un libro che racconta il ’68 nella chiesa

Alle radici del dissenso cattolico. Un libro racconta il ’68 nella Chiesa

alle radici del dissenso cattolico

 

un libro racconta il ’68 nella Chiesa

 da: Adista Notizie n° 19 del 21/05/2016
un libro prezioso, per chi voglia conoscere la temperie culturale, i nomi, le date, gli avvenimenti, le ragioni e le dinamiche che hanno contrassegnato, all’interno della più generale mobilitazione di una intera generazione – quella del “mitico” ’68 composta da ampi settori della sinistra di classe e dei movimenti giovanili – il cosiddetto “dissenso cattolico”. Un libro, per di più, scritto da un “esperto” della materia (ma con un linguaggio non specialistico e con un buon taglio narrativo), cioè uno storico contemporaneista. Si tratta di La contestazione cattolica. Movimenti, cultura e politica dal Vaticano II al ’68 di Alessandro Santagata, appena pubblicato per i tipi dell’editore Viella (2016, pp. 284, euro 28) 

 

Il volume nasce dalla rielaborazione della sua tesi di dottorato all’Università degli studi di Roma Tor Vergata e trae spunto dalla conclusione delle celebrazioni del cinquantenario del Concilio Vaticano II (1962-1965) e dall’ampio dibattito che questo anniversario ha suscitato, dentro e fuori la Chiesa. È infatti il Concilio il motore stesso, secondo Santagata (ma la pensano allo stesso modo molti dei cattolici che furono protagonisti di quegli anni, a partire da Raniero La Valle) di tutte le dinamiche che a livello ecclesiale si innescarono negli anni successivi alla sua conclusione. Anche perché nell’Italia del boom economico e del post Concilio si inizia ad avvertire come insopportabile ed opprimente lo scarto tra le attese di riforma che venivano dal Vaticano II e la loro concreta attuazione in un Paese in cui era (ed è) in vigore il Concordato stipulato con il regime fascista, ma anche dentro una Chiesa che, dal centro alla periferia, era ancora strutturata ed organizzata sul modello tridentino. Vi è poi da considerare l’inizio della “diaspora” dei credenti che, rifiutando il dogma dell’unità politica del cattolici, iniziavano a guardare con sempre maggiore interesse verso sinistra, al Psi, al Pci ma anche alle formazioni della “Nuova Sinistra”. E anche la secolarizzazione avanzava in modi e forme – dentro e fuori la Chiesa (divorzio, obiezione di coscienza, libertà sessuale e legalizzazione degli anti-concezionali) – che apparivano foriere di grandi trasformazioni. Anche per questo, «dalla fine degli anni Sessanta – scrive Santagata nella sua introduzione – si era diffusa ai vertici della Chiesa l’idea che un’apertura alla contemporaneità, come quella portata avanti da certi ambienti post-conciliari, avrebbe condotto il cristianesimo romano a perdere la propria identità. Occorreva di conseguenza prendere le distanze da questa visione dell’“aggiornamento” e (ri)leggere il Concilio nella tradizione tridentina per interpretare correttamente quei punti che potevano apparire di rottura con l’insegnamento precedente». La secolarizzazione e le spinte conciliari sarebbero quindi state, ancor prima del marxismo, determinanti nelle rapide trasformazioni che investivano la Chiesa istituzionale, oltre che quella “reale” delle comunità e dei gruppi ecclesiali. Per questa ed altre ragioni, alla fine di un processo convulso e non privo di contraddizioni, l’istituzione ecclesiastica deciderà di marginalizzare, o condannare, una parte del movimento conciliare, pretendendo di porlo “fuori” dalla Chiesa; un tentativo in parte riuscito in parte fallito, visto il risultato che questa parte più radicalmente fedele al dettato conciliare riuscirà a realizzare sia nella propria militanza politica, sia nella testimonianza ecclesiale. E però, spiega Santagata, «sull’impatto del Concilio non esiste ancora un retroterra di ricerche storiche tale da tenere insieme i contesti nazionali con quello romano; il piano ecclesiale con quello culturale, sociale e politico. I contributi più importanti sono venuti dai teologi e dagli studiosi di storia della Chiesa ma, in molti casi, questi risentono di una prospettiva non sufficientemente attenta alle relazioni tra l’universo religioso e quello secolare».

