Europa dove sono le radici cristiane?
Tonio Dell’Olio
Tonio Dell’Olio
l’arcivescovo di Malta è uno dei primi arcivescovi cattolici a scusarsi pubblicamente per aver sostenuto le cosidette terapie riparative che proclamano di poter curare l’omosessualità come fosse una malattia da debellare contro ogni evidenza scientifica… Un vescovo, sostiene, deve imparare ad ascoltare prima di parlare pastoralmente
Il massimo prelato di Malta riconosce che i leader cattolici erano in errore quando hanno rilasciato una controversa dichiarazione che si opponeva al disegno di legge mirante a proibire le terapie riparative nella nazione insulare. Intervistato dal quotidiano Times of Malta l’arcivescovo Charles Scicluna afferma che non avrebbe mai “rilasciato quella dichiarazione” se avesse saputo ciò che sa oggi.
Il disegno di legge, intitolato Difesa dell’orientamento sessuale, dell’identità e delle espressioni di genere, mira a “proibire le terapie riparative condotte da professionisti”, in particolare “sulle persone vulnerabili” come minori e disabili. Se il disegno di legge verrà approvato i professionisti, come gli psicoterapeuti e i ministri di culto, e i non professionisti rischieranno multe e il carcere se pubblicizzeranno o metteranno in atto terapie riparative. La dichiarazione ufficiale dei vescovi maltesi ha attirato forti critiche, in particolare per aver affermato che il disegno di legge avrebbe favorito l’omosessualità e per aver collegato l’orientamento omosessuale alla pedofilia. Gli attivisti LGBT e alcuni membri del governo si sono affrettati a condannare le otto pagine del documento. Drachma LGBTI e il suo Gruppo Genitori, le maggiori organizzazioni LGBTI cristiane del Paese, hanno definito il documento in questione un’occasione mancata per costruire ponti, come riporta il quotidiano The Independent. I due gruppi hanno rilasciato una dichiarazione che afferma che “le persone LGBTQI che vivono questa realtà” avrebbero dovuto far parte degli esperti consultati dai vescovi: “Sarebbe stato giusto che la Chiesa dialogasse con noi su questo delicato argomento, soprattutto dopo il suo significativo gesto di alcuni mesi fa, quando un membro di Drachma è stato invitato a far parte della commissione che ha preparato la dichiarazione a proposito del disegno di legge sugli embrioni e a tenere una conferenza su questioni LGBTIQ al Collegio dei Parroci. […] Ci aspettavamo che la Chiesa non perdesse questa opportunità di costruire un ponte con la comunità LGBTIQ dicendo chiaramente di essere contro le terapie riparative, anche se ci sono alcuni elementi nel disegno di legge che andrebbero approfonditi”. I due gruppi affermano che la Chiesa dovrebbe chiedere perdono a chi ha subito le terapie riparative e dovrebbe riconoscere i forti danni, anche spirituali, provocati alle vittime. Il primo ministro maltese Joseph Muscat afferma di opporsi “al concetto che l’omosessualità sia una malattia o equivalente alla pedofilia”, come riporta il sito Gay Star News. Helena Dalli, ministro del dialogo sociale, dei consumatori e delle libertà civili e patrona del disegno di legge, afferma che la dichiarazione della Chiesa “è basata su false premesse”, come riporta il bisettimanale Malta Today. Mark Josef Rapa di We Are (Noi siamo), un’organizzazione di giovani LGBTQI, ha detto a The Independent che non si aspettava un simile documento, che mostra come i leader della Chiesa credono ancora “che l’omosessualità si possa curare”. Il Movimento Maltese per i Diritti Gay (MGRM) afferma, in una dichiarazione riportata dal Times of Malta, che il disegno di legge non fa altro che “assicurare che ogni persona, indipendentemente dall’orientamento sessuale, dall’identità e dall’espressione di genere, venga trattata con equità”. Il Movimento fa notare “il serio pregiudizio verso le persone bisessuali” nel documento della Chiesa, il quale suggerisce che tali persone abbiano difficoltà a mantenersi monogame.
Come se non bastasse, il documento afferma che il disegno di legge porta avanti “una discriminazione fondamentale e manifesta”, in quanto apparentemente permetterebbe alle persone eterosessuali le terapie riparative per diventare gay o bisessuali. Secondo la dichiarazione, stesa da teologi e giuristi maltesi, il disegno di legge ignora “le aree grigie di orientamenti sessuali complessi” e pregiudicherebbe chi cerca di “prevenire le sue inclinazioni omosessuali” per rimanere celibe/nubile o favorire un matrimonio eterosessuale; la dichiarazione, inoltre, azzarda una sottile critica della legge maltese sull’identità e l’espressione di genere e le caratteristiche sessuali, approvata nel 2014 e considerata una pietra miliare per la protezione delle persone transgender in Europa. Di fronte a tante critiche provenienti da ogni dove, l’intervista dell’arcivescovo Scicluna contiene l’ammissione, degna di nota, che la Chiesa avrebbe dovuto intervenire nella questione in modo diverso: “Ogni terapia riparativa che obblighi qualcuno ad andare contro le sue decisioni o le sue scelte di vita è una cosa inammissibile – inammissibile – e voglio che questo sia assolutamente chiaro”. Invitato ad approfondire la sua posizione, monsignor Scicluna ha affermato che, se gli esperti dicono che tali terapie sono “del tutto dannose, allora dovrebbero essere evitate”. Ha poi aggiunto che, essendo un tema sensibile dal punto di vista pastorale, l’approccio degli esperti avrebbe dovuto essere “meno tecnico e più pastorale”. In retrospettiva, la Chiesa “non avrebbe proprio dovuto rilasciare quel documento […] L’esperienza mi ha insegnato che, quando si discute una legge, non basta contribuire al dibattito mettendo in campo degli esperti: bisogna tenere conto anche dell’impatto sull’emotività della gente e di come questa recepirà il documento”. Monsignor Scicluna si è assunto la responsabilità del documento, proveniente dal vertice della Chiesa maltese e da lui approvato. La dichiarazione, come riporta il Times of Malta, afferma che il disegno di legge negherebbe “il diritto di ricevere un trattamento psicologico” agli adulti consenzienti. Quando gli è stato chiesto se la commissione di esperti che ha preparato il documento avrebbe dovuto includere “qualche rappresentante della comunità omosessuale”, l’arcivescovo ha risposto: “Sarebbe stato di enorme aiuto coinvolgere i membri di Drachma nella preparazione della dichiarazione, avendo essi già contribuito validamente ad