Nel Vangelo troviamo l’indirizzo di Dio. Possiamo sapere dove abita, che lavoro fa e cosa fare per aiutarlo. Dobbiamo però “rivedere” l’idea di Dio socialmente accettata e rinunciare alla recita del personaggio che ci siamo costruiti. Dobbiamo accogliere un Dio che non viene per realizzare le nostre smanie ma il suo Regno che prevede opzioni precise e non negoziabili: la misericordia per le nostre miserie e la compassione per gli ultimi. Dobbiamo depositare le maschere e calarci con Lui nell’abisso scavato dal male. Il Vangelo apre strade, percorsi per andare incontro a chi si è fermato; le strutture aprono sedi per ricevere quelli che si muovono. Il Vangelo non ha orari, agende, programmi; le strutture selezionano gli ingressi, accettano o respingono. Il Vangelo rende fratelli e sorelle; le strutture utenti. Il Vangelo risveglia e alimenta carismi; le strutture assegnano ruoli. Il Vangelo costruisce comunità; le strutture organizzano uffici.
È impossibile evangelizzare le strutture, visto che il Vangelo si arresta nel punto esatto in cui inizia la struttura. Fuori il Vangelo dentro lo statuto e le regole fatte a misura d’uomo. D’altronde il Vangelo è rinuncia o perdita di ogni status symbol, è abbassamento e non prevede l’esaltazione di se stessi utilizzando Dio. Le strutture costituiscono a tutt’oggi un’insuperabile pietra d’inciampo per molti. Occorre recuperare l’immediatezza dell’esperienza di fede, come relazione con Colui che non si stanca di attenderci sulle vie dell’Amore.
La reificazione (vedi Marx e G. Lukacs) è una delle conseguenze più inquietanti del modo di produzione capitalistico. Non solo si determina lo spostamento di valore dalle persone alle cose ma i singoli stessi si valutano secondo parametri di utilità funzionale o produttiva. Chi è in esubero secondo le esigenze del capitale, chi non può produrre o semplicemente non raggiunge risultati quantificabili in termini economici non serve e quindi può essere scartato. Questa visione antropologica, ad altissima capacità di propagazione, riduce e uccide. Fa leva sugli istinti peggiori quelli cioè che sembrano realizzare l’uomo ed invece lo deformano. Riuscire a far parte di un sistema lasciando morti e feriti dietro il proprio passaggio appaga solo il delirio di onnipotenza ed innesca un inarrestabile processo di svuotamento dei contenuti essenziali.
testo di papa Francesco:
“…è inaccettabile, perché disumano, un sistema economico mondiale che scarta uomini, donne e bambini, per il fatto che questi sembrano non essere più utili secondo i criteri di redditività delle aziende o di altre organizzazioni. Proprio questo scarto delle persone costituisce il regresso e la disumanizzazione di qualsiasi sistema politico ed economico: coloro che causano o permettono lo scarto degli altri – rifugiati, bambini abusati o schiavizzati, poveri che muoiono per la strada quando fa freddo – diventano essi stessi come macchine senza anima, accettando implicitamente il principio che anche loro, prima o poi, verranno scartati – è un boomerang questo! Ma è la verità: prima o poi loro verranno scartati – quando non saranno più utili ad una società che ha messo al centro il dio denaro”. (dalDiscorso di Papa Francesco alla Delegazione della “Global Foundation“, 14/01/2017)
di Alberto Melloni in “la Repubblica” del 12 marzo 2018
“chi vuole può sentire la commovente dolcezza del vangelo come vangelo, che alla chiesa pellegrina nella storia dà rimprovero e consolazione, fortezza e grazia”
Lo so. L’egocentrismo cattolico che non scolora la papolatria istintiva in Italia, lo iato morale che da decenni separa i pontefici da molti leader politici — tutto potrebbe far pensare che quello che si dice di Francesco da cinque anni lo si sarebbe detto di chiunque altro fosse stato eletto il 13 marzo 2013. Ma non è vero. Perché Francesco ha un baricentro peculiare, nudo, secco, perfino unilaterale: quello di un papato “kerygmatico”. Il “kèrygma” (annuncio), nel Nuovo Testamento è il nucleo del vangelo di Gesù. Non cancella la catechesi, la dottrina, le norme: queste Francesco le lascia ad altri, se sono capaci. Lui tiene per sé l’annuncio che smaschera l’idolo del potere, così da non sciupare quel che “Dio ha scelto”. Così quando tacciono i denigratori e quelli che lui chiama i “pappagalli bergogliani” (che cinguettano di “periferie”, di “chiesa in uscita” o di “migranti” sperandone una carriera), chi vuole può sentire la commovente dolcezza del vangelo come vangelo, che alla chiesa pellegrina nella storia dà rimprovero e consolazione, fortezza e grazia. Se nel marzo 2013 la maggioranza che Ratzinger sperava eleggesse il cardinale Scola fosse stata solida o sincera, in questi giorni festeggeremmo l’anno quinto di Paolo VII (dicono avrebbe scelto questo nome). Fine teologo, il “papa ciellino”, avrebbe scritto dotte encicliche. La causa di beatificazione di Giussani sarebbe avanzata. Renzi non avrebbe toccato Lupi. Parolin sarebbe nunzio in Venezuela e Bassetti vescovo emerito di Perugia, entrambi senza porpora. Chi campa lodando qualunque Papa, lo loderebbe; i critici sarebbero bastonati senza pietà. Unico dato comune: un fiume d’inchiostro avrebbe seguito i suoi atti sui beni mobiliari e immobiliari della chiesa, sulla riforma della curia e sui pedofili preti. Perché il disordine sistemico che aveva scosso la chiesa e Benedetto XVI aveva portato il Conclave a ritenere (sbagliando) che esso dipendesse solo dagli italiani e solo da queste tre piaghe purulente. Di quelle piaghe, in effetti, anche Francesco si è dunque dovuto occupare: e chi ne monitora i passi falsi credendo di smascherarne le debolezze, non ha capito che Francesco onora il capitolato conclavario col disincanto dell’uomo privo di ansie da prestazione religiosa. Il denaro, ad esempio, non è riformabile. Dopo Porta Pia fu pensato come un surrogato del potere temporale a difesa della chiesa: ma non si tenne conto (dice il cardinale Silvestrini) che quando appaiono i soldi i preti buoni sono spesso così buoni che si fidano dei delinquenti, e i preti delinquenti si fidano sempre dei delinquenti perché sono come loro. Dunque Francesco ha agito sullo Ior con troppe commissioni e troppe nomine: sapendo che però si può ottenere solo lo stesso grado di moralità che c’è nel mondo finanziario. Dicono non sia alto. Qualcosa di simile vale per la curia: la riforma in cantiere da un lustro riguarda i mansionari e lascerà alla bolla di promulgazione la sostanza teologica.
Ma Francesco sa che la curia si riforma non se il Papa si agita: ma se l’episcopato, senza coniglismi, entra nella logica di sinodalità che si apprende facendola. Quanto poi ai pedofili preti, coperti da vescovi eretici (ché se un vescovo segue la “ragion di chiesa” contro le vittime è posseduto da un demone anticristiano) Francesco sa che le grida sulla “tolleranza zero” non bastano e prima o poi permetteranno killeraggi mirati. Per cui, fatto tutto quello che è necessario sul piano giuridico, bisogna interrogarsi sulla elezione dei vescovi e sulla formazione dei preti: cioè guardare negli occhi la questione del ministero, che Francesco non ha voluto ancora affrontare. Questa attitudine non a tutti basta. Ma se uno guarda ai siti del fondamentalismo cattolico, troverà accuse febbricitanti, giochi di specchi social per far pensare che i nemici di Francesco siano tanti e pronti a deporlo. In realtà i nemici del Papa vorrebbero sembrare la metà della chiesa, ma sono pochi: una rumorosa armata in cerca di un cardinal Brancaleone, che li conduca al Conclave della rivincita che sperano vicino. Francesco, non senza crudeltà di un gesuita, glielo fa credere vicino da tempo, dicendo che si aspetta un papato corto, cinque anni. Adesso al quinto anno ci siamo: il Papa sta bene e la buona salute di Ratzinger impedisce ogni pensiero di rinunzia. Il magistero fragile del papa “kerygmatico” continua. Papa Bergoglio, sia chiaro, non ha un angelicato disinteresse per il domani: non dà posti cardinalizi ad alcuni perché quando il suo pontificato finirà — lo decida solo Dio o lo decidano insieme si vedrà — non li vuole al Conclave. Con la rarefazione dei cardinali italiani favorisce il primo papato italiano del secolo XXI, che prima o poi verrà. Ma non ha nessuna intenzione di manovrare e non fa neppure norme per proteggere quel che ha fatto o predicato. Se quel che fa viene da Dio, pensa, durerà. E il “kerygma” è da Dio. Se