la giornata della memoria per farsi responsabili del passato

27 gennaio

una giornata della memoria che non sia solo passato

 

Massimo Recalcati

 

fare memoria è importante perché “la memoria non è un’istantanea sul passato, non è passiva, ma costruttiva. Nel momento stesso in cui ricorda, infatti, costruisce, seleziona, sceglie, trasforma, ricerca, in una parola ‘fa storia’ e apre la continuità del futuro …” (Umberto Galimberti)

 

Proviamo a distinguere tre versioni possibili della memoria.

La prima è quella della memoria-archivio. Essa appare come un contenitore dove alloggiano i nostri ricordi. È la memoria-baule, la memoria-soffitta o, più sofisticatamente, la memoria come notes magico cerebrale che trattiene le tracce del nostro passato. Questa memoria è archeologica: definisce il luogo dove il passato si è depositato, non è più tra noi, è diventato nulla, si è dissolto, può esistere solo nell’immagine vivida o illanguidita del ricordo. Lo schema di questa memoria è quello topologicamente ingenuo di un contenitore (memoria) e del suo contenuto (ricordi).

Poi Freud ha mostrato che la memoria non trattiene solo cose già trascorse, passate, morte, ma cose vive che insistono nell’affacciarsi prepotentemente alla nostra mente. Si tratta della seconda versione della memoria: la memoria spettrale. Il suo modello è quello del trauma: quello che è accaduto nel passato non cessa di accadere, ma insegue la vita, l’accerchia, l’incalza, la tormenta. La memoria spettrale è costituita da un passato che non passa. È l’esperienza che affligge i soggetti o i popoli che hanno vissuto esperienze drammatiche, impossibili da dimenticare. Il passato è come uno spettro, morto e vivo insieme.

La terza versione della memoria è forse la più importante e la più paradossale. È la memoria come attributo del futuro. È l’invito che Nietzsche ci rivolge: la memoria non deve ridursi a essere il culto passivo del passato, non genera solo venerazione o orrore, busti e monumenti. Dovremmo invece imparare ad usarla per creare attivamente il nostro avvenire. Il che significa farsi responsabili della memoria. La memoria non è un contenitore di ricordi, né il ritorno degli spettri provenienti dal passato, ma si costituisce solo a partire dal futuro. Il passato non è alle nostre spalle come un peso inerte o come un incubo che non riusciamo a cancellare, ma può assumere forme e significati diversi a partire da come viene ripreso attivamente dalla vita mentre essa si sta muovendo verso il proprio avvenire. La memoria non deve semplicemente conservare quello che è già stato, ma deve servire la generatività della vita. Non deve restare impigliata in una paralisi melanconica che non riesce a non guardare se non all’indietro, ma sapersi gettare in un movimento proteso in avanti. Custodire questa memoria – la memoria come attributo del futuro -, evitando i danni della “memoria corta”, significa farsi davvero responsabili del nostro passato.

rom e sinti le prime vittime deportate a Dakau – il monito di mons. Perego

giorno della memoria

mons. Perego della ‘Migrantes’

“non dimenticare i minori rom trucidati in camere a gas e quelli di oggi esclusi”

“Nel Giorno della memoria non possiamo dimenticare la tragedia di un popolo europeo purtroppo non ancora riconosciuto in Italia come minoranza, e non richiamare l’attenzione a fatti di discriminazione, di esclusione sociale ancora troppo presenti nelle nostre città nei confronti dei rom, sfociati talora in nuove forme di violenze e di razzismo che devono preoccupare”.

Lo afferma oggi mons. Gian Carlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes, ricordando le vittime del genocidio delle leggi razziali e, tra queste, lo sterminio delle persone e famiglie rom. La Migrantes, in questo giorno vuole ricordare

“i troppi minori rom ancora apolidi nel nostro Paese, che vivono ai margini delle nostre città o la violenza di sgomberi forzati e che rischiano di essere esclusi da percorsi di partecipazione e di cittadinanza. Ieri questi minori rom sono stati i primi a essere trucidati nelle camere a gas, oggi rischiano di essere ancora dimenticati e ed esclusi”.