altri documenti. Quando l’ho chiesto al professor [Emanuel] Agius [membro della commissione di esperti], questi ha risposto che avremmo potuto e dovuto farlo, come abbiamo fatto per altre dichiarazioni presentate in tempi recenti”. Monsignor Scicluna ha ammesso che il documento è nato male ed è errato nell’approccio, se non nella sostanza, e ha rinnovato la sua disponibilità al dialogo con le persone LGB: “Sento però che devo costruire ponti con la comunità omosessuale, che ritiene il nostro linguaggio troppo tecnico, troppo freddo e distante […] Voglio rassicurarli sul fatto che siamo fermamente contrari alle terapie riparative perché crediamo, come loro e come il governo, che vadano contro la dignità umana. […] Non siamo d’accordo con chi crede che le persone omosessuali siano malate […] Queste sono etichette che le sminuiscono. E certamente non facciamo collegamenti tra loro e la pedofilia”. Commentando il Giubileo della Misericordia inaugurato da papa Francesco, l’arcivescovo ha ammesso che nella storia della Chiesa “le nostre azioni e il nostro linguaggio non sono sempre stati inclusivi”: questo anno porta con sé “un messaggio di compassione e inclusione” che deve guidare gli sforzi della Chiesa. Monsignor Scicluna ha riaffermato il suo desiderio di dialogo e di collaborazione, descrivendo il suo stile di ministero cristiano come “molto collegiale” e dicendo di preferire consultarsi con dei consiglieri e intavolare discussioni prima di prendere le sue decisioni. È ancora più importante il fatto, evidente in questa vicenda, che il prelato abbia l’abitudine di tornare sulle sue decisioni e di modificare quelle rivelatesi inefficaci o scorrette. Monsignor Scicluna ha anche parlato del ruolo della Chiesa Cattolica nello spazio pubblico e della sua guida aperta e franca della Chiesa maltese: la gente apprezza una Chiesa impegnata nella società, ma questa stessa Chiesa deve “accettare di essere una voce in mezzo a molte altre” perché sta “in una società pluralistica”. I leader ecclesiastici non possono pretendere di avere l’ultima parola su tutto; l’ambiente democratico richiede “la capacità di discutere con rispetto e di non prendere nulla sul personale”.
L’intervista al Times of Malta, che merita di essere letta per intero, continua parlando del cammino dell’arcivescovo riguardo le questioni LGBT. Si oppone fortemente al matrimonio omosessuale e, prima che il governo maltese approvasse le unioni civili, disse no alla legge assieme al vertice della Chiesa. Nello stesso tempo, però, chiese scusa alle lesbiche e ai gay le cui vite erano state rese ancora più difficili dalla Chiesa. Tra le altre cose, ha difeso l’amore che può esistere tra partner dello stesso sesso, dicendo in una intervista che “L’amore non è mai un peccato. Dio è amore”. L’arcivescovo rifiutò di punire un sacerdote domenicano che aveva benedetto gli anelli di una coppia omosessuale, esortandolo invece a continuare il suo ministero con le persone LGB ma di farlo nel rispetto dei riti della Chiesa così come essa li pratica oggigiorno. L’atteggiamento generalmente positivo dell’arcivescovo convinse il Movimento Maltese per i Diritti Gay a conferirgli nel 2014 il Premio della Comunità LGBTI, rifiutato dall’allora vescovo ausiliario in quanto non vuole riceve premi o onorificenze solo perché “ho fatto il mio dovere di Vescovo”. Lo stesso anno partecipò alla Giornata Internazionale Contro l’Omofobia. Le sue ultime dichiarazioni sul disegno di legge e sul suo episcopato lo faranno apprezzare ancora di più dalle persone LGBT. I leader della Chiesa maltese hanno proposto al governo e al pubblico una presa di posizione sull’omosessualità non troppo diversa da quella di altri vescovi: per questo motivo hanno ricevuto forti e persistenti critiche da molte voci di questo Paese così cattolico. La chiave dell’episodio è la profonda umiltà che sta alla base del ”Vescovo Francesco” che monsignor Scicluna sembra esemplificare, disponibile ad ascoltare ed imparare, a riconoscere i suoi errori, a cercare la riconciliazione, ad essere più a suo agio della maggior parte dei vescovi con le complessità della vita. Un rimpianto da lui espresso nell’intervista è di non avere ancora programmato visite pastorali. Il venerdì, secondo lui, “il vescovo deve stare dov’è la sofferenza e io non sono riuscito a farlo”. Sembra sapere che c’è molta sofferenza ai margini della Chiesa e della società. Spero che l’arcivescovo Scicluna passi molti venerdì a coltivare relazioni e costruire ponti con le persone LGBT e i loro cari, perché errori pastorali come la dichiarazione sulle terapie riparative non avvengano più in futuro.
Testo originale: Archbishop Admits Church’s Mistake in Supporting Reparative Therapy
commento al vangelo della quarta domenica di quaresima (6 marzo 2016) di p. Alberto Maggi:
Lc 15,1-3.11-32
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze.
Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio.
Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è 1
tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
Quello che farisei e scribi, rappresentanti dell’istituzione religiosa non hanno mai capito è che Dio, anziché preoccuparsi di essere obbedito e rispettato, è preoccupato della felicità degli esseri umani. Per cui scribi e farisei se non cambiano non potranno mai conoscere l’allegria del Padre.
E’ quanto ci esprime l’evangelista Luca nel capitolo 15, con quella che è senz’altro una delle parabole più conosciute e più amate. Quella del figlio prodigo. Vediamo.
Scrive Luca, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori. L’evangelista è tassativo, tutti. Quindi tutti coloro che vivono nel peccato hanno sentito in Gesù un tono diverso. Non più minacce, non più castighi, ma amore offerto anche per loro. Non solo amore, ma anche rispetto.
Si avvicinavano per ascoltarlo. Ebbene, la reazione consueta delle autorità religiose: i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui…”. Notiamo che nei vangeli i capi religiosi, le autorità religiose, l’élite spirituale, evitano sempre di pronunziare il nome di Gesù, rivolgendosi a lui col massimo del disprezzo.
“Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Non solo li accoglie ma mangia con loro; mangiare significa condivisione di vita. E poi Gesù disse loro qualcosa, ma questa parabola non è rivolta ai discepoli di Gesù, ma è rivolta a queste autorità religiose – scribi e farisei.
