“Nudi, legati mani e piedi”: le foto choc delle torture dopo il fallito golpe in Turchia
Monthly Archives: Luglio 2016
“io non voglio fare nessun patto con te, anche perché il tuo mi sembra più una minaccia che un patto”
fiori e biglietti per rendere omaggio alle 84 vittime dell’attacco di Nizza del 14 luglio 2016
Eccomi. Sono qui. Sono uscita. Sono uscita giorni, mesi, anni fa. Sono uscita tutti i giorni dall’11 settembre in poi. Forse non mi hai vista. Forse non mi hai voluta vedere, ma io sono uscita ed insieme a me sono usciti i miei fratelli, musulmani e non, italiani e non. Gente figlia dell’amore, gente che crede nell’unità del popolo, nella libertà e nell’uguaglianza.
Hai ragione quando dici che servono gesti che cambino la trama di questa storia, ma sbagli ad aspettarteli solo da me. Sbagli a pensare che tu puoi permetterti il lusso di “restare sull’uscio ad osservare”, mentre io combatto la nostra battaglia: quella di tutti noi cittadini europei che crediamo nella pace e nella convivenza tra popoli, religioni, etnie. Quella che già combatto da tempo, ma che non posso vincere senza di te.
Un fratello condivide il tuo dolore. Un fratello ti sostiene. Un fratello scende in piazza accanto a te, non ti lascia solo. Tu mi hai lasciata sola. Tu non sei mio fratello.
Da un lato mi dici che questi farabutti sono nati e cresciuti qui, insieme a me e te, dall’altro dici che parlano la “mia” lingua, frequentano i “miei” negozi, che i loro figli vanno a scuola con i “miei”. E i tuoi, caro Gramellini? Dove vanno a scuola i tuoi figli? Che negozi frequenti tu? Che lingua parli? Dici che sono “una di voi”, ma continui a parlare di “nostri” e “vostri”.
Gli attentatori non sono mai ragazzi religiosi, non frequentano quasi mai le moschee e io non ho mai a che fare con loro. Proprio come te. Sono ragazzi disturbati, che provengono dalle periferie dimenticate delle grandi città; sono degli emarginati con precedenti penali, e non c’entrano niente con me.
La solidarietà religiosa e razziale che mi accusi di provare non esiste, anche perché non provo solidarietà per i fomentatori di odio e i violenti. Se provo solidarietà è solo per i miei fratelli europei che, loro malgrado, sono diventati il bersaglio di una violenza indiscriminata e ingiustificabile.
L’Italia è la mia casa. Non mi ha accolta e non mi ha offerto nulla. Ogni cosa che ho in questa terra, me la sono guadagnata con il sacrificio, la fatica e il lavoro, miei e dei miei genitori, che sono arrivati qui ormai più di 40 anni fa. Un italiano che credeva nella ricchezza della diversità ha saputo guardare oltre il loro essere giovani musulmani pakistani, e gli ha voluto bene. Tanto, da dare loro il suo cognome e convincerli a restare.
Le tue parole feriscono l’anima di persone come loro, di persone come mio nonno e dei tuoi un milione di concittadini musulmani da cui hai tante pretese, forse anche giuste, ma al fianco dei quali non vuoi combattere, e che accusi di essere complici di barbarie come quella commessa da un folle a Nizza. Non è giusto.
Hai oltrepassato quel confine sottile che separa il populismo dall’islamofobia.
E per questo, io non voglio fare nessun patto con te, anche perché il tuo mi sembra più una minaccia che un patto. I nostri razzisti li terremo lontani dal governo io e i miei fratelli, con il nostro voto e il nostro impegno. Siamo già passati all’azione, abbiamo già preso le distanze dagli invasati e contraddetto punto su punto chi si è avvicinato a noi con idee distorte, e continueremo a farlo.
Sai, è perché stiamo giocando senza di te che stiamo perdendo la partita. Ma vorrei ti fosse chiaro che se ci sconfiggeranno, sarà stata anche colpa tua.
