la nuova chiesa di papa Francesco

Francesco papa

La nuova chiesa di Francesco

di Franca Giansoldati
in “Il Messaggero” del 29 settembre 2013

 

Dodici aprile 1207: quel giorno era segnato. Faceva freddo. Ad Assisi era tempo di mercato, un giovedì qualsiasi. Apparentemente. Perché la data avrebbe scatenato un cambiamento radicale nella Chiesa. Lo stesso cambiamento che Papa Francesco sogna di imprimere alla barca di Pietro. LA STORIA E chissà se anche nel suo cuore è rimbombato lo stesso imperativo giunto a San Francesco dal crocifisso di San Damiano: «Ripara la mia casa che cade in rovina». Quel 12 aprile messer Pietro Bernardone e il figlio Francesco, nel cortiletto del vescovado, si sfidavano l’uno di fronte all’altro, l’uno contro l’altro. La contesa era sui beni terreni, il padre che reclamava al figlio considerato pazzo la restituzione del denaro, poiché aveva venduto tutto per darlo ai poveri e girava per le viuzze della cittadina vestito di stracci, sporco e ribelle. Nel cortiletto non c’era più un posto in piedi, l’evento era rimbalzato di bocca in bocca, fino ad arrivare al Laterano, a Roma, dove risiedeva il Signor Papa. Il giovane in piedi rispondeva al genitore: «Monsignore non solo il denaro è cosa sua, ma anche il vestito che mi ha dato gli voglio allegramente restituire!». Poi svelto usciva per rientrare pochi minuti dopo nudo, con solo un cilizio, il panno ruvido dei poveri, deponendo a terra il mucchietto di vesti e dei soldi. In quel cortiletto salirono al cielo parole di scandalo: «Udite udite ed intendete. Fino ad ora ho chiamato Pietro di Bernardone mio padre, ma siccome ho fatto proposito di servire Dio, gli rendo il denaro per il quale era turbato e tutti i vestiti che ebbi da lui, così da qui innanzi potrò dire con pieno diritto: Padre nostro che sei nei cieli. E non padre Pietro Bernardone». La Storia ha registrato il vento della novità, la follia di un Santo straordinario, il potere di un gesto di rottura. IL MESSAGGIO Il 4 ottobre prossimo, festa di San Francesco, quel gesto, in quell’edificio, nella Sala della Spoliazione di Assisi, così chiamata per richiamare all’essenzialità dei beni terreni, Papa Bergoglio abbraccerà un gruppo di poveri assistiti dalla Caritas. Vuole parlare solo a loro, e attraverso loro traccerà le linee operative della sua Chiesa. Niente autorità, niente pomposità, niente orpelli. Il Vangelo nudo e crudo farà da traccia per evocare l’esempio del Santo. Significativo che in quella sala ci saranno anche gli otto cardinali reduci dalla prima riunione operativa per ridisegnare la curia. Il pellegrinaggio ad Assisi di Papa Francesco fa dire al vescovo di Perugia, Bassetti che «dal 5 ottobre la Chiesa mondiale potrebbe non essere più la stessa». LO SCENARIO Cosa bolle in pentola? «Sicuramente in questa epoca di cambiamenti Bergoglio sembra avere colto nel profondo e vuole tracciare ufficialmente la nuova rotta». Annuncerà probabilmente qualcosa a proposito dei beni della Chiesa, dell’uso distorto che ne viene fatto come hanno tristemente messo in luce gli scandali legati allo Ior e le carte legate ai Vatileaks. Abolirà forse tutti i titoli onorifici. Voci che si rincorrono. Il vescovo di Assisi, Domenico Sorrentino, l’unico che accompagnerà in tutte le tappe francescane il Papa, riflette: «Trovo tutto molto, molto significativo. Evidentemente quello che al Papa sta a cuore è che la Chiesa sia visibilmente sull’onda del Vangelo e che si esprima attraverso la Parola. Compresa la testimonianza delle strutture e degli stili ecclesiali». C’è chi si attende anche grandi annunci. «Io non sono autorizzato a immaginare niente. Posso cercare di interpretare il cuore del Papa, immaginando quello che succede anche a me ogni volta che varco la soglia della Sala della Spogliazione. Il pensiero mi porta a ciò che costituisce la fede cristiana. Un Dio amore che si spoglia per noi della sua immagine di potenza e gloria, fino ad assumere la condizione degli umili ed emarginati. Immagino cosa possa significare per un Papa che ha assunto il nome di Francesco». LE TAPPE
Bergoglio dopo l’elezione sintetizzava al mondo il suo ideale: «Sogno una Chiesa povera e per i poveri». Ogni tappa ad Assisi sarà un omaggio al Poverello, Santa Maria Maggiore dove Francesco ricevette il battesimo, San Damiano dove udì la voce che gli intimava di andare a riparare la Chiesa, il vescovado, Rivotorto dove c’era il tugurio, la prima dimora di Francesco e dei suoi compagni, fino alla cacciata da parte di un campagnolo che giunto là col suo asino reclamava il possesso di quel posto, Santa Maria degli Angeli, San Rufino, la Porziuncola, l’eremo della Carceri, l’istituto Serafico. Bergoglio no stop. Una tirata unica, dalle otto del mattino fino alle otto di sera, senza fermarsi un attimo, rinunciando persino al riposino dopo pranzo per un attimo di contemplazione all’eremo. Prima il pranzo coi poveri e il vescovo di Assisi. Solo loro, alla Caritas. Ha rifiutato di pranzare al Sacro Convento nel refettorio con le autorità, sindaci, presidenti, ministri; fosse stato per lui ne avrebbe fatto a meno, ma i frati hanno insistito tanto. Il segnale di Bergoglio anche diretto ai frati è improntato alla sobrietà, al non consegnarsi al business del turismo, a mantenere saldi i principi essenziali. È il San Francesco, descritto da Dante, che prende forma: «e del suo grembo l’anima preclara mover si volle, tornando al suo regno, e al suo corpo non volle altra bara».