Le prime deportazioni di rom – ricorda l’organismo pastorale della Cei – avvennero nel 1936 a Dachau. Le prime vittime furono rom e sinti della Germania e dell’Austria, deportati nei lager in Polonia. In Ucraina, in Boemia e in Moravia la popolazione rom fu quasi completamente massacrata. “Volti e storie di violenze e di morte”, anche di molti minori, nei diversi Paesi europei e in Italia, dove sorsero i campi di concentramento dei sinti e rom a Bolzano e in Sardegna, in Molise e Abruzzo, nel Lazio e in Calabria dopo le leggi razziali. Dopo l’8 settembre del 1943, molti rom si unirono alle formazioni partigiane e diedero “un contributo importante, spesso dimenticato, alla Resistenza e alla nascita della democrazia in Italia”.

una giornata importante per non essere complici di nuovi razzismi

“Giornata della Memoria”

no all’indifferenza per non essere complici di nuovi razzismi

valorizzare solidarietà e inclusione sociale per creare una nuova cultura
 Auschwitz

 a 72 anni dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, il ricordo dell’orrore e dell’abisso causato dall’antisemitismo e dalla predicazione dell’odio razziale è «particolarmente importante in questo passaggio storico per l’Europa e il mondo intero». dichiara la Comunità di Sant’Egidio. La «Giornata della Memoria» – che si celebrerà domani – è un «evento ancora più sentito proprio nel momento in cui va scomparendo la generazione dei sopravvissuti e dei testimoni della Shoah».

Ma «non può limitarsi ad un esercizio passivo. Troppa indifferenza di fronte ai nuovi atti di intolleranza e di razzismo, che vediamo riprodursi anche nel continente che conobbe il sorgere del nazismo, rischia di creare una pericolosa complicità». Si devono invece «valorizzare gli atti di solidarietà, integrazione e inclusione sociale a favore dei più deboli e discriminati, che vedono protagonisti già tanti cittadini in Italia». Occorre «moltiplicarli per creare una nuova cultura e trasmetterla alle giovani generazioni. È il modo migliore per celebrare la Giornata della Memoria e impegnarci per costruire una civiltà del convivere in cui ci sia spazio per tutti».

 

verso la giornata della memoria – nelle viscere di Dora, dove i sepolti vivi dovevano costruire le ‘V2’, missili teleguidati a lunga gittata

l’inferno nascosto di Dora, il lager nazista più segreto


in un documentario la storia delle gallerie nelle viscere dei monti Harz, dove 60mila internati lavorarono al progetto dei missili V2, senza vedere la luce per anni. Tra loro 1500 italiani

di Lucia Bellaspiga 

Una delle gallerie scavate con i picconi dove gli schiavi lavoravano e vivevano (Light History)

una delle gallerie scavate con i picconi dove gli schiavi lavoravano e vivevano

Ha il dolce nome di una donna, ma il suo ventre è sotto terra e partorisce solo uomini morti. Dora, quattro lettere che stanno per Deutsche Organisation Reichs Arbeit, il campo di lavori forzati più segreto e più duro dell’intera Germania nazista. Come tutti gli inferni, diramava i suoi gironi sotto terra, in mefitiche gallerie buie e gigantesche, dove 60mila internati tra l’agosto del 1943 e l’aprile del 1945 lavoravano e persino vivevano, senza mai rivedere la luce. «New York e Londra spariranno presto dalla faccia della terra», aveva promesso Himmler e il segreto era là sotto, nelle viscere di Dora, dove i sepolti vivi avrebbero costruito le ‘V2’, missili teleguidati a lunga gittata, un miracolo della scienza…

«Nessuno sapeva dell’esistenza di Mittelbau Dora, le persone sparivano nel nulla e nemmeno i familiari conoscevano la loro fine», racconta Raffella Cortese, autrice insieme a Mary Mirka Milo del documentario Inferno Mittelbau Dora, che Rai Storia manderà in onda il 27 gennaio alle 19 nella Giornata della Memoria. «E ancora oggi di Dora non si parla mai, sparita nell’oblio, cancellata dai libri di storia». Esperta in stragi fin dai tempi in cui ha firmato le puntate Rai di Mixer e La storia siamo noi, dalle Brigate Rosse ai Nar, da Piazza Fontana alla strage di Bologna, Cortese non poteva non lasciarsi attrarre dall’abisso nero di Dora.