per i troppi Aylan che ogni giorno muoiono sono spenti dalla nostra violenza
caro musulmano facciamo un patto …
caro musulmano,
i tuoi fratelli adesso siamo noi
di massimo gramellini
Caro musulmano non integralista che vivi in Occidente, esci fuori. Lo so che esisti, ti ho conosciuto. In privato mi hai confidato tante volte il tuo sgomento per l’eresia wahabita che ha deformato il Corano, trasformando il suicidio in un atto eroico, e la tua rabbia verso la corte saudita che si atteggia a nostra alleata e invece finanzia quell’eresia dai tempi di Bin Laden. Il piano degli aspiranti califfi è piuttosto chiaro: utilizzano ragazzotti viziati come gli stragisti del Bataclan e relitti umani come il camionista che ha seminato la morte sulla promenade di Nizza per alimentare la paura e l’odio verso l’Islam, così da portare i razzisti al potere in Occidente e creare le condizioni per innescare una guerra di civiltà. È la trama dei fanatici di ogni epoca, la conosciamo bene. Negli Anni Settanta del secolo scorso il terrorismo di sinistra insanguinò le nostre strade con altri metodi (bersagli simbolici e non indiscriminati) ma identici obiettivi: scatenare la rivoluzione. Fallì quando l’operaio comunista che credeva suo alleato gli fece il vuoto intorno. E l’operaio gli si rivoltò contro perché aveva qualcosa da perdere: una casa, uno stipendio, un pallido benessere. Nessuno, credimi, fa la rivoluzione se ha qualcosa da perdere. Il simbolo di quel cambio di stagione fu il sindacalista Guido Rossa, che pagò con la vita la rottura dell’omertà in fabbrica.
Oggi Guido Rossa sei tu. Ti auguro lunga vita, ma è da te che ci aspettiamo il gesto che può cambiare la trama di questa storia. I farabutti che sgozzano in nome dell’Islam non vengono dal deserto: sono cresciuti in Occidente e quasi sempre ci sono anche nati. Frequentano i tuoi negozi e le tue moschee, parlano la tua lingua, credono (a modo loro) nella tua religione. Hanno figli che vanno a scuola con i tuoi, mogli che chiacchierano con la tua. Per troppo tempo li hai guardati come dei fratelli che sbagliavano, ma che non andavano traditi. Non condividevi i loro comportamenti, ma non te la sentivi di denunciarli: in qualche caso per paura, ma più spesso per una forma perversa di solidarietà religiosa e razziale.
Adesso però il gioco si è fatto troppo duro e non puoi più restare sull’uscio a osservarlo. Adesso anche tu, come l’operaio comunista di quarant’anni fa, hai qualcosa da perdere. Bene o male l’Occidente ti ha accolto, offrendoti la possibilità di una vita più dignitosa di quella che ti era consentita nella terra da cui sei scappato. Ora sei uno di noi. Tuo fratello non è più il camionista di Nizza, ma il bambino che le sue ruote hanno stritolato sul selciato. Non puoi continuare a negare l’evidenza o a girarti dall’altra parte. Hai oltrepassato quel confine sottile che separa il menefreghismo dalla complicità.
Facciamo un patto. Noi cercheremo di tenere i nostri razzisti lontani dal governo e di migliorare il livello della sicurezza, anche se è impossibile proteggere ermeticamente ogni assembramento umano. Tu però devi passare all’azione. Devi prendere le distanze dagli invasati che si sentono invasori e dagli imam che li fomentano. Denunciarli, sbugiardarli, controbattere punto su punto le loro idee distorte. Pretendendo, tanto per cominciare, che nella tua moschea si parli la lingua che a scuola parlano i tuoi figli: francese in Francia, italiano in Italia. Senza di te perderemmo la partita. Ma vorrei ti fosse chiaro che fra gli sconfitti ci saresti anche tu.
il presidente dell’ ‘Associazione 21 luglio’ scrive al nuovo sindaco di Roma
Rom e Roma
si cominci chiedendo «scusa»
di Carlo Stasolla*

«Gentile sindaca, come presidente di un’organizzazione che si occupa della tutela e della promozione dei diritti delle comunità rom e sinti in Italia le formulo i migliori auguri di buon lavoro. Un lavoro che non sarà facile, ma sicuramente affascinante per le sfide che lei sarà chiamata ad affrontare e per le tante domande che oggi, nella città di Roma, attendono risposte.
Oggi, a distanza di due anni, lo scenario è totalmente cambiato, in seguito al terremoto giudiziario che sta travolgendo più di cinquanta tra dirigenti e funzionari pubblici, cooperative e associazioni, sedicenti ‘rappresentanti rom’ e vigili urbani. Dalle inchieste degli inquirenti il quadro che attualmente emerge è desolante: i rappresentanti di 16 dei 31 enti che nel 2013 ruotavano attorno al «sistema campi» oggi sono agli arresti o sotto indagine e il 70% delle risorse destinate agli insediamenti per soli rom è stato per anni gestito da loro. La verità di Buzzi: «Gli zingari rendono più della droga!» sembrerebbe la stessa delle decine di persone che, utilizzando denaro pubblico hanno sino a oggi lucrato sulla pelle dei più deboli permettendo che migliaia di persone continuassero a vivere nel degrado, nella povertà, nell’emarginazione, indistintamente additati come asociali o criminali.