Ed egli disse loro questa parabola (quella conosciutissima del figliol prodigo, e la vediamo soltanto nei tratti essenziali perché è abbastanza lunga e non c’è il tempo per commentarla tutta): un uomo aveva due figli, il più giovane chiede la sua parte di eredità. Ed è importante per la comprensione del brano che il padre divise tra loro le sue sostanze.
Quindi ha dato quello che era dovuto al figlio minore, ma il doppio – secondo la legislazione ebraica – al figlio maggiore. Questo figlio più giovane se ne va, partì per un paese lontano, cioè un paese pagano e si dimostra incapace, infatti in poco tempo sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto.
Poi cade in disgrazia perché arriva una grande carestia. Lui che ha puntato tutto sul denaro, quando non ha più denaro, si ritrova ad essere un niente. Lui che era un padrone in casa sua, si trova ad andare sotto un padrone. Da padrone diventa servo.
L’evangelista specifica che andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, ma cade proprio nell’abiezione, perché andò a pascolare i porci. E sappiamo che il maiale è un animale impuro, quindi è il massimo del degrado. Ebbene a questo punto, preso dai morsi della fame – perché non gli davano neanche da mangiare – questo figliolo dice: : “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza …”, quindi si vede che questo padre era generoso non solo con i figli, ma anche con i suoi operai, “e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò…”
Attenzione per comprendere bene questo brano, a volte questo figliolo viene presentato come modello di conversione, di pentimento. Nulla di tutto questo. Questo è un ragazzo che ragiona sempre per il proprio interesse, e in base ai soldi. Quello che gli manca non è il padre, ma gli manca il pane. Non è il rimorso che ora lo spinge a tornare dal padre, ma il morso della fame. Quindi non c’è nessun accenno al dolore che ha recato alla sua famiglia.
“Padre, ho peccato verso il Cielo (quindi contro Dio) e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio.” Quindi è decaduto dei diritti; non può essere più trattato come un figlio perché ha ricevuto la sua parte, “Trattami come uno dei tuoi salariati”.
Quindi lui non sa cosa significa la relazione di un figlio col padre, e chiede di essere trattato come uno dei servi. Si alzò e tornò da suo padre. Ribadisco che non va perché pentito, ma va per interesse. Non gli manca il padre, ma gli manca il pane.
La figura sulla quale l’evangelista ora centra la nostra attenzione è quella del padre, immagine di Dio. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide. Quindi il padre ha rispettato la volontà del figlio ma non lo ha dimenticato, lo ha atteso.
Ebbe compassione. Avere compassione è un’azione divina con la quale si restituisce vita a chi vita non ce l’ha. E’ la terza volta che compare nel vangelo di Luca. La prima nell’episodio della vedova di Nain, quando Gesù ebbe compassione e le resuscita il figlio, la seconda col samaritano, l’uomo che ha compassione del ferito e gli restituisce la vita.
Quindi l’azione del padre non è di risentimento, di rabbia, di offesa, ma un desiderio di restituire vita.
Gli corse incontro. Questo è inconcepibile nella cultura medio orientale. Correre è sempre un segno di disonore, e mai una persona anziana o un genitore corre incontro al figlio, ma per il padre il desiderio di onorare il figlio è più importante del proprio onore. Il padre si disonora per onorare il figlio.
Gli si gettò al collo. Quando leggiamo il vangelo mettiamoci nei panni dei primi ascoltatori che non sapevano come andava poi a finire il racconto. Noi ci saremmo immaginati che, dopo essersi gettato al collo lo avrebbe strozzato. Questo imbecille che ha sperperato tutto e si è ridotto a fare il guardiano dei porci.
Invece ecco la sorpresa: E lo baciò. L’evangelista qui si rifà al primo grande perdono nella Bibbia, quando Esaù perdonò il fratello Giacobbe che gli aveva sottratto l’eredità. Quando Esaù si incontra con Giacobbe lo bacia. Il bacio è segno di perdono. Allora il padre, immagine di Dio, perdona il figlio prima che questo gli chieda perdono. Il figlio non si fida e attacca il suo “atto di dolore” … “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te…” Il padre non lo fa terminare.
Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello”. Il vestito era una onorificenza che conferiva dignità a una persona. Questo ragazzo, questo figlio che ha perso la sua dignità, ora ritorna nello splendore della sua dignità. Ma quello che più sorprende è il seguito.
“Mettetegli l’anello al dito”. L’anello non è un qualcosa che addobba, un gingilletto. Ma l’anello era il sigillo che deteneva l’amministratore della casa. Quindi il padre a questo figlio incapace, che ha sperperato tutto il suo patrimonio, gli restituisce la dignità e una fiducia più grande di quella che godeva. Gli mette in mano l’amministrazione della casa, senza sapere poi che ne farà questo figlio.
“E i sandali ai piedi.” Ricordate che il ragazzo aveva chiesto di essere trattato come uno dei salariati e il padre dice: “No, mettetegli i sandali ai piedi”. Nelle case i proprietari portavano i sandali, i servi andavano scalzi.
E poi dice: “Facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. Ed ecco che entra in scena colui al quale è rivolta la parabola.
Il figlio maggiore – immagine di scribi e farisei, che non vuole entrare in casa, protesta. Il padre esce anche verso di lui, e lui piagnucola. Si vede un Gesù che critica l’infantilismo nel quale la religione tiene i suoi adepti. E dice: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici.” Ricordiamo all’inizio il padre ha diviso il suo patrimonio tra i due figli e al figlio maggiore ha dato il doppio di quello che ha dato al minore.
Quindi era tutto suo, perché non se l’è preso? E’ la religione. La religione mantiene le persone in uno stato infantile, non hanno un rapporto d’amore con Dio, ma un rapporto di obbedienza, di servizio, e si attendono sempre una ricompensa. Ma soprattutto attendono l’autorizzazione per gioire o meno.
Allora il padre com’è andato incontro al figlio che si era smarrito, va incontro anche a questo figlio che non vuole entrare in casa e a questo figlio che, nella rimostranza ha detto “Tuo figlio…”, il padre gli ricorda che è suo fratello.
Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo”. Solo che lui ha vissuto nella condizione di servo e non di figlio e non ha saputo gustare.
“Ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello..” Ecco lui ha detto “Perché tuo figlio..” il padre gli ricorda “Tuo fratello”… “Era morto ed è tornato in vita”. Quindi Gesù invita questi scribi e farisei a rallegrarsi che attorno a lui vadano questi peccatori, i miscredenti, ma purtroppo sappiamo dal seguito del vangelo che scribi e farisei, accecati dalla trave della loro giustizia, della loro fedeltà alla legge, non comprenderanno mai la misericordia di Dio.
l’ho detto e l’ho ridetto. E non mi stanco di ribadirlo. Nel tempo della falsità universale e dell’abitudine neo-orwelliana a trovare normale che due più due dia cinque, occorre insistere. E l’insistenza, diceva Adorno, è la cifra dello spirito di scissione di una filosofia non arresa all’esistente permeato dal potere
L’utero in affitto è una pratica abominevole per quattro motivi:
a) è l’apice del classismo, perché permette a chi è danaroso di affittare l’utero di donne proletarie e disoccupate, “libere” astrattamente di farlo e materialmente costrette a farlo dalla loro condizione economica;
b) è il non plus ultra della reificazione, giacché considera il corpo della donna alla stregua di una merce disponibile e manipolabile, e il corpo del nascituro come se fosse una merce on demand, programmabile per l’acquisto da parte dell’individuo consumatore portatore di volontà di potenza smisurata;
c) è la vittoria del capitale, che ci fa credere che la libertà sia la possibilità per l’individuo di fare tutto ciò che vuole, a patto che possa permetterselo economicamente. Libertà reificata, libertà falsa, libertà ricavata per astrazione del mondo della circolazione delle merci;
d) reca con sé possibili derive eugenetiche, che ci riportano alle peggiori pagine della storia del “secolo breve”: permette, potenzialmente, di assemblare bambini come se fossero macchine, magari in futuro scegliendo minuziosamente il colore degli occhi e dei capelli.
A questi quattro motivi, che già di per sé basterebbero a liquidare l’utero in affitto come una pratica abominevole e criminale, degna di essere avversata, se ne aggiunga un quarto. Un quarto motivo che, diciamolo pure, farebbe ridere se non facesse piangere. Ed è questo: vediamo ormai gente autoproclamantesi di sinistra che difende convintamente la pratica dell’utero in affitto, della quale, dati i costi esorbitanti, mai potrà nemmeno usufruire: difende una pratica di cui potranno usufruire solo i miliardari! Si batte per i privilegi dei possidenti.
Sarebbe come se il proletariato si mettesse a difendere i panfili dei miliardari. Il controllo delle masse manipolate ha raggiunto l’apice. Esse lottano per il padrone. Si battono per il capitale, difendono l’ordine che le vuole eternamente subordinate, con il volto schiacciato perennemente dallo stivale del nuovo Signore neo-oligarchico e neofeudale.
In fondo, già ci aveva messi in guardia Antonio Gramsci, prima che il compagno Nichi facesse credere alle masse che emancipazione e comunismo coincidono con utero in affitto e mercificazione dei corpi: “Il dottor Voronof ha già annunziato la possibilità dell’innesto delle ovaie. Una nuova strada commerciale aperta all’attività esploratrice dell’iniziativa individuale. Le povere fanciulle potranno farsi facilmente una dote. A che serve loro l’organo della maternità? Lo cederanno alla ricca signora infeconda che desidera prole per l’eredità dei sudati risparmi maritali. Le povere fanciulle guadagneranno quattrini e si libereranno di un pericolo. Vendono già ora le bionde capigliature per le teste calve delle cocottes che prendono marito e vogliono entrare nella buona società. Venderanno la possibilità di diventar madri: daranno fecondità alle vecchie gualcite, alle guaste signore che troppo si sono divertite e vogliono ricuperare il numero perduto. I figli nati dopo un innesto? Strani mostri biologici, creature di una nuova razza, merce anch’essi, prodotto genuino dell’azienda dei surrogati umani, necessari per tramandare la stirpe dei pizzicagnoli arricchiti. La vecchia nobiltà aveva indubbiamente maggior buon gusto della classe dirigente che le è successa al potere. Il quattrino deturpa, abbrutisce tutto ciò che cade sotto la sua legge implacabilmente feroce. La vita, tutta la vita, non solo l’attività meccanica degli arti, ma la stessa sorgente fisiologica dell’attività, si distacca dall’anima, e diventa merce da baratto; è il destino di Mida, dalle mani fatate, simbolo del capitalismo moderno” (A. Gramsci, giugno 1918; in Id., Scritti 1913-1926, Einaudi, Torino 1984, a cura d S. Caprioglio, p. 88).
intervista a Michela Marzano a cura di Gianluca Roselli
in “il Fatto Quotidiano”
le persone dovrebbero pensare prima di parlare e giudicare. Ci vuole calma, serenità e rispetto. Siccome sono questioni etiche, tutti pensano di poter dire la loro. Molti vedono la pagliuzza negli occhi altrui e non la trave nei propri”
Michela Marzano, filosofa, scrittrice e deputata del Pd, difende Nichi Vendola e la sua scelta di ricorrere alla maternità surrogata
“Alt! Primo errore, è sbagliato chiamarla così…”
Qual è la definizione giusta?
La dicitura corretta è “gestazione per altri”. Questo bambino ha avuto la sfortuna di nascere proprio adesso, dopo l’approvazione delle unioni civili. E chi critica Vendola probabilmente preferirebbe che non fosse mai nato. Il punto fondamentale è che non c’è coincidenza tra il mettere al mondo un bambino e la maternità. Far nascere una creatura non significa essere madre. In questo caso si tratta di una donna che ha portato avanti una gravidanza per conto di altri. Altrimenti come dovremmo chiamare le donne che abbandonano i neonati?
Chiariamo meglio il punto.
La maternità è un ruolo, è la responsabilità che si assume nell’essere madre, che è colei che raccoglie la vita ed evita che essa scivoli nel vuoto del non senso. Per questo motivo in francese esistono due parole: geniteur, ovvero la madre biologica, la genitrice di un bambino; e parent, la madre vera e propria, colei che vuole e cresce un figlio. Sono due cose diverse. I bimbi hanno diritto ad avere padre e madre indipendentemente da chi esercita tali ruoli. Molti, anche a sinistra, hanno parlato di sfruttamento del corpo della donna. Questo è un falso problema. Lo sfruttamento c’è se la questione non è regolamentata, ma se avviene all’interno di un quadro legislativo preciso questo rischio viene meno. Vanno sempre valutate le condizioni all’interno delle quali un fatto accade. La gestazione per altri può anche essere un atto di grande generosità. Si è tirato in ballo la differenza di classe. I ricchi possono comprarsi tutto, anche i figli. Gli altri no. Diventa un discorso economico proprio perché nel nostro Paese non si può fare. E allora si è costretti ad andare all’estero e a spendere molti soldi. La stessa cosa si diceva quando l’aborto era illegale: solo le donne ricche possono abortire in sicurezza, mentre le altre rischiano la vita. Una volta diventato legale, la condizione si è parificata. Se in Italia l’utero in affitto fosse legale, la questione non si porrebbe.