Concilio: figli e figliastri

Il libro, che ha per oggetto la nascita della contestazione cattolica e non il suo successivo sviluppo, tralascia la polemica intra-ecclesiale sull’ermeneutica del Vaticano per privilegiare la ricezione politica come punto centrale dello scontro tra due letture diverse del Concilio; solo infatti all’interno della più generale trasformazione della società italiana è possibile, secondo l’autore, leggere anche quella del cattolicesimo. In questa prospettiva, la nascita del “dissenso” viene raccontata «privilegiando la chiave interpretativa politico-religiosa» (a discapito di una ricostruzione complessiva del fenomeno, dei suoi attori e campi di azione). È così possibile per Santagata mettere in luce le diverse matrici e declinazioni della contestazione, oltre che l’incidenza del fenomeno nei vari ambienti e nelle organizzazioni che ne componevano il segmento cattolico. «Il risultato – scrive l’autore – è stato restituire il dissenso alla storia della trasformazione italiana, spiegandone il significato nell’intreccio tra questa e il percorso di ricezione conciliare».

Certo, un quadro veramente esaustivo di tutte le realtà che hanno composto il mosaico della contestazione cattolica è forse impossibile da condensare in un volume. Anche per questa ragione Santagata ha scelto di privilegiare l’attenta analisi della genesi e del primo sviluppo della “contestazione cattolica”, inserita nella complessità della storia della società e della Chiesa italiana degli anni ‘50-’60. In questo modo l’autore riesce comunque a fornire alcuni elementi fondamentali per comprendere i caratteri e gli elementi unificanti anche della stagione politica ed ecclesiale successiva. Il libro prende inoltre in esame solo alcuni movimenti che hanno caratterizzato il ’68 cattolico (Gioventù studentesca e i gruppi spontanei, dai quali deriveranno da un lato esperienze come Comunione e liberazione; dall’altro movimenti come quello delle Comunità Cristiane di base) e dà ampio spazio alla pubblicistica, in particolare, alle riviste più impegnate nella discussione sui rapporti tra fede e politica dopo il Vaticano II. Le quali, rileva Santagata, svolsero un ruolo importantissimo nel creare coscienza e nel veicolare strumenti teorici e materiale di riflessione per una intera generazione di cattolici impegnati in politica. Basti pensare alla saldatura tra le istanze del movimento del ‘68 e quelle dei giovani cattolici (l’occupazione nel 1967 della Cattolica di Milano; l’occupazione, nel 1968, del duomo di Parma da parte di giovani cattolici, diversi dei quali impegnati nella Fuci); oppure l’avvicinamento fra cattolici e marxisti a partire dai temi del pacifismo, del disarmo, del terzomondismo, dell’opposizione alla guerra del Vietnam, ecc.

Tra queste riviste, anche Adista, di cui Santagata parla in diverse occasioni, rilevando in particolare il ruolo di collegamento svolto dalla nostra testata, assieme a Questitalia (che con Vladimiro Dorigo ne era stata sin dall’inizio l’ispiratrice e l’organizzatrice) ed a Settegiorni in occasione del secondo incontro nazionale del febbraio 1968 a Bologna dei gruppi spontanei della nuova sinistra (“Credenti e non credenti per una nuova sinistra”), alla presenza di circa 600 partecipanti, rappresentativi di oltre 80 circoli. Il libro accenna poi solo rapidamente agli anni della repressione e della marginalizzazione delle istanze post conciliari. La “restaurazione aggiornata” di Paolo VI, la stretta repressiva nei confronti di teologi, preti, religiosi, gruppi e realtà di base di “frontiera”, il sostegno ai movimenti carismatici ed all’Opus Dei, l’elezione di Giovanni Paolo II e la lotta senza quartiere alla Teologia della Liberazione, il “ventennio ruiniano” alla guida della Chiesa, la “notte” politico-istituzionale della Repubblica (datata almeno dal rapimento e assassinio di Aldo Moro) sono tutte ragioni che spiegano l’arretramento di quelle istanze, di quelle ragioni, di quelle speranze che avevano animato il ’68 dentro la Chiesa. Che però, come un fiume carsico, nel corso di questi 50 anni sono spesso riemerse. E tante volte hanno trasformato in profondità se non l’istituzione ecclesiastica, per lo meno le pratiche (oltre che i riferimenti teorici ed ideali) che ancora innervano il tessuto ecclesiale del Paese.

