setaccio dei valori evangelici e per la pratica di Gesù.
Che cosa sta facendo il Papa Francesco? Sta restituendo al papato e all’intera gerarchia il suo vero stile, legato alla Tradizione di Gesù e degli Apostoli. In realtà, sta ritornando alla tradizione più antica, e realizzando una depaganizzazione del papato nello spirito del Vangelo, vissuto emblematicamente dal suo ispiratore San Francesco d’Assisi .
L’ autentica tradizione è dalla parte di papa Francesco. I tradizionalisti sono solo tradizionalisti e non tradizionali. Essi sono più vicini al palazzo di Erode e di Cesare Augusto che alla grotta di Betlemme e all’artigiano di Nazareth. Contro di loro c’è la pratica di Gesù e le sue parole sullo spogliamento, la semplicità, l’umiltà e sul potere come servizio e non come fanno i principi pagani e i grandi che soggiogano e dominano: “Ma tra di voi non deve esser così; anzi, il più grande fra di voi sia come il più piccolo, e chi governa come colui che serve” (Lc 22,26). Papa Francesco parla a partire da questa originaria e più antica Tradizione, quella di Gesù e degli Apostoli. Perciò destabilizza i conservatori che sono rimasti a corto di argomenti.
Leonardo Boff è autore di Chiesa: carisma e potere, Record, Rio
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Ratzinger “inedito”, il racconto del segretario del Papa

Ratzinger "inedito", il racconto del segretario del Papa
Il papa emerito Joseph Ratzinger 

Monsignor Xuereb, rimasto con Bergoglio, ha tratteggiato un ritratto per certi versi “privato” di Benedetto XVI. Dalla “scelta difficile ed eroica” delle dimissioni all’amore per gli animali e la natura, dalla “sensibilità rara se non unica” alla capacità di mettere a proprio agio l’interlocutore

