i poveri si prendono la rivincita

la rivincita dei poveri

migranti

 

di Patrick Royannais
in “La Croix” del 16 gennaio 2016

non possiamo pretendere che le ingiustizie continuino, che i poveri restino poveri per mantenere il nostro tenore di vita. Sì, la nostra civiltà sta cambiando. In una società globalizzata, opporsi all’accoglienza di coloro che avevamo tenuto fino a questo momento ai margini della nostra prosperità e delle nostre libertà, è omicida, ma è anche suicida

Facciamo troppo per i migranti? Non credo proprio. Non abbiamo ancora accolto i 24000 siriani che ci eravamo impegnati ad ospitare. Eppure, alcuni temono per l’unità e l’identità della Nazione, per le nostre capacità di integrazione, per il mercato del lavoro, ecc. Non dobbiamo proteggerci dall’arrivo in Europa di un milione di rifugiati nel 2015? La nostra società è in pericolo. Sì, la nostra società è in pericolo, ne sono convinto. E anche la nostra fede. Ma il pericolo non viene da dove pensiamo. Probabilmente viene più da noi stessi che da coloro che, come viene detto, ci stanno invadendo, e che per di più sono musulmani.

foto premio migranti Di fatto, è questo uno dei sottintesi della questione. Fondamentalmente, anche se non in maniera esclusiva, interpreto il fenomeno migratorio a cui assistiamo come la rivincita dei poveri. Che lo si voglia o no, noi beneficiamo e siamo quindi responsabili dello squilibrio economico e geopolitico. In una società globalizzata c’è interazione a tutti i livelli, non ci si può proteggere economicamente e geopoliticamente. Per questo la retorica dell’estrema destra è una menzogna. Non possiamo pretendere che le ingiustizie continuino, che i poveri restino poveri per mantenere il nostro tenore di vita. Sì, la nostra civiltà sta cambiando. In una società globalizzata, opporsi all’accoglienza di coloro che avevamo tenuto fino a questo momento ai margini della nostra prosperità e delle nostre libertà, è omicida, ma è anche suicida. Visto che non siamo disposti a diminuire le disuguaglianze e a condividere ciò che abbiamo, la gente viene qui da noi, tanto più che da loro non si riesce più a vivere, in parte per colpa nostra. La stragrande maggioranza viene senza violenza, senza armi. (…) Chiedono solo di poter vivere più degnamente, con maggiore sicurezza. Cambieranno la nostra cultura. Anche questa è una rivincita dei poveri. Anche loro saranno trasformati. Mantenere la nostra cultura contro di loro è impossibile, perché sarebbe negare quello che chiamiamo appunto la nostra cultura. Siamo schizofrenici. Quindici anni fa, c’era che rifiutava di riconoscere le radici cristiane dell’Europa. Oggi, sono in molti a rivendicare il cristianesimo come radici o valori (pensiamo alla questione dei presepi). Ma non è di fede che si tratta: chi mai è preoccupato per la Trinità, la salvezza, la condivisione, il servizio? È l’identità che si cerca. Di fatto, i nostri paesi non sono più cristiani – se mai ha avuto un senso parlare di paese cristiano.

ungheria-muro-fermare-migranti-orig_mainNon si definiscono in maniera univoca. Prima di deplorarlo, bisognerebbe accorgersi della ricchezza e della libertà che questo rappresenta! Altri rivendicano la laicità: stessa schizofrenia. Ben lungi da ciò che la parola designava nel 1905 – la neutralità dello Stato che permette di far coabitare pacificamente opinioni diverse, in particolare in riferimento al religioso -, essa viene intesa oggi come la rivendicazione di vivere in società senza dover incontrare la differenza di coloro che non pensano o non vivono “come me” (tipica è stata l’opinione dei sindaci francesi sui presepi). La nostra paura davanti all’arrivo massiccio di migranti mette in evidenza, più che un problema economico o di sicurezza interna, la nostra incapacità alla differenza. Rivendichiamo di essere una società libera e aperta, ma, dipende: i poveri, i rifugiati, i musulmani, i cristiani, insomma, tutte le minoranze – numeriche o economiche – non hanno diritto di cittadinanza – o il diritto di essere visibili… in nome della libertà! Questa contraddizione, che è nostra, è la nostra morte. Non abbiamo scelta. Accogliere coloro che si rifugiano da noi è un obbligo, proprio in nome della cultura o dei valori che vogliamo difendere, cristiani o laici che siano. Salviamo anche noi stessi accogliendo quelle persone. Uccidiamo noi stessi se lasciamo che siano portate via dal mare, dalle guerre, dalla povertà o dai briganti. Per noi, discepoli di Gesù, chiudere la porta a coloro che chiedono aiuto, vuol dire mettere Cristo fuori dalle nostre vite; vuol dire non essere più suoi discepoli! Dio si incontra proprio nella persona dell’altro così diverso, così vicino, senza tetto né patria, spesso povero ma sempre chiamato ad
essere riconosciuto come fratello. Ho l’impressione che Francesco dica proprio questo. Ma certo, so bene che certi pensano che sia un cattivo papa…

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il commento al vangelo della domenica

QUESTO A CANA DI GALILEA, FU L’INIZIO DEI SEGNI COMPIUTI DA GESU’

commento al vangelo della seconda domenica del tempo ordinario (17 gennaio 2016) di p. Alberto  Maggi:

p. Maggi
Gv 2,1-12

In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli.
Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono.
Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

