la chiesa poverra dai ‘piedi scalzi’ di papa Francesco

l’ ‘altra’ chiesa dei ‘preti scalzi’

di Enzo Bianchi

Bianchi

una chiesa povera si impegna in un “pellegrinaggio che eviterà i sentieri della devozione intimistica o dell’aristocrazia spirituale da salotto, e si incamminerà verso ritrovati spazi  di fraternità, verso inedite occasioni di solidarietà: sarà fecondo cammino di misericordia”

 

È scalzo il nostro prete», il prete che il Papa ha additato ai vescovi come esempio cui guardare. Non
è la prima volta che i vescovi italiani si ritrovano per discutere non solo del rinnovamento dei preti.
Ma anche della formazione. Tra i preti ci sono anche loro, i vescovi, che proprio di mezzo al clero
sono scelti per un servizio di presidenza nelle chiese locali. Di fronte a loro papa Francesco non si è
soffermato sulle urgenze di una formazione permanente teologica e spirituale, non ha tratteggiato
un’ipotetica figura di vescovo ideale ma è andato con parresia a tratteggiare il prete come pastore in
mezzo al gregge. Allora l’essere scalzo di questo prete richiama uno stile, un modo di essere e di
agire, un’esistenza che «diventa eloquente, perché diversa, alternativa»: “scalzo” evoca il modo
evangelico di porsi in cammino dei discepoli inviati da Gesù a predicare, senza denaro nella
bisaccia né due tuniche; “scalzo” implica la rinuncia a tutto il superfluo e il “mantenere soltanto ciò
che serve per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio”. Ma essere scalzo per papa
Francesco rimanda anche e prima di tutto a Mosè di fronte al roveto ardente: come colui che
diventerà la guida di Israele nel deserto, il prete è “scalzo rispetto a una terra che si ostina a credere
e considerare santa”. Sì, Mosè si è tolto i calzari per avvicinarsi al roveto da cui usciva la parola di
Dio, perché la terra che calpestava era santa. Come lui anche l’annunciatore del vangelo oggi è
chiamato a considerare “santa” quella terra che l’umanità ha avuto in dono. È chiamato a prendere
sul serio la terra, l’adamah e l’Adam, l’essere umano che dalla terra è tratto: a mostrarsi prossimo e
sollecito verso le fragilità di ciascuno, verso lo smarrimento di senso, verso il bisogno vitale di
comunità che permea il nostro tempo “povero di amicizia”. Ne conseguirà uno stile di vita concreto,
sobrio e povero, spogliato dei beni non essenziali, ricondotto all’unica cosa necessaria, il vangelo.
Può sembrare strano che papa Francesco parli a vescovi e cardinali e additi loro un prete scalzo, un
povero prete animato e purificato dal fuoco della Pentecoste, un ministro che serve, che — secondo
l’etimologia — si preoccupa della “minestra”, della razione di cibo quotidiano per ciascuno, un
servitore fedele che sa come l’anelito più profondo deposto nel cuore degli umani si esprime
attraverso un corpo che prova fame, sete, freddo, dolore. Eppure è questo il pastore esemplare: un
prete scalzo che sa farsi prossimo con la povertà del suo essere e del suo agire.
Certo, il Papa è ben consapevole delle mutate condizioni della società italiana, delle nuove povertà.
Il Papa sa anche che in molte regioni il prete vive a volte in una condizione tra la povertà e la
miseria, sa che molti preti non hanno più la riconoscibilità sociale di un tempo e che faticano anche
perché il gregge che loro cercano di avvicinare non è più in cerca di pastori. Molti preti dicono
ormai: “La nostra vita qui è grama!”. Tuttavia Francesco non cede all’autocommiserazione. No, la
terra rimane santa, resta il luogo benedetto dal Signore che ha voluto abitarla in Gesù Cristo, resta il
patrimonio comune che solo la nostra avidità ha espropriato ai poveri per farne possesso di pochi
ricchi. E su questa terra il prete, il vescovo, il Papa, ogni cristiano è chiamato a camminare scalzo,
lieve, pieno di rispetto e di cura. Allora questo pellegrinaggio eviterà i sentieri della devozione
intimistica o dell’aristocrazia spirituale da salotto, e si incamminerà verso ritrovati spazi di
fraternità, verso inedite occasioni di solidarietà: sarà fecondo cammino di misericórdia.
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