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la chiesa poverra dai ‘piedi scalzi’ di papa Francesco

l’ ‘altra’ chiesa dei ‘preti scalzi’

di Enzo Bianchi

Bianchi

una chiesa povera si impegna in un “pellegrinaggio che eviterà i sentieri della devozione intimistica o dell’aristocrazia spirituale da salotto, e si incamminerà verso ritrovati spazi  di fraternità, verso inedite occasioni di solidarietà: sarà fecondo cammino di misericordia”

 

È scalzo il nostro prete», il prete che il Papa ha additato ai vescovi come esempio cui guardare. Non
è la prima volta che i vescovi italiani si ritrovano per discutere non solo del rinnovamento dei preti.
Ma anche della formazione. Tra i preti ci sono anche loro, i vescovi, che proprio di mezzo al clero
sono scelti per un servizio di presidenza nelle chiese locali. Di fronte a loro papa Francesco non si è
soffermato sulle urgenze di una formazione permanente teologica e spirituale, non ha tratteggiato
un’ipotetica figura di vescovo ideale ma è andato con parresia a tratteggiare il prete come pastore in
mezzo al gregge. Allora l’essere scalzo di questo prete richiama uno stile, un modo di essere e di
agire, un’esistenza che «diventa eloquente, perché diversa, alternativa»: “scalzo” evoca il modo
evangelico di porsi in cammino dei discepoli inviati da Gesù a predicare, senza denaro nella
bisaccia né due tuniche; “scalzo” implica la rinuncia a tutto il superfluo e il “mantenere soltanto ciò
che serve per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio”. Ma essere scalzo per papa
Francesco rimanda anche e prima di tutto a Mosè di fronte al roveto ardente: come colui che
diventerà la guida di Israele nel deserto, il prete è “scalzo rispetto a una terra che si ostina a credere
e considerare santa”. Sì, Mosè si è tolto i calzari per avvicinarsi al roveto da cui usciva la parola di
Dio, perché la terra che calpestava era santa. Come lui anche l’annunciatore del vangelo oggi è
chiamato a considerare “santa” quella terra che l’umanità ha avuto in dono. È chiamato a prendere
sul serio la terra, l’adamah e l’Adam, l’essere umano che dalla terra è tratto: a mostrarsi prossimo e
sollecito verso le fragilità di ciascuno, verso lo smarrimento di senso, verso il bisogno vitale di
comunità che permea il nostro tempo “povero di amicizia”. Ne conseguirà uno stile di vita concreto,
sobrio e povero, spogliato dei beni non essenziali, ricondotto all’unica cosa necessaria, il vangelo.
Può sembrare strano che papa Francesco parli a vescovi e cardinali e additi loro un prete scalzo, un
povero prete animato e purificato dal fuoco della Pentecoste, un ministro che serve, che — secondo
l’etimologia — si preoccupa della “minestra”, della razione di cibo quotidiano per ciascuno, un
servitore fedele che sa come l’anelito più profondo deposto nel cuore degli umani si esprime
attraverso un corpo che prova fame, sete, freddo, dolore. Eppure è questo il pastore esemplare: un
prete scalzo che sa farsi prossimo con la povertà del suo essere e del suo agire.
Certo, il Papa è ben consapevole delle mutate condizioni della società italiana, delle nuove povertà.
Il Papa sa anche che in molte regioni il prete vive a volte in una condizione tra la povertà e la
miseria, sa che molti preti non hanno più la riconoscibilità sociale di un tempo e che faticano anche
perché il gregge che loro cercano di avvicinare non è più in cerca di pastori. Molti preti dicono
ormai: “La nostra vita qui è grama!”. Tuttavia Francesco non cede all’autocommiserazione. No, la
terra rimane santa, resta il luogo benedetto dal Signore che ha voluto abitarla in Gesù Cristo, resta il
patrimonio comune che solo la nostra avidità ha espropriato ai poveri per farne possesso di pochi
ricchi. E su questa terra il prete, il vescovo, il Papa, ogni cristiano è chiamato a camminare scalzo,
lieve, pieno di rispetto e di cura. Allora questo pellegrinaggio eviterà i sentieri della devozione
intimistica o dell’aristocrazia spirituale da salotto, e si incamminerà verso ritrovati spazi di
fraternità, verso inedite occasioni di solidarietà: sarà fecondo cammino di misericórdia.
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le teologhe italiane riflettono sulla risposta di papa Francesco alle domande delle suore