quel che ha fatto è fatto “in pace”, durerà: e l’uomo risolto in un mondo di maschi irrisolti, è in pace. Ma “ha fatto anche errori!”, dice la gauche caviar della teologia. Effettivamente se avesse fatto votare Amoris laetitia al sinodo avrebbe dato voce ad un organo fin qui muto e si sarebbe liberato delle polemiche bigotte di chi ignora la grande tradizione della chiesa. Se avesse voluto usare fino in fondo le sue prerogative di primate d’Italia avrebbe potuto impuntarsi perché i contenuti del suo potente discorso alla chiesa italiana a Firenze nel 2015 venissero almeno presi sul serio, se non proprio obbediti. Ma Francesco non ambisce all’Oscar come migliore attore protagonista del film della chiesa cattolica. Sa che il premio della fede è la fede. Crede che i processi di riforma riguardano le sfere della conversione che solo uno stupido politicismo penserebbe di poter misurare. E dunque fa “quel che crede” in senso stretto. Senza illusioni, senza posa, senza attivismi. Il papato kerygmatico varca la soglia dell’anno quinto e “la sua vita perentoria” insegna solo a chi sa ascoltare.
l’anno che si apre avrà i giovani in primo piano e ‘sogno’ Cina
Dal “Buonasera” del 13 marzo 2013 ai pianti con le vittime della pedofilia, dai viaggi nelle periferie del pianeta agli appelli per affrontare “la sfida epocale” dei migranti, dall’accelerazione nel cammino ecumenico e interreligioso al ‘sogno’ di vedere una chiesa unita in Cina. Papa Francesco chiuderà martedì 13 marzo il suo quinto anno di pontificato. Ora si apre un periodo ancora ricco di sfide: in primo piano i giovani, ai quali il pontefice ha voluto dedicare il prossimo Sinodo dei vescovi, e la famiglia, con l’incontro mondiale in Irlanda che dovrebbe suggellare le indicazioni della Amoris Laetitia, nella quale il pontefice chiede alla Chiesa di avere uno sguardo di misericordia sull’uomo. Resta forte l’impegno sulle riforme. Sul fronte della politica internazionale, è sempre fitto quel lavoro del pontefice nel tessere relazioni, nel costruire ponti. E’ la pace la priorità da raggiungere, in un mondo frantumato in cui sono gli ultimi, “gli scartati”, a vivere la situazione peggiore
papa Francesco torna a parlare di immigrazione e a chiedere accoglienza:
“Le paure si concentrano spesso su chi è straniero, diverso da noi, povero, come se fosse un nemico“,
dice Bergoglio parlando nella basilica romana di Santa Maria in Trastevere, in occasione dei 50 anni della Comunità di Sant’Egidio
“Il mondo oggi è spesso abitato dalla paura”, aggiunge il Pontefice, “E anche dalla rabbia che è una sorella della paura. È una malattia antica. Il nostro tempo conosce grandi paure di fronte alle vaste dimensioni della globalizzazione. E allora ci si difende da queste persone, credendo di preservare quello che abbiamo o quello che siamo. L’atmosfera di paura può contagiare anche i cristiani che, come quel servo della parabola, nascondono il dono ricevuto. Se siamo soli, siamo presi facilmente dalla paura“.
Per questo Papa Francesco chiede di ripensare la globalizzazione: “Il mondo è diventato globale, l’economia e le comunicazioni si sono unificate. Ma per tanta gente, specialmente per i poveri, si sono alzati nuovi muri”, sottolinea il Capo della Chiesa,
“Le diversità sono occasione di ostilità e di conflitto. È ancora da costruire una globalizzazione della solidarietà e dello spirito. Il futuro del mondo globale è vivere insieme: questo ideale richiede l’impegno di costruire ponti, di tenere aperto il dialogo, di continuare a incontrarsi. Il cristiano, per sua vocazione, è fratello di ogni uomo, specie se povero e anche se è nemico. La Chiesa è segno di unità del genere umano, tra i popoli, le famiglie, le culture. Dobbiamo creare una società in cui nessuno sia più straniero: è la missione di valicare i confini e i muri, per riunire“.
intervento di Bassetti sulla presenza di clochard … tra bulimici desideri di benessere e incessante avidità di possesso
«In Italia e in Europa si muore di freddo. Sono una decina le persone morte nel continente per il freddo, e almeno due i senzatetto che hanno perso la vita, a Milano e a Ferrara, per il gelo che ha colpito il paese e non ha lasciato loro scampo».