I vangeli non sono stati scritti per essere letti dalla gente. Perché? Perché la gente, nella stragrande maggioranza, era analfabeta. I vangeli sono delle opere letterarie, teologiche, spirituali, molto molto complesse, dense, ricche di significati e venivano inviati in una comunità dove il lettore, cioè il teologo di quella comunità, non si limitava a leggerlo agli altri, ma lo interpretava.
E per interpretarlo seguiva quelle chiavi di lettura, quelle indicazioni che l’evangelista, l’autore metteva nel testo. E’ quello che cerchiamo di fare noi, per far fiorire il brano di oggi, il capitolo 2 del vangelo di
Giovanni, i primi undici versetti, conosciuto come le nozze di Cana. Faremo fiorire questo testo e vedremo cosa l’evangelista ci vuol dire.
Vediamo subito la prima indicazione che l’evangelista infatti pone. Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea. Il terzo giorno, a un ebreo del tempo, richiamava subito il giorno dell’alleanza, il giorno in cui Dio a Mosè sul Sinai donò l’alleanza con il suo popolo.
Quindi l’evangelista vuole dire: attenzione tutto questo brano è in chiave dell’alleanza con Dio. E le nozze! Quest’alleanza tra Dio e i suoi profeti veniva raffigurata attraverso un matrimonio; Dio era lo sposo e il popolo, Israele, la sposa.
A Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Anche in questo brano tutti i personaggi sono anonimi. Quando un personaggio è anonimo – l’abbiamo già visto per altri brani del vangelo – significa che è un personaggio rappresentativo. L’unica persona che in questo brano ha un nome è Gesù.
Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino … nel rito matrimoniale il momento culminante è quando lo sposo e la sposa bevono da un unico calice di vino, il vino rappresenta l’amore. Ebbene qui c’è un matrimonio dove manca l’elemento più importante, manca il vino.
La madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». La madre di Gesù che pure apparteneva alle nozze, non dice, come ci saremmo aspettati: “Non abbiamo vino”, ma dice “Non hanno vino”, la madre di Gesù rappresenta quell’Israele fedele che ha sempre conservato questo amore con Dio. E la risposta di Gesù può sembrare strana, addirittura sgarbato, se pensiamo è rivolta da un figlio alla madre.
E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Ma vediamo anche qui di comprendere che cosa l’evangelista vuole esprimere. “Donna” significa “moglie, donna sposata”. Sono tre i personaggi femminili ai quali Gesù in questo vangelo si rivolge con questo appellativo. Sono le immagini delle spose di Dio.
Per cui la madre di Gesù rappresenta la sposa fedele dell’Antico Testamento; l’altro personaggio femminile al quale Gesù si rivolgerà chiamandolo “donna”, cioè “moglie, donna sposata”, è la donna samaritana, cioè l’Israele adultero che lo sposo riconquista con un’offerta ancora più grande d’amore. E, infine, in questo vangelo l’ultimo personaggio al quale Gesù si rivolgerà chiamandolo “donna” sarà Maria di Magdala, che rappresenta la sposa della nuova alleanza.
Allora Gesù richiamando la sua caratteristica di sposa fedele dice: “Che vuoi da me”? Cioè che cosa ci importa? Non è ancora giunta la mia ora”.
La madre di Gesù crede che il messia vada ad annunciare nuova vita alle antiche istituzioni. Ma Gesù non è venuto a mettere nuova vita nelle antiche istituzioni, ma a formularne una nuova, che adesso vedremo.
Quindi Gesù dice: “Non ci interessa questo”. Ma sua madre disse ai servitori… Il termine diaconi, coloro che liberamente, volontariamente, per amore, si mettono a servizio, e qui l’evangelista mette in bocca
alla madre quando nel libro dell’Esodo aveva risposto il popolo a Mosè: “Quanto il Signore ha detto noi lo faremo”.
Qui sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Quindi vede in Gesù come il nuovo legislatore, il nuovo Mosè che è da ascoltare. E qui la descrizione ora va all’ambiente.
Vi erano là sei anfore di pietra, non anfore di coccio, come a volte nelle rappresentazioni i pittori ci fanno vedere, ma sei anfore di pietra, quindi grosse inamovibili, di pietra come le tavole della legge. Per cosa dovevano servire? Per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. Quindi in questo ambiente familiare ci sono queste anfore che dovevano contenere ben seicento litri d’acqua per la purificazione.
Ecco perché non hanno vino. Una religione che inculca il senso di colpa, di indegnità, che fa sentire l’uomo sempre bisognoso di chiedere perdono, di purificarsi, sempre impuro, è una religione che impedisce di scoprire e di accogliere l’amore di Dio. Ecco il bisogno sempre quindi di purificarsi.
E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto».  C’era un incaricato. Questi pranzi di nozze duravano giorni, a volte anche una settimana. E c’era un incaricato che doveva stare attento all’ordinamento, a che non mancassero i cibi e soprattutto il vino.
Costui non se ne occupa. Qui rappresenta i capi religiosi che non si occupano e non si preoccupano del fatto che il popolo non abbia questa relazione con Dio.
Ed essi gliene portarono.  Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino… Le anfore non conterranno mai il vino di Gesù, ma l’acqua diventa vino quando viene versata dalle anfore. Colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano attinto all’acqua … e quindi le anfore non contengono mai il vino di Gesù ma contengono l’acqua, – chiamò lo sposo.
Ma vediamo di comprendere prima della reazione. Cosa significa questo cambio? E’ la nuova alleanza che Gesù ci propone. Un nuovo rapporto con Dio, non più basato sull’obbedienza alla legge, che fa sentire sempre indegni e impuri, ma sull’accoglienza del suo amore. Con Gesù l’amore di Dio non è più concesso per i meriti delle persone, soltanto quelli che lo meritano, ma per i bisogni, quindi concesso a tutti quanti.
Chiamò lo sposo, e lo rimprovera. «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono”. E’ normale. In un pranzo che dura parecchie ore, o addirittura parecchi giorni, all’inizio si serve il vino buono e poi quello più scadente.  “Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».
Per le autorità il vino nuovo appartiene al passato. Le autorità sono incapaci di comprendere che il bello e il buono deve ancora venire. Bene, a conclusione di questo episodio, e qui l’evangelista ci sta dicendo: “Attenti! Non vi sto raccontando una storiella, ma qualcosa di più profondo”, l’evangelista dice: Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria. L’unica volta nella
quale si scrive che Gesù manifestò la sua gloria. Non viene detto quando Gesù risuscita Lazzaro, un morto da quattro giorni, ma qui l’evangelista ci dice: “Attenzione! Questo non è un racconto di un’acqua cambiata in vino o per ospiti già alticci, ma ci parla del cambio dell’alleanza. Non più il bisogno di purificarsi per accogliere l’amore di Dio, ma accogliere l’amore di Dio, che è quello che purifica l’uomo.

