il papa che scuote i laici

Francesco, il papa che scuote i laici

di Ferruccio Sansa
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 A volte basta un uomo. Una persona sola può cambiare le cose. Ce lo ha mostrato Francesco che in pochi mesi sembra aver mutato il volto della Chiesa. E ci ha ricordato il peso – e la responsabilità – di un individuo nel mondo in cui vive. Certo, lui è Papa, direte, ma ognuno di noi può tentare nel proprio orizzonte: famiglia, lavoro, città. Ecco, abbiamo smesso di credere in noi stessi, questo forse è il primo messaggio di Bergoglio. “Non ardeva forse il nostro cuore quando Egli lungo la via ci parlava”. A molti credenti, magari, vengono in mente le parole dei discepoli di Emmaus leggendo la bella – e molto umana – intervista del Papa a Civiltà Cattolica. Pensano a Qoelet: “C’è un tempo per piangere e uno per l’allegria”. Ecco, dopo gli affarismi dello Ior, la vergogna della pedofilia, i vari Bertone e Bagnasco che flirtavano con il neopaganesimo di Berlusconi ora possono ritrovare la speranza, che, come dice il Papa, “non è uno stato d’animo dell’uomo”, ma una virtù teologale. Possono ritrovare slancio nella fede, che non è agganciata alle sorti della fin troppo umana Chiesa di Roma, ma è comunque – di nuovo citiamo Francesco – questione di popolo. Impegno collettivo oltre che individuale. Ma forse le parole di Bergoglio possono dare un segnale altrettanto forte ai laici: non parole che arrivano da un Dio, ma comunque un messaggio da ascoltare. Perché la Chiesa è una voce importante nella vita civile e anche il laico ha il dovere di ascoltarla insieme con le altre. Perché laicità non significa confinare l’uomo a una dimensione materiale. “Aborto, matrimonio omosessuale e contraccettivi… non è necessario parlarne in continuazione”, dice il Papa. Ma soprattutto: “La Chiesa si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti”. E ricorda il dovere primo di pensare agli ultimi: “Bisogna partire dal basso”. Non dovrebbe ardere il cuore un poco anche ai laici – almeno ai progressisti – sentendo queste parole? Da quanto tempo non sono in bocca a un leader politico? Berlusconi, Monti, Letta, Napolitano, ma anche quell’Europa con tanta burocrazia e poca anima, da quanto tempo ci riempiono la testa di economia, finanza, spread e pil. Ma noi non siamo solo questo. In sei mesi Francesco è stato a Lampedusa, ha parlato ai giovani di Rio, ha usato parole di vicinanza per gli omosessuali. Ha fatto sentire una voce potente contro la guerra. Bergoglio, come il pontefice francescano del visionario libro “Roma senza papa” di Morselli, ha cambiato il volto della Chiesa. Queste sono le domande anche per i laici: non possiamo cambiare anche noi l’Italia e l’Europa? Perché abbiamo rinunciato a essere un popolo?

F. Sansa

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la CEI sente l’influenza di papa Francesco

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‘effetto Francesco’

Bagnasco cede al “nuovo corso”