“È moralmente accettabile vedere una persona finire ai margini della società dopo un fallimento, condurre una vita di stenti in solitudine e poi morire di freddo nell’abbandono? No, non è accettabile».
Lo scrive il cardinale arcivescovo di Perugia-Città della Pieve Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, nel suo ultimo articolo dal titolo “Spina nel fianco” curato per la rubrica “Dialoghi” de Il Settimanale de «L’Osservatore Romano», consultabile sul sito: www.osservatoreromano.va.
Il richiamo a quanti «hanno responsabilità pubbliche» nei confronti di «questo esercito di fantasmi».
«La morte di un povero – evidenzia il cardinale – di solito non fa notizia. Soprattutto a ridosso delle elezioni politiche. Eppure lo spaccato sociale che emerge da questa realtà di emarginazione e disperazione non può non fare sorgere qualche interrogativo in ogni persona di buona volontà e in particolare in coloro che hanno responsabilità pubbliche. I derelitti, gli abbandonati delle nostre periferie, infatti, rappresentano un angolo visuale originale per guardare il mondo in cui viviamo. Sono una sorta di spina nel fianco della società opulenta, tra i bulimici desideri di benessere e l’incessante avidità di possesso. Possiamo far finta che non esistono, ma quei poveri sono sempre lì, davanti ai nostri occhi. Nelle stazioni ferroviarie, sotto le scalinate dei centri storici, sotto i portici delle nostre chiese. Ovunque ci sia un riparo. Queste persone rappresentano un piccolo popolo — circa cinquantamila secondo l’Istat, ma probabilmente sono di più — che vive ai margini della società in condizioni di degrado assoluto. Persone che sopravvivono come scarti umani tra i rifiuti urbani delle nostre città. Senza dubbio sono simboli viventi delle contraddizioni di una società che si considera matura, forte e ricca, ma che è popolata da questo esercito di fantasmi. Fantasmi non per tutti, però. Di queste persone si prendono infatti cura istituzioni locali e associazioni di volontariato d’ispirazione cristiana. Dietro si celano soprattutto storie ed esperienze di vita. Al presente di disperazione, spesso caratterizzato da alcolismo, malattie e solitudine si antepone in genere un passato caratterizzato da fallimenti lavorativi e familiari. Ogni volta che infatti riusciamo ad aprire uno squarcio nella vita di queste persone, veniamo a conoscenza di ferite profondissime che si sono portate dietro per anni e che gravano su di loro».
L’umanità ferita: un’intuizione e un insegnamento di papa Francesco nei primi cinque anni di pontificato.
«Ci troviamo di fronte, dunque, a quell’umanità ferita a cui ha fatto riferimento il Papa sin dall’inizio del suo magistero – sottolinea il porporato –. Un’intuizione e un insegnamento che assumono un significato esemplare proprio in questi giorni in cui si celebrano i cinque anni di pontificato. Nella omelia per la messa d’inizio del servizio papale, nella solennità di san Giuseppe, Francesco parlò di una “vocazione del custodire” che “non riguarda solamente noi cristiani” ma che è “semplicemente umana, riguarda tutti”, per “custodire l’intera creazione, custodire ogni persona, specie la più povera”».
La vocazione del custodire è una missione sociale e culturale.
«Oggi più che mai – sostiene Bassetti – queste parole s’incarnano nella vita quotidiana. La vocazione del custodire, infatti, non è solo un ideale di vita a cui tendere, ma è soprattutto un’esperienza da vivere concretamente e che può tradursi perfino in una missione sociale e culturale. Prendersi cura delle periferie delle nostre città, troppo spesso caratterizzate da un’anarchia sociale preoccupante, deve diventare un imperativo morale, prima che politico: uno slancio in cui combinare la difesa del creato, la cura delle città e l’impegno concreto verso i poveri».
Fornire una risposta concreta ai problemi da cui potrà nascere la classe dirigente del futuro.
