il credente e il non credente e la loro reciproca fatica di ‘cercare’

 

 

L’ateismo del credente

cammino

di Manuel Versari

Credente è colui che si protende verso la verità della fede, è colui che cerca di realizzarla nel pensiero, è colui che sonda instancabilmente l’invisibile e l’ignoto, conscio che questa verità non è di facile accesso. Egli non è quindi portatore di un pensiero totalizzante e rigido, ma vive una situazione di reale inquietudine, come quella data da un pensiero notturno che non ti lascia andare a riposare. Carico di attesa, egli assapora da una parte il conforto di una luce rassicurante che è venuta per rischiarare le tenebre e dall’altra attende di scoprire ciò che questa luce gli mostrerà in futuro.

A sua volta il non credente, tormentato dal conflitto tra i propri valori e quelli della realtà circostante, vive una condizione molto simile di ricerca e attesa. La non credenza, quella vera, che rifiuta la negligenza nei confronti di se stessi, non è una semplice scelta di un rifiuto, che sminuisca l’uomo rendendolo fine a sé stesso ma sofferenza, passione di chi paga di persona l’amaro prezzo di non credere. Quanta gente, pure formalmente fuori dal nostro credo, assume la solidarietà, la giustizia, la coerenza come valori supremi della propria vita morale?! E’ nel rispetto di questa dignità che il Credente è chiamato a interrogarsi sulla sua fede, a entrarvi in contatto senza timore per superare quegli abissi propri del non credente che è in lui e di conseguenza a renderla in tal modo più concreta. Questo contrasto di fede e non credenza è profondamente radicato nella condizione umana: nel più profondo delle sue domande, di fronte all’ineludibile paura del dolore e della morte, l’uomo non si presenta come compiuto e finito, ma come un cercatore della patria lontana, che si lascia permanentemente interrogare, provocare e incantare dall’orizzonte ultimo. L’uomo che si ferma, sentendosi padrone della verità non è più custode della sua verità ma schiavo delle sue paure. Spesso mi pongo una domanda: “Chiesa, che cosa ti manca perché il tuo sforzo di «comunicazione» produca comunione, all’interno e all’esterno di Te? Non si può credere che tu non abbia più niente da dire… . Il Signore continua a porti nel cuore l’inquietudine della sua Verità”.

Egli non ha mai smesso di parlarci. Forse troppo spesso pretendiamo di aver capito il suo messaggio. Chi sa vivere la dialettica con l’altro, seppur conscio della gioia della luce di cui è testimone, vive coraggiosamente il confronto con il timore proprio e altrui che il cielo sia vuoto e accetta di farsi provocare fino in fondo mettendo a rischio le proprie convinzioni. Secondo me, dovremmo imparare a “cresimare” il mondo! Amarlo e renderlo partecipe di un’esperienza straordinaria. E adoperiamoci perché la sua cronaca di ingiustizia diventi storia di liberazione. Ricordiamo le parole di don Tonino Bello: “…è anche vero che i nostri gemiti si esprimono nelle lacrime dei maomettani e nelle verità dei buddisti, negli amori degli indù, nel sorriso degli idolatri, nelle parole buone dei pagani e nella rettitudine degli atei”. Dio si fida dei nostri passi!! Rendiamo noi stessi il Cammino! Diventiamo le mani che scrivono il futuro con la speranza, diventiamo la voce che consola i cuori affranti, le braccia che accolgono e che non voltano le spalle a chi non ci capisce. Mi sono sempre chiesto da credente: “Sarà mai possibile poter condividere la Pasqua con le persone che non credono?”. E la risposta che ho trovato è una mini-lettera che voglio condividere: “Amico che credi e fatichi a credere, amico che hai smarrito il tuo Dio da qualche parte, amico che vuoi credere ed avere speranza e non ci riesci, amico che sei nella gioia ma temi il dolore, amico/a mio/a…per una volta facciamo che non sia la diversità a dividere il nostro legame, non sia il dolore a farci smarrire, non sia la diversa religione a farci distanti, ma sia la gioia che creiamo assieme a legarci, a renderci forti e a farci comprendere che le sofferenze e i tempi bui passano sempre lasciandoci preziosi insegnamenti! Qualsiasi siano i tormenti o le attese del cuore tuo e di chi vive accanto a te, questa è la Pasqua: quella che attendi, quella che certamente vivrai, quella che condividerò con te”. Ho scoperto che è davvero possibile condividere la Pasqua anche con gli amici non credenti, gli amici in cammino e quelli che il cammino lo devono ancora iniziare. Scegliamo la speranza. Se non dimenticheremo la nostra umanità e la nostra ricerca, non separeremo Cristo dal suo popolo e sosterremo la Croce e la Vita!

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donne cardinali nella chiesa di papa Francesco?

