attenzione ai teocon

il noto teologo Giuliano Ferrara segue Magdi Allam e critica Francesco per la debole condanna dell’attentato in Pakistan

 

Giuliano Ferrara critica papa Francesco per la sua debole condanna dell’attentato di Lahore in Pakistan sul “Foglio” di martedì 29 marzo 2016. Ecco le parole del pontefice pronunciate dopo il Regina Coeli pronunciate per la Pasqua. 

Ferrara

“Ieri, nel Pakistan centrale, la Santa Pasqua è stata insanguinata da un esecrabile attentato, che ha fatto strage di tante persone innocenti, per la maggior parte famiglie della minoranza cristiana – specialmente donne e bambini – raccolte in un parco pubblico per trascorrere nella gioia la festività pasquale. Desidero manifestare la mia vicinanza a quanti sono stati colpiti da questo crimine vile e insensato – ha sottolineato Bergoglio- e invito a pregare il Signore per le numerose vittime e per i loro cari. Preghiamo tutti per i morti di questo attentato, per i famigliari, per le minoranze cristiane e etniche di questa nazione”.

L’ex direttore del Foglio è stato pronto a condannare la condanna del papa, aggrappandosi all’aggettivo “insensato” rimarcato da Bergoglio. “Se invece la dichiarazione di insensatezza diventa una regola di prudenza legata allo spirito inter religioso del dialogo, se il retropensiero è che il cristianesimo con lo spirito dominante dell’occidente e in quanto tale condannato a morte (la principale ragione della persecuzione anticristiana secondo lo storico e vaticanista John Allen), allora le cose cambiano e emerge una reticenza ideologica e pericolosa”. Ferrara conclude rimarcando come Lahore sia più vicina a Ratisbona di quanto si pensi, evidenziando ancora una volta il suo rimpianto per Benedetto XVI.

Magdi Allam Prima di lui anche un altro noto teologo come Magdi Allam aveva criticato la debolezza di Francesco nella condanna di un attentato efferato come quello compiuto in Pakistan. Benché il dogma dell’infallibilità papale non riguardi ogni pensiero espresso dal pontefice, stupisce ogni volta come una declinazione moderata del cattolicesimo sia ogni volta denunciata come sintomo di chissà quale pericolo dagli autoproclamati difensori dell’Occidente. Un po’ come per gli Stati Uniti, per Ferrara l’appoggio incondizionato alla Chiesa vale solo se  prevale una linea, molto ben definita e piuttosto stretta, a lui affine. Come se il mondo si fosse fermato ai tempi delle guerre di Busch, rimpiante solo dal direttore del “Foglio” e pochi altri, come dimostrano con plastica evidenza perfino le primarie repubblicane.

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“cari figli vi chiedo scusa”

bruxelles905

attentati di Bruxelles

la lettera di una giornalista ai figli

“vi chiedo scusa, ero certa che vi avremmo risparmiato la guerra”