di Giacomo Galeazzi

Dal «J’accuse» per il dilagare della cultura del «gender» al grido d’allarme per la disoccupazione. Dalla battaglia a difesa dei ratzingeriani «principi non negoziabili» (vita, famiglia, scuola cattolica) all’afflato sociale verso gli immigrati. Dal fortino assediato della bioetica alle aperture provocate dal «Vangelo della solidarietà» di Francesco. Nel radicale passaggio da Benedetto XVI a Bergoglio, la prolusione Cei cambia toni e contenuti per sintonizzarsi con il «nuovo corso» d’Oltretevere.
Niente salti nel buio
Il leader dei vescovi, Angelo Bagnasco benedice le larghe intese avvertendo che «ogni atto irresponsabile – da qualunque parte provenga – passerà al giudizio della storia». La priorità numero uno diventa il lavoro. Certo, il porporato mette in guardia dall’approvazione di un provvedimento sull’omofobia, perché «nessuno dovrebbe discriminare, né tanto meno incriminare in alcun modo, chi sostenga ad esempio che la famiglia è solo quella tra un uomo e una donna fondata sul matrimonio». Però nei sacri palazzi il clima non è più da crociata. Nel confronto con la modernità, adesso si punta su ciò che unisce piuttosto che su ciò che divide. Senza fare più sconti a quelle istituzioni richiamate domenica da Francesco ad occuparsi realmente del bene comune.
Cambio di stile
Il cardinale apre il Consiglio con un giro d’orizzonte sui temi di attualità del nostro paese. Nell’era Bergoglio, però, il testo della prolusione è più breve, i toni un po’ meno insistiti sulle questioni di bioetica, densi i riferimenti ad interventi del Papa come a Lampedusa, in difesa dei migranti, o domenica a Cagliari, accanto ai lavoratori e ai disoccupati.
Ripresa lontana Nella situazione attuale di crisi «grande impegno viene profuso dai responsabili della cosa pubblica, ma i proclamati segnali di ripresa non sembrano dare, finora, frutti concreti sul piano dell’occupazione che è il primo, urgentissimo obiettivo», evidenzia Bagnasco. Nessun riferimento esplicito al governo Letta o ai malumori di Berlusconi, ma stavolta è chiaro che dalla Chiesa italiana non arriveranno «assoluzioni» per chi anteporrà i propri interessi a quelli generali. «L’ora esige una sempre più intensa e stabile concentrazione di energie, di collaborazioni, di sforzi congiunti senza distrazioni, notte e giorno». Più in generale, «il centro che deve ispirare e muovere il Paese è la famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e una donna, grembo della vita, cellula sorgiva di relazioni». Sui temi della bioetica, però, Bagnasco non si sofferma oltre. Anche in Parlamento, del resto, l’atmosfera è mutata rispetto agli anni dei Dico e del testamento biologico. La politica è concentrata sulla crisi economica e le riforme istituzionali.
Sulla scia di Bergoglio
Ma soprattutto sul Soglio di Pietro da sei mesi c’ è il Papa del dialogo a tutto campo. Le sue parole a Civiltà Cattoliche hanno segnato la svolta : «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale. Questo non è possibile!». E anche la Cei (unica conferenza episcopale al mondo a non votare né il proprio presidente né il segretario generale e ad utilizzare lo strumento della prolusione in apertura dei lavori) cerca di sintonizzarsi con il Papa che sta rivoluzionando la Chiesa. Tra le riforme allo studio nel «laboratorio Bergoglio» c’è anche l’ipotesi di far eleggere ai vescovi italiani i loro vertici. La gigantesca presenza, sullo sfondo, del Papa
argentino, del resto, attraversa tutta la prolusione. Bagnasco, inoltre, fa riferimento a vari fatti di attualità, dal femminicidio alla necessità che la politica aiuti maggiormente le famiglie introducendo, a livello fiscale, il «fattore famiglia»; dal dilagare dell’individualismo alla persecuzione dei cristiani in vari paesi del mondo.
Meno bioetica, più sociale
Numerose sono le citazioni di Bergoglio, costante l’attenzione ai temi da lui sollevati, dalla povertà all’immigrazione. Nel «parlamentino» Cei siede anche Angelo Scola, arcivescovo di Milano, che verrà ricevuto dal Papa domani pomeriggio. E che ha subito fatto propria la sterzata «social», sintonizzandosi con il «Bergogliostyle». Bagnasco, da parte sua, promette che il consiglio permanente dedicherà fino a giovedì «largo spazio» per il «discernimento» su tre questioni che Francesco ha sollevato nell’incontro di maggio con i presuli.
Cei povera per i poveri
Si tratta in primo luogo del «dialogo con le istituzioni culturali, sociali e politiche» che Bergoglio ha confermato essere «compito di noi vescovi» (azzerando le velleità di egemonia della Segreteria di Stato sulla vita pubblica italiana) poi, di come «rendere forti le conferenze regionali perché siano voci delle diverse realtà» e infine del numero delle diocesi, tema sul quale ha lavorato un’apposita commissione, «su richiesta» del dicastero vaticano per i vescovi». Ma sul quale Francesco ha fatto chiaramente capire che il numero di diocesi italiane è eccessivo e che anche la Chiesa italiana è chiamata a divenire «povera e per i poveri». Insomma, i venti di riforma soffiano anche alla Cei. «Il filo diretto di Bergoglio con parecchi vescovi italiani sta dando i suoi frutti», osservano in Curia, dove si prepara la riunione d’ottobre degli 8 cardinali consiglieri che riformeranno l’intera «macchina».

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G. Piana ricorda E. Chiavacci

 