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perdita di dignità

Famiglia cristiana: “Berlusconi ha perso dignità”. Rotondi: “Giornale comunista”

Il settimanale sottolinea che con l’invito a dimettersi ai ministri Pdl, il Cavaliere “ha posto il problema della dignità personale anche a quelle cinque persone che hanno giurato fedeltà alla Costituzione”. E titola a tutta pagina sull’home page del sito “Sulla pelle degli italiani”

Famiglia cristiana: “Berlusconi ha perso dignità”. Rotondi: “Giornale comunista”

“Che Silvio Berlusconi avesse perso ogni ultimo filo di vera dignità lo si sapeva da qualche mese”. La riflessione è scritta tra le righe di un editoriale comparso su Famiglia cristiana, che ha titolato a tutta pagina sull’home page del sito “Sulla pelle degli italiani”. Scende subito in campo dal Pdl Gianfranco Rotondi, dichiarando che “Famiglia cristiana ha perso ogni filo di carità cristiana. E’ un giornale comunista schierato sempre con i poteri forti”.“Con l’invito a dimettersi ai ministri Pdl ha posto il problema della dignità personale anche a quelle cinque persone che hanno giurato fedeltà alla Costituzione. Per il proprio interesse politico e giudiziario Berlusconi intima ai ministri Pdl di dimettersi: loro ubbidiscono, anche se l’Italia rischia di sprofondare”, scrive il settimanale. E aggiunge: “Che Berlusconi avesse perso ogni ultimo filo di vera dignità, di rispetto di sé stesso, della sua famiglia, delle sue imprese, e infine del suo stesso partito, lo si sapeva da qualche mese, e soprattutto dopo la sua condanna per il reato di frode fiscale, resa definitiva dalla Cassazione nell’agosto scorso”.
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il web sta cambiando tutto, anche dentro la chiesa

al pc

La chiesa al tempo del web

di Antonio Spadaro
in “La Stampa” del 27 settembre 2013

Internet sta cambiando il nostro modo di pensare e di vivere. Le recenti tecnologie digitali non sono più tools, cioè strumenti completamente esterni al nostro corpo e alla nostra mente. La Rete non è uno strumento, ma un «ambiente» nel quale noi viviamo. Forse anche qualcosa di più, un vero e proprio «tessuto connettivo» della nostra esperienza della realtà. Ha scritto Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni del 2010: «I moderni mezzi di comunicazione sono entrati da tempo a far parte degli strumenti ordinari attraverso i quali le comunità ecclesiali si esprimono, entrando in contatto con il proprio territorio e instaurando, molto spesso, forme di dialogo a più vasto raggio».
È tanto più vero se consideriamo come la Rete sia diventata importante per lo sviluppo delle relazioni tra gli appartenenti a quella che ormai viene comunemente definita «generazione Y», cioè quella dei giovani nati tra gli Anni Ottanta e il Duemila. La generazione Y è caratterizzata da una grande familiarità con la comunicazione, i media e le tecnologie digitali. È la generazione del cosiddetto web 2.0, nel quale i rapporti tra le persone sono al centro del sistema e dello scambio comunicativo, almeno tanto quanto lo sono i contenuti.
I social network non danno espressione a un insieme di individui, ma a un insieme di relazioni tra individui. Il concetto chiave non è più la «presenza» in Rete, ma la «connessione»: se si è presenti ma non connessi, si è «soli». Si entra in Rete per sperimentare o incrementare una qualche forma di «prossimità», di vicinanza. Occorre dunque comprendere bene in che modo il concetto stesso di «prossimo» – così caro alla terminologia cristiana, e così legato alla vicinanza spaziale – si evolva proprio a causa della Rete. Da qui certamente seguiranno conseguenze di ordine politico.
La possibile separazione tra connessione e incontro, tra condivisione e relazione implica il fatto che oggi le relazioni, paradossalmente, possono essere mantenute senza rinunciare alla propria condizione di isolamento egoistico. Sherry Turkle ha riassunto questa condizione nel titolo di un suo libro: Alone together, cioè: «Insieme ma soli». Anzi, gli «amici», proprio perché sempre on line, cioè disponibili al contatto o immaginati come presenti a dare un’occhiata ai nostri aggiornamenti sui social network , sono immancabilmente presenti e dunque, proprio per questo, rischiano di svanire in una proiezione del nostro immaginario. La frattura nella prossimità è data dal fatto che la vicinanza è stabilita dalla mediazione tecnologica per cui mi è «vicino», cioè prossimo, chi è «connesso» con me.
Il vero nucleo problematico della questione è il concetto di «presenza» al tempo dei media digitali e dei network sociali che sviluppano una forma di presenza digitale. Che cosa significa essere presenti gli uni agli altri? Che cosa significa essere presenti a un evento, a una decisione? L’esistenza digitale appare configurarsi con uno statuto ontologico incerto: prescinde dalla presenza fisica, ma offre una forma, a volte anche vivida, di presenza sociale. Il concetto di partecipazione – ecclesiale o politica – è strettamente legato a quello di «presenza».