E’ una lunga lettera quella che la giornalista francese Béatrice Delvaux ha scritto ai suoi figli. Pubblicata sul giornale Le Soir all’indomani degli attentati di Bruxelles, è una lettera commovente, nella quale la giornalista si rivolge ai suoi ragazzi e, insieme, a un’intera generazione per chiedere scusa. Scusa perché, scrive,
Caro Tu, sono vent’anni che ti mento. Non ho che una scusa: io stessa ho creduto alle mie bugie per 20 anni. Ti ho venduto questo mondo come quello delle possibilità, dei grandi viaggi, di quegli spazi che tu potevi sondare… Io, io che ero certa che ti avremmo risparmiato la guerra, rinchiudendola nei libri di storia o in quegli aneddoti  che la nonna o il nonno ti raccontavano, eppure sbagliavo“.
Preoccupata per il futuro dei suoi figli e dei loro coetanei, la giornalista racconta l’orrore ma ricorda anche i passi avanti fatti negli ultimi decenni, dalla fine del servizio militare alla conquista dell’uguaglianza tra uomo e donna, ai matrimoni con persone delle stesso sesso:
Eravamo assolutamente certi di aver sotterrato quei demoni che avevano costruito i campi di concentramento, i genocidi, il napalm. i goulag. Goulag? Hai persino creduto che ti parlassi di un piatto ungherese. Ne abbiamo tanto riso, ricordi? Perché dovremmo aver paura? I nostri genitori l’avevano fatta la guerra, ma loro avevano anche, in seguito, costruito la pace. Loro stessi avevano dato vita a quell’Europa che doveva salvaguardarci dalle nostre follie, dalle nostre derive. Noi abbiamo davvero creduto in quel mondo che ti abbiamo promesso,  per la semplice ragione che l’abbiamo visto affermarsi. Abbiamo visto cadere i muri, le ideologie, le barriere, ma non erano che commerciali. Io, tua madre, ho approfittato dell’uguaglianza crescente con gli uomini, di quei diritti per cui abbiamo combattuto e che abbiamo inscritto nella legge. Io, tuo padre, non ho dovuto fare il servizio militare perché ho vissuto gli ultimi spasmi di quel mondo. Poiché non era più il momento delle armi, ma delle coscienze. Non era più il momento di invadere i vicini per sottometterli, ma di soggiornare da loro, farsi sedurre imparando la lingua dell’altro, in tenda, in camper o, ancora prima, con sacchi a pelo, per poi arrivare a quell’Erasmus che tu dovresti – dovresti? – fare tra qualche mese. Avevamo vinto l’odio – “Mai più tutto questo”, non era altro che uno slogan, era diventato un luogo comune, una convenzione, un’affermazione di diritto”.
Il dolore di quanto accaduto a Bruxelles si fa strada parola dopo parola nel lungo scritto:
Quindi, no! Io non volevo che tu vedessi quei corpi triturati, quelle carni esplose alla stazione di Maelbeek. Maelbeek, a due passi da casa tua, Maelbeek, centro di Bruxelles, con quel nome che suona come uno scherzo, che è un punto di ritrovo: “Ci vediamo a Maelbeek”, “Scendi a Maelbeek”, “Ci siamo baciati a Maelbeek”? Quindi, no! Io non volevo che tu ieri ascoltassi il pianto di quei bambini terrorizzati, persi nel fumo dell’esplosione, unico filo conduttore nell’orrore, mentre cercavano la fuga da quella metro sventrata, triturata, uccisa“. “Caro Tu – prosegue – Dopo la collera, la tristezza, è arrivo il tempo di chiederti scusa. Ti implorare il tuo perdono. Ma di dirti anche che sentirti qui, al mio fianco, mi dà la forza per raddrizzare la testa. E credere nel domani“.
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meglio morto che risorto?

meglio morto che risorto

sul senso profondo della Pasqua di Alberto Maggi


 di Alberto Maggi

Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede”, afferma perentorio Paolo ai Corinti (1 Cor 15,14). Eppure nessun evangelista dà la descrizione del momento della risurrezione del Cristo. Questo fatto creò così tanto imbarazzo nelle comunità cristiane primitive che si rimediò a questa lacuna con un falso d’autore che ebbe un grande successo. Infatti, l’immagine tradizionale del Cristo Risorto, che esce trionfante dal sepolcro, con le guardie tramortite, non appartiene ai vangeli riconosciuti ispirati, ma a un testo apocrifo del secondo secolo, conosciuto come il Vangelo di Pietro: “Durante la notte nella quale spuntava la domenica, mentre i soldati montavano la guardia a turno, due a due, risuonò in cielo una gran voce, videro aprirsi i cieli e scendere di lassù due uomini, in un grande splendore, e avvicinarsi alla tomba. La pietra che era stata appoggiata alla porta rotolò via da sé e si pose a lato, si aprì il sepolcro e c’entrarono i due giovani” (Vang. Pietro 9,35-37).