margheritona

Ricordo di Enrico Chiavacci

La morale e la sua dimensione sociale

di Giannino Piana

Cresciuto nel crogiolo della Chiesa fiorentina, che ha vissuto nell’immediato dopoguerra una stagione di vivo fervore intellettuale e spirituale, Enrico Chiavacci è stato un maestro indiscusso nel campo della teologia morale postconciliare, dove ha lasciato, con il suo insegnamento e con il suo impegno nella ricerca, una traccia profonda e altamente innovativa. I fermenti suscitati dal Vaticano II sono stati da lui recepiti con entusiasmo – è sufficiente ricordare qui il suo grande interesse per la Gaudium et spes alla quale ha dedicato uno dei primi commenti – e tradotti in uno sforzo di rinnovamento, che si è sviluppato nei vari campi della riflessione etica, con particolare attenzione alle questioni di frontiera. La sensibilità squisitamente teoretica lo ha, fin da principio, sollecitato a preoccuparsi delle basi concettuali della teologia morale per farla uscire dalla condizione di arretratezza in cui era sprofondata, grazie alla sua riduzione a casistica giuridica ad uso dei confessori, e per restituirle dignità culturale e credibilità scientifica. I suoi saggi meno conosciuti, perché più tecnici, ma forse anche più importanti, perché fondativi, sono dedicati alla ridefinizione delle categorie che stanno alla radice del fatto morale. Qui Chiavacci rivela le sue qualità di profondo conoscitore delle diverse scuole filosofiche contemporanee – dalla filosofia analitica alle nuove forme di utilitarismo e di contrattualismo – e la capacità di intrattenere con esse un dialogo costruttivo. E rivela anche l’interesse per gli apporti delle scienze umane, in particolare della sociologia e dell’antropologia culturale, alle quali fa frequentemente ricorso per spiegare fenomeni complessi, che esigono di essere anzitutto analizzati nelle loro dinamiche interne prima di poterli assoggettare al giudizio morale. Ma, al di là di questa importante opera di rifondazione metodologica, gli aspetti della ricerca di Chiavacci che meritano di essere ricordati sono i contenuti della sua proposta teologico-morale, la quale ha come asse portante la centralità assegnata alla dimensione sociale dell’agire umano. La sua dura reazione alla deriva individualistica dell’etica della modernità, deriva che non ha risparmiato neppure la morale cattolica, si è tradotta anzitutto – anche a questo livello affiora la sua preoccupazione teoretica – nella introduzione, all’interno della morale generale (cfr. il suo Complementi di morale generale, Cittadella editrice, Assisi 1980), delle categorie del “sociale” e della “cultura” in quanto fattori indispensabili per la comprensione dell’agire umano e per la sua valutazione. L’attenzione al “sociale” ha poi indotto Chiavacci ad occuparsi dei grandi nodi critici della situazione mondiale – dal lavoro all’economia, dalla politica alla giustizia sociale, dall’innovazione tecnologica ai diritti umani fino alla costruzione della pace – con posizioni nette e precise, che non hanno mancato di procurargli difficoltà da parte delle gerarchia ecclesiastica. Sono note le sue critiche radicali alla massimizzazione del profitto e la sua rigorosa (e profetica) denuncia dei giochi speculativi di Borsa, nonché l’accusa severa di immoralità verso ogni forma di guerra e l’adesione a un pacifismo radicale, quello della Pacem in terris, di cui non si è mai stancato di diffondere il messaggio. Il tratto distintivo della teologia morale di Chiavacci è l’attenzione alla dignità della persona e il rispetto della sua libertà di coscienza. Questa attenzione ha senz’altro trovato una forte motivazione esistenziale nel suo impegno di pastore della piccola comunità di San Silvestro a Ruffignano sopra Firenze nel comune di Sesto Fiorentino. Da questo rapporto con una comunità vera (anche se piccola) Chiavacci è stato costantemente sollecitato – lo riconosceva spesso parlando con gli amici – a condividere i problemi della gente, che sono poi i veri problemi della vita. Anche da questa condivisione viene la fecondità della sua ricerca teologica. * Teologo

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in ricordo di E. Chiavacci

calle viola

 