«Solo fornendo una risposta concreta a questi problemi irrisolti – conclude il presidente della Cei – potrà nascere la classe dirigente del futuro. Le periferie sono lo specchio del paese e misurano il suo stato di salute. Proprio per questo i senzatetto uccisi dal freddo non devono lasciarci indifferenti. Non è solo un fatto di cronaca ma una realtà che parla all’Italia intera, interroga profondamente e chiama a un’assunzione di responsabilità comunitaria. È moralmente accettabile vedere una persona finire ai margini della società dopo un fallimento, condurre una vita di stenti in solitudine e poi morire di freddo nell’abbandono? No, non è accettabile».
La riflessione del biblista Alberto Maggi si rivolge a chi “rivendica le radici cristiane della nostra civiltà guardando a un passato più ideale che reale, a una società dove l’ordine era garantito dall’obbedienza e dalla sottomissione”. Ma “se queste sono le radici, c’è solo da vergognarsene, e occorre estirparle”.
Anche perché “il disegno del Signore non è quello di una società tutta cristiana, utopia irrealizzabile e neanche auspicabile…”. E ancora: “Gesù non invita i suoi a occupare o sostituirsi alle strutture sulle quali si regge la società, ma di infiltrarsi, come il sale e come il lievito, per dare sapore, per dilatarle, per renderle sempre più umane e attente ai bisogni e alle sofferenze degli uomini”
Molti di quelli che rivendicano le radici cristiane della nostra civiltà guardando a un passato più ideale che reale, a una società cristiana dove l’ordine era garantito dall’obbedienza e dalla sottomissione, della moglie e dei figli al capofamiglia, dei sudditi ai governanti e dei fedeli alle autorità religiose, in una gerarchia di valori indiscussa, da tutti accettata o subita.
Costoro sono i nostalgici di un passato, quando le chiese erano piene di cattolici che assistevano alla messa domenicale perché precettati (l’unica alternativa possibile era commettere peccato mortale e finire all’inferno per tutta l’eternità). Alcuni rimpiangono la famiglia cattolica, quando l’educazione religiosa alle spose le invitava ad accettare con cristiana rassegnazione anche i maltrattamenti da parte del coniuge (ancora negli anni ’60 era in voga un manuale della sposa cattolica, dove tra i doveri delle mogli si elencava quello di obbedire al marito come a un superiore, tacendo quando lo si vedeva alterato, ed essere sottomessa alla suocera).
Altri vorrebbero ritornasse quel tempo in cui i treni viaggiavano in orario, non c’era la delinquenza, e si poteva lasciare la chiave sulla porta di casa, in un ordine sociale garantito dall’obbedienza all’indiscusso capo, un uomo sempre inviato dalla Provvidenza, in risposta al bisogno atavico degli uomini di barattare la propria libertà con la sicurezza che offre la sottomissione acritica al potente di turno.
Le radici di questa società saranno state anche cristiane, ma i frutti evidentemente no, e in questo clima di soggezione a ogni forma di potere, la libertà era vista come uno spauracchio, una minaccia all’ordine costituito dai potenti e sempre sostenuto e benedetto dalla Chiesa. Obbedienza, sottomissione sono vocaboli assenti nel linguaggio di Gesù, il quale invece di rifarsi al passato, alle radici, invita a osservare i frutti (“dai loro frutti li riconoscerete”, Mt 7,20). Per Gesù “ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi” (Mt 7,17). L’albero che non produce frutti buoni è immagine di quanti non hanno cambiato vita a contatto con il suo messaggio; oppure hanno simulato tale cambiamento e continuano ad essere complici dell’ingiustizia della società.Più che di radici bisognerebbe parlare di catene. Questa civiltà, tanto cristiana e tanto cattolica, all’insegna dell’ordine e dell’obbedienza, ha da sempre temuto la libertà, vista più come una minaccia che come un dono del Signore (Gv 8,32-36): “Cristo ci ha liberati per la libertà!” (Gal 5,1). E la Chiesa, anziché promuovere la dignità umana e il diritto alla libertà, cercò, finché le fu possibile, di sopprimerli, basta pensare a Gregorio XVI, il papa che nell’Enciclica Mirari vos, nel 1832, arrivò a parlare di quella “perversa opinione…errore velenosissimo” [pestilentissimo errori] o piuttosto delirio, che debbasi ammettere e garantire per ciascuno la libertà di coscienza” (Denz. 2730).
