il web sta cambiando tutto, anche dentro la chiesa

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La chiesa al tempo del web

di Antonio Spadaro
in “La Stampa” del 27 settembre 2013

Internet sta cambiando il nostro modo di pensare e di vivere. Le recenti tecnologie digitali non sono più tools, cioè strumenti completamente esterni al nostro corpo e alla nostra mente. La Rete non è uno strumento, ma un «ambiente» nel quale noi viviamo. Forse anche qualcosa di più, un vero e proprio «tessuto connettivo» della nostra esperienza della realtà. Ha scritto Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni del 2010: «I moderni mezzi di comunicazione sono entrati da tempo a far parte degli strumenti ordinari attraverso i quali le comunità ecclesiali si esprimono, entrando in contatto con il proprio territorio e instaurando, molto spesso, forme di dialogo a più vasto raggio».
È tanto più vero se consideriamo come la Rete sia diventata importante per lo sviluppo delle relazioni tra gli appartenenti a quella che ormai viene comunemente definita «generazione Y», cioè quella dei giovani nati tra gli Anni Ottanta e il Duemila. La generazione Y è caratterizzata da una grande familiarità con la comunicazione, i media e le tecnologie digitali. È la generazione del cosiddetto web 2.0, nel quale i rapporti tra le persone sono al centro del sistema e dello scambio comunicativo, almeno tanto quanto lo sono i contenuti.
I social network non danno espressione a un insieme di individui, ma a un insieme di relazioni tra individui. Il concetto chiave non è più la «presenza» in Rete, ma la «connessione»: se si è presenti ma non connessi, si è «soli». Si entra in Rete per sperimentare o incrementare una qualche forma di «prossimità», di vicinanza. Occorre dunque comprendere bene in che modo il concetto stesso di «prossimo» – così caro alla terminologia cristiana, e così legato alla vicinanza spaziale – si evolva proprio a causa della Rete. Da qui certamente seguiranno conseguenze di ordine politico.
La possibile separazione tra connessione e incontro, tra condivisione e relazione implica il fatto che oggi le relazioni, paradossalmente, possono essere mantenute senza rinunciare alla propria condizione di isolamento egoistico. Sherry Turkle ha riassunto questa condizione nel titolo di un suo libro: Alone together, cioè: «Insieme ma soli». Anzi, gli «amici», proprio perché sempre on line, cioè disponibili al contatto o immaginati come presenti a dare un’occhiata ai nostri aggiornamenti sui social network , sono immancabilmente presenti e dunque, proprio per questo, rischiano di svanire in una proiezione del nostro immaginario. La frattura nella prossimità è data dal fatto che la vicinanza è stabilita dalla mediazione tecnologica per cui mi è «vicino», cioè prossimo, chi è «connesso» con me.
Il vero nucleo problematico della questione è il concetto di «presenza» al tempo dei media digitali e dei network sociali che sviluppano una forma di presenza digitale. Che cosa significa essere presenti gli uni agli altri? Che cosa significa essere presenti a un evento, a una decisione? L’esistenza digitale appare configurarsi con uno statuto ontologico incerto: prescinde dalla presenza fisica, ma offre una forma, a volte anche vivida, di presenza sociale. Il concetto di partecipazione – ecclesiale o politica – è strettamente legato a quello di «presenza».
L’esistenza digitale, certo, non è un semplice prodotto della coscienza, un’immagine della mente, ma non è neanche una res extensa , una realtà oggettiva ordinaria, anche perché esiste solo nell’accadere dell’interazione. Le sfere esistenziali coinvolte nella presenza in Rete sono infatti da indagare meglio nel loro intreccio. Si apre davanti a noi un mondo «intermediario», ibrido, la cui ontologia andrebbe indagata meglio.