Enrico Chiavacci, la ricerca teologico-morale nel rinnovamento postconciliare

di Giannino Piana

Con la scomparsa di Enrico Chiavacci la ricerca teologico-morale italiana (e non solo) ha perso uno dei più importanti protagonisti del rinnovamento postconciliare. Docente per moltissimi anni presso lo Studio teologico fiorentino (divenuto successivamente Facoltà teologica dell’Italia Centrale), Chiavacci ha concorso alla formazione di intere generazioni di sacerdoti e di laici e ha soprattutto contribuito, con le sue numerose pubblicazioni di carattere scientifico, a far uscire la teologia morale dalla lunga stagione di stagnazione in cui era precipitata – la stagione della casistica giuridico-negativa dove a contare era anzitutto l’elencazione dei peccati – restituendole l’originario respiro umano ed evangelico. Impegnato già prima della celebrazione del Concilio in questa opera di ripensamento e di reinterpretazione del messaggio morale cristiano, Chiavacci ha da subito intravisto nella svolta conciliare l’aprirsi di nuove e feconde possibilità, cogliendo soprattutto nella Gaudium et spes, di cui è celebre un suo commento pubblicato dall’editrice Studium nel 1967, l’indicazione di una metodologia innovativa con la quale affrontare le diverse questioni etiche, in particolare quelle delicate e complesse sollevate sia dagli sviluppi della ricerca scientifico-tecnologica che dall’avanzare della tematica dei diritti soggettivi. Parola di Dio ed esperienza umana – i due cespiti richiamati dalla Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo – sono diventati per lui, nella loro stretta correlazione, il riferimento obbligato di una riflessione rigorosa, che ha spaziato dall’ambito della morale fondamentale e generale a quello della morale speciale, affrontando una serie vastissima di problematiche di grande attualità. L’apporto specifico di Chiavacci al rinnovamento della teologia morale va anzitutto collocato sul terreno metodologico. La preoccupazione che ha sollecitato, fin dall’inizio, la sua ricerca è stata quella di ridare dignità culturale a una disciplina che era ridotta a «scienza pratico-pratica» ad uso dei confessori, cioè a strumento funzionale all’amministrazione del sacramento della Penitenza secondo le regole fissate dal Tridentino. Al di là di una seria fondazione biblica mai trascurata, Chiavacci si è soprattutto impegnato a conferire solide basi teoriche all’etica teologica, attraverso l’utilizzo di categorie filosofiche antiche e nuove, capaci di ridarle – come auspicava il Concilio (cfr. Optatam totius , n. 16) – credibilità scientifica, e di favorire una positiva mediazione tra vangelo e cultura. Il taglio squisitamente teoretico dell’opera di Chiavacci ha, d’altronde, radici profonde. Figlio di Gaetano Chiavacci, un nome illustre della filosofia italiana del primo Novecento, ordinario di filosofia teoretica presso l’Università di Firenze (dopo essere stato vicedirettore della Normale di Pisa), egli ha iniziato la sua carriera di insegnamento come professore di storia della filosofia e di filosofia morale, acquisendo in tal modo una solida strumentazione teorica la quale non poteva che imprimere un forte rigore intellettuale alla sua successiva ricerca teologico-morale. Lo testimoniano in particolare alcuni saggi dedicati a questioni di frontiera, quali la legge naturale – esemplare rimane a tale proposito la voce da lui curata per il Dizionario enciclopedico di teologia morale del 1973 (Edizioni Paoline) ripubblicata con gli opportuni aggiornamenti, insieme a pochissime altre, nel Nuovo dizionario di teologia morale del 1990 (Edizioni S. Paolo) -la fondazione della norma morale, la distinzione tra argomentazione deontologica e argomentazione teleologica, l’autonomia della morale, ecc., espressi anche negli articoli pubblicati su Rocca negli anni dal 1968 al 2011. Alla profonda conoscenza dei classici, del cui pensiero non esita ad avvalersi, Chiavacci associa l’interesse per il contributo di autori e di scuole contemporanee con cui entra in dialogo rispettoso e costruttivo, accogliendone gli stimoli e facendone proprie alcune chiavi interpretative, soprattutto nell’accostamento a questioni di carattere etico-normativo. Questo vale non solo per la fenomenologia e per l’ermeneutica, ma anche per la filosofia analitica e per l’analisi linguistica, nonché per le nuove forme di
utilitarismo e di contrattualismo – frequente è nei suoi scritti il riferimento al pensiero di John Rawls – dalle quali è possibile ricavare criteri di scomposizione e di valutazione dell’agire che, applicati alla teologia morale, consentono una migliore comprensione del significato delle azioni umane. L’assegnazione di centralità alla mediazione filosofica non impedisce, d’altra parte, a Chiavacci di considerare con attenzione anche l’apporto di altre fonti. Non solo della Bibbia, alla quale si è già accennato, e della successiva tradizione della Chiesa, che egli dimostra di conoscere in maniera dettagliata e da cui riprende soprattutto l’istanza di aderenza alla concretezza delle situazioni presente nella casistica, ma anche delle scienze umane, in particolare della sociologia e dell’antropologia culturale, alle quali fa frequentemente ricorso per spiegare fenomeni umani complessi, che esigono di essere anzitutto analizzati nelle loro dinamiche interne prima di poterli assoggettare al giudizio morale. Da questo punto di vista sorprendono le competenze tecniche che egli dimostra di possedere nell’ambito di settori specialistici, quali quelli dell’economia e della sessuologia, della biomedicina e dellinformatica; competenze che hanno fatto di lui un interlocutore privilegiato di molti uomini di scienza appartenenti ai vari campi della ricerca. Un metodo dunque, quello di Chiavacci, che risponde pienamente alle indicazioni di rinnovamento suggerite dal Vaticano II e che ha determinato uno sviluppo significativo della teologia morale, che oltre a restituirle dignità e autorevolezza, le ha consentito di interagire positivamente non solo con le altre discipline teologiche, ma anche con il più vasto campo della cultura