Quindi dovrebbe potersi fare anche in Italia?
Sì, ma andiamo piano, perché qui non siamo riusciti nemmeno a portare a casa una legge sulle unioni civili decente. Io sono favorevole al matrimonio gay, ma avevo accettato il compromesso del ddl Cirinnà. Al compromesso del compromesso, però, non ci sto più. La norma è stata svuotata: di fronte a un piccolo passo giuridico in avanti, ne è stato fatto uno enorme indietro sul piano culturale. Togliendo l’obbligo di fedeltà si è sancito l’amore omosessuale come amore di serie B, promiscuo e volatile, quasi non degno. Poi è stata tolta anche la stepchild adoption e il risultato finale è pietoso.
Il Pd sostiene che la stepchild verrà ripresa all’interno di una legge più generale sulle adozioni…
Io due settimane fa ho presentato una proposta di legge proprio sulle adozioni, ma penso che non se ne farà niente. Se non c’erano i voti sull’articolo 5 adesso, mi devono spiegare perché dovrebbero esserci tra sei mesi o un anno. Il Pd sostiene che bisogna fare un passo alla volta… A me sembrano solo scuse. I voti in Parlamento c’erano, il Movimento Cinque Stelle non si sarebbe sottratto a una responsabilità così grande. Io annuncerò il mio addio al partito in aula, alla Camera, al momento del voto finale sulle unioni civili e passerò al gruppo misto. Poi, a fine legislatura, tornerò all’università. Con il mio gesto voglio trasmettere ai giovani il principio che non tradire e non tradirsi è possibile. Anche qui il problema è culturale e riguarda l’intero Paese: non c’è mai solo la strada che gli altri ci propinano, una scelta diversa è sempre possibile. Il mondo gay, però, sulle unioni civili si è diviso. Molti si sono espressi a favore dicendo: meglio questa riforma di niente… Aspettano questa legge da trent’anni, capisco il loro atteggiamento. Ma per abitudine si finisce per accettare qualunque cosa. È anche a questo che mi riferisco quando dico che in Italia ci vuole un profondo cambiamento culturale.
comprendo perfettamente la tua volontà di mettermi in guardia da quelli che sono i potenziali rischi a cui potrei andare incontro nel mondo. E ti voglio perciò esprimere tutta la mia gratitudine per il fatto che mi guardi le spalle. Se mai una tigre fuggisse dallo zoo e provasse a saltarmi addosso, è su di te che farei affidamento!
Il problema è che non ho bisogno di sentirmi sollecitata dai tuoi avvertimenti con la frequenza che credi tu. Tutti quei pensieri stressanti e quei film che mi faccio in testa grazie a te, per prefigurarmi tutto ciò che potrebbe andare per il verso sbagliato, finiscono per risultarmi più dannosi che d’aiuto. Fanno sì che io avverta dei sintomi di disagio fisico, e producono uno stress che va a logorare il mio corpo e ad esaurirmi. E dunque fanno esattamente il contrario di ciò che vorresti che facessero, cioè proteggermi.
Inoltre, succede spesso che ti sbagli. Il tuo curriculum non è certo senza macchia. Ricordi quella volta che mi hai detto d’aver lasciato accesa la piastra per i capelli, e che tutta la casa sarebbe andata a fuoco? Ne vogliamo parlare? Alla fine non era accesa, e la casa stava benone. Rammenti quell’altra volta in cui mi hai detto che la mia amica se l’era presa, visto che non aveva risposto al mio messaggio? Poi lei mi ha risposto dopo poco, e non era neanche leggermente irritata. Mi ha scritto: “Ti voglio bene, amica mia!”. E quella volta che secondo te il mio mal di stomaco avrebbe potuto essere un’appendicite? T’eri solo spaventata dopo aver letto Madeline in seconda elementare. Non c’era niente che non andava, stupidina!
Alcuni dei tuoi avvertimenti vanno bene e sono d’aiuto. Mi sta bene quando mi sproni a studiare tanto per superare un esame. Mi sta bene che mi consigli di guardare in entrambe le direzioni prima d’attraversare la strada. Questo sì che è essere costruttivi. Batti il cinque!
Una parte del tuo chiacchiericcio, però, risulta eccessivo. Mi distrae, ed è più dannoso che d’aiuto. La vita è una cosa preziosa, e sono preziose le persone che amo. Per loro vorrei esserci, stare con loro, in ogni momento. Vorrei potergli offrire una mente lucida e un cuore aperto. Ed è per questa ragione che ho scelto di non credere più a tutto ciò che dici. È per questo che ti dico: “Grazie per l’avvertimento, ma sto bene”, e “Non sono io, è solo la mia ansia!”, per poi cambiare argomento.
Indipendentemente dalla quantità di tempo che io posso trascorrere in tua compagnia a meditare sulle cose brutte che potrebbero succedere, ciò non impedirà mai che esse accadano. Non farà altro che rattristarmi e farmi sprecare tempo ed energie che potrei adoperare per aiutare gli altri e creare bellezza nel mondo!
Inoltre, vorrei vivere una vita divertente e avventurosa. Quando cerco di programmare qualcosa come un viaggio in Italia, e tu mi dici: “Non farlo! E se poi accadesse ‘questo’?”, sappi che in viaggio in Italia io ci andrò comunque. Più riuscirò a fare delle cose belle — e le “cose cattive” che prevedi non accadranno — meglio finirai per sentirti in vista delle nostre avventure! Inoltre ho una sola parola per te: gelato [in italiano nel testo originale, ndt].
Perciò, per quanto io apprezzi la tua costante preoccupazione, risparmiamocela per i pericoli veri. E adoperiamo la tua energia per creare cose belle nel mondo, e meno angosce per me. Adoro la nostra splendida e vivace immaginazione. Adoro il nostro entusiasmo, la creatività, lo spirito imprenditoriale, e il flusso costante d’idee e progetti. Ma tiriamo un bel respiro profondo, e prendiamoci un tè. Dallo zoo di New York non è fuggita alcuna tigre pronta a bussare alla nostra porta per unirsi a noi. È tutto OK.