L’esistenza digitale, certo, non è un semplice prodotto della coscienza, un’immagine della mente, ma non è neanche una res extensa , una realtà oggettiva ordinaria, anche perché esiste solo nell’accadere dell’interazione. Le sfere esistenziali coinvolte nella presenza in Rete sono infatti da indagare meglio nel loro intreccio. Si apre davanti a noi un mondo «intermediario», ibrido, la cui ontologia andrebbe indagata meglio.
Alla luce delle considerazioni sull’essere «prossimo» com’è possibile dunque immaginare il futuro della vita di una comunità ecclesiale al tempo della Rete? Già nel 2001 Manuel Castells comprendeva bene che la questione chiave per noi è il passaggio dalla comunità al network come forma centrale di interazione organizzativa. Le comunità, almeno nella tradizione della ricerca sociologica, erano basate sulla condivisione di valori e organizzazione sociale. I network sono costituiti attraverso scelte e strategie di attori sociali, siano essi individui, famiglie o gruppi.
La Chiesa al tempo della Rete potrebbe finire con l’essere vista come una struttura di supporto, un hub , una piazza, dove la gente possa «raggrupparsi», dar vita a gruppi, o meglio «grappoli» (cluster) di connessioni. Questa visione offre un’idea della comunità che fa proprie le caratteristiche di una comunità virtuale intesa come leggera, senza vincoli storici e geografici, fluida.
Come valutare questo modello? Certamente la relazionalità della Rete funziona se i collegamenti (link) sono sempre attivi: qualora un nodo o un collegamento fosse interrotto, l’informazione non passerebbe e la relazione sarebbe impossibile. La reticolarità della vite nei cui tralci scorre una medesima linfa dunque non è molto distante dall’immagine di Internet. La Chiesa, infatti, è un corpo vivo se tutte le relazioni al suo interno sono vitali. Già nel Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni del 2011 il Papa notava che il web sta contribuendo allo sviluppo di «nuove e più complesse forme di coscienza intellettuale e spirituale, di consapevolezza condivisa». La rete di queste conoscenze dà vita a una forma di «intelligenza connettiva». Mons. Gerhard Ludwig Müller, oggi prefetto per la Congregazione della Dottrina della Fede, nel novembre 2012 aveva colto lucidamente la sfida, cioè la «responsabilità della Chiesa nella formazione di una cultura umana collettiva, per la quale la società odierna, con la sua rete di connessioni internazionali – globali – fornisce del resto degli ottimi presupposti».
Tuttavia restano aperti molti interrogativi. La Chiesa infatti non è semplicemente una rete di relazioni immanenti, né è concepibile come un progetto enciclopedico frutto dello sforzo di uomini di buona volontà. La Chiesa ha sempre un principio e un fondamento «esterno» e non è riducibile a un modello sociologico. L’appartenenza alla Chiesa è data da un fondamento esterno perché è Cristo che, per mezzo dello Spirito, unisce a sé intimamente i suoi fedeli. La Chiesa insomma è un «dono» e non un «prodotto» della comunicazione. E questa prospettiva aiuta a comprendere come la stessa società civile non è un «prodotto». L’«appartenenza» (ecclesiale, civile…) non è il prodotto della comunicazione. I passi dell’iniziazione cristiana non possono risolversi in una sorta di «procedura di accesso» (login) all’informazione, forse anche sulla base di un «contratto», che permette anche una rapida disconnessione (log off). Il radicamento in una comunità non è una sorta di «installazione» (set up) di un programma (software) in una macchina (hardware), che si può dunque facilmente anche «disinstallare» (uninstall).
Ecco allora il nodo: la città di Dio e la città dell’uomo sono chiamate a pensare l’appartenenza al tempo della Rete che, di sua natura, è fondata sui link , cioè sui collegamenti orizzontali. Papa Francesco ha affermato che la cittadinanza è piena solamente se letta alla luce dell’esperienza di popolo che condivide un orizzonte comune che trascende il bilanciamento fluttuante e provvisorio di interessi: «È impossibile immaginare un futuro per la società senza un forte contributo di energie morali in una democrazia che rimanga chiusa nella pura logica o nel mero equilibrio di rappresentanza di interessi costituiti». E dunque «essere cittadini significa essere convocati per una scelta, chiamati a una lotta, a questa lotta di appartenenza a una società e a un popolo». Ma questa, mutatis mutandis , è una definizione valida anche per coloro che sono parte del «popolo fedele di Dio in cammino» che è la Chiesa.