L’inganno è stato svelato e ora che è stata fatta tabula rasa è il momento propizio per iniziare un nuovo corso che ci auguriamo lei sappia incoraggiare, sostenere, portare a compimento. Una strada verso il superamento delle baraccopoli romane attraverso processi inclusivi, così come indicato dalle linee guida contenute nell’agenda ‘Oltre le baraccopoli’ che Le abbiamo presentato nel corso della campagna elettorale. Ma ancor prima di avviare un intervento in tal senso, riteniamo sia di fondamentale importanza da parte sua pronunciare una parola che aiuterebbe veramente a voltare pagina, una parola che sinora nessun amministratore ha avuto il coraggio di dichiarare pubblicamente: la parola ‘scusa’.
È fondamentale che la nuova Amministrazione da lei presieduta, possa e sappia riaprire il nuovo corso iniziando a chiedere ‘scusa’ per quanto compiuto dagli amministratori che l’hanno preceduta e per il «sistema campi» che con le loro scelte hanno fatto nascere e consolidato: scusarsi con quelle famiglie rom, discriminate e indigenti, che per anni sono state le ‘galline dalle uova d’oro’ utili per generare profitti illeciti; con quei cittadini e i Comitati di quartiere che hanno subìto la presenza di insediamenti abbandonati a se stessi, ormai vere e proprie baraccopoli; con quei dipendenti del Comune di Roma e quei lavoratori del sociale che hanno sempre operato onestamente, con passione e professionalità sulla ‘questione rom’ e che rischiano di vedere il loro lavoro gravemente compromesso dall’attività di colleghi senza scrupoli.
Chiedere ‘Scusa’ significa per un amministratore esprimere con fermezza la volontà che gli errori commessi nel passato non si ripetano, attraverso un nuovo rapporto di fiducia, fondato sull’onestà, la trasparenza e il rispetto dei diritti di tutti, che si potrà creare tra abitanti delle baraccopoli, cittadini delle periferie e istituzioni. Scusarsi è l’atteggiamento proprio degli umili e dei forti. E noi riteniamo che solo chi saprà essere umile e forte nell’amministrare questa bellissima città, potrà dare una risposta soddisfacente anche alle baraccopoli presenti nella città di Roma e a quanti le abitano, che potranno forse tornare a sognare in una città che li tratti diversamente, senza discriminazione. Auguri di buon lavoro».
a 20 anni dal massacro più feroce
Srebrenica
20 anni dal massacro più feroce dai tempi del nazismo
In questi mesi tutti guardiamo inorriditi ai massacri compiuti da alcuni fanatici che usano la religione musulmana per portare avanti i loro progetti politici.
Tra i tanti che commentano questi fatti orribili c’è anche chi dice che il problema non sono tanto il fanatismo degli esecutori o la crudeltà dei mandanti, ma l’Islam stesso, perchè alcune sure del Corano, prese alla lettera, esaltano la guerra santa.
A poco vale ricordare a costoro che testi simili ci sono anche ne…lla Bibbia e che anche i cristiani, in passato, hanno compiuto atrocità simili.
Ti rispondono che quel passato, ormai, è passato da un pezzo e che adesso noi cristiani non facciamo più le guerre di religione.
Purtroppo, ieri, sono stati pochi i giornali che hanno ricordato l’anniversario del massacro che si è svolto a Srebenica, in Bosnia, dove ottomila maschi di tutte le età sono stati sterminati per una sola ragione: erano musulmani.
Non si tratta di un episodio che risale alle crociate o alle guerre coloniali. Si tratta di un episodio del 1996, vent’anni fa, quando quasi tutti noi eravamo già nati.
Fatemelo dire ancora una volta: i nemici non sono quelli che praticano una religione piuttosto che un’altra, i veri nemici sono i fanatici che trasformano la religione una ideologia che giustifica tutto, anche l’assassinio di altri uomini.
E fa impressione vedere che gli stessi partiti che negli anni novanta appoggiavano i serbo bosniaci adesso sostengono che il pericolo non è il fanatismo, ma l’Islam.
Partiti che mettono l’ideologia prima di qualunque altra cosa.
Partiti che non guardano chi è la vittima e chi il carnefici, ma che usano in maniera spregiudicata tutti gli eventi per i loro interessi di parti.
Partiti che, di fronte alla tragedia di un uomo che muore a causa del fanatismo, dovrebbero riflettere prima di parlare, perché corrono il rischio di alimentare un fanatismo simile a quello che dicono di voler condannare.
un popolo intero incatenato da un altro popolo che a sua volta ha sperimentato la violenza assoluta dello sterminato
Palestina
un popolo detenuto
le parole di Qassam, figlio di Marwan Barghouti
da: Adista Segni Nuovi n° 27 del 23/07/2016
«Quando sono nato, nel 1985, mio padre era detenuto in carcere. Quando mi sono laureato era ancora in prigione. A settembre mi sposerò e con tutta probabilità mio padre non sarà al mio fianco neppure in quel momento».