e della scienza, mettendola in grado di fornire una forma di discernimento assolutamente indispensabile per orientare in senso umanizzante i processi di trasformazione in atto nella società del nostro tempo. Ma il contributo di Chiavacci non è stato soltanto di ordine metodologico. Profondamente innovativi sono pure i contenuti della sua proposta teologico-morale, che ha come asse portante la centralità assegnata alla dimensione sociale dell’agire umano. La piena adesione data a una concezione antropologica, peraltro presente in diverse correnti del pensiero moderno – dal personalismo alla fenomenologia, dall’esistenzialismo al pensiero ebraico -, per la quale la socialità non è qualcosa di accidentale o di sopraggiunto, ma appartiene in maniera costitutiva alla natura del soggetto umano, in quanto essere di e in relazione, ha spinto Chiavacci a criticare duramente la deriva individualistica che ha caratterizzato l’etica della modernità (non esclusa quella cattolica) e a suggerire alcune piste da percorrere per il suo superamento. Uno degli aspetti più originali dell’opera di rinnovamento da lui intrapresa è costituito in proposito dall’inserimento del «sociale» nell’ambito della stessa morale generale. Egli ha infatti avvertito con chiarezza che le categorie tradizionali che stanno alla base dell’impianto dell’etica, e che non possono per questo essere accantonate, erano andate soggette a un processo di privatizzazione che le ha rese incapaci di fare spazio, se lasciate a se stesse, alla valenza sociale della moralità. Di qui il tentativo di accostare ad esse altre categorie – quelle del «sociale» e della «cultura» – come fattori di integrazione complementare – è questo il senso del titolo Complementi di morale generale assegnato al secondo volume di teologia morale pubblicato presso l’editrice Cittadella di Assisi nel 1980 e rifuso, dopo una sua accurata revisione, insieme al primo in unico volume Teologia morale fondamentale dalla stessa casa editrice nel 2007 – che hanno il compito di allargare l’orizzonte dell’esperienza etica, situandola nel contesto di precise condizioni socioculturali e rendendo trasparente la responsabilità che va esercitata da ciascuno nei confronti delle situazioni da esse derivanti. L’attenzione  al sociale non si arresta tuttavia qui. Chiavacci ha dedicato gran parte del suo impegno di teologo ad un approccio tematico alle numerose (e scottanti) questioni presenti sullo scenario di un mondo in costante e rapido cambiamento. Il lavoro e l’economia, la politica e la giustizia sociale, l’innovazione tecnologica, i diritti umani e la costruzione della pace sono i grossi nodi critici, che hanno maggiormente occupato l’interesse della sua ricerca e che sono stati fatti anche oggetto di interventi pubblici – Chiavacci era anche un brillante conferenziere assai ricercato sia in Italia che all’estero – con prese di posizione nette e decise che gli hanno talora provocato difficoltà di non poco conto da parte della gerarchia ecclesiastica. È nota, al riguardo, la sua critica radicale all’idea della massimizzazione del profitto e la sua rigorosa (e profetica) denuncia di immoralità di un sistema finanziario, che favorisce facili guadagni dovuti a giochi speculativi come quelli della Borsa; come è nota, l’altrettanto sua severa denuncia di immoralità di ogni forma di guerra – Chiavacci è stato a lungo membro della Commissione scientifica internazionale di Pax Christi – e l’adesione a un pacifismo radicale, quello della Pacem in terris , di cui non si è mai stancato di diffondere il messaggio. Altri (e numerosi) sono, ovviamente, i contributi da lui offerti nei vari ambiti della riflessione
morale. Basti qui ricordare i settori dell’etica sessuale e della bioetica, dove, al di là delle soluzioni tecniche, peraltro mai a priori demonizzate ma fatte oggetto di accoglienza critica e di serio discernimento, quelli che per lui contavano come criteri inderogabili erano il rispetto della dignità della persona e la salvaguardia della libertà della coscienza, la quale non può essere asservita a nulla e a nessuno, e di conseguenza il riconoscimento dei diritti di ogni soggetto umano, senza distinzione di sesso, di genere, di ceto sociale e di appartenenza culturale e religiosa. È significativo, a tale riguardo, che il suo ultimo intervento sulla Rivista di teologia morale abbia come oggetto la questione omosessuale, e che in esso Chiavacci evidenzi la vanificazione delle argomentazioni tradizionali e l’esigenza di ricercare nuove chiavi interpretative e valutative del fenomeno (Omosessualità, un tema da ristudiare, n. 167/2010, pp. 469-477). Questa attenzione alla persona, alla sua dignità e al rispetto della sua libertà di coscienza, che è un tratto distintivo della teologia morale di Chiavacci, quasi un leitmotiv trasversale, che percorre l’intera sua produzione – anche in questo egli è debitore alla lezione del Concilio, in particolare a documenti come la Gaudium et spes e la Dignitatis humanae – ha trovato senz’altro una forte motivazione esistenziale nella sua esperienza pastorale. Chiavacci – non molti forse lo sanno – ha sempre conciliato la sua vita di docente e di ricercatore con un impegno diretto in parrocchia, dapprima come viceparroco, poi per lunghi anni come parroco della piccola comunità di San Silvestro a Ruffignano sulla collina sopra Firenze nel comune di Sesto Fiorentino. Questa esperienza, che ha vissuto con grande intensità e senso di responsabilità – difficilmente accettava impegni di convegni o di conferenze in giorno di domenica per non stare lontano dai suoi parrocchiani – costituiva per lui un motivo di vanto che rivelava con orgoglio agli amici, perché da questo rapporto diuturno con una comunità vera (anche se piccola), oltre a ricavare una condizione di stabilità e di normalità, veniva sollecitato a guardare le cose dal basso, a misurarsi con le fatiche quotidiane di donne e uomini comuni, a condividere i problemi della gente, che sono poi i veri problemi della vita. Forse anche a questa esperienza va ascritta la fecondità e la coerenza della sua ricerca teologica.