le suore domandano

papa Francesco risponde

top-NL

di Cristina Simonelli

presidente del CTI (Coordinamento Teologhe Italiane)

Cristina Simonelli

 

mentre le voci si fanno coro e si moltiplicano i commenti, dai più documentati fino alle esternazioni estemporanee, è cosa buona ricostruire la trama su cui il dibattito attorno al diaconato femminile si sta svolgendo, con alcune osservazioni

Le domande delle superiore generali erano molto più ampie e, come sottolinea Carmen Sammut, presidente UISG (= Unione Superiore Generali), riguardavano il ruolo delle donne, ma anche ad esempio la questione del denaro, cui il papa ha risposto nonostante fosse stata scritta ma espunta dalla lettura. Così come Francesco ha ancora invitato a distinguere il servizio dalla servitù imposta sotto pretesto di umiltà e femminile attitudine di cura. Tutto il dialogo immediatamente, nella attenzione pubblica, è stato sequestrato dalla apertura a aprire il dibattito su donne e diaconato: non è un caso ma fa capire che i tanti, troppi rifiuti a discutere la questione in questi 50 anni non sono per niente condivisi nella comunità ecclesiale – e non solo dalle donne, consacrate o meno, ma anche da molti uomini. Si può finalmente dire che è ora di aprire questo discorso, e si deve tuttavia anche ripetere che da molto tempo vi sono studi importanti sul tema: nonostante sia tarda, l’ora è comunque certo benvenuta.

Le domande delle suore utilizzavano di fatto espressioni di Francesco, chiedendogli in fondo quali conseguenze pratiche se ne potessero trarre. Dunque, domande e risposte condividono lo stesso quadro interpretativo, che come spesso già accaduto contiene sia novità e desiderio di riforma, che fantasmi sul femminismo e il genio femminile, ma non manca di allargarsi a chiedere «la costituzione di una commissione ufficiale per studiare la questione» del diaconato permanente per le donne, «come nella chiesa primitiva». Sugli argomenti che distinguono processi decisionali e ministeri ordinati, nonché sulla singolare lettura fisicista dell’in persona christi, siamo già intervenute quando è uscita Evangelii gaudium (http://www.teologhe.org/editoriale-luce-in-ogni-cosa-dicembre-2013/). Notiamo solo qui che come si è tentato di riconsiderare la prassi, la disciplina e la teologia delle famiglie, non si potrà ancora rimandare una dibattito altrettanto articolato sul ministero, tutto, che non può rimanere immobile mentre ogni cosa intorno si muove.