Bastano poche parole a Qassam Barghouti per tratteggiare la storia della sua vita e con essa la storia di tutto il popolo palestinese. La sua non è una famiglia qualsiasi: suo padre è Marwan Barghouti, figura di spicco di Fatah, condannato da Israele a cinque ergastoli.
Una storia di sofferenze che si ripete, tristemente simile, per moltissime famiglie palestinesi.
Qassam ci racconta la sua in una serata di inizio estate, a Roma, presso la Comunità di Base di San Paolo, nell’ambito di una giornata di approfondimento dedicata ai prigionieri politici palestinesi, organizzata dalla Rete romana di solidarietà con la Palestina e da Assopace Palestina.Accanto a lui c’è l’avvocata israeliana Lea Tsemel, che da 40 anni si batte al fianco del popolo palestinese. «Sono passati quasi 50 anni dall’inizio dell’occupazione – esordisce – e al mattino quando mi sveglio mi guardo allo specchio e mi dico: “La mia vita è un fallimento”. Cerco di prestare il mio aiuto di qua e di là ma i risultati dove sono? Durante la prima Intifada ero piena di speranze – racconta – ma le cose si sono fatte solo più complicate. Israele ha continuato a bluffare. E in questi 20 anni abbiamo avuto solo più colonie e più arresti: niente a che vedere con la pace», dice amaramente. «Quello a cui assistiamo è una specie di scambio: i prigionieri palestinesi vengono detenuti in Israele – in violazione dell’art. 76 della IV Convenzione di Ginevra, che stabilisce che una potenza occupante deve detenere i cittadini del territorio occupato nelle carceri all’interno dello stesso territorio – mentre i coloni israeliani occupano sempre più terre in Cisgiordania. Si tratta di un modo per dominare e sta funzionando. L’impresa coloniale sta funzionando». «Di fatto – prosegue l’avvocata – Israele cerca di spazzare via ogni nuova leadership. E il carcere e la detenzione amministrativa (procedura che consente, al sussistere di determinate condizioni, di incarcerare una persona “sospetta” per un periodo di sei mesi rinnovabile indefinitamente, senza muoverle alcuna accusa formale e senza regolare processo, ndr) sono due degli strumenti utilizzati in questa fase». È tutto il quadro a essere drammatico: «La sinistra israeliana è debole e in Parlamento praticamente non esiste. La destra sta invece crescendo e i coloni hanno ruoli importanti nel governo e nel Parlamento». «Dobbiamo aprire nuovi orizzonti», conclude Lea Tsemel. «Non dobbiamo stare seduti tranquilli: si tratta di vita o di morte, il sostegno di cui il popolo palestinese ha bisogno non è umanitario ma politico».
Su questo tasto Qassam Barghouti e Lea Tsemel hanno battuto anche nella mattinata di quel giorno, quando sono stati ricevuti dall’on. Pia Locatelli, presidente del Comitato Permanente sui Diritti Umani, istituito in seno alla Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati. Diversi i parlamentari presenti, ai quali Luisa Morgantini presidente di Assopace Palestina, ha formulato una serie di richieste: tra le azioni più urgenti da intraprendere, un’interrogazione parlamentare sulle condizioni dei prigionieri, una facilitazione della concessione dei visti ai cittadini palestinesi e il sostegno dell’Italia alla candidatura di Marwan Barghouti al Premio Nobel per la Pace (a livello europeo, si è già mobilitato in questo senso un gruppo di parlamentari belgi). Al termine dell’incontro l’on. Locatelli si è ufficialmente impegnata con i presenti a portare avanti la battaglia per i palestinesi detenuti.Essendo il prigioniero più noto, Barghouti è il volto della campagna per la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi lanciata nell’ottobre 2013 dalla cella in cui era detenuto Nelson Mandela, nella prigione di Robben Island. Una battaglia la cui importanza si coglie se ci si sofferma a pensare che dall’inizio dell’occupazione della Cisgiordania, nel 1967, 800mila palestinesi hanno condiviso il suo destino, vivendo sulla propria pelle il pugno di ferro delle carceri israeliane. Attualmente (dati aggiornati a marzo) sono circa 7mila i prigionieri palestinesi, tra i quali: 700 prigionieri in detenzione amministrativa, 440 minori (di cui 98 sotto i 16 anni), 6 membri del Consiglio nazionale palestinese, 343 prigionieri dalla Striscia di Gaza, 70 prigionieri dei territori occupati nel ’48, ora Israele, 450 cittadini di Gerusalemme Est, 458 condannati a vita.Numeri che danno il polso dell’insostenibilità della situazione, contro la quale in questi anni si è levata forte la voce degli stessi prigionieri che per cercare di attirare l’attenzione internazionale hanno più e più volte scelto lo strumento dello sciopero della fame.Ad essi è dedicato il documentario di Al Jazeera “Hunger Strike” (“Sciopero della fame”) proiettato durante l’incontro alla CdB di San Paolo. Il senso di questa scelta durissima, che può condurre alla morte, lo spiega bene Pat Sheehan, ex membro dell’Ira (Irish Republican Army), la cui testimonianza è stata raccolta dall’emittente araba: «Non volevamo morire di fame, ma gridare al mondo che era in corso un’ingiustizia».