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papa Francesco, quel monello

papa monello

Dimesso un Papa, se ne fa un altro. Ieri c’era Ratzi l’austero, il teologo ricoperto di broccato, pizzi e merletti. Oggi c’è Francesco che telefona ai fedeli, posa per le foto con lo smartphone, conia slogan, scavalla a sinistra il Pd. Una specie di Renzi in sottana?

quattro risate con l’aiuto de ‘il fatto quotidiano’

(vedi link qui sotto)

Papa Francesco, quel monello – Mario Natangelo – Il Fatto Quotidiano.

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l’onestà che non fa notizia

 

Paura, pregiudizio e… l’onestà che non “fa notizia”!
Essere inseguiti per strada è una cosa che fa paura un po’ a tutti, specie se a usare clacson, lampeggianti e frecce per fare segno di fermarsi sono tre stranieri scuri di pelle, che nel racconto di molti media italiani sono quasi sempre pericolosi e potenziali delinquenti. Non ha fatto eccezione Efisio Leori, 67 anni, ristoratore di Domus de Maria, che rientrava da una visita fatta al fratello e in quella occasione aveva scordato il portafogli sopra il cofano di una macchina. 
Hidayat Ullah uno dei tre “inseguitori”
Ebbene i tre inseguitori, tre pakistani, non avevano alcuna intenzione di picchiare o derubare lo spaventatissimo signor Efisio, anzi volevano restituirgli quello che aveva scordato, compreso dei 200 euro che conteneva, della patente e delle carte di credito. Insomma, una storia che dimostra come il luogo comune dell'”immigrato criminale” sia, appunto, un luogo comune, ma che ci fa anche riflettere sull’atteggiamento dei nostri mezzi di informazione. Sempre pronti, nella maggior parte dei casi, a raccontare la storia dello straniero stupratore, ladro o spacciatore, ma che invece non danno nessun rilievo ad eventi come questi…
 
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Ratzinger risponde a Odifreddi

 

Ratzinger

 “Caro Odifreddi le racconto chi era Gesù”