Nessuno ha potuto descrivere la risurrezione del Cristo, perché neanche un solo discepolo era presente, nonostante Gesù avesse insistentemente affermato che sì, sarebbe stato ucciso, e nel modo più infamante, la crocifissione, ma poi dopo tre giorni sarebbe risuscitato (Mt 16,21; 17,22; 20,19). Ma nessuno ci ha creduto, perché nessuno desiderava veramente la sua risurrezione. La prova che il Messia era quello inviato da Dio, era che non poteva morire, perché “il Cristo rimane in eterno” (Gv 12,34). Pertanto, se Gesù era morto, e in quel modo infamante, con la morte dei maledetti da Dio (Dt 21,23; Gal 3,13), pazienza, voleva dire che si erano sbagliati, e c’era solo da attendere il vero Messia, quello che avrebbe sbaragliato i nemici, sottomesso i popoli pagani e inaugurato il regno d’Israele. Del resto non era la prima volta che qualche esaltato si era proclamato l’atteso liberatore, aveva iniziato la rivolta contro gli odiati Romani e il tutto era finito in un bagno di sangue, come insegnava il tragico epilogo delle insurrezioni capitanate dai vari Teuda e Giuda il Galileo, sedicenti Messia che convinsero la gente a seguirli, e quelli che lo fecero “furono dissolti e finirono nel nulla” (At 5,36-37). In fondo meglio morto che risuscitato. Perché se Gesù era morto, era segno che non era il Messia e bisognava attenderne un altro. Ma se era risuscitato, allora addio sogni di gloria, di restaurazione del defunto regno del re Davide, della supremazia sui popoli pagani, dell’accumulo delle ricchezze delle altre nazioni, come i profeti avevano vagheggiato (“Vi nutrirete delle ricchezze delle nazioni, vi vanterete dei loro beni”, Is 61,6).

Pertanto, morto Gesù, i suoi discepoli, delusi (“Speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele…”, Lc 24,21), erano tornati alle due occupazioni di sempre, e il Risorto li deve andare a cercare uno a uno per far sperimentare loro che era veramente risorto, rimproverandoli “per la loro incredulità e durezza di cuore” (Mc 16,14; Lc 24,25). Inutilmente Gesù nella sua vita terrena aveva parlato ai suoi discepoli del regno di Dio, perché questi capivano regno di Israele. Gesù parlava di servizio e i discepoli pensavano al potere, il Maestro insegnava a mettersi a livello degli ultimi e i discepoli litigavano tra loro per assicurarsi il posto più importante, il Signore li invitava a scendere e essi pensavano solo a salire.
Per questo il Risorto, una volta riunito i suoi, tiene loro una sorta di corso intensivo durato ben quaranta giorni “parlando delle cose riguardanti il regno di Dio” (At 1,3). Ma niente da fare: quando l’ideologia religiosa è intrecciata con quella nazionalista, anche se si hanno orecchie per udire non si ode, e se si hanno occhi per vedere non si vede (Mc 8,18). Infatti, al quarantesimo giorno, i discepoli, che evidentemente non erano interessati a questo tema del regno di Dio, gli domandarono: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?” (At 1,6). Scrive l’evangelista che a questo punto “una nube lo sottrasse ai loro occhi” (At 1,9). Il Cristo non se n’è andato, ma sono i discepoli che sono incapaci di vederlo. Chi è mosso dal potere non può percepire l’Amore, chi pensa a sé non può riconoscere la presenza dell’Altro. Ci vorrà ancora del tempo, e quando finalmente i discepoli comprenderanno che il pane non va accumulato, ma solo spezzato e condiviso, allora si apriranno i loro occhi e riconosceranno il Cristo risorto (At 24,31) che li accompagnerà nella loro missione (Mc 16,20).