C’è da chiedersi quale frutto perverso queste radici cristiane possano aver generato, se papi come Niccolò V, nella bolla Dum Diversas (1452), ribadita poi con la bolla Romanus Pontifex nel 1454, arrivò ad autorizzare i regnanti cattolici a “invadere e conquistare regni, ducati, contee, principati; come pure altri domini, terre, luoghi, villaggi, campi, possedimenti e beni di questo genere a qualunque re o principe essi appartengano e di ridurre in schiavitù i loro abitanti”. Forte della sua autorità il papa, a difesa delle sue parole, conclude la bolla con questa minaccia: “Se qualcuno oserà attaccarla, sappia di stare per incorrere nello sdegno di Dio onnipotente e dei beati apostoli Pietro e Paolo”. Queste aberranti e disumane dichiarazioni furono purtroppo confermate e convalidate dai pontefici successivi, sempre in nome di Cristo, naturalmente.
Se queste sono le radici c’è solo da vergognarsene, e occorre estirparle, liberando il terreno sassoso dalle pietre che non hanno permesso il loro sviluppo e dai rovi che le hanno soffocate e tornare a seminare a loro posto la buona notizia di Gesù (Mt 13,3-23), il cui progetto non è volto a conservare il mondo così com’è, ma a cambiarlo (“Convertitevi!”, Mt 4,17). Il disegno del Signore non è quello di una società tutta cristiana, utopia irrealizzabile e neanche auspicabile (il disastro di ogni teocrazia è evidente), ma Gesù chiede ai suoi seguitori di influire positivamente nel mondo, e per questo usa immagini come il sale e il lievito (Mt 5,13; 13,33), elementi che anche in minima quantità possono influire nella massa liberando tutte le loro potenzialità. Gesù non invita i suoi a occupare o sostituirsi alle strutture sulle quali si regge la società, ma di infiltrarsi, come il sale e come il lievito, per dare sapore, per dilatarle, per renderle sempre più umane e attente ai bisogni e alle sofferenze degli uomini. Per questo la fedeltà al Cristo non può essere rivendicata a parole (“Non chiunque mi dice: “Signore, Signore…”, Mt 7,21), ma solo nei fatti (“Colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”, Mt 7,21). Non sono gli attestati di ortodossia la garanzia di vita cristiana, ma un comportamento il cui unico distintivo è l’amore; non basta rivendicare la sacralità del vangelo, ma è necessario che il credente diventi la buona notizia per ogni persona che si incontra. I cristiani non si riconoscono per i distintivi religiosi ostentati (“Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filatteri e allungano le frange”, Mt 23,5), ma per l’umanità che li rende attenti, sensibili e solleciti ai bisogni e necessità degli emarginati e di tutti gli esclusi della società: “Ero straniero e mi avete accolto… ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,35).
DIO HA MANDATO IL FIGLIO PERCHÉ IL MONDO SI SALVI PER MEZZO DI LUI
commento al vangelo della quarta domenica di quaresima (11 marzo 2018) di p. A. Maggi:
Gv 3,14-21
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
Nel capitolo 3 del suo vangelo Giovanni presenta il dialogo tra Gesù e Nicodemo il fariseo, ma è un dialogo tra sordi perché Gesù parla di nuovo e il fariseo, il fariseo l’uomo della tradizione, l’uomo della legge non comprende e non fa altro che obiettare: come può? Come può? Ebbene a Nicodemo Gesù ricorda un episodio famoso che c’è nel libro dei Numeri di un castigo che Dio ha dato al popolo che si era rivoltato contro di lui che aveva protestato. Aveva mandato dei serpenti velenosi che mordendo li uccidevano e poi, per intercessione di Mosè, aveva fatto innalzare un serpente di rame, di bronzo che li salvava. Si legge nel libro dei Numeri “Il Signore disse a Mosè: fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà resterà in vita”. Ebbene Gesù si riferisce a questo episodio, ma soltanto per la parte della salvezza, non per la parte del castigo perché in Gesù Dio non castiga, ma a tutti offre amore, offre salvezza. Allora Gesù dice a Nicodemo: come Mosè innalzò il serpente nel deserto, bisogna che sia innalzato il figlio dell’uomo, Gesù è la pienezza dell’umanità che coincide con la condizione divina, perché chiunque crede in lui, in lui chi? Nel