 

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il ‘decalogo’ della fondazione ‘migrantes’

in vista della ‘Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato’ (17 gennaio 2016) la ‘migrantes’ formula il suo ‘decalogo’ per trovare modalità nuove di gestione dei flussi delle persone in arrivo in Europa

domenica 17 gennaio, si celebra, in tutte le parrocchie, la Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato. Quest’anno la Giornata – la 102 esima – avrà un particolare momento celebrativo nella regione Lazio e in particolare a Roma
domenica, infatti, circa 7.000 migranti e rifugiati, provenienti dalle 17 diocesi del Lazio, di almeno 30 nazionalità, saranno in piazza San Pietro per partecipare alla preghiera mariana dell’Angelus presieduta dal santo Padre Francesco. Tra loro ci saranno anche 200 richiedenti asilo del CARA di Castelnuovo di Porto, con le bandiere delle diverse nazionalità presenti al Centro. Dopo l’Angelus i migranti, attraversando la Porta Santa, parteciperanno, nella Basilica di S. Pietro, ad una solenne celebrazione liturgica presieduta da S.Em. il Card. Antonio Maria Vegliò, Presidente del Pontificio Consiglio per i Migranti e gli Itineranti, durante la quale consacrerà, per l’occasione, oltre 5.000 ostie realizzate da alcuni detenuti del carcere di Opera di Milano.
In Basilica sarà presente la Croce di Lampedusa, simbolo che richiama le circa 4.000 vittime – tra cui oltre 750 bambini – che lo scorso anno hanno perso la vita nel viaggio verso le nostre coste. 
“La Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2016 diventa un momento particolare, un gesto concreto che caratterizza il Giubileo della misericordia che stiamo vivendo voluto da Papa Francesco il quale, più volte, ha richiamato tutti all’accoglienza”, ribadisce oggi la Fondazione Migrantes che nei giorni scorsi, nel presentare gli eventi in programma per domenica, ha indicato alcune proposte che possono aiutare a migliorare l’accoglienza dei migranti in Italia, con una particolare attenzione ai richiedenti asilo e rifugiati in Europa e nel nostro Paese. 
 
Il decalogo della Migrantes
1) Rimane necessario aprire canali di ingresso regolari sia per ricerca occupazione per i migranti che di ingresso umanitario per i rifugiati che già si trovano nei grandi campi profughi vicino alle zone di conflitto: cosa che scoraggerebbe il traffico delle persone e che eviterebbe l’inutile e insostenibile morte di persone in mare (uomini, donne e bambini), che continua e cresce da troppo tempo.
2) Occorre trovare modalità nuove di gestione dei flussi delle persone in arrivo in Europa, siano essi migranti o richiedenti asilo, realmente comuni e che prevedano la possibilità di avere quote certe per ogni Paese europeo e che cerchino, per quanto possibile, di incrociare le disponibilità date dai diversi Paesi con i desideri e le capacità delle persone in arrivo.
3) Trovare procedure di identificazione e di ricollocamento comuni in Europa che tengano conto del rispetto della dignità umana e dei diritti umani delle persone. In questo senso, preoccupa la politica europea della creazione di Hotspots, di fatto centri chiusi che somigliano più a dei CIE che a dei Centri di accoglienza. Inoltre i due momenti – identificazione e ricollocamento – devono viaggiare in sintonia, diversamente si creano tempi lunghi di trattenimento delle persone oltre che inevitabili rifiuti all’identificazione.
4) Riuscire a dare una risposta più competente e più celere alle persone che fanno domanda d’asilo, da una parte riformando il sistema delle commissioni territoriali, prevedendo più formazione e personale dedicato; dall’altra aumentandone il numero per arrivare a dare a tutti una risposta entro i sei mesi che le normative europee già prevedono e nello stesso tempo provando anche ad accorciare i tempi dei ricorsi dei diniegati, che al momento aspettano anche più di un anno per riuscire ad avere una risposta. I tempi lunghi di attesa, infatti, portano le persone a rimanere in accoglienza senza una risposta anche per un anno e mezzo – due anni, con la dimissione o l’allontanamento dal centro di accoglienza, e i conseguenti rischi della irreperibilità, di insicurezza e di sfruttamento delle persone.
5) Arrivare ad avere un sistema unico e diffuso di accoglienza in Italia, che risponda a medesimi standard, procedure e sia sottoposto a puntuali controlli e verifiche rispetto ai servizi che deve erogare e rispetto alla trasparenza nella gestione dei fondi. Accogliere con trasparenza ed apertura è un reciproco vantaggio sia per chi viene accolto che per chi fa accoglienza Il rapporto sull’accoglienza di migranti e rifugiati in Italia del Ministero dell’Interno dell’ottobre 2015, ha evidenziato come i soldi spesi per l’accoglienza delle persone hanno una ricaduta positiva anche sui Comuni e le comunità accoglienti, evidenziando che dei 30-35 euro giornalieri per l’accoglienza circa il 37% serve per la retribuzione di operatori e professionisti e circa il 23% vada in spese relative ad affitto di locali, acquisti di beni alimentari e abbigliamento: tutte cose che sono una ricaduta positiva sull’economia locale della comunità che fa accoglienza.
6) Per arrivare ad avere un sistema unico bisogna superare la volontarietà di adesione dei Comuni, a fronte della garanzia di fondi certi, anche nei tempi di erogazione, e superando l’ottica del co-finanziamento. L’accoglienza dei richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale deve diventare un servizio sociale specifico per ogni Comune o unione di piccoli Comuni, forte della collaborazione della rete di enti e associazioni di volontariato sul territorio, in relazione con la scuola e il mondo delle imprese: uno dei servizi alla persona garantiti su tutto il territorio nazionale (in proporzione alla popolazione, al Pil, ai fondi sociali ricevuti e alla quota di persone straniere già presenti).
7) L’accoglienza dei migranti e dei rifugiati, seppur ottima, se non è seguita, da quando le persone hanno la certezza di poter rimanere in Italia, da un serio programma di inserimento abitativo e lavorativo crea solo marginalizzazione, rischio di sfruttamento e frustrazione. Per questo, servono programmi specifici a livello nazionale e regionale volti a facilitare l’inserimento socio-economico, abitativo dei titolari di protezione internazionale, come di ogni altra persona che in quel territorio si trova in situazione di difficoltà rispetto alla casa o al lavoro. A riguardo, può essere preziosa la sinergia Stato-Terzo Settore e Chiesa (come alcune esperienze dimostrano in diverse realtà italiane).
8) Rispetto ai minori stranieri non accompagnati bisogna davvero riuscire a superare la prima accoglienza in centri collettivi spesso inadeguati (oserei dire piccoli orfanatrofi) e arrivare a forme diversificate di accoglienza che prevedano non solo accoglienze in centri piccoli, ma anche affidamenti familiari o appartamenti in semiautonomia: un sistema di accoglienza familiare, unico e interno al sistema di accoglienza per richiedenti asilo nazionale: cosa che si è dichiarato già nella Conferenza Stato-Regioni del luglio 2014, ma che si è ancora lontani dall’aver realizzato. Bisogna anche superare la pratica dell’esame del polso per determinare l’età che è considerata inattendibile, per passare a un esame multidisciplinare (esemplare a questo proposito il protocollo del Tribunale per minori, ASL e Prefettura di Catania). Infine, occorre affidare in tempi brevi i minori non accompagnati, in tempi brevi, tutori specifichi, volontari e formati, evitando cumuli di tutele, assolutamente inutili e inefficaci, ad assessori e sindaci.
9) Una proposta importante, anche in vista delle prossime elezioni amministrative di primavera, riguarda la ripresa di una proposta politica importante, purtroppo finita nei cassetti parlamentari: la proposta di legge per il voto amministrativo ai migranti regolarmente presenti nel nostro Paese. Come si può parlare di inclusione sociale, di integrazione se il mondo di giovani donne e uomini immigrati lavoratori, studenti, imprenditori nel nostro Paese non possono avere diritto a decidere chi li rappresenti nei Consigli comunali e regionali. E’ un ritardo storico grave che va colmato, anche per la nostra sicurezza sociale. 
10) Parlare delle migrazioni e dello spostamento delle persone con competenza e serietà per superare finalmente un’informazione allarmistica ed ideologica del fenomeno, che troppo spesso dimentica il popolo dei migranti, 5 milioni, per fermarsi ad esasperare alcuni casi. Nello specifico, poi, dei richiedenti asilo, non siamo di fronte a un’invasione del nostro Paese (siamo stati sia l’anno scorso che quest’anno intorno a un richiedente asilo ogni mille abitanti), ma siamo di fronte a un momento di grande sofferenza del mondo in cui il numero dei conflitti (di cui la nostra parte di mondo ha la sua responsabilità sia nella creazione che nella mancata gestione) e il numero di spostamento forzato di persone per cambiamenti climatici è davvero molto elevato. Sarebbe ingenuo pensare che tutti questi spostamenti forzati di persone in fuga da guerre e conflitti e da cambiamenti climatici, sempre più numerosi, violenti ed imprevisti, non abbia una ricaduta anche in Europa e in Italia; e non saranno i controlli alle frontiere a fermare le persone in fuga, che sono state obbligate a spostarsi. (aise)
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il branco di Colonia e gli altri branchi