 (fonte: Il libraio)
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dalla parte dei profughi e degli ultimi senza se e senza ma

sempre dalla parte degli ultimi

di Orazio La Rocca

in “Trentino” del 25 marzo 2016

lavanda piedi
Lavare i piedi a 12 profughi migranti arrivati in Italia in fuga da Paesi in guerra, colpiti da violenze, fame, malattie. Gesto simbolico – ma anche pratico e altamente significativo – di servizio, di accoglienza e di amore tra i più forti delle celebrazioni pasquali che papa Francesco compie come un “vecchio” padre con movenze lente e sicure, curvandosi in ginocchio ai piedi di dodici apostoli-immigrati che hanno ancora volti e sguardi segnati da espressioni di paure difficilmente dimenticabili.

Inizio del quarto triduo pasquale di Jorge Mario Bergolio nella veste di pastore universale della Chiesa cattolica al Care, il Centro di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto, presso Roma. Non in una grande storica artistica monumentale chiesa ma uno dei luoghi-simbolo dove vengono raccolti i migranti che attraversano il Mediterraneo su barconi e carrette del mare per salvarsi da conflitti bellici, oppressioni, sfruttamenti. Uno dei luoghi-simbolo di dolore e di speranza, area di approdo per chi è in attesa di poter trovare una sistemazione in Italia o in uno dei paesi della vecchia Europa. E con la scelta di celebrare proprio al Care – dopo che nei primi tre anni da Pontefice aveva presieduto lo stesso rito nelle carceri della Capitale – papa Francesco ha fatto chiaramente capire con gesti, parole e richiami di essere dalla parte dei migranti senza se e senza ma. Anzi, con una scelta profetica e politicamente controcorrente agli occhi dei fautori di politiche dei muri e dei respingimenti in mare di chi scappa dalle guerre, ha posto al centro del rito per eccellenza dell’avvio delle celebrazioni pasquali i più sofferenti, gli ultimi arrivati, gli oppressi. Una scelta di campo che oggi, Venerdì Santo, potrà avere una sicura continuità nelle meditazioni della Via Crucis al Colosseo e che di sicuro Bergoglio ribadirà domani notte nella veglia della Resurrezione e domenica mattina, nella solenne Messa pasquale da piazza S.Pietro.

piediRiti, celebrazioni, ricorrenze, prolusioni Urbi et Orbi sempre e comunque plasmate intorno agli ultimi, alla scelta preferenziale dei poveri e a quanti vivono nel bisogno, schiacciati da oppressioni fisiche e morali. Una scelta di campo pastorale accanto a migranti, immigrati ed itineranti compiuta con forza da Bergoglio fin all’inizio del pontificato quando si recò a pregare a Lampedusa nelle cui acque erano morti centinaia di immigrati. Lo ha ripetuto in tantissime occasioni nel corso dei primi tre anni di pontificato. Lo ha fatto ieri nella solennità della celebrazione della Lavanda dei Piedi al Care, inginocchiandosi davanti a 12 immigrati di varie nazionalità e religioni diverse, 8 uomini (tre musulmani, un siriano, un pakistano e un maliano; 4 giovani nigeriani cattolici; un giovane indiano di religione indù) e 4 donne (tre eritree cristiane copte e una italiana cattolica). Dodici neo apostoli di oggi scelti da papa Francesco tra le persone più sofferenti ed oppresse, senza guardare alle loro fedi, alle nazionalità di provenienza e al sesso. Scelte e rito (Lavanda dei Piedi) fortemente “simbolici” spiegati da Bergoglio con la necessità di voler dare «oggi e qui due testimonianze: la prima è che in questo luogo, pur in mezzo a persone di differenti fedi religiosi, in questo momento ci sentiamo tutti uniti come fratelli e figli di un solo Dio; la seconda è che con questo gesto di servizio della lavanda dei piedi vogliamo dare una risposta a quanti, l’altro giorno, in Belgio, invece di mettersi al servizio di altri fratelli, hanno distribuito armi e ordigni di morte con cui hanno seminato morte e distruzioni, e ferito centinaia di innocenti». Gesti di “cieca follia” che il Pontefice ha paragonato ad un altro gesto di altrettanta “cieca follia” fatto da Giuda Iscariota «quando per trenta denari tradì Gesù consegnandolo ai suoi carnefici». Drammi, violenze e tragedie di ieri e di oggi, evocati dal papa argentino – novello Buon Samaritano del terzo millennio – con un solo ostinato scopo, tendere la mano a chi soffre, a chi scappa da guerre, violenze ed oppressioni, e condannare i mercanti di morte che ammazzano nel nome di Dio.