più decisamente verso la chiesa povera per i poveri
con il Motu Proprio sui beni temporali
un passo decisivo verso la Chiesa povera per i poveri
le riforme introdotte richiamano l’attenzione della Chiesa alla sua “responsabilità di tutelare e gestire con attenzione i propri beni, alla luce della sua missione di evangelizzazione e con particolare premura verso i bisognosi”
I beni temporali, lecitamente detenuti dalla Chiesa, non possono però essere usati da quest’ultima per servire se stessa. Essi, infatti, devono essere posti a servizio della sua missione secondo l’esempio degli Apostoli: “erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. (…) Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno” . Le riforme introdotte richiamano l’attenzione della Chiesa alla sua “responsabilità di tutelare e gestire con attenzione i propri beni, alla luce della sua missione di evangelizzazione e con particolare premura verso i bisognosi”

Papa Francesco ha scelto di incentrare il suo pontificato sul rinnovamento della Chiesa nello spirito di povertà. È in questo senso che devono leggersi il Motu Proprio “Fidelis Dispensatur et Prudens”, gli Statuti dei tre nuovi organismi economici (Consiglio per l’Economia, Segreteria per l’Economia e Revisore Generale) ed il Motu Proprio “I beni temporali” del 4 luglio scorso.
Quest’ultimo, in particolare, ha ridisegnato i rapporti tra la Segreteria per l’economia e l’Apsa, ovvero, il soggetto giuridico che impersona la Santa Sede nei rapporti patrimoniali in Italia e all’estero, operando come una sorta di banca centrale (o meglio, di tesoreria). Esso rappresenta, dunque, il tassello ancora mancante del tentativo di importare nel governo economico-finanziario della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano il Planning- Programming-Budgeting System (PPDS system). Un sistema questo che – ormai collaudato sia nel settore pubblico che privato -, per funzionare correttamente e non creare distorsioni, rende però indispensabile un complesso sistema di controlli che vedono impegnati, con funzioni differenti, sia la Segreteria per l’Economia, sul fronte del controllo economico e della regolarità amministrativa e contabile, che l’Ufficio del Revisore Generale, su quello della revisione contabile.
Non si tratta, dunque, di mettere in discussione il diritto della Chiesa di possedere i mezzi materiali necessari per svolgere la sua missione, quanto piuttosto di interrogarsi sulla destinazione di tali beni e sul loro corretto utilizzo.
Una Chiesa povera per i poveri è, infatti, una Chiesa che mette tutti i propri averi esclusivamente al servizio della sua missione, seguendo l’esempio di Cristo e curando con attenzione quanto le è affidato, come un fidelis dispensatur et prudens (Lc, 12,42).
I beni temporali, lecitamente detenuti dalla Chiesa, non possono però essere usati da quest’ultima per servire se stessa. Essi, infatti, devono essere posti a servizio della sua missione secondo l’esempio degli Apostoli: “erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. (…) Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (Atti 2: 42.44s).
Occorre dunque, innanzitutto, sgombrare il campo dall’equivoco secondo cui una Chiesa povera per i poveri alluda a una Chiesa priva di mezzi materiali. In secondo luogo,
poiché il rinnovamento della Chiesa nello spirito di povertà va ben oltre l’esigenza di giustizia, essendo richiesto dalla stessa natura della Chiesa, quello su cui occorrerebbe soffermarsi sono invece le modalità attraverso cui assicurare un corretto uso delle risorse materiali e, di conseguenza, come costruire un solido contesto giuridico
– il cui centro è, per usare la felice espressione di Giovanni Paolo II contenuta nella Centesimus annus (42), etico e religioso – capace di fare da cornice alle attività economico-finanziarie della Chiesa.