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Severino e il dialogo fra credenti e non

l’interesse del filosofo italiano contemporaneo E. Severino al dialogo fra credenti e non credenti dopo lo scambio di lettere dei due pontefici ad altrettanti laici, pur col timbro della sua personalissima e originalissima filosofia:

Se Cesare non è dalla parte di Dio

di Emanuele Severino
in “Corriere della Sera” del 25 settembre 2013

Con la lettera del Pontefice a Eugenio Scalfari il dialogo tra «credenti» e «non credenti» è giunto a una svolta di grande importanza e interesse. Che va accuratamente tutelata. Anche da parte di chi è soltanto uno spettatore — che però, come me, sia interessato al problema. Il Pontefice ha un modo ammirevole di mettersi in relazione al prossimo. Ammirevole, anche, il desiderio dei due interlocutori di confrontarsi con ciò in cui non credono. Proprio per l’importanza di questa inedita forma di dialogo è però altrettanto importante che non sorgano equivoci. Mi limito a due esempi. Il Pontefice scrive a Scalfari: «Mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato». Il Pontefice risponde: «Io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo». Ma aggiunge: «Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro». Si riferisce anche alla verità della fede. Ora, Scalfari aveva sì parlato di «verità assoluta», ma intendendo non «ciò che è slegato, ciò che è privo di relazioni», ma proprio la verità che non è «variabile e soggettiva». E il Papa gli risponde che no, non è variabile e soggettiva: «Tutt’altro». In questo modo, la domanda è elusa, e viene ribadita la posizione ufficiale della Chiesa (confrontare la recente enciclica Lumen fidei, La Scuola, 2013). A sua volta Scalfari, nella recente intervista a Otto e mezzo, ha lodato l’innovazione di papa Francesco rispetto alla costante critica rivolta al relativismo da papa Ratzinger, e fa addirittura passare per relativista papa Francesco (appunto per il suo rifiuto del concetto di verità «assoluta»). Ma lo loda per qualcosa che papa Francesco si è ben guardato dal sostenere. «La verità è variabile e soggettiva?», chiedeva Scalfari. «No!», risponde il Pontefice: «Tutt’altro!». Una seconda possibilità di equivoco, tra i due interlocutori, vorrei segnalare, e ben più importante… Dopo aver scritto che la specificità di Gesù «è per la comunicazione, non per l’esclusione», il Pontefice aggiunge che «da ciò consegue anche — e non è una piccola cosa — quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel “dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare”, affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell’Occidente». Non mi consta che finora Scalfari abbia chiesto chiarimenti in proposito. Mi permetto di dirgli che invece, proprio lui, dovrebbe chiederli. In questo caso sarebbe il silenzio a favorire l’equivoco. Da quasi cinquant’anni (che rispetto alla storia dell’Occidente sono certamente nulla) vado mostrando che quel detto evangelico, lungi dal sancire la «distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica», nega tale distinzione. Non ho mai ricevuto una risposta adeguata — e mi sembra grave —; mi sembra di averne parlato anche con Scalfari in quello che forse è stato il nostro unico dibattito pubblico, a Roma. Ne ho parlato anche su queste colonne. Se qui debbo pur giustificare in qualche modo la mia tesi, che indubbiamente suona troppo perentoria, come d’altra parte non vergognarmi di doverlo fare ancora una volta? Domandiamo a Gesù se a Cesare — cioè allo Stato — si possa dare qualcosa che sia contro Dio. Risponderebbe di no! Assolutamente no! Ciò significa che le leggi dello Stato non potranno essere contro le leggi di Dio, del Dio di Gesù, della cui verità oggi la Chiesa si ritiene depositaria. Domandiamogli ancora se allo Stato si possono dare leggi neutrali, che cioè consentano ai cittadini sia di agire contro Dio, sia di non essergli contrari. Ancora una volta Gesù risponderebbe di no, e altrettanto risolutamente: si renderebbe lo Stato libero da Dio; si lascerebbe ai cittadini la libertà di vivere contro Dio. Con la prima risposta lo Stato sarebbe costretto a essere uno Stato cristiano (anzi cattolico); con la seconda lo si lascerebbe libero di non esserlo. Ma anche questa libertà è un modo di essere contro Dio. Quindi per Gesù le leggi dello Stato debbono essere cristiane (e cattoliche). Ma esistono leggi dello Stato la violazione delle quali non implichi una sanzione statale, terrena? Assolutamente no. Quindi — come spesso si dice, ma senza accorgersi della connessione tra questo
dire e il detto di Gesù — è necessario che il peccato (l’agire contro Dio) sia anche delitto (l’agire contro lo Stato), una colpa che è punita in terra prima che nell’al di là. Ma in questo modo la «distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica» che, anche secondo questo Pontefice, dovrebbe essere conseguenza di quel detto, è invece radicalmente negata da questo detto. Certo, l’intenzione di Gesù, si può ritenere, è di separare quelle due sfere; ma il contenuto oggettivo di quello che egli afferma è inevitabilmente la riduzione della sfera politica a quella religiosa. O anche: Gesù vuole conciliare l’inconciliabile: vuol conciliare la distinzione tra politica e religione con la loro reciproca opposizione (giacché anche la politica che non crede in Dio non vuole che a Dio sia dato quel che è contro Cesare). Con quanto ho osservato non ho affatto inteso sostenere che, quindi, abbia senz’altro ragione il pensiero laico, che vuol tener separate quelle due sfere. Ho inteso mostrare che il comando di Gesù non conduce là dove comunemente si crede. L’estremismo islamico che massacra i cristiani non è forse la conseguenza ultima della convinzione che nella società non si debba consentire ciò che — come le altre fedi — è contro il Dio in cui si crede? E viceversa, nel fanatismo degli amici di Cesare (vedi rivoluzioni francese e bolscevica) non si massacrano i credenti in nome del principio che non si debba dare al loro Dio ciò che è contro Cesare? Nel dialogo tra Scalfari e il Pontefice i problemi che ho indicato non sono gli unici. I più importanti stanno più in fondo. Qui si voleva dare soltanto un contributo alla tutela della chiarezza del dialogo.

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tornare indietro sarà impossibile

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con papa Francesco niente in ambito ecclesiale sarà come prima, tale è il taglio innovatore che ha assunto e il timbro personale che vi imprime

tante cominciano ad essere le resistenze, compresi i mugugni anche in alto loco per frenare questo nuovo percorso: sortiranno anche degli effetti, ma ormai sembra che nonostante tutto il dado sia tratto e sia “difficile tornare indietro dopo il pontificato di Francesco”: così anche padre R. Rohr nelle riflessioni a seguire

Sarà difficile tornare indietro dopo il pontificato di Francesco

di Richard Rohr*
in “ncronline.org” del 24 settembre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)