tutti i branchi dei maschi

Colonia 3

di Natalia Aspesi 

in “la Repubblica” del 10 gennaio 2016

Aspesi

 

Quella notte le donne venivano aggredite, spogliate, picchiate, derubate. Venivano derise da un muro di maschi stranieri organizzati, e intanto ai maschi poliziotti tutto sembrava un gioco festoso da non interrompere, e i maschi cittadini che presumibilmente accompagnavano le donne o comunque attraversavano la piazza come loro preferivano guardare dall’altra parte, evitando di intervenire a difendere le vittime assalite da maschi migranti e apparentemente non armati, quindi pericolosi ma non troppo.

Colonia 2

Quella notte, a Colonia, ma anche altrove, le donne si sono ritrovate completamente sole, tra maschi violenti, maschi indifferenti, maschi spaventati. Di nuovo dentro la loro storia secolare di isolamento, impotenza, sopraffazione, abbandono, pericolo, che ogni tanto sembra finita e invece non lo è mai: probabilmente ancora una volta usate per consentire a un branco di maschi di disprezzarle e rimetterle al loro posto di sottomissione e irrilevanza, e a un altro branco di maschi di ergersi, dopo i fatti e solo a parole, a indispensabili protettori, a eroici paladini della loro libertà, che per secoli hanno ostacolato e ostacolano tuttora; e a un altro branco ancora a servirsene come pedine di una sporca politica. Ma da quando le donne, e si parla solo di quelle occidentali, e in particolare le italiane, sono libere davvero, non solo per le tante nuove leggi degli ultimi settant’anni? Ci sono frammenti di realtà che rinascono dalla memoria individuale o scopri in un film: e per esempio negli Anni ’50 il ricordo che se il parto metteva a rischio la vita della madre o del bambino, era il marito che doveva scegliere chi poteva vivere, ed era sempre il bambino. Oppure, nel recente grande film tedesco Il labirinto del silenzio, un giornale radio della fine degli Anni ’50 informa che da quel momento le donne, se sposate, potranno lavorare solo col consenso del marito. Piccoli omicidi, minuscoli ostacoli, dentro un mondo di esclusione e impotenza delle donne, di supremazia e potere degli uomini. Certo le donne fanno i ministri e i capi di Stato, spesso benissimo ma è sempre non sulla loro capacità politica ma sul loro corpo di donna che gli avversari l’attaccano: culona, non la scoperei mai, lesbicaccia, cesso eccetera.

Colonia 1

Gli attacchi sul web contro i pensieri delle donne, metti povere loro che non gli piaccia Zalone e lo mettano su Facebook: le minacce di morte sono il meno, e i più violenti verbalmente, se le avessero davanti, forse strapperebbero loro gli slip come a Colonia. Anche le donne occidentali non sono quiete da nessuna parte, in piazza le assaltano gli immigrati ma spesso il branco è del paese, e anche in casa devono stare attente, gli stessi loro uomini che non le avrebbero difese a Colonia possono sempre spaccar loro la testa.

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Benigni e il nuovo libro di papa Francesco

Benigni presenta il libro del Papa

«Francesco sta tirando la Chiesa verso il cristianesimo»

Benigni

Esce in contemporanea in 86 Paesi il libro colloquio di papa Francesco con Andrea Tornielli. Al tavolo, per “Il nome di Dio è misericordia”, edito da Piemme, anche il cardinale Pietro Parolin, il cinese Zhang Agostino Jianqing, detenuto a Padova, il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi e il direttore della Lev monsignor Giuseppe Costa.