La fede, la scienza, il male. Un dialogo a distanza fra Benedetto XVI e il matematico


ll. mo Signor Professore Odifreddi, (…) vorrei ringraziarLa per aver cercato fin nel dettaglio di confrontarsi con il mio libro e così con la mia fede; proprio questo è in gran parte ciò che avevo inteso nel mio discorso alla Curia Romana in occasione del Natale 2009. Devo ringraziare anche per il modo leale in cui ha trattato il mio testo, cercando sinceramente di rendergli giustizia.
Il mio giudizio circa il Suo libro nel suo insieme è, però, in se stesso piuttosto contrastante. Ne ho letto alcune parti con godimento e profitto. In altre parti, invece, mi sono meravigliato di una certa aggressività e dell’avventatezza dell’argomentazione. (…)
Più volte, Ella mi fa notare che la teologia sarebbe fantascienza. A tale riguardo, mi meraviglio che Lei, tuttavia, ritenga il mio libro degno di una discussione così dettagliata. Mi permetta di proporre in merito a tale questione quattro punti:
1. È corretto affermare che “scienza” nel senso più stretto della parola lo è solo la matematica, mentre ho imparato da Lei che anche qui occorrerebbe distinguere ancora tra l’aritmetica e la geometria. In tutte le materie specifiche la scientificità ha ogni volta la propria forma, secondo la particolarità del suo oggetto. L’essenziale è che applichi un metodo verificabile, escluda l’arbitrio e garantisca la razionalità nelle rispettive diverse modalità.
2. Ella dovrebbe per lo meno riconoscere che, nell’ambito storico e in quello del pensiero filosofico, la teologia ha prodotto risultati durevoli.
3. Una funzione importante della teologia è quella di mantenere la religione legata alla ragione e la ragione alla religione. Ambedue le funzioni sono di essenziale importanza per l’umanità. Nel mio dialogo con Habermas ho mostrato che esistono patologie della religione e – non meno pericolose – patologie della ragione. Entrambe hanno bisogno l’una dell’altra, e tenerle continuamente connesse è un importante compito della teologia.
4. La fantascienza esiste, d’altronde, nell’ambito di molte scienze. Ciò che Lei espone sulle teorie circa l’inizio e la fine del mondo in Heisenberg, Schrödinger ecc., lo designerei come fantascienza nel senso buono: sono visioni ed anticipazioni, per giungere ad una vera conoscenza, ma sono, appunto, soltanto immaginazioni con cui cerchiamo di avvicinarci alla realtà. Esiste, del resto, la fantascienza in grande stile proprio anche all’interno della teoria dell’evoluzione. Il gene egoista di Richard Dawkins è un esempio classico di fantascienza. Il grande Jacques Monod ha scritto delle frasi che egli stesso avrà inserito nella sua opera sicuramente solo come fantascienza. Cito: “La comparsa dei Vertebrati tetrapodi… trae proprio origine dal fatto che un pesce primitivo “scelse” di andare ad esplorare la terra, sulla quale era però incapace di spostarsi se non saltellando in modo maldestro e creando così, come conseguenza di una modificazione di comportamento, la pressione selettiva grazie alla quale si sarebbero sviluppati gli arti robusti dei tetrapodi. Tra i discendenti di questo audace esploratore, di questo Magellano dell’evoluzione, alcuni possono correre a una velocità superiore ai 70 chilometri orari…” (citato secondo l’edizione italiana Il caso e la necessità, Milano 2001, pagg. 117 e sgg.).
In tutte le tematiche discusse finora si tratta di un dialogo serio, per il quale io – come ho già detto ripetutamente  –  sono grato. Le cose stanno diversamente nel capitolo sul sacerdote e sulla morale cattolica, e ancora diversamente nei capitoli su Gesù. Quanto a ciò che Lei dice dell’abuso morale di minorenni da parte di sacerdoti, posso  –  come Lei sa  –  prenderne atto solo con profonda costernazione. Mai ho cercato di mascherare queste cose. Che il potere del male penetri fino a tal punto nel mondo interiore della fede è per noi una sofferenza che, da una parte, dobbiamo sopportare, mentre, dall’altra, dobbiamo al tempo stesso, fare tutto il possibile affinché casi del genere non si ripetano. Non è neppure motivo di conforto sapere che, secondo le ricerche dei sociologi, la percentuale dei sacerdoti rei di questi crimini non è più alta di quella presente in altre categorie professionali assimilabili. In ogni caso, non si dovrebbe presentare ostentatamente questa deviazione come se si trattasse di un sudiciume specifico del cattolicesimo.
Se non è lecito tacere sul male nella Chiesa, non si deve però, tacere neppure della grande scia luminosa di bontà e di purezza, che la fede cristiana ha tracciato lungo i secoli. Bisogna ricordare le figure grandi e pure che la fede ha prodotto  –  da Benedetto di Norcia e sua sorella Scolastica, a Francesco e Chiara d’Assisi, a Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, ai grandi Santi della carità come Vincenzo dè Paoli e Camillo de Lellis fino a Madre Teresa di Calcutta e alle grandi e nobili figure della Torino dell’Ottocento. È vero anche oggi che la fede spinge molte persone all’amore disinteressato, al servizio per gli altri, alla sincerità e alla giustizia. (…)
Ciò che Lei dice sulla figura di Gesù non è degno del Suo rango scientifico. Se Lei pone la questione come se di Gesù, in fondo, non si sapesse niente e di Lui, come figura storica, nulla fosse accertabile, allora posso soltanto invitarLa in modo deciso a rendersi un po’ più competente da un punto di vista storico. Le raccomando per questo soprattutto i quattro volumi che Martin Hengel (esegeta dalla Facoltà teologica protestante di Tübingen) ha pubblicato insieme con Maria Schwemer: è un esempio eccellente di precisione storica e di amplissima informazione storica. Di fronte a questo, ciò che Lei dice su Gesù è un parlare avventato che non dovrebbe ripetere. Che nell’esegesi siano state scritte anche molte cose di scarsa serietà è, purtroppo, un fatto incontestabile. Il seminario americano su Gesù che Lei cita alle pagine 105 e sgg. conferma soltanto un’altra volta ciò che Albert Schweitzer aveva notato riguardo alla Leben-Jesu-Forschung (Ricerca sulla vita di Gesù) e cioè che il cosiddetto “Gesù storico” è per lo più lo specchio delle idee degli autori. Tali forme mal riuscite di lavoro storico, però, non compromettono affatto l’importanza della ricerca storica seria, che ci ha portato a conoscenze vere e sicure circa l’annuncio e la figura di Gesù.
(…) Inoltre devo respingere con forza la Sua affermazione (pag. 126) secondo cui avrei presentato l’esegesi storico-critica come uno strumento dell’anticristo. Trattando il racconto delle tentazioni di Gesù, ho soltanto ripreso la tesi di Soloviev, secondo cui l’esegesi storico-critica può essere usata anche dall’anticristo – il che è un fatto incontestabile. Al tempo stesso, però, sempre – e in particolare nella premessa al primo volume del mio libro su Gesù di Nazaret – ho chiarito in modo evidente che l’esegesi storico-critica è necessaria per una fede che non propone miti con immagini storiche, ma reclama una storicità vera e perciò deve presentare la realtà storica delle sue affermazioni anche in modo scientifico. Per questo non è neppure corretto che Lei dica che io mi sarei interessato solo della metastoria: tutt’al contrario, tutti i miei sforzi hanno l’obiettivo di mostrare che il Gesù descritto nei Vangeli è anche il reale Gesù storico; che si tratta di storia realmente avvenuta. (…)
Con il 19° capitolo del Suo libro torniamo agli aspetti positivi del Suo dialogo col mio pensiero. (…) Anche se la Sua interpretazione di Gv 1,1 è molto lontana da ciò che l’evangelista intendeva dire, esiste tuttavia una convergenza che è importante. Se Lei, però, vuole sostituire Dio con “La Natura”, resta la domanda, chi o che cosa sia questa natura. In nessun luogo Lei la definisce e appare quindi come una divinità irrazionale che non spiega nulla. Vorrei, però, soprattutto far ancora notare che nella Sua religione della matematica tre temi fondamentali dell’esistenza umana restano non considerati: la libertà, l’amore e il male. Mi meraviglio che Lei con un solo cenno liquidi la libertà che pur è stata ed è il valore portante dell’epoca moderna. L’amore, nel Suo libro, non compare e anche sul male non c’è alcuna informazione. Qualunque cosa la neurobiologia dica o non dica sulla libertà, nel dramma reale della nostra storia essa è presente come realtà determinante e deve essere presa in considerazione. Ma la Sua religione matematica non conosce alcuna informazione sul male. Una religione che tralascia queste domande fondamentali resta vuota.
Ill. mo Signor Professore, la mia critica al Suo libro in parte è dura. Ma del dialogo fa parte la franchezza; solo così può crescere la conoscenza. Lei è stato molto franco e così accetterà che anch’io lo sia. In ogni caso, però, valuto molto positivamente il fatto che Lei, attraverso il Suo confrontarsi con la mia Introduzione al cristianesimo, abbia cercato un dialogo così aperto con la fede della Chiesa cattolica e che, nonostante tutti i contrasti, nell’ambito centrale, non manchino del tutto le convergenze.
Con cordiali saluti e ogni buon auspicio per il Suo lavoro.