di ORAZIO LA ROCCA

“Una scelta difficile ed eroica, ma presa con grande serenità”. E’ la “scelta” di lasciare il papato fatta da Benedetto XVI il 28 febbraio scorso, per la prima volta raccontata da monsignor Alfred Xuereb, attuale segretario di papa Francesco. Invitato a Pordenone a presentare il libro Per una ecologia dell’uomo sui discorsi di Ratzinger, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana, monsignor Xuereb, maltese, è stato un testimone privilegiato delle storiche dimissioni di Benedetto XVI seguite dall’avvento di Bergoglio, essendo stato uno dei segretari di Ratzinger accanto al segretario “titolare”, il vescovo tedesco George Gaenswaen. Nel corso della conferenza di Pordenone e, successivamente, in una intervista alla Radio Vaticana, il fido collaboratore di papa Francesco ha raccontato episodi ed aneddoti della sua esperienza al servizio di Benedetto XVI presentandolo in una luce nuove ed inedita, poco conosciuta al grande pubblico. “L’ho voluto fare – ha specificato all’emittente pontificia nell’intervista esclusiva concessa a Luca Collodi – perché soffro troppo quando leggo giudizi errati e superficiali sulla  figura e l’opera di Joseph Ratzinger”.   Le dimissioni. Sull’abbandono del pontificato, monsignor Xueber si è detto “convinto che la scelta tanto difficile quanto eroica di Benedetto XVI di rinunciare al ministero petrino, non poteva non essere condivisa col fratello Georg con il quale c’è sempre stata da parte di papa Benedetto una splendida, singolare intesa”. “Con raffinata delicatezza mi informò, qualche tempo prima, della sua decisione e per confortarmi mi ha ripetuto per ben due volte: lei andrà col papa nuovo. E per questo lo ringraziai di cuore dicendogli che gli sarei stato grato per sempre”. Le visite di George Ratzinger al fratello papa per Xueber erano “un dolce spettacolo di un amore fraterno molto speciale. Benedetto lo prendeva sotto braccio, lo accompagnava, lo aspettava volentieri al pianoforte, gli spiegava con pazienza il significato di alcuni vocaboli italiani che non capiva”.
Continuità con i Papi precedenti. Nell’intervista, il segretario sostiene anche che tra gli ultimi papi, compresi Francesco e Benedetto XVI, c’è profonda continuità sia nei confronti della dottrina che in materia di difesa della natura ed amore verso gli animali. ”Voglio ricordare – ha spiegato – la sensibilità verso la natura che aveva Giovanni XXIII, che tra poco grazie a Dio verrà canonizzato. Lui, che era figlio di contadini, come non poteva avere sensibilità nei confronti del Creato?”. Sensibilità mostrata da Giovanni XXIII ”con i giardinieri” con i quali si incontrava spesso e volentieri durante le passeggiate. Come pure da Paolo VI e da Giovanni Paolo II, del quale ha ricordato ”le uscite a respirare l’aria delle montagne”. Quella dei Papi, per Xueber ”è una storia, perché, appunto, fatta da Pontificati diversi ma connessi l’uno con l’altro. Altrimenti sarebbe solo un libro con vari episodi chiusi. Invece, sono dei capitoli”.
L’amore per gli animali. ”Papa Benedetto non ha amore solo per i gatti, ma per tutti gli animali”, ha rivelato mosnignor Xuerebe. ”La prima immagine che mi viene in mente – ha confidato – è che Papa Benedetto si scioglieva davanti agli animali, alla natura, gli piaceva stare fuori, quando uscivamo, per fare una scampagnata, anche quando veniva suo fratello dalla Germania. Ricordando, forse, i momenti in cui, in Germania, da ragazzo, andavano a fare gite nella natura”. ”Nei confronti degli uccellini – ha aggiunto il prelato maltese – posso raccontare un aneddoto. Qualche anno fa, in inverno, durante una passeggiata nei Giardini vaticani recitando il Rosario, notavamo spesso un merlo bianco. Alla fine del rosario mi chiedeva se si era fatto vedere, suggerendomi poi di andare a fare qualche foto del merlo. Con l’aiuto dei nostri fotografi, che hanno macchine migliori della mia, sono andato ed ho scattato alcune foto. Quando le ha viste, l’espressione era di meraviglia. Mi disse che erano foto da pubblicare. E qualche giorno dopo, le foto sono finite sull’Osservatore Romano”. ”Ancora: alla fine di un’udienza generale – ha raccontato don Alfred – alcuni, dalle parrocchie, portano statue raffiguranti Santi. Ricordo che dissi al Papa che un Santo da lui benedetto in una circostanza, aveva il cane accanto a sé. Mi rispose: ‘Alfred, non solo questi Santi sono simpatici, ma diventano più umani’. Una battuta che rivela la sua attenzione per la presenza del mondo animale accanto a questi uomini che diventano così Santi più vicini alla nostra vita quotidiana, potendo rivolgerci loro in confidenza. E’ molto bello questo”.
La sofferenza per gli errori su Ratzinger. “Devo dire che – ha detto il segretario papale – sento dentro di me, da un certo tempo, un impulso: quello di dare un contributo, piccolo quanto sia, a rivelare la vera identità di papa Benedetto. Soffro, quando sento commenti che sono lontani dal rappresentare il vero papa Benedetto. Io, che ho avuto la fortuna, la grazia, di conoscerlo da vicino vorrei raccontare la persona che ho conosciuto e se oggi parlo di lui, ricordando alcuni episodi della mia esperienza, lo faccio con la speranza di farlo conoscere meglio”.
Amore filiale. “Lo sto amando come può amarlo un figlio”, si è quindi lasciato andare monsignor Xueber. “Quand’ero con Papa Benedetto e qualcuno mi rivolgeva una domanda su di lui, ripetevo sempre: finché sono segretario dell’attuale pontefice, io non rispondo a nessuna domanda su di lui. Lo ripeto anche qui: finché sono con papa Francesco non dirò mai niente su di lui. Non conoscevo Benedetto e lo ho amato come un padre, più di un padre. Non conoscevo papa Francesco e lo sto amando come un figlio”. “Avendo avuto il privilegio di vivere per cinque anni e mezzo, giorno dopo giorno nel palazzo apostolico con papa Benedetto sento quasi un impulso dentro di me per correggere un po l’identità che è stata trasmessa di Benedetto XVI, in particolare negli anni del suo pontificato”. E ancora: “Posso dire che è una persona straordinaria da cui sono rimasto fortemente affascinato. Da un lato è un uomo di elevatissima cultura, un gigante per profondità e lucidità intellettuale, dall’altro presenta una disarmante semplicità e una sensibilità rara se non
unica. Sa costruire dei rapporti senza mai mettere a disagio il suo interlocutore, anzi l’aiuta a farsi sentire accolto ed apprezzato. E’ un uomo che ha l’arte di relazionarsi con gli altri stabilendo un approccio di naturalezza e di franchezza”. Entrando, infine, nel merito del volume che tratteggia il rapporto di Benedetto con il Creato, monsignor Xuereb ha sottolineato come la persona umana sia per Ratzinger “il coronamento dell’intera creazione perché immagine

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