 

«Papa Francesco sta tirando la Chiesa con tutte le sue forze. E dove la sta tirando? La sta tirando verso il cristianesimo». Sono 26 minuti da mattatore quelli di Roberto Benigni alla presentazione del libro-intervista di papa Francesco “Il nome di Dio è misericordia”.

«Anzi, libro-colloquio», precisa padre Federico Lombardi un libro che «come ha detto lo stesso Papa Francesco ieri ricevendo la prima copia, non è letteratura, è esperienza, è vita, è la mia vita». Andrea Tornielli, il giornalista che ha “raccolto” la voce di Bergoglio, (il libro è edito da Piemme) ricorda, per dire che Francesco si inserisce in una lunga scia di predecessori, l’abbraccio di Giovanni XXIII al detenuto di Regina Coeli che gli si era buttato ai piedi al termine della storica visita che il “Papa buono” fece nel 1959 nel carcere romano.

E il cardinale di Stato, Pietro Parolin, gli rende merito di riuscire, con questo libro, a non andare in cerca di scoop – «chi è alla ricerca di rivelazioni resterà deluso», dice il segretario di Stato. Il libro ha invece il merito di «entrare nel grande e confortante mistero della misericordia di Dio».

«Solo papa Francesco», dice Benigni dopo la toccante testimonianza di Zhang Agostino, detenuto nel carcere di Padova, «poteva mettere insieme per la presentazione del suo libro un cardinale veneto, un carcerato cinese e un comico toscano».

E poi parte come un fiume in piena: «Chi ascolta la verità non è inferiore a chi la dice», sostiene citando a memoria passi del Vangelo, la guarigione della suocera di Pietro, l’episodio di Zaccheo, leggendo Bonhoeffer. Ricordando, soprattutto che «la gioia è il grande segreto del cristianesimo» e che «bisogna diffidare degli infelici». «Amare il proprio nemico è la frase più alta della storia dell’umanità», precisa ancora. Aggiungendo: «La misericordia non non è una virtù seduta in poltrona, non sta ferma un secondo ma va incontro ai poveri e ai peccatori».

Dunque, precisa, la misericordia è virtù esigente, attiva, non buonismo, non pietà o compassione. Ed è virtù che si incontra nel dolore, nella sofferenza, tra gli ultimi. Sottolinea che il Papa attinge a piene mani la misericordia da queste riserve, la attinge andando a Lampedusa, aprendo la prima porta santa a Bangui, visitando carceri, ascoltando gli ultimi. Perché il papa sa che «il dolore è più forte del male» e che «fra l’uomo e Dio non ci può essere collaborazione nella grazia se prima non c’è stato incontro nel dolore». E da questo dolore che tutto rinasce che tutto si trasforma, che tutto si perdona.
 

 

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abbandonati nel degrado e sgomberati

via Idro

le ultime ore
nelle case-palafitta dei rom

pronto lo sgombero

la denuncia della famiglia Braidic: abbandonati nel degrado

di Paola D’Amico

(Fotogramma)

La piazzola dove vivono Marina e Antonio Braidic detto Lissi, nonna Nada e altre 15 persone tra figli e nipoti, nove dei quali bimbi, è un mondo a sé nel campo di via Idro. Oltre la recinzione ci sono tre case-palafitta, che all’interno sono spaziose, calde, accoglienti. Fuori è il degrado: la strada è allagata, sempre, per la rottura del condotto fognario mai sanato; avanzano il bosco di robinie e gli arbusti incolti, cresciuti lungo il fiume Lambro e che nessuno più contiene. La vegetazione avvolge i resti del deposito usato negli «anni d’oro» di via Idro dalla cooperativa di giardinieri che allora occupava i 15 capofamiglia. E presto divorerà anche la palazzina che il Comune di Milano a fine anni Ottanta costruì come centro polivalente. È stata devastata, cannibalizzata, bruciata. Marina dice: «Siamo stati abbandonati».

A giorni attendono l’esecuzione dell’ordine di sgombero. La giunta ha deliberato la chiusura del campo, autorizzato nel 1989, il 17 agosto scorso. Per tre ordini di criticità: idrogeologica, perché questa è zona a rischio esondazione, ambientale-igienica e per ragioni di sicurezza urbana. Ma in molti nel quartiere, volontari, insegnanti, consiglieri di Zona 2, dicono: «S’è fatto di tutta l’erba un fascio». Marina e i suoi si sono opposti all’ordinanza, un’associazione ha anche ricorso al tar. Inutilmente. Se ancora non li hanno portati via è perché in via Marotta, nel centro di autonomia abitativa al quale sono stati assegnati, di casette e container sufficienti ad accoglierli tutti assieme ancora non ce ne sono. Un trasloco non indolore.

I container per dormire, cucina e bagni in comune con una moltitudine di donne, uomini, bambini, provenienti da altri campi rom. Anche lì c’è il fiume che scorre vicino, lo stesso, il Lambro. «Dicono che in via Idro siamo a rischio esondazione. Qui però il fiume non è uscito, in via Marotta sì, acqua alta un metro e mezzo, ci sono i segni sui muri», dice nonna Nada.

E Marina ci fa intendere che tre anni fa, quando nel campo scoppiò una faida che ha fatto anche vittime, aveva sperato di potersene andare dal luogo in cui è cresciuta e dove ha cresciuto i suoi figli. Sono rom sinti, italiani da generazioni. I trisavoli erano arrivati dall’Istria tra le due guerre e avevano piantato le casette in via Agordat, oggi parco Martesana. Li trasferirono ai margini del parco Lambro in un campo autorizzato e all’avanguardia. Tre fratelli i capostipiti, a ciascuno uno spazio. È noto come s’è rotto l’incantesimo.

Nessuno però fa il nome di Diego, detto «il principe», che di giorno faceva rapine e di notte si nascondeva nel villaggio. Il dito è puntato invece contro l’amministrazione: «Finché qui c’è stata la Casa della carità tutto ha funzionato», dicono alcuni amici del quartiere, volontari duri e puri, che in via Idro hanno organizzato feste, portato la gente del quartiere, fatto la campagna elettorale per il centro sinistra.