 

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mai dire mai’ si dice in genere della politica, in campo religioso si dice che ‘niente è impossibile a Dio’ … e a papa Francesco? ci sarà mai posto nella sua chiesa a donne-cardinali? teologi cattolici europei e statunitensi coltivano questa speranza e ci provano a smuovere le acque con un appello a papa Francesco:

Petizione: donne cardinali

Su iniziativa della teologa Helen Schüngel-Straumann, teologhe e teologi cattolici dell’Europa e degli USA hanno sottoscritto un appello in cui papa Francesco viene pregato di far partecipare attivamente le donne alle decisioni fondamentali della Chiesa. Un segno in questa direzione potrebbe essere la nomina di donne al cardinalato.

Testo della petizione:

L’attenzione di papa Francesco per i poveri e gli oppressi risveglia, oltre ad una gioia straordinaria, anche aspettative. La stessa cosa vale per la sua dichiarazione che le donne dovrebbero svolgere nella Chiesa cattolica romana un ruolo molto più rilevante e dovrebbero poter partecipare all’assunzione di decisioni. Più della metà di tutti i membri della Chiesa sono donne. Ma tale maggioranza viene trattata come una minoranza. E al contempo ci sono tra loro molte donne competenti e altamente qualificate: religiose, teologhe, donne in professioni di responsabilità con forte impegno a favore della Chiesa. Lavorano come operatrici di cura d’anime in ambito pastorale e caritativo, alla base, nelle scuole, nella politica, in associazioni ecclesiali – spesso a titolo onorario. Sia nella teoria che nella pratica, si impegnano per il Vangelo. Tuttavia non vengono fatte partecipare all’assunzione di decisioni importanti, cosicché nella Chiesa esiste una situazione di forte disuguaglianza ed ingiustizia. Le donne però non vogliono più essere oggetti, ma soggetti (Catharina Halkes), e “senza le donne non si fa alcuna Chiesa”. Uguaglianza e giustizia sono le richieste centrali dei profeti biblici. Ripetutamente si chiede di avere particolare attenzione per la triade “poveri, vedove e orfani”. Anche Gesù si pone a livello di questa grande tradizione profetica e ha chiamata delle donne come discepole nel suo “movimento” per il Regno di Dio. Per amore dell’annuncio gesuano della giustizia, facciamo la proposta di nominare cardinali un adeguato numero di donne.

Né nella bibbia, né nella dogmatica, né nella tradizione ecclesiale alcun vi è alcun argomento contrario che potrebbe impedire al papa di attuare tale provvedimento in tempi molto brevi. È libero di dispensare dall’ordinazione, prevista nel diritto canonico, come è avvenuto più volte in passato. Fino al XIX secolo è accaduto che dei laici fossero nominati cardinali dal papa.
Come responsabile per l’unità e la direzione dell’intera Chiesa, potrebbe subito intraprendere i primi passi affinché la “metà più estesa” dei membri della Chiesa potesse partecipare attivamente all’assunzione di importanti decisioni e alla elezione del prossimo papa. Sarebbe una decisione molto saggia e diplomatica, se il papa mostrasse, attuando l’equiparazione delle donne in ambito ecclesiale, che la Chiesa cattolica non è così misogina come spesso viene descritta.
Alle donne è stato ripetutamente consigliato di sfruttare gli spazi di libertà d’azione esistenti. La nomina a cardinali sarebbe un esempio straordinario di tale comportamento. In questo senso, il nostro obiettivo non è una ulteriore clericalizzazione della Chiesa, ma una partecipazione attiva delle donne alle decisione centrali.
Non di adeguamento ad un sospetto “spirito del tempo” si tratta, ma di ascolto di quei “segni dei tempi” (Giovanni XXIII), che dopo più di cinquant’anni ancora non hanno sufficiente spazio nella Chiesa cattolica. Se i responsabili della Chiesa non dovessero superare il patriarcalismo in teoria e in pratica e non permettessero alle donne di prendere la parola in organismi decisionali, la Chiesa cattolica continuerebbe a perdere donne competenti ed impegnate.

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occorre cambiare politica migratoria

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la tristissima attualità impone, in Italia, ma non solo, una profonda riflessione su una radicale diversa impostazione della politica migratoria che superi il taglio negativo e difensivo nei loro confronti per una vera valorizzazione delle opportunità che le emigrazioni offrono: un bell’articolo dell’antropologo M. Agier su ‘le Monde’ ci aiuta in questo senso

Per una politica migratoria diversa
di Michel Agier
in “Le Monde” del 9 ottobre 2013