“La persona che sta più in alto non può mai sbagliare”. Ricordo di essere stato totalmente scioccato, offeso e in assoluto disaccordo quando ho sentito per la prima volta questa affermazione da parte di un consulente organizzativo anni fa. Solo chiedendogli di spiegare meglio sono stato alla fine obbligato, con riluttanza, ad ammettere di essere d’accordo. Con questa affermazione, gli esperti di governo intendono che quando un “CEO” [“chief executive officer”, es. amministratore delegato], un fondatore o un presidente di qualsiasi gruppo fa una dichiarazione o un’azione pubblica, essa deve essere considerata corretta. È valida, e l’onere della confutazione sta altrove. A quel punto, è un dato a cui bisogna dare una risposta, un dato che deve essere precisato, cambiato o dimostrato falso. Non può essere semplicemente respinto come se non fosse mai esistito. Se cerchi di farlo, sei molto ingenuo, anche se la cosa può farti sentire forte e anche se alla fine hai ragione. Anche il tuo grido “è sbagliato!” deve essere sostenuto da argomenti e azioni superiori da parte tua. In questo senso, la persona che sta in alto “non sbaglia” mai. Perché continua a influenzare il tuo programma, anche obbligandoti a combatterla. Dentro di me, sono sempre stato convinto che questo sia l’unico significato utile dell’infallibilità papale. In questo senso, il Concilio Vaticano I aveva totalmente ragione, e in questo senso, papa Francesco è sicuramente infallibile. Ho cominciato con questa idea forse controversa perché penso che recentemente il mondo abbia ricevuto da Francesco alcune dichiarazioni infallibili. Di conseguenza ha cambiato il dialogo cattolico. Non possiamo mai tornare totalmente indietro. Nessuno può mai dire che un papa validamente eletto, con tutto ciò che questo implica nella mente di ognuno, non abbia detto le cose che Francesco ha detto nell’intervista pubblicata giovedì. Saranno citate per molto tempo in futuro. Ora sono una parte dei dati autorevoli, come i vangeli stessi, e devono essere tenute in considerazione. Non lo ha fatto tanto in termini dottrinali o di asserzioni morali, ma semplicemente in termini di radicale cambiamento di stile, di immagine pubblica e di accento, il che è paradossalmente di enorme sostanza. Per una volta, abbiamo un papa che parla come persona, onestamente, pastoralmente, senza mettere i puntini sulle i. Un papa che diventa vulnerabile! Si era mai sentito questo prima d’ora? La storia lo avrebbe mai permesso fino ad oggi? Come testimonianza storica, forse solo quando papa Pietro ha detto: “Allontanati da me, Signore, che sono un peccatore” (Luca 5,8). Quando mai abbiamo sentito un modo di parlare così sincero da un vicario di Pietro – che sembra essere il modo in cui Francesco vuole essere, e dovrebbe essere, conosciuto. Infatti, come puoi parlare in maniera umile rivolgendoti a Cristo, quando ti viene detto che tu sei proprio il “vicario di Cristo”? Questo è un peso che solo l’intero corpo di Cristo può portare e che in qualche modo quindi anche ogni cristiano deve portare. Lo stesso Gesù è considerato solo il “capo” del corpo (Efesini 5,23) e non l’intero corpo, ma il papa superava lo stesso Cristo per il fatto di essere l’intero vicario di Cristo. È uno status che nessuna persona singola può arrogarsi, eppure i papi dovevano pretenderlo e cercare di viverlo. Non odiateli per questo: stavano semplicemente seguendo l’impossibile copione che avevano dato loro. Il modo di parlare proprio di Francesco è “non papale” e fa paura a coloro per i quali un papa deve offrire risposte assolute e perfetta certezza su qualsiasi cosa – e che ritengono di avere un assoluto diritto a tali assolute risposte. Ora abbiamo un papa che conosce il suo ruolo: essere un pastore, un amico, un compagno di viaggio, ed un medico in un “ospedale da campo dopo una battaglia”. Francesco arriva perfino a dire “ Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta, che usa la religione per se stesso”. Fratelli e
sorelle della chiesa, dobbiamo riconoscere in questo tipo di insegnamento che Francesco ci sta riportando, dopo secoli di “tomismo decadente” e razionalismo post-illuminista, al genio biblico che chiamiamo fede, che è ancora il nostro grande dono al mondo. Una fede matura sarà sempre un equilibrio tra sapere e non sapere, dire con un’incapacità totale di dire, profonda certezza combinata con una egualmente profonda umiltà, tolleranza e pazienza. E Francesco va ancora avanti: “Il rischio nel cercare e trovare Dio in tutte le cose è dunque la volontà di esplicitare troppo, di dire con certezza umana e arroganza: ‘Dio è qui’. Troveremmo solamente un dio a nostra misura. L’atteggiamento corretto è quello agostiniano: cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo sempre”. Francesco è davvero un autentico tradizionalista nell’insegnarci non nuove dottrine o principi morali, ma un nuovo modo di conoscere che è profondamente improntato al Vangelo. Fino ad ora, il cattolicesimo ha ampiamente accentuato la metafisica (“ciò che pensiamo di sapere”) e ha severamente trascurato l’epistemologia (“Esattamente come sappiamo ciò che pensiamo di sapere?”). Francesco non ci sta dicendo tanto che cosa vedere (cosa che le nostre menti dualistiche semplicemente combatteranno e a cui resisteranno), quanto invece ci sta insegnando come vedere e a che cosa prestare attenzione. In un certo senso ci sta dicendo che il modo giusto di vedere  è quello di vedere con gli occhi dell’amore e della misericordia. E questo è il cristianesimo. Francesco è diventato un invito vivente e gioioso a tutta l’umanità, perfino al di là dei troppo stretti confini del cristianesimo, invece di un escludente buttafuori davanti alle porte sempre aperte del cielo. In questo soltanto ha cambiato il papato – forse per sempre. Sarà molto difficile tornare completamente indietro. Sì, è vero, la persona che sta più in alto non può mai sbagliare. Il papa è ancora in un certo senso infallibile.
*Padre Richard Rohr è francescano, autore e oratore famoso, fondatore del Centro per Azione e Contemplazione ad Albuquerque, New Mexico.

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l’ambiguità politica dei cristiani verso i rom

 

 

 

 

carovane di rom

la politica del governo francese di Hollande verso i rom non è delle più aperte all’accoglienza, in questo molto vicina o identica a quella precedente di Sarcozy

e i cristiani francesi come reagiscono? al tempo di Sarcozy molti avevano alzato la voce per farsi sentire forte da un governo dei ‘cattivi’, ma ora sembra che vogliano “trattare coi guanti”il presente governo per paura del peggio … come da noi! e sempre a pagarla sono loro!

Per i rom, dei cristiani molto discreti

di Philippe Clanché
in “cathoreve.over-blog.com” del 26 settembre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)

Sostenuta da Manuel Valls e convalidata da François Hollande, la politica del nostro governo verso i rom è ormai chiara. A loro avviso, i rom, in grande maggioranza, non avrebbero il desiderio di integrarsi né di restare in Francia. Nessun lettore serio del Vangelo può ammettere quello che sta succedendo: né le pratiche, né i discorsi. Le ONG di sostegno agli stranieri, in particolare quelle di ispirazione cristiana (Secours Catholique, Acat, CCFD Terre solidaire, Cimade…) hanno già suonato il campanello d’allarme sul proseguimento da parte del governo socialista dello spirito che aveva prevalso nell’era Sarkozy, con i ministri Hortefeux e Guéant. A quel tempo, i cristiani di base e i loro dirigenti, sia l’episcopato cattolico che la Fédération protestante de France, avevano alzato la voce. Ricordiamo che i francescani di Tolosa avevano avviato nel 2007 i cerchi del silenzio per denunciare le condizioni riservate agli stranieri nei Centres de rétention. Questo movimento prosegue, aperto a tutti i cittadini, ma animato soprattutto da cristiani. Che cosa fanno allora oggi quegli stessi cristiani, numerosi e ammirevoli, impegnati dalla parte degli stranieri? Le loro proteste sono state ascoltate? Questi militanti, culturalmente di sinistra, si sentivano più a loro agio quando al potere c’erano “i cattivi”. Forse, coscientemente o meno, vogliono trattare coi guanti un governo, certo deludente, ma la cui caduta potrebbe aprire la strada ad un potere ancora peggiore. Ad ogni modo, le loro voci non hanno alcuna influenza nel gioco politico ad alto livello. Quanto ai cattolici che hanno sfilato in questi ultimi mesi contro un altro progetto governativo (dal carattere antievangelico poco evidente), non hanno l’intenzione, pare, di cambiare obiettivo alla loro lotta. E le ipotetiche evoluzioni legislative sul fine vita o la procreazione medicalmente assistita per le lesbiche li mobilitano più di un dramma reale che si svolge davanti alla porta di casa. Dato che quei cattolici non hanno paura a protestare contro un governo di sinistra, dato che sono numerosi e ben organizzati, dato che hanno preso gusto a scendere in piazza, che si mobilitino per l’accoglienza degli stranieri. Avranno dalla loro parte i cristiano-sociali (indipendentemente dalle loro idee sul matrimonio) e molti militanti di sinistra. Potremmo assistere ad una bella riconciliazione del popolo cattolico dopo i dibattiti dell’inverno scorso. Non contro un governo guidato dalla demagogia e dall’elettoralismo, ma per i più deboli. Se questo non accadrà, potrà solo voler dire che il mondo cattolico, o almeno la sua maggioranza, sta precipitando verso il lato oscuro dello scacchiere politico