Mario Villa, presidente di Zona 2, ha chiesto di rinviare il trasloco, di attendere che ci sia uno spazio abbastanza grande per accoglierli tutti. Oltre la recinzione dei Braidic c’è un inferno, le piazzole già liberate sono state rioccupate da altre roulotte, i rifiuti si accumulano. Anche lì ci sono bambini, ma non vanno a scuola come quelli di Marina. «Giusto superare la logica dei campi – dice Antonio, un volontario -. Ma finire in un container è un passo indietro nel percorso di integrazione». È il fallimento della società civile.

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“il nome di Dio è ‘misericordia’”

 il nuovo libro di papa Francesco

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qui sotto la genesi di questo libretto di Andrea Tornielli col quale il libro è stato scritto e una riflessione di Vito Mancuso sui pregi e i limiti di esso:

e il Papa mi disse: “Dio perdona non con un decreto ma con una carezza”

di Andrea Tornielli
in “La Stampa” del 10 gennaio 2016

Tornielli

Il 13 marzo 2015, mentre ascoltavo l’omelia della liturgia penitenziale al termine della quale Papa Francesco stava per annunciare l’Anno Santo straordinario, ho pensato: sarebbe bello potergli porgere alcune domande incentrate sui temi della misericordia e del perdono, per approfondire ciò che quelle parole avevano significato per lui, come uomo e come sacerdote. Senza la preoccupazione di ottenere qualche frase a effetto che entrasse nel dibattito mediatico attorno al sinodo sulla famiglia, spesso ridotto a un derby fra opposte tifoserie. Mi piaceva l’idea di un’intervista che facesse emergere il cuore di Francesco, il suo sguardo. Un testo che lasciasse aperte delle porte, in un tempo, come quello giubilare, durante il quale la Chiesa intende mostrare in modo particolare, e ancora più significativo, il suo volto di misericordia. Il Papa ha accettato la proposta. Questo libro, «Il nome di Dio è Misericordia», è il frutto di un colloquio cominciato nel salottino della sua abitazione, nella Casa Santa Marta in Vaticano, in un afosissimo pomeriggio dello scorso luglio, pochi giorni dopo il ritorno dal viaggio in Ecuador, Bolivia e Paraguay. Avevo inviato con pochissimo anticipo un elenco di argomenti e domande che avrei voluto trattare. Mi sono presentato a Santa Marta munito di tre registratori: due digitali e uno con le vecchie micro-cassette. Mi era già capitato nel dicembre 2013, alla fine del colloquio poi pubblicato su La Stampa, di premere un tasto sbagliato e perdere un file audio (anche allora mi ero fortunatamente premunito di un secondo apparecchio). Francesco mi attendeva tenendo davanti a sé, sul tavolino, una concordanza della Bibbia e delle citazioni dei Padri della Chiesa. Mi ha subito invitato a togliermi la giacca, visto il caldo, per farmi mettere più a mio agio. Quindi si è accorto che non avevo un quaderno o blocco per appunti, ma soltanto un piccolo taccuino dove avevo segnato le domande. E si offerto di andare a prendere dei fogli bianchi. Abbiamo parlato a lungo, ha risposto ad ogni domanda. Ha parlato attraverso esempi legati alla sua esperienza di sacerdote e di vescovo, raccontando ad esempio del marito di una sua nipote, divorziato risposato all’epoca ancora in attesa della dichiarazione di nullità del primo matrimonio, il quale ogni settimana andava al confessionale per parlare con il sacerdote, pur anticipandogli sempre: «Lo so che lei non mi può assolvere». Ha raccontato del dolore provato al momento della morte di padre Carlos Duarte Ibarra, il confessore incontrato casualmente in parrocchia quel 21 settembre 1953, nel giorno in cui la Chiesa celebra san Matteo apostolo ed evangelista. Jorge Mario Bergoglio era diciassettenne, e fu in quell’incontro che si sentì sorpreso da Dio, decidendo di abbracciare la vocazione religiosa e il sacerdozio. La sera del funerale di padre Duarte, avvenuta un anno dopo quell’incontro, il futuro Papa aveva «pianto tanto, nascosto nella mia stanza», «perché avevo perso una persona che mi faceva sentire la misericordia di Dio». Mi hanno particolarmente colpito le poche parole con le quali ha replicato a una domanda sulla sua famosa frase «Chi sono io per giudicare?», detta sul volo di ritorno da Rio de Janeiro nel luglio 2013 a proposito dei gay. Il Papa ha sottolineato l’importanza di parlare sempre di «persone omosessuali», perché «prima c’è la persona, nella sua interezza e dignità. E la persona non è definita soltanto dalla sua tendenza sessuale». Come pure è significativa la distinzione tra peccatore e corrotto, che non riguarda innanzitutto la quantità o la gravità delle azioni commesse, ma il fatto che il primo umilmente riconosce di essere tale e continuamente chiede perdono per potersi rialzare, mentre per il secondo «viene elevato a sistema, diventa un abito mentale, un modo di vivere». O ancora le parole con le quali Papa Bergoglio parla dei suoi incontri con i carcerati, e di come non si senta migliore di loro: «Ogni volta che varco la porta di un carcere per una visita, mi viene sempre questo pensiero: perché loro e non io?». Nelle sue risposte Francesco ha parlato più volte dell’importanza di sentirsi piccoli, bisognosi di
aiuto, peccatori. Spero che l’intervistato non se ne abbia a male se rivelo, a questo proposito, un piccolo retroscena. Si stava parlando della difficoltà a riconoscersi peccatori, e nella prima stesura che avevo preparato, Francesco affermava: «La medicina c’è, la guarigione c’è, se soltanto muoviamo un piccolo passo verso Dio». Dopo aver riletto il testo, mi ha chiamato, chiedendomi di aggiungere: «…o abbiamo almeno il desiderio di muoverlo», un’espressione che io avevo maldestramente lasciato cadere nel lavoro di sintesi. In questa aggiunta, o meglio in questo testo correttamente ripristinato, c’è tutto il cuore del pastore che cerca di uniformarsi al cuore di Dio e non lascia nulla di intentato per raggiungere il peccatore. Non trascura alcuno spiraglio, seppur minimo, per poter donare il perdono. Dio, spiega Francesco nel libro, ci attende a braccia aperte, ci basta muovere un passo verso di Lui come il Figliol Prodigo della parabola evangelica. Ma se non abbiamo la forza di compiere nemmeno questo, per quanto siamo deboli, basta almeno il desiderio di farlo. È già un inizio sufficiente, perché la grazia possa operare e la misericordia essere donata, secondo l’esperienza di una Chiesa che non si concepisce come una dogana, ma cerca ogni possibile via per perdonare. Ha detto Francesco in una delle omelie di Santa Marta: «Quanti di noi forse meriterebbero una condanna! E sarebbe anche giusta. Ma Lui perdona!». Come? «Con la misericordia che non cancella il peccato: è solo il perdono di Dio che lo cancella, mentre la misericordia va oltre». È «come il cielo: noi guardiamo il cielo, tante stelle, ma quando viene il sole al mattino, con tanta luce, le stelle non si vedono. Così è la misericordia di Dio: una grande luce di amore, di tenerezza, perché Dio perdona non con un decreto, ma con una carezza».