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uno sguardo molto critico nei confronti di papa Francesco

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di fronte a un entusiasmo e a una valutazione molto positivi e abbastanza generalizzati nei confronti di papa Francesco, esistono anche timori e critiche anche forti soprattutto da parte di certa destra ‘ateodevota’ o ‘cattoreazionaria’ 

da sinistra si nota un forte apprezzamento generale, e anche da parte di chi nel passato ha avuto modo di criticare e fortemente disapprovare dichiarazioni e scelte di Bergoglio: mi sembra di costatare la presenza di un solo sito (Cattolicesimo Reale) fortemente e totalmente ipercritico nei confronti di papa Francesco: conoscere fasempre bene:

 

Speranze, illusioni e realtà a proposito di un pontificato

I lunghi anni di restaurazione mascherata o aperta che hanno frustrato, con Wojtyla e Ratzinger, le illusioni del Vaticano II, possono spiegare la disperata speranza con cui anche i cattolici più critici guardano al papa «venuto dalla fine del mondo». A costo di alimentare nuove illusioni.

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Solo misericordia?

Perfino Boff, che aveva rotto col cattolicesimo, celebra come teologo della liberazione «nei fatti» il cardinal Bergoglio, che ne fu aspro avversario in Argentina. E Raniero La Valle pensa che il nuovo papa si avvii a superare le idee radicate nel nostro «immaginario religioso» di un Dio vendicativo e di un Cristo giudice, legate a loro volta ai dogmi del peccato originale e dell’inferno – sempre meno digeribili dai cattolici più aperti.

«Finalmente abbiamo un pastore che invece di parlare di principi non negoziabili … o condannare “comportamenti devianti”», scrive La Valle sul n. 12 di “Rocca”, afferma non soltanto «che Dio è misericordia» ma «che Dio è solo misericordia e perdona sempre» in contrasto con la tradizione preconciliare di un «Dio che giudica, e poi perdona, ma anche punisce e condanna in questa vita e nell’altra»; di «un Dio offeso, che … aveva voluto essere risarcito col sacrificio del Figlio, che proprio per questo, “discendendo dai cieli”, sarebbe stato mandato a morire sulla croce»: il Dio, in una parola, incarnato nel giudizio universale di Michelangelo, che «pesa come una cappa di piombo sulla nostra fede».

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L’inizio e la fine della storia

Ma è stato proprio papa Francesco a smentire tale supposto abbandono della dottrina raffigurata da Michelangelo affermando: «Nel Credo noi professiamo che Gesù “di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti”. La storia umana ha inizio con la creazione dell’uomo e della donna a immagine e somiglianza di Dio e si chiude con il giudizio finale di Cristo. Spesso si dimenticano questi due poli della storia, e soprattutto la fede nel ritorno di Cristo e nel giudizio finale a volte non è così chiara e salda nel cuore dei cristiani. … L’immagine utilizzata dall’evangelista è quella del pastore che separa le pecore dalle capre. Alla destra sono posti coloro che hanno agito secondo la volontà di Dio, soccorrendo il prossimo affamato, assetato, straniero, nudo, malato, carcerato… mentre alla sinistra vanno coloro che non hanno soccorso il prossimo. Questo ci dice che noi saremo giudicati da Dio sulla carità.» (Udienza generale, S. Pietro 24 aprile 2013)

Se dunque il papa, riprendendo il testo biblico (Matteo, 25, 32-34), mette l’accento sulla «carità» come metro del giudizio finale, ribadisce però che esso ci sarà, come il paradiso e l’inferno, nel modo in cui appunto lo rappresentò il Buonarroti.

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I gay, il diavolo e Santa Teresina

Allo stesso modo Francesco, in varie occasioni, non ha affatto rinunciato a parlare dei «princìpi non negoziabili» e a condannare i «comportamenti devianti», sulla falsariga di quanto ebbe a scrivere il 22 giugno 2010 ai monasteri carmelitani di Buenos Aires l’allora cardinal Bergoglio per denunciare l’imminente approvazione della legge che legalizzava il matrimonio e le adozioni omosessuali.

In quella legge il futuro papa Francesco ravvisava «il rifiuto totale della legge di Dio, incisa anche nei nostri cuori» e aggiungeva: «Ricordo una frase di Santa Teresina quando parla della sua malattia infantile. Dice che l’invidia del Demonio voleva vendicarsi della sua famiglia per l’entrata nel Carmelo della sua sorella maggiore. Qui pure c’è l’invidia del Demonio, attraverso la quale il peccato entrò nel mondo: un’invidia che cerca astutamente di distruggere l’immagine di Dio, cioè l’uomo e la donna che ricevono il comando di crescere, moltiplicarsi e dominare la terra. Non siamo ingenui: questa non è semplicemente una lotta politica, ma è un tentativo distruttivo del disegno di Dio.»

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La guerra di Dio

 

In questa lettera alle suore carmelitane, inoltre, insieme al vecchio armamentario di Dio e del Diavolo, coi rispettivi «disegni», ricompariva anche il sogno teocratico di una società modellata secondo la morale cattolica e secondo la morale “naturale” con essa coincidente: «Oggi la Patria», concludeva infatti Bergoglio, «ha bisogno dell’assistenza speciale dello Spirito Santo che porti la luce della verità in mezzo alle tenebre dell’errore. … Invocate il Signore affinché mandi il suo Spirito sui senatori che saranno impegnati a votare. Che non lo facciano mossi dall’errore o da situazioni contingenti, ma secondo ciò che la legge naturale e la legge di Dio indicano loro. Guardiamo a san Giuseppe, a Maria e al Bambino e chiediamo loro con fervore di difendere la famiglia argentina. … Che ci soccorrano, difendano e accompagnino in questa guerra di Dio.»

Parole, le ultime, che ripetono quelle con qui Gregorio IX chiamava i fedeli, nel 1230, alla crociata contro un popolo contadino (ed eretico): «siate pronti alla guerra contro i pagani … Perché non è solo la vostra guerra, ma la guerra di Dio.» (bolla Contro il popolo tedesco degli Stedingi). Mentre l’accostamento della legge sulle unioni gay al Diavolo fa tornare alla mente l’altro Gregorio, Magno (590-604), secondo il quale «era giusto che i Sodomiti, ardendo di desideri perversi originati dal fetore della carne, perissero per mezzo del fuoco e dello zolfo.» (Commento morale a Giobbe)

Echi antichi di una dottrina vecchissima, anzi decrepita quanto basta per mettere una pietra tombale sulle speranze di rinnovamento suscitate dal papa “nuovo”.

 

 

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