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sconfiggere la morte: la bella intervista di p. Maggi

 

p. Maggi

“chi non muore si rivede” : questo il titolo dello spiritoso saggio che p. Maggi ha scritto all’indomani della sua brutta (o bella?!) avventura che lo ha portato a vedere la morte da vicino:

Sconfiggere la morte

intervista ad Alberto Maggi

a cura di Franco Marcoaldi
in “la Repubblica” del 27 settembre 2013

Alberto Maggi ha visto la morte da vicino. Ma poiché, oltre che frate, raffinato teologo e religioso spesso accusato di “eresia”, è un uomo spiritoso, il titolo del libro che dà conto di quell’esperienza, uscito da poco per Garzanti, suona: Chi non muore si rivede.«Avevo appena ultimato un saggio sull’ultima beatitudine. La morte come pienezza di vita, ma sentivo che mancava qualcosa. Poi sono stato ricoverato d’urgenza per una dissezione dell’aorta: tre interventi devastanti, settantacinque giorni con un piede di qua e uno di là. È stato allora che ho capito cosa mi mancava: l’esperienza diretta e positiva del morire. E ho anche capito perché San Francesco la chiami sorella morte: perché la morte non è una nemica che ti toglie la vita, ma una sorella che ti introduce a quella nuova e definitiva. Nei giorni in cui ero ricoverato nel reparto di terapia intensiva, con stupore mi sono accorto che le andavo incontro con curiosità, senza paura, con il sorriso sulle labbra. Oltretutto percepivo con nettezza la presenza fisica dei miei morti, di coloro che mi avevano preceduto e ora venivano a visitarmi… Chissà perché quando qualcuno muore gli si augura l’eterno riposo, come se si trattasse di una condanna all’ergastolo. Io penso invece che chi muore continua a essere parte attiva dell’azione creatrice del Padre». Fatto sta che oggi si persegue tutt’altro sogno, quello di una tendenziale immortalità garantita dalle biotecnologie. «È una novità che mette in difficoltà anche la Chiesa, chiamata ad approfondire il senso del sacro. Perché se è sacra la vita dell’uomo, anche quando si riduce alla sopravvivenza di una pura massa biologica, allora è giusto procrastinare quella vita all’infinito, utilizzando tutti gli strumenti della scienza medica. Se invece ad essere sacro è l’uomo, bisognerà garantirgli una fine dignitosa…Io non capisco questa smania di accanirsi su un vecchio, portarlo in ospedale, intervenire a tutti i costi, anche in prossimità del capolinea. Si potrà prolungare la sua esistenza ancora per un po’, ma in compenso lo si sottrae alla condivisione familiare di quel passaggio decisivo rappresentato dalla morte. Quante volte mi capita di venire chiamato in ospedale per l’estremo saluto e assistere alla seguente commedia. I parenti mi implorano: la prego, non gli dica niente. Crede di avere soltanto un’ulcera. E il morente, perfettamente consapevole del suo stato, a sua volta mi chiede di rassicurare i familiari perché non sono pronti alla sua dipartita. Quando io ero piccolo, il vero tabù era rappresentato dal sesso. Ora invece è la morte il tabù. È scomparsa qualunque dimestichezza con la pratica mortuaria, delegata alle pompe funebri, e gli annunci funebri escogitano ogni escamotage pur di non affrontare il punto: il tal dei tali si è spento, ci ha lasciati, è tornato alla casa del padre. Mai una volta che si scriva semplicemente: è morto». Per un credente questo passaggio dovrebbe essere reso più facile dalla credenza nella resurrezione dei morti. «Io veramente credo alla resurrezione dei vivi. La resurrezione dei morti è un concetto giudaico. Ma già con i primi cristiani cambia tutto, come mostra San Paolo nelle sue lettere: “Noi che siamo già resuscitati”, “noi che sediamo nei cieli”. Gesù ci offre una vita capace di superare anche la morte. Ecco perché i primi evangelisti usano il termine greco zoe. Mentre bios indica la vita biologica, che ha un inizio, uno sviluppo e, per quanto ci dispiaccia, un disfacimento finale, la vita interiore (zoe) ringiovanisce di giorno in giorno. Da qui le parole folli e meravigliose del Cristo: chi crede in me, non morirà mai». E allora l’Apocalisse, il giudizio universale, la fine dei giorni? «Gesù, polemizzando con i Sadducei, afferma che Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi. E non resuscita i morti, ma comunica ai vivi una qualità di vita che scavalca la morte stessa. Questa è la buona novella. Quando qualcuno muore e il prete dice ai parenti: un giorno il vostro caro risorgerà, questa parola non suona affatto come consolatoria, ma incrementa la disperazione. Quando
risorgerà?, si chiedono. Tra un mese, un anno, un secolo? Ma alla sorella di Lazzaro, Gesù dice: io sono la resurrezione, non io sarò. E aggiunge: chi ha vissuto credendo in me, anche se muore continua a vivere. Gesù non ci ha liberati dalla paura della morte, ma dalla morte stessa». Non è una visione del cristianesimo un po’ troppo gioiosa, consolatoria? «Tutta questa gioia però passa attraverso la croce, non ti viene regalata dall’alto. Quando stavo male, le persone pie — che sono sempre le più pericolose — mi dicevano: offri le tue sofferenze al Signore. Io non ho offerto a lui nessuna sofferenza, semmai era lui che mi diceva: accoglimi nella tua malattia. Era lui che scendeva verso di me per aiutami a superare i miei momenti di disperazione». Torniamo al nostro tema. Per un lunghissimo periodo il freno principale all’effrazione del limite era rappresentato proprio dal terrore di incorrere nel peccato di superbia, di credersi onnipotenti come Dio. «Questo secondo l’immagine tradizionale della religione, che presuppone un Dio che punisce e castiga. Per scribi e farisei è sacra la Legge, per Gesù invece è sacro l’uomo. Per i primi il peccato era una trasgressione della Legge e un’offesa a Dio, per Gesù il peccato è ciò che offende l’uomo ». Ecco che salta fuori Maggi l’eretico, che vede nella religione un ostacolo che si frappone alla vera fede. «La religione ha inventato la paura di Dio per meglio dominare le persone e mantenere posizioni di potere acquisite. Per religione si intende tutto ciò che l’uomo fa per Dio, per fede tutto ciò che Dio fa per l’uomo. Con Gesù invece Dio è all’inizio e il traguardo finale è l’uomo. Per questo ogni volta che Gesù si trova in conflitto tra l’osservanza della legge divina e il bene dell’uomo, sceglie sempre la seconda. Al contrario dei sacerdoti. Facendo il bene dell’uomo, si è certi di fare il bene di Dio, mentre quante volte invece, pensando di fare il bene di Dio, si è fatto del male all’uomo». Se non è più il terrore di commettere peccato a fare da freno alla nostra hybris, cos’altro spinge un cristiano a riconoscere la bontà del limite? «Il tuo bene è il mio limite. La mia libertà è infinita; nessuno può limitarla, neppure il Cristo, perché quella libertà è racchiusa nello scrigno della mia coscienza. Sono io a circoscriverla. Per il tuo bene, per la tua felicità. È così che l’apparente perdita diventa guadagno. Lo dicono bene i Vangeli: si possiede soltanto quello che si dà». Mi sbaglierò, ma è proprio la parola limite che non si attaglia al suo vocabolario. «Preferisco il termine pienezza. La parola limite ha una connotazione claustrofobica. La pienezza mi invita a respirare. Ogni mattina che mi sveglio, io mi trovo di fronte all’immensità dell’amore di Dio e cerco di coglierne un frammento, per poi restituirlo al prossimo. A partire, certo, dal mio limite. San Paolo usa a riguardo una bellissima espressione: abbiamo a disposizione un tesoro inestimabile e lo conserviamo in vasi da quattro soldi. Questa è la nostra condizione: una ricchezza immensa, a fronte della nostra umana fragilità e debolezza. Che però non necessariamente è negativa. Perché sarà il mio limite a farmi comprendere anche il tuo. E di nuovo ecco la rivoluzione di Gesù. Nell’Antico Testamento il Signore dice: siate santi come io sono santo. Gesù invece non invita alla santità, dice: siate compassionevoli come il Padre è compassionevole. La santità allontana dagli uomini comuni, la compassione invece ci unisce».