Due altre questioni sono particolarmente significative e degne di riflessione: il richiamo all’antichità cristiana e l’affermazione di Francesco che «per il codice [di diritto canonico] non c’è problema, è uno strumento». Per chi si colloca in un’ottica storica, entrambe le affermazioni sono evidenti, ma sembra che non per tutti sia così. Come molte colleghe (Noceti, Perroni, Prinzivalli, fra le altre) hanno sottolineato esistono già molti studi di rilievo – a livello storico insuperato anche a mio parere Moira Scimmi, Le antiche diaconesse nella storiografia del XX secolo. Problemi di metodo, Glossa, Milano 2004. Il problema negli studi “generali” è tuttavia duplice: da una parte molte letture apparentemente documentate hanno fin qui semplicemente espunto o comunque sottovalutato la documentazione sui riti di ordinazione delle diaconesse, sottoponendo le fonti a un tipo di analisi di fronte al quale sarebbe invalidata anche ogni forma ministeriale maschile dei primi secoli. In secondo luogo a livello ufficiale si fa spesso giocare la tradizione su due tavoli a seconda delle “necessità”, torcendo le fonti ora a supporto dell’intangibilità della traditio, ora a difesa della legittimità del suo sviluppo.

Solo alcune note, dunque, per segnalare tuttavia che come avviene da anni il Coordinamento delle teologhe italiane è un contesto in cui confluiscono e si sviluppano gli studi e le riflessioni di molte teologhe e alcuni teologi, anche sul ministero e anche specificamente sul diaconato. Alcune sono delle vere esperte sul tema in discussione (Noceti, Scimmi, Taddei Ferretti), altre hanno dato e danno importanti contributi sul versante esegetico (Perroni). Ogni elenco degli studi sarebbe comunque parziale, nonostante l’aggiornamento della bibliografia sul tema (http://www.teologhe.org/teologia-delle-donne/), così come la newsletter non potrà dare congruo spazio a tutto quello che sta uscendo sui media. Soprattutto però la scopo precipuo del CTI va molto al di là di redigere elenchi. Vuole piuttosto proporre un lavoro in rete in cui ogni personale contributo diventa parte di una fatica collettiva. Anche questo è un modo di uscire dal “clericalismo” e dal “personalismo”, che sono deriva e non destino di ogni forma ministeriale.

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i nostri vescovi vivono paure ideologiche mentre papa Francesco pensa con realismo alla metà del mondo che muore di fame

laici e cattolici al tempo della Chiesa a due velocità

di Franco Cardini

Cardini

Sono in molti a chiedersi che cosa stia accadendo sotto il cielo di Santa Romana Chiesa: una Chiesa «a due velocità»? Che cosa significa che da una parte il Papa ci stupisca con la sua iperattività promettendo un diaconato femminile, redarguendo preti e vescovi per la loro mondanità e gli agi che alcuni di loro si permettono, visitando solo capitali extraeuropee, mentre dall’altra la Conferenza episcopale italiana sembra talvolta rispolverare i toni d’altri tempi, interviene nelle faccende politiche italiane, stigmatizza il Parlamento per le scelte fatte in materia di unioni civili ma al tempo stesso – tramite il suo quotidiano – prende le distanze da ipotesi di referendum con ciò implicitamente ammettendo di temerne un risultato opposto alle sue speranze e alla sua linea e di essere quindi consapevole della sua debolezza?