Le riforme introdotte da Francesco richiamano l’attenzione della Chiesa alla sua “responsabilità di tutelare e gestire con attenzione i propri beni, alla luce della sua missione di evangelizzazione e con particolare premura verso i bisognosi” poiché, “la gestione dei settori economico e finanziario della Santa Sede è intimamente legata alla sua specifica missione, non solo al servizio del ministero universale del Santo Padre, ma anche in relazione al bene comune, nella prospettiva di uno sviluppo integrale della persona umana”. Infatti,
quanti più beni sono disponibili, quanto meglio vengono gestite le risorse a disposizione, tanto più la Chiesa potrà svolgere la propria missione.
Sulla scorta dell’insegnamento del Concilio Vaticano II, come i precedenti, anche questo Motu Proprio riafferma la strumentalità dell’uso dei beni temporali da parte della Chiesa rispetto al compimento della sua missione poiché è proprio in questo legame di strumentalità che si colgono le ragioni del possesso da parte della Chiesa di tali beni. Seguendo l’esempio di Cristo, infatti, che da ricco si fece povero (2 Cor 8, 9), la comunità ecclesiale è chiamata a vivere anche nella gestione dei propri beni temporali il medesimo spirito di povertà.
Sul piano pratico tali considerazioni non sono prive di conseguenze. Poiché la liceità del possesso di beni da parte della Chiesa è subordinata alla loro effettiva necessità in funzione degli scopi ecclesiali, il rapporto di necessità esistente tra beni temporali (mezzi) e fini perseguiti pone in capo a coloro che sono chiamati a svolgere ruoli di amministrazione e gestione di tali beni una particolare diligenza che passa attraverso l’esercizio delle virtù umane e l’adozione di strumenti trasparenti nella gestione del patrimonio della Chiesa, sia per i cosiddetti beni “finali” (ovvero, quelli che servono direttamente al fine) che per i beni “strumentali” (ovvero, quelli che servono solo indirettamente al fine, fornendo un reddito).
L’impegno di Francesco per una Chiesa povera per i poveri è sintomatico della volontà del Pontefice di fare del proprio pontificato un tentativo di realizzare quelle condizioni istituzionali, oltre che di natura etica e religiosa, per garantire il corretto uso delle risorse della Chiesa e la loro destinazione preferenziale in favore degli ultimi e degli esclusi dalla società dello scarto.
Queste riforme – con il loro richiamo alla responsabilità della Chiesa di tutelare e gestire con attenzione i propri bene, alla luce della sua missione e dell’opzione preferenziale per i poveri – rappresentano, perciò, la pietra angolare di una nuova cornice giuridico-istituzionale all’interno della quale dovrà inquadrarsi la gestione delle risorse ecclesiali. In tal modo, esse segnano l’avvio di un percorso che porterà la Chiesa, secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II, a ridefinire il proprio assetto organizzativo e funzionale al fine di rispondere con maggiore efficacia alle esigenze contingenti del nostro tempo e a diffondere un rinnovato spirito di servizio nelle istituzioni ecclesiali.
buone notizie da Bruxelles per l’accoglienza migranti
Migranti, Ue: “Regole uguali su asilo”
criteri standard e 10mila euro per ogni rifugiato
la proposta di revisione approvata serve ad armonizzare le norme sull’accoglienza
saranno gli Stati membri a decidere quanti profughi saranno legalmente accolti

BRUXELLES – Un sistema unico e uguale per tutti: la Ue ha approvato una proposta di revisione delle regole comunitarie in materia di asil, valida allo stesso modo per gli Stati membri, con procedure, tempi, criteri e standard, in modo da evitare che i migranti possano scegliere tra un Paese Ue e l’altro in cerca di condizioni migliori. Le modalità di gestione dei richiedenti asilo, quindi, saranno meno nazionali e più europee.
Regole uguali per tutti. La proposta della Commissione Ue intende sostituire l’attuale direttiva con un regolamento definito, in modo da arrivare più rapidamente a ridurre tempi e differenze nell’accettazione delle domande di asilo nonché garantire gli stessi diritti a tutti i migranti.
“Queste modifiche creeranno un sistema di procedure d’asilo comuni e garantiranno che tutti i richiedenti asilo siano trattati in modo appropriato”, ha chiarito il commissario per l’Immigrazione, Dimitris Avramopoulos. Per concedere protezione ci sarà una scadenza massima di sei mesi, con la possibilità di una sola proroga di tre mesi in caso di “pressione sproporzionata” sul sistema nazionale d’asilo o di “complessità” del singolo caso in esame.
Unica lista di Paesi sicuri. Le domande inammissibili o infondate dovranno invece essere completate in tempi compresi “tra uno e due mesi”. Ogni Stato dovrà prevedere scadenze comprese fra una settimana e un mese per i ricorsi dei migranti e un periodo da due a massimo sei mesi per le decisioni di primo appello. La Commissione Ue, inoltre, propone di introdurre una sola lista di Paesi sicuri, per sostituire le ventotto liste nazionali attualmente in vigore.