 

dal fedifrago devoto alla prostituta per forza: aneddoti di misericordia

di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 10 gennaio 2016

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Non si deve chiedere quello che non può dare a questo libro-intervista di Papa Francesco con Andrea Tornielli, delle cui 120 pagine a stampa più di un terzo sono bianche o di strumenti redazionali. Quello che il libro può dare e dà effetti-vamente è la saggezza vissuta di un uomo di Dio che crede profondamente nel Vangelo e nella sua capacità di rinnovare la vita. Dalla sua lunga esperienza il papa trae una serie di aneddoti, uno più fresco dell’altro, raccontati sempre con grazia e delicatezza. C’è la vecchietta argentina che dice che Dio perdona sempre perché altrimenti il mondo non esisterebbe, la donna sola che per mantenere i figli si prostituisce e che ringrazia di essere chiamata comunque “signora”, l’uomo devoto che non perde una messa e ha una relazione con la cameriera e si giustifica dicendo che le cameriere ci sono anche per questo, la donna che non si confessa da quando aveva 13 anni perché allora il prete le chiese dove teneva le mani mentre dormiva, la signora cui vengono richiesti per prima cosa 5.000 dollari per la causa di nullità matrimoniale, la ragazza che nel postribolo incontra l’uomo che forse la sposerà e che per questo si reca in pellegrinaggio, e altri vividi esempi di concretissima umanità. Tutto il procedere del libro è segnato dall’esperienza del peccato, cui il papa attribuisce un’importanza decisiva, rendendola quasi una condizione indispensabile dell’esperienza spirituale: se il nome di Dio infatti è misericordia, solo chi ha bisogno di misericordia, cioè il peccatore, lo può incontrare. Il peccato, a partire dal peccato originale ritenuto “qualcosa di realmente accaduto alle origini dell’umanità” (p. 58), funziona quindi come un paradossale pre-sacramento. Per questo coloro che non ne hanno il rimorso sono il vero bersaglio polemico, cui il Papa giunge persino ad augurare di peccare: “Ad alcune persone tanto rigide farebbe bene una scivolata, perché così, riconoscendosi peccatori, incontrerebbero Gesù” (p. 82). L’altro aspetto su cui il libro si sofferma a lungo è il sacramento della confessione, che per il Papa è il luogo concreto per incontrare la misericordia di Dio e al cui riguardo non mancano consigli ai confessori. Il libro è un campione esemplare della spiritualità di Bergoglio: la vita è una guerra, vi sono molti feriti, la Chiesa è un ospedale da campo, i suoi ministri devono operare come medici e infermieri. La misericordia di cui parla il Papa si configura quindi come un’operazione strettamente ecclesiastica. Anche il suo Dio è quello della più tradizionale dottrina cattolica basata sul nesso tra peccato originale e redenzione tramite il sacrificio: “Il Padre ha sacrificato suo Figlio”. Che cosa invece non si deve chiedere al libro perché non lo dà? Non si deve chiedere la trattazione, anche solo come accenno, delle capitali questioni filosofiche e teologiche sottese all’argomento trattato. Per quanto riguarda la dimensione filosofica, la questione del peccato e del suo perdono rimanda al rapporto tra coscienza, libertà e giudizio morale. E le domande che sorgono dal contesto contemporaneo sono: esiste realmente la coscienza? Siamo veramente liberi e quindi responsabili del bene e del male commessi? Il bene e il male esistono come qualcosa di oggettivo o si tratta di convenzioni culturali che l’uomo più evoluto può superare andando “al di là del bene e del male”? Per quanto riguarda la teologia, la questione principale concerne il rapporto tra grazia e libertà: la misericordia di Dio si dà del tutto gratuitamente o per renderla efficace è necessario un primo passo dell’uomo? La dottrina ecclesiastica condannò come eretica (definendola per la precisione semipelagiana) la prospettiva secondo cui la misericordia divina dipende da un primo piccolo passo dell’uomo. Eppure questa è esattamente la tesi sostenuta più volte dal papa (a pp. 15, 50 e 72), in linea con la tradizione della teologia gesuita che tra la fine del 500 e l’inizio del 600 scatenò una violenta e non conclusa polemica con i più tradizionali domenicani detta “controversia de auxiliis”. Vi è poi la questione della vita futura: se la misericordia è veramente il nome di Dio, come giustificare la dannazione eterna dell’inferno? Fosse anche solo per pochi, o anche solo per l’angelo decaduto diventato il Diavolo, l’esistenza dell’inferno eterno rende aporetica l’affermazione della
misericordia quale nome di Dio. Se la tesi del papa, come io ritengo, è vera, essa impone logicamente la dottrina detta “apocatastasi”, cioè il perdono finale per tutti. Essa lungo la storia fu sostenuta da grandi teologi, ma purtroppo è eretica per la dottrina ufficiale della Chiesa. Tali questioni non le si deve chiedere a questa pubblicazione d’occasione, ma al papa e alla sua sapienza ritengo di sì.