Commuoversi, certo. Più di 210 morti e circa 150 dispersi, è, per ora, il bilancio del naufragio in Mediterraneo di una imbarcazione su cui avevano osato salire dei migranti, somali ed eritrei in massima parte. Il tempo dell’emozione è ampiamente dovuto a coloro che sono già morti nel Mediterraneo in questi ultimi anni, così come è dovuto ai sopravvissuti che hanno affrontato l’orrore della traversata ma anche le condizioni deplorevoli della clandestinità in cui le amministrazioni europee hanno deciso di rinchiuderli. Perché la creazione di “clandestini” avviene per decisione di uno Stato (ed è sempre lo Stato che può decidere di “regolarizzarli”). Quanta emozione ci vorrà perché si smetta di commuoversi e che si cominci a riflettere sulle disposizioni mortifere che l’Europa ha messo in atto negli anni 90 contro i migranti per fare una selezione, escludendo gli indesiderabili (soprattutto quelli che vengono dai paesi detti “del Sud”), rigettandoli o mantenendoli in una clandestinità propizia al super-sfruttamento del loro lavoro, o in attesa nei campi di ritenzione? La caccia allo straniero è terribilmente assassina. Né “immigrati” (poiché senza arrivo), né “rifugiati” (perché non hanno potuto fare domanda d’asilo), né “clandestini” (il diritto non ha preso una decisione in merito alla loro condizione), sono morti durante la migrazione. Ed è proprio questa mobilità, che pure viene valorizzata come un segno di un mondo cosmopolita moderno e fluido quando parliamo delle nostre vite, il bersaglio delle polizie e dei governi nazionali quando parliamo delle vite degli “altri”. Le politiche pubbliche di dissuasione della migrazione sono state coordinate a livello europeo a partire dall’inizio degli anni 2000. La Francia, la Gran Bretagna, la Germania e l’Italia, con in quel momento la collaborazione dell’Alto Commissariato per i rifugiati (HCR), hanno cominciato ad immaginare i regolamenti che limitavano l’esercizio del diritto d’asilo (dichiarato nel 1948) ed un accresciuto controllo delle migrazioni e delle frontiere (creazione dell’agenzia di polizia europea Frontex nel 2005). Oltre ai provvedimenti amministrativi e la costruzione di muri e reticolati che impediscono il passaggio, lo sviluppo della propaganda contro lo straniero è stata la caratteristica della maggior parte dei governi dei paesi europei. La Francia non è da meno: l’invenzione di uno “staniero” astratto, fantomatico e repellente vi ha diffuso, a partire dall’alto, la xenofobia come ideologia di Stato, accettata e “governativamente corretta”. Le élite politiche si assumono una responsabilità considerevole quando designano quello straniero come il colpevole di una crisi economica o una minaccia per la nazione. Le morti di Lampedusa potevano essere evitate. Sono il prodotto diretto della propaganda dei governi europei contro lo straniero. Con l’effetto, da un lato, di una criminalizzazione della migrazione e dei migranti e, dall’altro, il ricorso pericoloso ai “passatori” e ad un’economia della proibizione per tutti coloro per i quali la mobilità continua ad essere, comunque, una soluzione vitale. Tuttavia, l’ostilità dei governi europei è solo una piccola parte dell’esperienza della mobilità internazionale di questi ultimi mesi. Vi sono, al massimo, poche decine di siriani che tentano di essere accolti in Francia, che trovano in risposta solo repressione poliziesca e manifestano per potersi spostare in Inghilterra: essi non rappresentano evidentemente una “invasione” di migranti. Invece, i paesi limitrofi della Siria esprimono una solidarietà incomparabile con i rifugiati siriani, come anche il Libano, che ne accoglie circa un milione (per quattro milioni di abitanti del Libano!), e la Giordania mezzo milione. Una solidarietà che fu esercitata dalla Tunisia nel 2011 nei confronti dei migranti provenienti dalla Libia. E ancora oggi i somali si dirigono principalmente verso i paesi limitrofi. Sono più di 450 000 nel campo di rifugiati di Dadaab nel nord-est del Kenya. Ciò che succede nella parte sud del Mediterraneo, in Libia, nel Medio Oriente, in Egitto, potrebbe essere l’occasione di manifestare una solidarietà internazionale. In Francia, per esempio, la questione degli stranieri, dei rifugiati e dei migranti è trattata come un affare di polizia, cosa che
viene confermata con la creazione il 2 ottobre al ministero degli interni di una Direzione generale degli stranieri in Francia. Trasferire questa Direzione generale al ministero degli affari esteri segnerebbe un impegno verso il punto di vista politico del riconoscimento. Attuare delle vie legali per l’immigrazione permetterebbe di indebolire il peso della clandestinità e i suoi rischi. Ciò si può fare partecipando attivamente al programma di reinstallazione dell’Alto Commissariato per i rifugiati siriani in Medio Oriente, per quelli subsahariani in Libia e nel Maghreb; o attivando dei regolamenti già esistenti su scala europea come lo statuto di “protezione temporanea” (2001) o di “protezione sussidiaria” (2004). Senza risolvere la questione centrale del diritto all’eguaglianza nella mobilità, questi provvedimenti sarebbero un segnale di umanità. Direbbero che non è indispensabile rischiare ancora la propria vita per sperare di salvarla. Sarebbero l’inizio di una politica migratoria diversa.
*Michel Agier, antropologo, ricercatore all’ Institut de recherche pour le développement, profesore alla Ecole des hautes études en sciences sociales.

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