Diecimila euro per ogni reinsediamento. La Commissione,poi, propone che il Paese di accoglienza riceva dalla Ue 10 mila euro per ogni migrante arrivato in base al sistema dei reinsediamenti. E ancora: il regolamento prevede anche di mettere in piedi un sistema di reinsediamenti funzionante su base annuale dove saranno gli Stati membri a decidere quanti rifugiati saranno legalmente accolti e i Paesi di provenienza: “È una finestra legale genuina per chiudere la porta agli arrivi irregolari”, ha detto Avramopoulos, che ha criticato le differenze nelle procedure d’asilo e nelle condizioni offerte ai migranti negli Stati membri dopo i “movimenti secondari”, cioé di coloro che chiedono asilo in Paesi diversi da quello del primo arrivo. La proposta sarà valutata dai governi nazionali e dal Parlamento europeo.
Asilo ‘a tempo’. Il diritto d’asilo per i richiedenti sarà concesso e riconosciuto nell’Unione europea per un tempo determinato, prevede la proposta di riforma. Come ha spiegato Avramopoulos, sarà introdotto il principio per cui “viene garantita protezione finché si rende necessario”. A tal fine, si vuole prevedere una revisione periodica obbligatoria dello status di rifugiato in funzione degli sviluppi nel Paese di provenienza, per considerare cambiamenti che potrebbero modificare le condizioni.
stiamo regredendo alla primitiva ‘cultura del nemico’
lo psichiatra Vittorino Andreoli
“livello di civiltà disastroso, regrediti alla cultura del nemico”
Migrazioni e razzismo. Lo psichiatra Vittorino Andreoli: “Livello di civiltà disastroso, regrediti alla cultura del nemico”
Nonostante il refrain contro i migra…nti sia sempre lo stesso: “Premesso che non sono razzista…”, nelle società occidentali il razzismo sta uscendo allo scoperto e rischia di essere legittimato come una opinione.
Nonostante il refrain contro i migranti sia sempre lo stesso: “Premesso che non sono razzista…”, nelle società occidentali il razzismo sta uscendo allo scoperto e rischia di essere legittimato come una opinione. Secondo lo psichiatra Vittorino Andreoli siamo in “una cornice di civiltà disastrosa”, l’Italia e l’Occidente stanno “regredendo alle pulsioni istintive”, al dominio della “cultura del nemico”: “La superficialità porta l’identità a fondarsi sul nemico. Se uno non ha un nemico non riesce a caratterizzare se stesso”.

Dall’America all’Europa all’Italia sembra uscire allo scoperto, fomentato da politici e media irresponsabili e amplificato dai pareri espressi sui social media, un clima aperto di razzismo e xenofobia, come se l’espressione di odio razziale nei confronti dei migranti o delle minoranze, anche con linguaggi e gesti violenti, non sia più un tabù ma una legittima opinione. L’episodio di Fermo, con l’uccisione del nigeriano le cui dinamiche chiarirà la magistratura, ha avuto uno strascico di posizioni opposte sui social. Molti difendono apertamente l’aggressore, come se la violenza, verbale e poi fisica, dell’insulto razziale sia legittima. Mentre il refrain contro i migranti è sempre lo stesso: “Premesso che non sono razzista…”. Cosa ci sta succedendo? Lo abbiamo chiesto allo psichiatra Vittorino Andreoli, ma la premessa che anticipa tutta la riflessione è semplice e sconfortante: “Questa società non mi piace”.
Cosa sta succedendo alle nostre società occidentali?
Sono stati consumati, se non distrutti, alcuni principi, che erano alla base della nostra civiltà, che nasce in Grecia, a cui si aggiunge il cristianesimo. Non c’è più rispetto per l’altro, la morte è diventata banale, tanto che uccidere è una modalità per risolvere un problema. Non c’è più il senso del mistero e del limite dell’uomo. L’episodio di Fermo va inserito in una cornice di civiltà disastrosa. Non esiste più l’applicazione dei principi morali della società e c’è un affastellarsi di leggi, come se le leggi possano sostituire i principi. Oggi domina la cultura del nemico: la superficialità porta l’identità a fondarsi sul nemico. Se uno non ha un nemico non riesce a caratterizzare se stesso. Questa è una regressione antropologica perché si va alle pulsioni. Tutto questo è favorito da partiti che sostengono l’odio, lo stesso agire sociale è fatto di nemici. Perfino nelle istituzioni religiose qualche volta si affaccia il nemico. In questo quadro tornano le questioni razziali.