Forse le cose parrebbero più chiare se non ci fermassimo all’attivismo pontificio e a quello dei vescovi, che sono solo dei sintomi, e cercassimo invece di cogliere la sostanza del problema. Che è quella del paradossale contrasto tra la straordinaria presenza mediatica e carismatica di un Papa che aspira a una profonda riforma spirituale e anche strutturale della Chiesa da una parte e la realtà invece di una comunità dei fedeli profondamente indebolita e impoverita. Una comunità che non si sente più in grado di sostenere il ruolo di coprotagonista della storia. «Quante divisioni ha il Papa?» chiedeva Stalin. E, da buon ex studente del collegio sacerdotale della sua Tbilisi, sapeva bene che le divisioni del Papa non erano certo “corazzate” come le sue; eppure, non ne ignorava il formidabile potere. Bene, quel potere oggi è infinitamente indebolito. La società dei consumi e dei profitti, il “mondo dell’Avere” (anziché dell’Essere) come lo definiva Eric Fromm, ha avuto la meglio nella civiltà occidentale: che è – non dimentichiamolo – quella alla quale appartengono tutti i ceti dirigenti e prominenti del mondo, anche nei Paesi non “occidentali”. Oggi la massima parte degli stessi cattolici è costituita da “cattolici sociologici”, cioè da gente che magari – e sempre meno spesso – è anche battezzata o magari si sposa in Chiesa, ma nella quale la vita religiosa non ha più alcun peso pratico. Quando ero ragazzo, nel rossissimo quartiere di San Frediano della rossa Firenze degli anni Quaranta-Cinquanta, la benedizione quaresimale delle case e della famiglie da parte dei parroci era un evento fondamentale dell’anno, al quale ci si preparava con cura e devozione; oggi questo mondo è ormai irrimediabilmente finito, la Chiesa parla e i cattolici non l’ascoltano. Lo aveva già detto con chiarezza mezzo secolo fa Giovanni XXIII: non siamo più padroni della società, bisogna accettare di divenirne minoranza qualificata che ne sia coscienza, sale della terra… D’altronde, quella della Cei non è propriamente «ingerenza della Chiesa nelle questioni italiane»: le diocesi italiane sono fatte, dal vescovo all’ultimo credente, di cittadini appunto italiani, che hanno pur il diritto di dire la loro come ce l’hanno i componenti delle comunità cristiane riformate, ebraiche, musulmane, buddhiste, i membri delle logge massoniche e gli atei. I vescovi italiani hanno ben il diritto di dire la loro: e chiamare tutto ciò «ingerenza» è roba da Ottocento. Ma che la ripetitività di questi appelli sia un sintomo di debolezza è un fatto. Tanto più che il capo della Chiesa cattolica sembra non curarsene. Quando Francesco dice che la Chiesa cattolica non desidera entrare nelle questioni politiche italiane non afferma che i cattolici italiani farebbero bene a non occuparsi di politica: vuole soltanto avvertire che la vera battaglia si svolge altrove, e che non è affatto importante se la società civile italiana accetterà o no le coppie omosessuali (un tema sul quale il magistero cattolico è comunque inequivocabile). Il nucleo della questione di oggi è un altro: ed è la ragione per la quale Papa Francesco visita le capitali extraeuropee e si astiene, per ora, dal misurarsi con quelle “occidentali”. Questo Papa parla in termini apocalittici e planetari. Per lui, il grande e principale problema dell’umanità è l’ingiustizia sociale che regna sovrana nel mondo e la nostra “cultura dell’indifferenza” che è incapace di scorgerla. Per questo egli va ripetendo che è necessario partire dalle periferie. Noi, abitanti dei “centri” occidentali in crisi quanto volete ma ancora relativamente ricchi e in qualche caso opulenti, siamo vittime di una pluridecennale illusione prospettica: in fondo, pensiamo che più o meno sia così dappertutto. Fino a qualche anno fa ci andavamo perfino ripetendo che tutto il mondo procedeva verso la pace: c’erano guerre dappertutto, dal Vietnam al Vicino Oriente all’America latina, ma nella nostra isola felice l’eco delle esplosioni non arrivava. Oggi sappiamo che non è così: eppure, non abbiamo ancora capito come vive la stragrande maggioranza della popolazione del pianeta e in fondo non ce ne importa, e secondo il Papa la vera crisi della Chiesa cattolica sta in ciò, non nel fatto che la gente non vada più a messa o non ubbidisca alla Cei. Il Cristo sta ancora in croce ma nessuno gli fa più caso: e questo, il vecchio prete che viene dalle Villas Miseria non lo accetta, come non digerisce gli attici dei cardinali. Per questo continua a visitare le periferie: quando sarà il momento, e solo allora, aggredirà le capitali della «cultura dell’indifferenza». Una battaglia perduta in partenza? Forse. Ma è la sua. Se non si capisce questo, è inutile chiedersi dove stia andando la Chiesa.

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