Con amore, la tua persona
Questo post è apparso per la prima volta su Huffington Post America ed è stato tradotto da Stefano Pitrelli
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continua a tenere banco la polemica relativa al cosiddetto “caso Vendola”. Dopo il botta e risposta di ieri tra uno dei leader della sinistra italiana e il leghista Salvini sono arrivate anche le prese di posizione di Laura Boldrini, Beppe Grillo ed Emma Bonino.IntelligoNews ne ha parlato con il professor Massimo Cacciari…
Emma Bonino ha preso una posizione opposta. La stupisce?
articolo pubblicato su NIGRIZIA n.3/2011
quali sono i parametri per verificare la fede, per sapere se si è credenti o no? Per molti, i criteri di giudizio riguardano la pratica religiosa. Ma questi sono criteri poco obiettivi. Come si fa a misurare il grado di fede di una persona dalla sua partecipazione alle cerimonie liturgiche o dalle sue devozioni?
Nella Chiesa si è sempre stati unanimi nell’individuare, come fondamento della fede del credente, la risurrezione di Gesù, perché, “Se Cristo non è risorto, vuota allora la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede” (1 Cor 15,14).
Ma testimoniare la fede nella risurrezione del Cristo è arduo. Come è possibile essere i garanti di una realtà che non può essere mostrata? Eppure, negli Atti degli Apostoli si legge che la testimonianza della risurrezione del Cristo si doveva a una realtà che tutti potevano toccare con mano, e non esigeva pericolose acrobazie teologiche o violenze dell’intelletto: “Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù… Nessuno infatti tra loro era bisognoso…” (At 4,34). La prova che il Cristo non solo è risorto, ma è vivo e operante all’interno della sua comunità, è che nessuno dei suoi componenti è bisognoso, perché ciascuno si sente responsabile non solo del bene, ma anche del benessere del fratello. Una comunità dove nessuno è bisognoso, dove non esistono creditori e debitori, è la prova evidente che in essa c’è qualcosa di speciale: la presenza viva e vivificante del Signore.
Non certo per quel che contiene, ma per quel che è capace di dispensare. Avere fede significa fidarsi talmente del Padre da non preoccuparsi più per i propri bisogni, ed essere liberi di occuparsi delle necessità dei fratelli, certi che nel momento della necessità il Padre provvederà in maniera più abbondante di quel che si può desiderare, perché il Signore regala vita a chi comunica vita e, con chi è generoso, il Padre sarà abbondantemente generoso (Mt 10,8; Lc 6,38).
Ma l’insegnamento di Gesù sull’importanza del fare della propria vita un dono generoso, condividendo non solo quel che si è, ma anche quel che si ha, sembra essere disatteso proprio da quanti pretendono di essere suoi seguaci. Per questo Gesù ammonisce che “Nessuno può servire due padroni… non si può servire Dio e mammona” (Mt 6,24). Ma il più delle volte sono proprio le persone religiose quelle che riescono a servire Dio e i propri interessi (Lc 16,14), arrivando a usare Dio per il proprio lucro, come gli scribi, denunciati da Gesù come coloro che, con il pretesto delle preghiere, “divorano le case delle vedove” (Mc 12,40).
Gesù è molto chiaro: la fede nel Padre non si vede da ortodossi attestati di fedeltà alla dottrina, e neanche dal rispetto delle regole religiose, ma dalla capacità di essere generosi, di donare senza calcolo.
Quanti accumulano ricchezze, quanti speculano, quanti agiscono in base alla loro convenienza non credono in Dio, ma confidano nel suo rivale, mammona (vocabolo aramaico che indica il patrimonio, ed è passato a significare la ricchezza come base per la sicurezza dell’uomo).
L’istinto alla sopravvivenza, fa sì che l’uomo pensi di assicurare la sua esistenza mediante l’accumulo di beni. Ma Gesù avverte i suoi che la sete di possesso anziché portare serenità è causa di ansia, fonte inesauribile di inquietudine che divora l’animo della persona, così come le tarme e la ruggine consumano i tesori ammassati. La ricchezza infatti è paradossalmente fattore di apprensione, sia perché non sembra mai sufficiente, sia perché si teme il suo calo e la sua perdita (le tarme, la ruggine e i ladri, che minacciano il capitale, oggi hanno il nome di inflazione, di banche, di borsa). E comunque, anche se un uomo riuscisse ad accumulare e a conservare tutto quel che è riuscito ad ammassare, a che gli serve? A che giova, ammonisce Gesù, “guadagnare il mondo intero” e poi smarrire se stessi? (Mt 16,26; Lc 12,20). Per Gesù il valore della persona sta nella sua generosità: “La lampada del corpo è l’occhio; perciò se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso: ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso” (Mt 6,22-23). Nel linguaggio dell’epoca l’occhio limpido indicava la generosità della persona, in contrapposizione all’occhio cattivo, immagine della sua taccagneria (Dt 15,9; Mt 20,15). Nel rapporto che ha con il denaro si gioca l’esistenza dell’uomo: la generosità, espressa nella condivisione, lo porta a essere luce, l’egoismo che si manifesta nell’avarizia a essere tenebre.
Gesù dà molta importanza alla capacità dell’uomo di essere generoso, perché è da questo atteggiamento che dipendono la sua felicità o l’infelicità, la sua riuscita o il suo fallimento. Perché ciò sia ben compreso, Gesù lo insegna con argomenti a tutti accessibili: “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre” (Mt 6,25). Di tutti gli animali che nel Talmud venivano benedetti dagli uomini, gli uccelli erano esclusi, perché ritenuti insignificanti oltreché nocivi. Eppure, dichiara Gesù, anche gli elementi irrilevanti della creazione sono oggetto della premura del Creatore amante della vita.
L’altro esempio Gesù lo prende dalla bellezza dei “gigli del campo”, e arriva a dichiarare che neanche l’ambizioso re Salomone, con tutta la sua boria, “vestiva come uno di loro” (Mt 6,28-30).