Qualcuno dice: “non è razzismo, è superficialità”. Io ribatto: no è razzismo.
E’ considerare l’altro inferiore perché ha quelle caratteristiche, per cui bisogna combatterlo. Se uno è diverso da te è un nemico e va combattuto. Si arriva alla legge del taglione. Si torna a fare la guerra perché il diverso è un nemico che porta via soldi, posti di lavoro, eccetera. Così come c’è una gerarchia dei potenti c’è anche una gerarchia di razze. Perché sono presi di mira solo alcuni.
Il razzismo e i pregiudizi sono però universalmente presenti nel cuore dell’uomo, a prescindere dalle nazioni. I fatti di questi giorni negli Usa ne sono un esempio.
E’ sicuramente un istinto presente nella nostra biologia, nella nostra natura, ossia la lotta per la sopravvivenza di cui parlava Darwin, la lotta per la difesa del territorio. Ma tipico dell’uomo non è solo la biologia ma la cultura. E la cultura dovrebbe essere quella condizione in cui rispettiamo gli altri e riusciamo a frenare un istinto. Il problema è: come mai la cultura che caratterizza l’uomo e consiste nel controllo delle pulsioni non c’è più? Tutta una cultura che si era costruita fino a epigoni che erano quelli dell’amore, della fratellanza, è completamente recitata ma non vissuta.
Questo è un Paese, ma anche tutto l’Occidente, che sta regredendo alla pulsionalità, all’uomo pulsionale. Ciò che mi spaventa e mi addolora è che per raggiungere una cultura ci vuole tanto tempo e la si può perdere in una generazione.
Gli episodi che osserviamo sono silenziosamente sostenuti da tante persone. Non dicono niente ma li approvano. Bisogna impedire che ci sia chi soffia sul fuoco. Nessuno parla del valore della conoscenza utile nell’avvicinare altre storie, altre culture. Tutto viene mostrato come negativo: gli immigrati fanno perdere posti di lavoro, c’è violenza e criminalità. Il problema è che all’origine c’è sempre una esclusione. E’ terribile, stiamo diventando un popolo incivile.
Nei dibattiti pubblici, soprattutto sui social, c’è sempre un “noi” contro “loro”: i migranti, più deboli, diventano il capro espiatorio di tutti i mali.
Certo, questo è il principio darwiniano. L’evoluzione si lega alla lotta per l’esistenza: “mors tua, vita mea”. Bisogna eliminare il nemico, deve vincere la mia tribù che deve prendere il tuo territorio. E’ una regressione spaventosa. Poi c’è la crisi che ha sottolineato la paura, le incertezze. E la paura genera sempre violenza. Ci rendiamo conto che, in un Paese che non legge, un giornale ha regalato il Mein Kampf di Hitler? Perché non hanno regalato “La pace perpetua” di Kant?
Marketing, ricerca di consenso e voti, incoscienza: quali sono, secondo lei, le vere ragioni dietro a scelte così pericolose? Come fare per arginarle?
Non è follia, è stupidità. Bisogna prendere una posizione molto decisa: non è più possibile fare finta. Questa è una società falsa, che recita. Andiamo incontro a situazioni che saranno di nuovo drammatiche.Ci vuole più coraggio anche nella Chiesa. Il Papa lo ha avuto nel suo schierarsi dalla parte dei migranti, ma ci sono quelli che non sono d’accordo. Bisogna cominciare a dire che questa nazione deve cercare di far emergere uomini e donne saggi, intelligenti. Stiamo scegliendo i peggiori. C’è una ignoranza spaventosa. Bisogna poter parlare, spiegare, capirsi. Occorrono persone credibili per parlare ai giovani, ma la via è sempre quella della cultura. Fare promozione, educazione, dimostrare quanta positività c’è in chi viene odiato, per stimolare al rispetto nei loro confronti.
Con i giovani è più facile perché sono come pagine bianche di un libro da scrivere. Ma con adulti già formati come si fa? E’ una battaglia già persa in partenza?
No, perché l’espressione esplicita dei pregiudizi nasce dal sentirsi sostenuti. Se nascondono ancora il loro pensiero sono recuperabili. Il problema emerge quando ci si sente in tanti a pensarlo. Bisogna far scoprire cosa c’è nell’altro, cosa significa una società diversa.
Purtroppo oggi sui social non si nasconde più il proprio pensiero: lo schermo del computer protegge dal confronto diretto, le affermazioni diventano più violente e l’espressione dei pregiudizi, anche in maniera razionale, serve solo a rafforzare l’ego…
E’ vero. Questo è più grave, perché se uno stava zitto e si esprimeva a casa, agiva male solo in famiglia. Adesso diventa un’azione diffusa, trasformandosi in vera e propria propaganda.