Alla luce delle considerazioni sull’essere «prossimo» com’è possibile dunque immaginare il futuro della vita di una comunità ecclesiale al tempo della Rete? Già nel 2001 Manuel Castells comprendeva bene che la questione chiave per noi è il passaggio dalla comunità al network come forma centrale di interazione organizzativa. Le comunità, almeno nella tradizione della ricerca sociologica, erano basate sulla condivisione di valori e organizzazione sociale. I network sono costituiti attraverso scelte e strategie di attori sociali, siano essi individui, famiglie o gruppi.
La Chiesa al tempo della Rete potrebbe finire con l’essere vista come una struttura di supporto, un hub , una piazza, dove la gente possa «raggrupparsi», dar vita a gruppi, o meglio «grappoli» (cluster) di connessioni. Questa visione offre un’idea della comunità che fa proprie le caratteristiche di una comunità virtuale intesa come leggera, senza vincoli storici e geografici, fluida.
Come valutare questo modello? Certamente la relazionalità della Rete funziona se i collegamenti (link) sono sempre attivi: qualora un nodo o un collegamento fosse interrotto, l’informazione non passerebbe e la relazione sarebbe impossibile. La reticolarità della vite nei cui tralci scorre una medesima linfa dunque non è molto distante dall’immagine di Internet. La Chiesa, infatti, è un corpo vivo se tutte le relazioni al suo interno sono vitali. Già nel Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni del 2011 il Papa notava che il web sta contribuendo allo sviluppo di «nuove e più complesse forme di coscienza intellettuale e spirituale, di consapevolezza condivisa». La rete di queste conoscenze dà vita a una forma di «intelligenza connettiva». Mons. Gerhard Ludwig Müller, oggi prefetto per la Congregazione della Dottrina della Fede, nel novembre 2012 aveva colto lucidamente la sfida, cioè la «responsabilità della Chiesa nella formazione di una cultura umana collettiva, per la quale la società odierna, con la sua rete di connessioni internazionali – globali – fornisce del resto degli ottimi presupposti».
Tuttavia restano aperti molti interrogativi. La Chiesa infatti non è semplicemente una rete di relazioni immanenti, né è concepibile come un progetto enciclopedico frutto dello sforzo di uomini di buona volontà. La Chiesa ha sempre un principio e un fondamento «esterno» e non è riducibile a un modello sociologico. L’appartenenza alla Chiesa è data da un fondamento esterno perché è Cristo che, per mezzo dello Spirito, unisce a sé intimamente i suoi fedeli. La Chiesa insomma è un «dono» e non un «prodotto» della comunicazione. E questa prospettiva aiuta a comprendere come la stessa società civile non è un «prodotto». L’«appartenenza» (ecclesiale, civile…) non è il prodotto della comunicazione. I passi dell’iniziazione cristiana non possono risolversi in una sorta di «procedura di accesso» (login) all’informazione, forse anche sulla base di un «contratto», che permette anche una rapida disconnessione (log off). Il radicamento in una comunità non è una sorta di «installazione» (set up) di un programma (software) in una macchina (hardware), che si può dunque facilmente anche «disinstallare» (uninstall).
Ecco allora il nodo: la città di Dio e la città dell’uomo sono chiamate a pensare l’appartenenza al tempo della Rete che, di sua natura, è fondata sui link , cioè sui collegamenti orizzontali. Papa Francesco ha affermato che la cittadinanza è piena solamente se letta alla luce dell’esperienza di popolo che condivide un orizzonte comune che trascende il bilanciamento fluttuante e provvisorio di interessi: «È impossibile immaginare un futuro per la società senza un forte contributo di energie morali in una democrazia che rimanga chiusa nella pura logica o nel mero equilibrio di rappresentanza di interessi costituiti». E dunque «essere cittadini significa essere convocati per una scelta, chiamati a una lotta, a questa lotta di appartenenza a una società e a un popolo». Ma questa, mutatis mutandis , è una definizione valida anche per coloro che sono parte del «popolo fedele di Dio in cammino» che è la Chiesa.

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