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Pio Laghi e i desaparecidos della dittatura argentina

dittatura argentina e il nunzio Pio Laghi

le verità oscurate

la vicenda e una lettera dell’Arcivescovo conservata negli Archivi vaticani, con la scoperta di tante realtà negate su quei sette anni (1976 – 1983)

 ricordo di avere udito con sgomento dalla sua bocca queste parole di risposta (a me che impertinentemente gli domandavo se avesse saputo qualcosa delle trenta mila persone fatte sparire da chi giocava con lui a tennis – “non esageriamo, sì e no se si tratta di cinque mila!”

 Fra le tante e articolate verità che potrebbero venire fuori dall’apertura degli Archivi vaticani riguardante il periodo delle quattro Giunte militari che tra il 1976 e il 1983 governarono con ferocia inaudita l’Argentina, certamente la vicenda dolorosa del Nunzio a Buenos Aires, arcivescovo Pio Laghi, sarà una delle più interessanti, utili e necessarie.
Pio Laghi arrivò a Buenos Aires, accreditato come Nunzio del Papa, il 1° luglio 1974, lo stesso giorno della morte del Presidente Juan Domingo Perón, e finì la sua missione diplomatica il 21 dicembre 1980. Furono, per Pio Laghi, quasi sei anni di grande dolore e sofferenza che segnarono per sempre la sua vita. Lui però non sapeva ancora che era solo l’inizio. Lo scoprì, in Vaticano, già cardinale e allora Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica, la mattina del 23 marzo 1997 quando aprì il Corriere della Sera. Il quotidiano a pagina 10 offriva ai suoi lettori un ampio reportage con il titolo «Cardinale e carnefice». Il sottotitolo aggiungeva: «Argentina – Pio Laghi accusato di esser parte integrante della dittatura militare argentina».

Da questo giorno terribile per Pio Laghi partì una corposa campagna stampa, non solo in Argentina, che gradualmente e con la tecnica del martellamento lo presentò quasi come un mostro. In queste denunce, che imputavano al Nunzio di aver preso parte «al sequestro, tortura e omicidi di migliaia di persone», si sono distinte le Madri della Piazza di Maggio, numerosi politici, organi di stampa, in America Latina e in Europa. Il 4 magio 1997 la Presidente delle Madri della Piazza di Maggio, Hebe de Bonafini, insieme con Marta Badillo e l’avvocato Sergio Schocklender, annunciarono una richiesta di processo perché il diplomatico, a loro parere «visitava assiduamente i centri di detenzione clandestini e permetteva le torture e le esecuzioni che vi avevano luogo». L’esposto fu consegnato ai Tribunale di Roma il 21 maggio 1997, giorno del 75.mo compleanno del porporato.