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la sfida di papa Feancesco: verso nuove frontiere

altare

Chris Lowney, autore di Pope Francis e direttore di uno dei più grandi sistemi di assistenza sanitaria ospedaliera, riflette sulla sfida che papa Francesco rivolge alla chiesa di “percorrere strade polverose verso nuove frontiere”:

Francesco ci sfida a percorrere strade polverose verso nuove frontiere

di Chris Lowney*
in “ncronline.org” del 27 settembre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)

Credo che papa Francesco stia cercando di attivare un enorme cambiamento culturale nella Chiesa cattolica. E vedo l’inconfondibile impronta spirituale di Sant’Ignazio di Loyola nella spiritualità e nello stile di leadership del papa. “Chi è Jorge Mario Bergoglio?”, ha chiesto padre Antonio Spadaro al papa durante la ormai famosa intervista fatta in agosto. Mentre molti politici e celebrità avrebbero sfruttato questa semplice domanda per dare una risposta autopromozionale, ecco che cosa ha detto il papa: “Sono un peccatore”. Una risposta che trae da una pagina degli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, che comprende alcune meditazioni forti sul peccato personale: “Mi considero come una piaga e un ascesso, da cui sono usciti gravi peccati”. Ma non c’è una visione deprimente nella spiritualità ignaziana di Francesco; è solo una maniera semplice e schietta di parlare della condizione umana. E benché i postmoderni qui nella New York cosmopolita possano rifiutare il discorso cattolico sul peccato, tutti possono sentire dentro di sé una risonanza rispetto alla visione papale di una chiesa-“ospedale da campo” che si concentra innanzitutto sullo sforzo di guarire. Siamo tutti profondamente imperfetti, papi inclusi, ma ciononostante intrinsecamente resi degni e incondizionatamente amati da Dio. Questo è stato un motivo ricorrente di tutta la vita di Bergoglio. Mentre scrivevo Pope Francis: Why He Leads the Way He Leads, ho parlato con molti gesuiti che si sono formati sotto di lui quando era rettore di un grande seminario gesuita. Il padre gesuita Hernàn Paredes mi ha detto: “Per Bergoglio era importante che noi ci amassimo così come eravamo”. Paredes ci fa partecipi di un curioso aneddoto su un collega equadoregno che un giorno orgogliosamente indossava una giacca tradizionale, in cui erano intessute delle immagini di lama. Un seminarista argentino crudelmente dileggiava la tenuta del ragazzo, come se si trattasse di un burino appena arrivato nella grande città. Allora Bergoglio invitò l’argentino a portare quella giacca per un giorno, come meditazione “ambulante” per l’intera comunità: ogni persona ha una fondamentale dignità, è degna di rispetto per diritto di nascita; l’amore costante di Dio non è condizionato da ciò che gli altri pensano di noi, dal nostro status o dalla nostra cattiveria. Questo messaggio chiave del cattolicesimo e degli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola è fondamentale per la visione di Francesco sulla chiesa. Nell’intervista, ha parlato di una chiesa che “è la casa di tutti, non una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate”. Quando visita i rifugiati a Lampedusa, abbraccia i disabili in Piazza San Pietro, dice che vuole una chiesa che sia “per i poveri”, o ci incoraggia a diffondere la notizia della misericordia di Dio, implicitamente ci sta dicendo che la nostra cappella è ancora troppo piccola. Non ne abbiamo ancora fatto una casa per tutti, e fare questo è compito di ogni cattolico perché, nella ignaziana visione del mondo di papa Francesco, non siamo soltanto peccatori amati, ma siamo ognuno personalmente, pur peccatori, chiamati a lavorare accanto a Gesù e diffondere la buona notizia di Gesù. Questo ci porta al secondo potente tema ignaziano nell’intervista di Spadaro: lo spirito di frontiera. Francesco ha detto che fu inizialmente attratto dall’ordine gesuita per tre ragioni, una delle quali era il suo “spirito missionario”. Ignazio di Loyola esortava i gesuiti a vivere “con un piede alzato”, sempre pronti a cogliere la prossima opportunità. Istituì anche uno speciale quarto voto di obbedienza: essere sempre disponibili ad essere inviati in missione dal papa. Questo atteggiamento mentale liberò una straordinaria energia centrifuga nelle prime generazioni gesuite, che notoriamente andarono in ricerca al di fuori delle frontiere del mondo allora conosciuto dagli europei. Lo stesso paese natale del papa, l’Argentina, ad esempio, è ancora punteggiato dalle rovine di importanti insediamenti innovativi – le cosiddette “riduzioni del Paraguay” (1) – che i
gesuiti, da pionieri, fecero sorgere nelle zone abitate dagli indigeni. Ma Francesco ci sta invitando ad interpretare la “frontiera” in un senso molto più ampio. Le frontiere del cattolicesimo del XXI secolo non riguardano tanto le persone lontane geograficamente, quanto piuttosto coloro che non danno molto valore alla religione organizzata e che sono stati trascurati o esclusi. Il papa ha detto al suo intervistatore che ammirava il “dialogo con tutti… perfino con i suoi avversari” di uno dei primi gesuiti, padre Peter Faber. E, ha detto il papa, “cerchiamo di essere una Chiesa che trova nuove strade, che è capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la frequenta, chi se n’è andato o è indifferente”. Questa non è una banalità, questa è una strategia. Un altro gesuita che ho intervistato per il progetto del mio libro ha detto che a padre Bergoglio fu chiesto una volta di assumersi la responsabilità di una nuova parrocchia in una comunità impoverita e che lui “arruolò” alcuni seminaristi volontari per assisterlo. A fare cosa? Ebbene, ad andare in giro per la città. Ad incontrare tutti, non solo quelli che andavano in chiesa. A trovare i più poveri e vedere che cosa era possibile fare per aiutarli. Quando i seminaristi tornavano da quelle visite, Bergoglio era solito controllare quali scarpe fossero impolverate – cioè chi mostrava uno spirito di frontiera per incontrare le persone lì dove realmente vivono. Quando il gruppo scoprì quanto effettivamente fossero poveri i loro vicini, un gesuita ricorda che Bergoglio disse qualcosa come: “Non possiamo stare qui seduti a braccia conserte, mentre abbiamo tutto, e quella gente non ha nemmeno abbastanza da mangiare”. Così passarono all’azione, mettendo un grande pentolone in un campo per dare avvio ad una primitiva mensa dei poveri. Questo stile innovativo, instancabilmente energico e volto all’esterno è fondamentale per lo “spirito di frontiera” che Francesco vuole instillare. Nell’omelia del giorno successivo alla sua elezione ha detto: “La nostra vita è un viaggio, e quando smettiamo di essere in movimento, le cose vanno male”. La frontiera è ora il nostro vicinato, non un posto all’altro capo del mondo. Lo riusciremo a capire più chiaramente accogliendo il grande mantra della spiritualità ignaziana raccomandato dal papa: trovare Dio in ogni cosa. Questo significa trovare Dio presente non solo nel nostro pasto eucaristico, ma nel costituire il personale di quegli “ospedali da campo” che guariranno sofferenza, alienazione, disperazione o povertà dei nostri vicini. All’inizio di questo scritto, sostenevo che Francesco sta cercando di attivare un enorme cambiamento culturale nella nostra chiesa. Enorme cambiamento culturale: è un’iperbole? Ebbene, considerate la pioggia di parole e frasi sollevate dalle dichiarazioni dell’intervista del papa sulla chiesa, sulla vita dei gesuiti o dei cattolici: “vivere al confine ed essere audaci”, “essere in ricerca, creativi e generosi”, “trovare nuove strade”, “dialogare con tutti, anche con gli avversari”. Purtroppo, pochi osservatori obiettivi assocerebbero totalmente queste caratteristiche alla nostra chiesa di oggi. Francesco sta chiedendo a ciascuno di noi di contribuire a guidare il cambiamento culturale che renderà quelle caratteristiche più pienamente vive. Sì, ognuno di noi deve aiutare a guidare. Dopo tutto, ha detto che i vescovi “devono essere capaci di accompagnare il gregge che ha il fiuto per trovare nuove strade”. Allora, impolveriamo le nostre scarpe e troviamo nuove strade.
(1) Riduzioni gesuite: piccoli nuclei cittadini in cui erano strutturate le missioni, con lo scopo di civilizzare e di evangelizzare. *Chris Lowney,  autore di Pope Francis: Why He Leads the Way He Leads (Loyola Press), è stato amministratore delegato di J.P. Morgan & Co. ed è ora direttore del consiglio di Catholic Health Initiatives, uno dei più grandi sistemi nazionali di assistenza sanitaria e ospedaliera.

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