figlio dell’uomo, cioè chiunque aspira alla pienezza umana che risplende in Gesù e risplende nel momento della croce, quando Gesù mostra la pienezza dell’amore suo e del Padre abbia la vita eterna. Gesù si rivolge a un fariseo, i quali credevano nella vita eterna, ma come un premio nel futuro per la buona condotta tenuta nel presente. Ebbene Gesù è per la prima volta che nel vangelo parla di vita eterna, ma non ne parla come un premio nel futuro, ma con una possibilità reale nel momento presente. La vita eterna non sarà nel futuro, ma è, dice chiunque crede in lui, credere in lui significa aver dato adesione a Gesù, vivere come lui per il bene dell’uomo, ha la vita eterna. Vita che si chiama eterna non tanto per la durata indefinita, ma una qualità indistruttibile, e Gesù ne parlerà sempre al presente. La vita eterna è una possibilità di pienezza di vita che è già ora a disposizione delle persone. Gesù affermando questo sostituisce la funzione che era attribuita alla legge. Era l’osservanza della legge quella che garantiva poi come premio la vita eterna. Bene con Gesù non c’è più l’osservanza a una legge, ma l’adesione a una persona. E continua Gesù in un crescendo di offerta d’amore. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Gesù è il dono d’amore di Dio per tutta l’umanità, un amore che desidera manifestarsi, che desidera comunicarsi. E Gesù smentisce quell’immagine che è cara a tutte le religioni di un Dio che giudica, di un Dio che condanna, no. Il Dio di Gesù, il Padre è soltanto amore e offerta d’amore. Sta poi all’uomo accogliere o no questo amore. Infatti afferma Gesù Dio infatti non ha mandato il figlio del mondo per giudicare, per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Non è, come credeva il fariseo Nicodemo, un messia venuto per separare puri da impuri, santi da peccatori, questo furore ideologico che tutte le religioni hanno di dividere l’umanità, ma un’offerta d’amore a parte di tutti quanti perché il mondo sia salvo, questo è il disegno d’amore di Dio sull’umanità. E, afferma Gesù, che chi crede lui, nel figlio dell’uomo, non va incontro a nessun giudizio e nessuna condanna. Quindi ci si chiede da dove viene questa immagine nefasta di un Dio che giudica, di un Dio che condanna quando Gesù lo smentisce? Ma chi non crede è già stato giudicato e condannato perché non ha creduto nel nome dell’unigenito figlio di Dio. Allora è chiaro: questo giudizio non viene da Dio, ma è l’uomo che, con le scelte che fa, accoglie questa vita o rifiuta questa vita e il rifiuto della vita è la pienezza della morte. Gesù chiarisce ancora meglio il suo episodio e lo fa con un’immagine che tutti possono comprendere che il giudizio è questo: è un giudizio basato sulla luce. La luce è positiva, la luce fa bene, la luce all’uomo è necessaria per vivere. La luce fa male soltanto quando l’uomo vive nelle tenebre, nel buio. Quando si sta molto tempo al chiuso anche un piccolo spiraglio di luce dà fastidio, fa male. Allora Gesù afferma il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce perché le loro opere erano malvagie. Allora chi quotidianamente, dando adesione a Gesù, compie azioni che comunicano vita, restituiscono vita, rallegrano la vita degli altri, diventa una persona splendida, cioè luminosa, piena di luce e quando incontra la luce la coglie. Ma chi invece egoisticamente pensa soltanto ai propri bisogni e alle proprie necessità vive nel suo piccolo mondo ti tenebre e, quando arriva la luce, questa gli dà fastidio e si rintana ancora più nelle tenebre. E conclude Gesù chiunque infanti fa il male odia la luce, si sa un delinquente detesta la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate, letteralmente scoperte. Ma in contrapposizione a fare il male Gesù non parla di fare il bene come ci saremmo aspettati. Invece dice invece chi fa la verità, la verità va fatta, la verità non è una dottrina, ma un atteggiamento benevolo d’amore verso gli altri. Quello che separa gli uomini da Dio non è una dottrina, ma la condotta. Invece che fa la verità viene verso la luce perché appaia chiaramente che le sue opere sono fatte in Dio, perché è Dio che fa il bene dell’uomo.