I tempi della missione del Nunzio Laghi
Pio Laghi fu Nunzio a Buenos Aires dal luglio 1974 al dicembre 1980, quindi durante i venti mesi del governo di Isabelita Perón, la vedova che come Vice Presidene prese l’incarico del marito dopo la morte (1º luglio 1974 – 24 marzo 1976) e poi per quasi 4 anni della dittatura di Jorge Videla e compagni. In questi anni l’arcivescovo Laghi dovette fare i conti con situazioni e fenomeni tutti molto gravi e non facili. Da un lato la crisi politico-isituzionale creatasi con la successione di Isabel Perón, persona incapace, nelle mani di personaggi molto discutibili come il suo segretario personale, José López Rega, finanziatore occulto, con soldi dello stato, della «Alianza Anticomunista Argentina» usata per combattere i diversi fenomeni, anche armati, dell’estremismo di sinistra (Montoneros, Ejército revolucionario del pueblo, Uturuncos, Fuerzas Armadas Revolucionarias e altri). All’incrocio micidiale di due terrorismi, insurrezionale e di stato, si è aggiunto, dopo il golpe di Videla, la repressione disumana e totalitaria di militari che dicevano ufficialmente di agire nel nome del cristianesimo per favorire il famigerato «Processo di Riorganizzazione Nazionale». Infine, erano anche gli anni in cui covava sotto le ceneri la tentazione guerriera, sia di Buenos Aires e sia di Santiago del Cile dove comandava il dittatore Augusto Pinochet, che avrebbe condotto a uno scontro bellico devastante se non fosse che s. Giovanni Paolo II, con l’opera straordinaria del cardinale Antonio Samoré, riuscì a scongiurare con una lunga e complessa mediazione.

Le 5mila schede di Pio Laghi
Monsignor Laghi si è sempre difeso con fermezza e dignità da ogni accusa anche di quelle palesemente inconsistenti. Molte volte lamentò l’impossibilità di accedere agli Archivi sia quelli in Vaticano sia a quelli custoditi presso la Nunziatura argentina dove, diceva, c’erano almeno 5.000 schede da lui allestite su vittime della repressione. Bruno Passarelli e Fernando Elenberg, nel loro libro «Il Cardinale e i desaparecidos», scrivono: «Laghi aiutò a salvare vite umane; assistette umanamente e materialmente molti perseguitati; intercedette a favore di detenuti che, abbandonati nelle loro celle, potevano sparire nel nulla in qualsiasi istante, vittime della politica “Notte e Nebbia” alla sudamericana, praticata dai repressori. Inoltre, cercò di verificare dove fossero finiti i “desaparecidos”, per regalare un raggio di speranza ai loro tormentati familiari. Criticò pubblicamente la Giunta Militare e continuò a farlo sebbene ricevesse minacce di morte e si scontrasse duramente con Vescovi e cappellani militari che appoggiavano il regime e con i quali, in quanto Rappresentante Pontificio, era chiamato a convivere e non a scontrarsi».

Questi giudizi si basano su numerose inchieste giornalistiche che dimostrano, per citare solo un dato, che nel 1979 chiese alle autorità argentine chiarimenti complessivamente su 2.388 cittadini e anche se è vero che era amico dell’ammiraglio Emilio Massera – uno di tre membri della Giunta militare – fu dichiarato persona non grata nel 1980 da parte del governo argentino e perciò costretto a lasciare il Paese.

Nel libro sopracitato si legge: «Le testimonianze (Ndr: sull’opera umanitaria di Laghi) non mancano. In una minuta priva di data, il Segretario di Stato Cardinale Jean Villot, si riferisce a un rapporto che Laghi gli aveva inviato pochi giorni prima accennando alla situazione di un gruppo di donne argentine i cui familiari erano stati sequestrati ed erano detenuti o scomparsi. E scrive: «Le sono vivamente grato per le informazioni che ci ha fornito nel contesto di molti altri casi in favore dei quali codesta Nunziatura Apostolica interviene ripetutamente e instancabilmente, presso le autorità competenti, nonostante la scarsa attenzione che queste le prestano».