L’assicurazione di Gesù, che il Padre si occupa degli uccelli, che non “seminano, non mietono e non raccolgono nei granai” (Mt 6,26), e dei fiori, che “non faticano né filano” (Mt 6,28), non è un invito al fatalismo e all’inattività, ma alla fede nell’azione provvidenziale del Signore, che sarà ancora tanto più efficace negli uomini, che seminano e mietono, filano e faticano. Gesù non invita a non occuparsi, ma a non preoccuparsi. È questo che per Gesù differenzia il credente dal pagano. Quanti sono sempre in ansia per la loro vita (Che mangeremo? Che berremo?) e cercano nell’accumulo dei beni la risposta alla loro inquietudine sono la chiara dimostrazione che non credono nel Padre, ma negli idoli, nelle false divinità che, come mammona, ingannano, promettendo quel che non possono dare e, non avendo la capacità di trasmettere vita, comunicano solo morte.
Gesù offre un’alternativa a questo comportamento che è causa di rovina per l’uomo e di ingiustizia nella società. E invita gli uomini a sostituire l’affanno dell’accumulo dei beni con la scoperta gioiosa del dare (“Si è più beati nel dare che nel ricevere”, At 20,35). Per Gesù si possiede veramente solo quel che si dona. La vera ricchezza, quella che rimane per sempre e non può essere distrutta, consiste in quel che si è donato, e il bene fatto è l’unico bagaglio che l’uomo porta con sé entrando nella vita definitiva (Ap 14,13).
Quel che si trattiene non si possiede, ma possiede l’uomo, come insegna l’episodio del ricco, che ha rifiutato l’invito di Gesù a sbarazzarsi dei suoi beni perché “possedeva molte ricchezze” (Mt 19,22). Credeva di possedere le ricchezze, in realtà erano queste a possederlo. E per questo era triste. Quel che doveva dargli serenità era invece causa di afflizione.
L’invito di Gesù è di porre nella propria vita, come valore prioritario, “il regno e la sua giustizia” (Mt 6,33). Scegliere il regno significa aderire al programma di Gesù di cambiare le basi stesse della società e offrirle un’alternativa. Si tratta di rinunciare alla bramosia di possedere e scoprire la gioia del condividere. Questa è la scelta del regno, quella che può cambiare radicalmente la vita della persona e farle sperimentare che, quando si vive per il bene degli altri, si permette al Padre di prendersi cura del bene dei suoi figli. Allora, all’ansia per il domani si sostituisce la profonda fiducia nel presente, sperimentando che sarà “il domani a preoccuparsi di se stesso”, togliendo dalla vita del credente ogni ansia, inquietudine e aprendolo a una fiducia sempre più grande nel Padre.
padre Zollner alla Radio vaticana dopo l’appello del produttore al papa alla notte degli Oscar. «Molto è stato fatto, basta omertà». L’Osservatore Romano: non è un film anticattolico
Iacopo Scaramuzzi
l’Osservatore Romano scrive, con articolo richiamato in prima pagina, che Il caso Spotlight «non è un film anticattolico», perché «riesce a dare voce allo sgomento e al dolore profondo dei fedeli davanti alla scoperta di queste orribili realtà». Certo, prosegue il quotidiano della Santa Sede, «i bambini sono esseri indifesi, e quindi vittime privilegiate di abusi anche nelle famiglie, nei circoli sportivi, nelle scuole laiche. Gli orchi non portano esclusivamente la veste talare. La pedofilia non deriva necessariamente dal voto di castità. Ma ormai è chiaro che nella Chiesa troppi si sono più preoccupati dell’immagine dell’istituzione che non della gravità dell’atto»
Il film «Il caso Spotlight» e l’appello al Papa rivolto dal suo produttore alla notte degli Oscar «danno un ulteriore slancio» al lavoro per il contrasto della pedofilia del clero: questo il commento affidato alla Radio vaticana dal gesuita tedesco Hans Zollner, membro della Pontificia commissione per la tutela dei minori e presidente del Centro per la protezione dei minori della Pontificia università Gregoriana. L’Osservatore Romano scrive: «Non è un film anti-cattolico».
«Il caso Spotlight», diretto da Tom McCarthy, racconta l’indagine giornalistica con la quale nel 2001 il Boston Globe scoperchiò l’insabbiamento sistematico degli abusi sessuali del clero sui minori nella diocesi, Boston appunto, allora guidata dal cardinale Bernard Francis Law. L’inchiesta, premio Pulitzer, preceduta dagli articoli di giornalisti come Jason Berry sul National Catholic Reporter, fece esplodere lo scandalo della pedofilia negli Stati Uniti, seguito anni dopo in Europa e nel resto del mondo. Alla premiazione che ha assegnato alla pellicola gli Oscar come miglior Film e miglior sceneggiatura originale, ieri notte, il produttore, Michael Sugar, ha commentato: «Papa Francesco: è ora di proteggere i bambini e restaurare la fede».
«Molto è stato fatto, da parte della Santa Sede, e poi anche da alcune Chiese locali», afferma padre Zollner. «Per cui, un film come questo e anche le parole dette alla premiazione, certamente danno un ulteriore slancio a questo nostro lavoro che, ad esempio, abbiamo iniziato dal 2012 qui alla Gregoriana con un convegno internazionale, il Simposio “Verso la guarigione e il rinnovamento”, che ha visto partecipare 110 vescovi di tutte le Conferenze episcopali del mondo e che è stato un primo passo anche per le aree dell’Africa e dell’America Latina, dove il tema a quell’epoca non era ancora arrivato».
Il gesuita tedesco ricorda che «fin dalla fine degli anni ’90, il cardinale Ratzinger, da prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, si era infatti reso conto che la Chiesa non poteva più né tollerare questi abusi né la loro copertura da parte di vescovi. E così Joseph Ratzinger, poi come Papa Benedetto, ha fatto grandi passi per rendere la Chiesa un’istituzione trasparente e impegnata nella lotta contro gli abusi. Poi, Papa Francesco ha continuato sulla linea di Papa Benedetto, rafforzando ancora la legislazione della Chiesa, istituendo la Pontificia Commissione per la tutela dei minori. Il Papa ha già messo in pratica alcune misure e attendiamo ulteriori sviluppi su questa stessa linea, che daranno certamente il messaggio chiaro che la Chiesa cattolica nella sua leadership si rende conto della gravità della situazione e vuole e deve continuare la lotta per la giustizia e perché non ci siano più vittime di abuso». Alla Gregoriana, in particolare, il “Centre for Child Protection” istituito di recente intende «lavorare per costruire pian piano una competenza locale, cioè persone che sappiano come reagire, come creare spazi sicuri per i bambini e gli adolescenti».