La disuguaglianza sociale nel capitalismo finanziario non è un elemento accidentale o temporaneo ma strutturale. Dovendo garantire un extra-benessere a pochi non può tollerare forme di redistribuzione della c.d. ricchezza. È un sistema economico incompatibile con la democrazia: ne impedisce le dinamiche basilari. Dove c’è il capitalismo, al di là delle denominazioni, vige di fatto l’oligarchia. L’1% è in grado di soggiogare il 99% attraverso un uso smaliziato della forza e l’aiuto fondamentale degli intermedi: di coloro cioè che non appartengono all’1% ma sono pronti a tutto pur di raccogliere le briciole che cadono da quel tavolo. Allora li vedi sostenere le tesi della tecnocrazia europea, della finanza e dei globalizzatori dello sfruttamento. Li vedi tristemente al servizio dell’iniquità, attori non protagonisti di una squallida commedia. Il 99% può indignarsi, ne ha facoltà, ma con calma: nei luoghi, nei modi e nei tempi concessi dal potere. L’importante è che dopo lo sfogo ritorni velocemente alla catena di montaggio.
testo di Papa Francesco
“Le ferite che provoca il sistema economico che ha al centro il dio denaro, e che a volte agisce con la brutalità dei ladri della parabola [del samaritano], sono state criminalmente ignorate. Nella società globalizzata, esiste uno stile elegante di guardare dall’altro lato, che si pratica ricorrentemente: sotto le spoglie del politicamente corretto o le mode ideologiche, si guarda chi soffre senza toccarlo, lo si trasmette in diretta, addirittura si adotta un discorso in apparenza tollerante e pieno di eufemismi, ma non si fa nulla di sistematico per curare le ferite sociali e neppure per affrontare le strutture che lasciano tanti esseri umani per strada. Questo atteggiamento ipocrita, tanto diverso da quello del samaritano, manifesta l’assenza di una vera conversione e di un vero impegno con l’umanità. Si tratta di una truffa morale, che, prima o poi, viene alla luce, come un miraggio che si dilegua. I feriti stanno lì, sono una realtà. La disoccupazione è reale, la corruzione è reale, la crisi d’identità è reale, lo svuotamento delle democrazie è reale. La cancrena di un sistema non si può mascherare in eterno, perché prima o poi il fetore si sente e, quando non si può più negare, nasce dal potere stesso che ha generato quello stato di cose la manipolazione della paura, dell’insicurezza, della protesta, persino della giusta indignazione della gente, che trasferisce la responsabilità di tutti i mali a un “non prossimo”.
Nella sofferenza dell’altro abita Dio e lì si può frequentare e conoscere. Questa è una delle perle evangeliche(1) che porta a disfarsi di tutti gli inganni del mondo: in primis potere e ricchezze varie. Nella compassione si diffonde il regno di Dio. E dalla compassione si possono riconoscere i suoi testimoni e collaboratori. Infatti chi ha costruito il dio che benedice il successo sociale degli uomini rifugge da questo mistero. Non lo comprende ma soprattutto non lo sopporta. Chi offre incenso con mani che grondano sangue deve rimuovere o giudicare la sofferenza altrui per continuare a non soccorrere l’oppresso, a non rendere giustizia all’orfano, a non difendere la causa della vedova(2). L’uso smodato degli schemi razionali porta a considerare il peccato in termini di violazione e non di ferita che produce e ad identificare tragicamente il peccatore con peccato. La ragione dell’uomo conduce alla inevitabile punizione compensatoria del peccatore, la compassione di Dio a curare il peccatore e a combattere il peccato che umilia chi lo compie. La logica retributiva aggiunge il castigo al dolore e spinge alla disperazione, l’Amore gratuito di Dio rimette in piedi, meraviglia e sposta più in là l’orizzonte dell’uomo. La compassione non è una virtù acquisibile con l’esercizio ma un dono di Dio che solo l’anima può riconoscere. Segno profetico di contraddizione in una società fondata sull’egoismo e sull’indifferenza. Strutturalmente malata, irriformabile, da sovvertire con un radicale cambio di paradigma: il Vangelo al posto del capitale.
(1) Vangelo di Matteo 13, 45-46
(2) Isaia 1,17
testo di Isacco di Ninive:
“Segno luminoso della bellezza della tua anima sarà questo: che tu, esaminando te stesso, ti trovi pieno di misericordia per tutti gli uomini, il tuo cuore è afflitto per la compassione che provi per loro, e brucia come nel fuoco, senza fare distinzione di persone. Attraverso ciò, l’immagine del Padre che è nei cieli si rivelerà in te continuamente”.
Isacco di Ninive, in Sabino Chialà, Dall’ascesi eremitica alla misericordia infinita, Ricerche su Isacco di Ninive e la sua fortuna, Leo S. Olschki, Firenze, p. 259
pubblicato da ‘altranarrazione’
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