I conflitti nell’Episcopato
Oltre alla tante gravi e delicatissime situazioni che il Nunzio Laghi deve affrontare durante la sua missione diplomatica ed ecclesiale, già ricordate seppure sommariamente, ce n’era una ancora più difficile e complicata per un servitore del Papa chiamato, per missione e servizio, a difendere e rinforzare l’unità dei vescovi del Paese. La complessa, composita e fragilissima situazione dell’Argentina aveva ferito seriamente il corpo episcopale che a Laghi si presentò molto diviso, litigioso e polarizzato. La dittatura, seppure pagana e totalitaria, riuscì a seminare – appellandosi a parole alla difesa del cristianesimo, in particolare del cattolicesimo, profonde divisioni e antagonismi tra i vescovi al punto che la morte di due di loro, fatti uccidere per le loro posizioni critiche, monsignor Angelelli (1976) e monsignor Ponce de León (1977), per la maggioranza dell’Episcopato per molti anni sono apparse come «semplici incidenti stradali».

C’erano vescovi che si fidavano ciecamente dei dittatori e a loro perdonavano ogni cosa, anche gli eccessi peggiori. C’erano vescovi radicalmente critici, pochi, che si esprimevano però con cautela e misura.

C’erano vescovi, la stragrande maggioranza, che scelsero la discutibile via del dire: «La politica non ci riguarda».

E tutte queste tensioni e differenze s’incorniciavano in una lunghissima controversia sul Concilio Vaticano II, alle cui conclusioni si opponevano ostinatamente molti presuli, richiamati alla disciplina a più riprese da Papa Paolo VI. Intanto il Movimento di sacerdoti per il Terzo Mondo contesteva duramente la gerarchia. C’era inoltre la questione delicatissima della successione del Primate, cardinale Antonio Caggiano (1889 – 1979).

Quando s. Giovanni Paolo II visita per poche ore il Paese, alla ricerca di una via per fermare l’imminente guerra tra Argentina e Cile, sottolinea ai vescovi: «La missione del Vescovo ha sempre un aspetto che non ho motivo di dissimulare. È facile e a volte può essere comodo lasciare le cose diverse abbandonate alla loro dispersione. È facile, collocandosi all’altro estremo, ridurre con la forza la diversità a una uniformità monolitica e indiscriminata. È difficile, invece, costruire l’unità conservando, anzi meglio, fomentando, la giusta varietà. Si tratta di sapere armonizzare i valori legittimi delle diverse componenti dell’unità, superando le naturali resistenze, che sorgono con frequenza da ciascuna di essa. Perciò, essere Vescovo, sarà essere sempre artefice di armonia, di pace e di riconciliazione» (12 giugno 1982). Cinque anni dopo, nel viaggio del 1987, Papa Wojtyla urlerà: «Argentina alzate!».

Le verità degli Archivi che saranno aperti
È certo che l’apertura degli Archivi vaticani sul periodo delle dittature argentine, 1976-1983, ristabilirà la verità sull’operato del Nunzio Pio Laghi, anche lui vittima della «guerra sporca», in particolare dalla stampa sotto controllo del regime che spesso ha attribuito frasi, pensieri o dichiarazioni mai fatte e distorte per farlo apparire, in quanto Rappresentante del Papa, un sostegno del Vaticano alle orrende nefandezze dei dittatori; stampa che non sempre pubblicava le sue smentite o precisazione. Non vi è dubbio che da qui è nata la leggenda nera su Pio Laghi; leggenda assunta da molti che però non si sono accorti di essere rimasti intrappolati nella rete di menzogne dei dittatori.

Non solo per le vittime della «guerra sporca», e per i loro parenti, ma anche per Pio Laghi attendiamo con fiducia l’apertura degli Archivi vaticani, che con ogni probabilità ci permetteranno, per la prima volta, di leggere documenti come la lettera di Pio Laghi al cardinale Jean Villot nel luglio 1976, un impressionante squarcio di verità nelle menzogne circolate per decenni.

***
Ecco un documento di 40 anni fa che si trova negli Archivi che saranno aperti: Lettera rapporto del Nunzio monsignor Pio Laghi al cardinale Segetario di Stato, Jean Villot.