Quanto al film, mons. Charles Scicluna, attuale arcivescovo di Malta e in passato «promotore di giustizia» della Congregazione per la Dottrina della fede, che rappresentò la “pubblica accusa” vaticana in casi come quello del sacerdote messicano pedofilo Marcial Maciel, «ha detto pubblicamente», in un’intervista a Repubblica, «che raccomanderebbe a tutti, anche ai vescovi, di guardare questo film», sottolinea Zollner. «Lo stesso ha detto anche un vescovo australiano. C’è quindi un grande apprezzamento per il film e ovviamente anche un apprezzamento per il messaggio e il modo in cui viene trasmesso il messaggio. Questi vescovi raccomandano ai loro confratelli di vedere questo film, quindi è un forte invito a riflettere e a prendere sul serio il messaggio centrale, cioè che la Chiesa cattolica può e deve essere trasparente, giusta e impegnata nella lotta contro gli abusi e che deve impegnarsi affinché non si verifichino più. E’ importante capire che dobbiamo cambiare quel nostro atteggiamento che in italiano si può esprimere con quella famosa parola: “omertà”. Non parlare, voler risolvere tutto spazzando via tutto sotto il tappeto, nascondersi e pensare che tutto passerà. Bisogna capire che non passerà: ormai dobbiamo renderci conto che o con molto coraggio e la capacità di affrontare le cose guardandole in faccia ci pensiamo noi, oppure un giorno, prima o poi, saremo obbligati a farlo. E questo penso sia uno dei messaggi centrali di questo film».
Anche l’Osservatore Romano scrive, con articolo richiamato in prima pagina, che Il caso Spotlight «non è un film anticattolico», perché «riesce a dare voce allo sgomento e al dolore profondo dei fedeli davanti alla scoperta di queste orribili realtà». Certo, prosegue il quotidiano della Santa Sede, «i bambini sono esseri indifesi, e quindi vittime privilegiate di abusi anche nelle famiglie, nei circoli sportivi, nelle scuole laiche. Gli orchi non portano esclusivamente la veste talare. La pedofilia non deriva necessariamente dal voto di castità. Ma ormai è chiaro che nella Chiesa troppi si sono più preoccupati dell’immagine dell’istituzione che non della gravità dell’atto». Quanto all’appello rivolto al Papa durante la notte degli Oscar, «deve essere visto come un segnale positivo: c’è ancora fiducia nell’istituzione, c’è fiducia in un Papa che sta continuando la pulizia iniziata dal suo predecessore già come cardinale. C’è ancora fiducia in una fede che ha al suo cuore la difesa delle vittime, la protezione degli innocenti».
di Marcelo Barros
in “www.adista.it”
Emanuele, Alessandro, Andrea e Gianluca, carissimi fratelli e compagni di cammino, prima di tornare in Brasile, dove mi attendono incontri teologici e diversi ministeri, vorrei ringraziarvi di tutto cuore per questo vostro gesto ministeriale e profetico durante la Quaresima
Senza dubbio, come la Dabar biblica, parola che si fa vita, questo vostro gesto è un anticipazione dell’Exultet, l’annuncio della Pasqua di Gesù, che oggi si esprime come Crocifisso-Risorto nelle tante tende dei migranti, dei rifugiati e dei profughi di questo mondo così segnato dalla crudeltà. La rapida visita che ho avuto modo di farvi è stata per me una grazia divina e mi ha confermato nel cammino della fede e della speranza. Ho potuto constatare il vostro coraggio nell’affrontare il freddo delle notti invernali, la sfida dei tanti lavori pastorali che continuate a svolgere, anche in questo periodo speciale, e principalmente la chiarezza della vostra opzione evangelica, che è alla base di tutto questo cammino. Porterò al Brasile e ai miei compagni/e dell’Associazione dei Teologi del Terzo Mondo la vostra profezia che ci anima tutti/e. Ringrazio Dio per il fatto che, come mi avete detto, il vostro vescovo è stato in grado di rispettare la vostra decisione e di comprenderla. Grazie a Dio, questo pastore ha ascoltato la parola che Gesù ha detto a Pietro: “Simone, ho pregato per te, perché tu confermi i tuoi fratelli” (Lc 22,32).
Purtroppo, non si può contare sulla solidarietà umana e cristiana da parte di tutti i fratelli nel ministero presbiterale. Sembra che si sentano più eredi dei dottori della legge e dei sacerdoti del tempio di Gerusalemme che dei profeti biblici. Infatti, Amasia, sacerdote di Betel, nei confronti del profeta Amos e i sacerdoti del tempio di Gerusalemme nei riguardi di Geremia hanno iniziato una “tradizione”. E secondo Giovanni, dopo l’inizio del ministero di Gesù, i sacerdoti e i dottori di Gerusalemme inviarono leviti e funzionari del tempio per interrogare, vigilare e bloccare la profezia di Gesù (Gv 1,19 ss). Ancora oggi, funzionari ecclesiastici che vivono in un sistema poco democratico usano argomenti democratici quando si tratta di soffocare la profezia. Certamente, pensano che Gesù avrebbe dovuto consultare almeno i discepoli e gli amici prima di cenare con persone considerate di malaffare o ricorrere a una votazione comunitaria se si dovesse o meno perdonare la donna adultera o comunicare con la samaritana… È importante per tutti noi, in ogni momento, valutare se non stiamo cadendo nella tentazione del clericalismo. Siamo ecclesiastici e clericali quando ci fermiamo su posizioni di potere e di privilegio. Il vostro cammino non è questo. La vostra lettera rivela una visione del mondo; è un grido profetico importante. Non preoccupatevi se non avete condotto un lavoro scientifico o uno studio sociologico documentato sulla realtà. Non è questo il linguaggio dei profeti. Sono uomini e donne di Dio che gridano quello che vedono. Alcuni vi criticano dicendo che volete mettervi in mostra. Non siete voi che lo avete scelto. È lo stesso Spirito di Dio. Paolo ha scritto ai Corinzi: Dio ha messo noi apostoli come «spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini» (1Cor 4,9). Mantenetevi saldi nel vostro cammino. In altri tempi, i dottori della legge hanno rivolto le stesse accuse e obiezioni a mons. Oscar Romero in El Salvador, a don Hélder Câmara, il mio vescovo in Brasile, e a Samuel Ruiz, il vescovo degli indios in Chiapas, un profeta che in questi giorni è stato riabilitato da papa Francesco nel suo viaggio in Messico. State tranquilli. Siete in buona compagnia.
Il vostro fratello Marcelo Barros Pinerolo, 27 febbraio 2016
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