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bambina rom di Milano che deve lasciare la sua casetta per andare in un continer …

lettera dei bambini al sindaco di Milano per intercedere per la loro compagna di classe

Al Sindaco di Milano, Giuliano Pisapia

 

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Gentile signor sindaco,

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siamo i bambini della classe 3A della scuola elementare “Russo-Pimentel” e vorremmo parlarle del problema di una bambina, Elyson.
Elyson è una nostra compagna che vive nel campo di via Idro. Là ha la sua casa, i suoi cagnolini, Nebbia e Fiocco, e un grande pino che il suo nonno aveva piantato quando si erano stabiliti lì, più di 25 anni fa.
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Prima delle vacanze la maestra ci ha chiesto cosa desideravamo per Natale. Ognuno di noi ha detto cosa aveva scritto nella letterina a Babbo Natale, ma poi Elyson si è messa a piangere e così abbiamo saputo che lei stava passando un brutto Natale perché doveva abbandonare la sua casetta e andare a vivere in un container.
Noi abbiamo capito che un container è una specie di grande scatola di metallo…ma Elyson non è una bambola che può stare in una scatola!
Elyson è una compagna gentile, generosa, sempre sorridente e amichevole.Fin dalla prima è diventata la compagna preferita di Christopher, un nostro compagno speciale che non parla, ma che sta volentieri con lei.E quindi se Elyson se ne va, come potrà fare Christopher a stare con noi senza il suo aiuto? Anche lui soffrirà tantissimo!
La nostra classe è come un puzzle: ogni tanto si ingrandisce perché si uniscono nuove tessere, ma se nee perdiamo una, il puzzle non potrà più essere completo.
Abbiamo imparato che nessuno può vivere da solo e allora uniamo le nostre forze e le nostre voci per chiederle di lasciare Elyson e gli altri bambini del campo nelle loro case almeno finché non ce ne sarà un’altra pronta, ma vicina alla scuola, in modo che Elyson possa continuare a crescere con noi.
Signor sindaco ci aiuti, per favore, a mantenere unito il puzzle della nostra classe.

I compagni di Elyson

Sashmitha, Alessandro, Margherita, Jun Jie, Joele, Sarah, Sagar, Davide, Gaia, Biva, Paolo, Dian, Nika, Sunnane, Clyde, Youssef, Virginia, Marim, Mohamed, Lovely, Arthur, Nicole, Christopher.

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Campo rom di via Idro, contro lo sgombero appello delle famiglie: 1000 firme

Lo sgombero del campo regolare che ospita famiglie rom in via Idro a Milano è annunciato per lunedì 11 gennaio. Come soluzione alternativa il Comune di Milano offrirà per tutto il 2016 a ogni nucleo famigliare, formato in media da 4 o 5 persone, un container ampio tra i 12 e i 15 metri quadri. Le strutture sono situate nei Centri di emergenza sociale e nei Centri di autonomia abitativa, che già oggi ospitano diverse famiglie provenienti da campi irregolari. Motivi per cui le famiglie di via Idro, tutti cittadini italiani con nuclei presenti da 26 anni, alcuni dei quali nipoti di internati nei campi di concentramento nazifascisti e i cui figli oggi sono inseriti nelle scuole del quartiere, hanno lanciato un appello online su Change.org, che in poche ore, ha avuto quasi 1000 adesioni.

 

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che povertà vivremmo senza l’accoglienza dei migranti!

famosi e migranti

di Tonio Dell’Olio

Tonio Dell'Olio

 

che cosa hanno in comune Albert Einsten, Hannah Arendt, Sigmund Freud, Steve Jobs, ma anche Lady Gaga, Madonna, Freddie Mercury, Mika, Giuseppe Ungaretti, Miriam Makeba, Isabel Allende? Sono tutti figli di profughi, esiliati, perseguitati politici, migranti o lo sono stati essi stessi

Segno concretissimo che l’immigrazione rappresenta anche un’opportunità importante per la crescita delle società accoglienti se non per l’intera umanità. Resta inteso che noi pensiamo e crediamo che ogni persona sia da rispettare nella propria dignità ben al di là delle proprie risorse, capacità o talenti e che non possiamo discriminare tra personaggi dello spettacolo o calciatori e apparenti povericristi. Nonostante ciò ci rendiamo conto che oggi l’umanità sarebbe enormemente più povera se i confini fossero stati armati di filo spinato e di muri, se la parola respingimento avesse preso il posto del verbo accogliere. Un monito per l’Europa dei nostri giorni. Dalle nostre parti anche ai Magi si sarebbe negato il permesso di soggiorno compromettendo l’Epifania, nel senso pieno del suo significato. >
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‘Dio delle donne, fai rinascere il mondo’

Dio delle donne


due uomini, due sacerdoti, che pensano a una preghiera per cominciare l’anno.

due uomini, due sacerdoti abituati a sentir parlare di altri uomini in una Chiesa che sembra sappia declinare tutto solamente al maschile.

due uomini, due sacerdoti che hanno pensato di volgere una preghiera al Dio delle donne…

donMarco donRoberto

 

 

dio delle donne

 

 

Dio delle donne, fai rinascere il mondo
Siete voi a portare i vostri figli
o i vostri figli vi hanno portato?
Quando si è incinte di futuro
è la speranza che spinge avanti.
 
Dio delle donne, fai rinascere il mondo
I bambini hanno danzato
nel vostro grembo
come in un giardino fiorito.
 
Dio delle donne, fai rinascere il mondo
Nella voce di Giovanni,
Elisabetta, c’è il tuo coraggio,
di scrivere parole nuove,
di non piegare la schiena
al potere del tempio.
 
Dio delle donne, fai rinascere il mondo
Nello sguardo di Gesù,
Maria, c’è il tuo canto
il Magnificat dei poveri rimessi in piedi
e dei potenti rovesciati.
 
Dio delle donne, fai rinascere il mondo
Voi donne siete il futuro del mondo,
madri sempre incinte di Dio,
con voi tutta la creazione
si fa grembo
per partorire un nuovo mondo.
Dio delle donne, fai rinascere il mondo
Attraversate senza timore
le montagne
perché è l’amore
che vi porta in alto.
Perché l’amore vince la paura.
 
Dio delle donne, fai rinascere il mondo
Nessuno più vi ferisca, donne,
nessuno più vi tolga la voce,
perché senza di voi
il mondo si spegne,
la terra appassisce e muore.
 
Dio delle donne, fai rinascere il mondo
Siano come voi
anche le Chiese,
incinte di Dio,
gravide d’amore,
lontane dai palazzi del potere.
 
Dio delle donne, fai rinascere il mondo
Nel vostro incontro
si prepara il tempo nuovo.
Nel vostro abbraccio
si racchiude un nuovo sogno
E Dio rinasce dentro il cuore della terra…
 

 

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