Buenos Aires, 13 luglio 1976
N° 1510/76
OGETTO: Colloquio con il Ministro dell’Interno
A Sua Eminenza
Il Sig. Card. JEAN VILLOT
Prefetto del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa.
Città del Vaticano.
(Con allegato)
Eminenza,
Questa mattina mi sono recato alla Casa di Governo dove mi sono incontrato con il Generale Albano Harguindeguy, Ministro dell’Interno dell’Argentina, con il quale ho avuto un colloquio di tre quarti d’ora. Il principale argomento trattato è stato quello riguardante lo stato dei detenuti politici, il sequestro e l’eliminazione di persone, al margine della legge, e la violazione di fondamentali diritti umani.
In seguito all’eccedio di cinque Religiosi Pallottini, il Ministro stesso aveva espresso il desiderio di avere un incontro con me, ed io naturalmente l’ho assecondato, ritenendo conveniente valermi di tale udienza per parlare anche sugli argomenti sopra menzionati.
Circa l’assassinio dei Pallottini, egli mi ha assicurato che l’inchiesta per identificare gli autori prosegue; ha aggiunto che l’increscioso fatto ha prodotto al paese un danno morale incalcolabile, «molto maggiore del danno prodotto dalla bomba esplosa nel quartiere generale della Polizia, che ha causato 20 morti e oltre 60 feriti»; perciò, ha soggiunto, i responsabili devono essere identificati e processati. Mi ha confidato poi di avere degli indizi per concludere che la mano assassina sia «di estrema destra»; ha dato ordine all’alto Comando della Polizia di mettere ogni impegno per far luce sul fatto, al fine di «pulire e riscattare l’immagine stessa del Corpo».
Al Ministro ho consegnato alcuni fogli nei quali avevo trascritto, secondo la categoria, i nomi dei detenuti, dei sequestrati e degli scomparsi, i cui familiari si sono rivolti alla Nunziatura per ottenere il nostro interessamento (Allegato); ho richiamato l’attenzione del Ministro su alcuni casi, che mi sembrano di particolare urgenza e meritevole di speciale considerazione, come quello degli Ingegneri della Commissione per l’Energia Atomica, quello del regista del cinema Raymundo Glayser, quello del Prof. Roberto Bergalli.
Harguindeguy mi ha poi fornito dettagliate informazioni sui sacerdoti tuttora detenuti, a disposizione del potere esecutivo, oppure sotto processo: essi sono 9, di cui 6 erano in carcere ancoro prima del “golpe militare”; cinque sono sotto giudizio e per essi il Pubblico Ministero ha chiesto l’applicazione di pene fino a 8 anni di reclusione; gli altri quattro potranno forse essere espulsi dal paese come «persone non grate», non essendo argentini.
Infine, ci siamo soffermati a parlare dei rifugiati e di coloro che sono qui residenti ma non cittadini dello Stato, se, da una parte, la loro presenza e il loro numero, molto alto, pongono seri problemi di sicurezza per le autorità statali, dall’altra essi hanno dei diritti inalienabile. Circa i detenuti non argentini, ho ricordato casi in cui essi sono mantenuti «incomunicati» e non possono essere visitati nemmeno dall’agente consolare del rispettivo paese: ciò è in contrasto con l’articolo 36 della Convenzione di Vienna sui rapporti consolari, di cui l’Argentina è firmataria.
Il Ministro ha ammesso che in qualche presidio militare, come in quello di Rosario, al comando del generale Díaz Bessone – un tipo molto «duro» – si verificano abusi del genere, ed ha promesso che farà di tutto per portarvi rimedio.
Di fronte all’angustia che ho manifestato, circa atti di violenza compiuta da «squadristi» di destra e circa i metodi inammissibili di lotta contro la sovversione, il Ministro ha concordato con me che «è necessario disarmare tutti i gruppi che agiscono al di fuori della legge dello Stato».
Nel riferire quanto sopra all’Eminenza Vostra profitto della circostanza per porgerLe i sensi del mio profondo ossequio,
di Vosta Eminenza
dev.mo
(firma Pio Laghi)

luis badilla
città del vaticano
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