Per oltre un anno le due autrici hanno scavato in archivi e ricordi, incontrato sopravvissuti: «A Mittelbau Dora i prigionieri arrivavano dagli altri campi, soprattutto da Buchenwald», sostituiti man mano che morivano. Erano in gran parte russi, polacchi e francesi, ma dopo l’8 settembre 1943 anche gli italiani divennero nemici e 1.500 nostri militari finirono internati a Dora come ‘oppositori politici’, contrassegnati con un triangolo rosso. Tra questi Guido Bianchedi, classe 1920, lucido protagonista del documentario. Soldato di leva, arrestato a Lubiana dai tedeschi, da Buchenwald fu presto deportato a Dora: «Una sera ci caricarono su un camion. Un’ora e mezza dopo aprirono la sponda posteriore e ci fecero scendere, c’era fango fino alle ginocchia…». Carne da macello destinata a scavare con picconi le gallerie per le mostruose V2, alte come un palazzo di cinque piani.

Era stato lo stesso Hitler a ordinare la ricollocazione sotterranea degli impianti di produzione, dopo i rovinosi bombardamenti degli Alleati, e la scelta del luogo era caduta sulle grotte dei monti Harz, nel cuore della Germania, mentre di Himmler era l’idea di usare i prigionieri dei campi di concentramento: «Era un lavoro massacrante e senza mai sosta. Nelle gallerie sempre più in profondo mancava ossigeno, fame e sete ci torturavano, sono riuscito a lavarmi dopo due anni, la testa brulicava di pidocchi fino a sanguinare. Laggiù, sempre al buio, anche vivevamo», se così si può dire. Uno dei tunnel conteneva i ‘letti’ a castello alti 9 metri e larghi 12, per diecimila schiavi. È il nipote di un altro internato, Mario Quadalti, a riassumere i racconti dell’omonimo zio, arruolato alpino a 21 anni e dopo l’8 settembre arrestato a Cuneo: «La fame era tale che là sotto si erano costruiti una bilancina per misurare le molliche che toccavano all’uno o all’altro».

A Mittelbau Dora non si faceva l’appello quotidiano per la conta, «tanto dove andavi?», spiega Bianchedi. Nemmeno i morti uscivano, accatastati nei tunnel. In uno o due mesi il fisico cedeva, o cedeva la mente: «Si cercava il modo per non impazzire – continua Bianchedi – io mi immaginavo un dialogo intimo con mio padre, che mi diceva sempre ‘Guido, abbi pazienza’ e io risorgevo. Era duro parlare con lui e non sentire la sua voce». La mente scientifica era l’ingegner Wernher von Braun, a 20 anni già genio della missilistica, a 25 a capo di diecimila tra scienziati, tecnici e operai. La V2 era la sua creatura, costosissima (l’equivalente di 300mila euro ciascun missile), l’asso nella manica dopo la sconfitta subìta a Stalingrado nel gennaio del ’43: ‘l’arma della vendetta’, la Vergeltung Waffe (da qui la V del nome). Tra tentativi di lancio, numerosi fallimenti e continue modifiche, all’inizio del ’44 erano già stati prodotti 5.000 missili e nel ventre di Dora le catene di montaggio si facevano più disumane. Nel settembre 1944 le V2 si schiantano davvero su Londra distruggendo la città e la psi- che dei suoi abitanti: è la prima volta che un bombardamento piomba dal cielo in assenza di aerei. Ma, come vedremo, è anche l’inizio dell’era spaziale…

Difficile immaginare lo sguardo allucinato di Bianchedi il 12 aprile 1945, quando nelle gallerie vide i fari di tre camionette, «Non era possibile! Si fermarono davanti a me e dissero ‘von Braun, von Braun’, volevano solo lui, poi uscirono di corsa». In superficie l’evacuazione era iniziata da giorni e l’umanità del sottosuolo manco lo sapeva. Come zombie, in 500 riemersero alla luce e furono curati dagli americani, ma per più di metà fu troppo tardi. Tra questi anche Mario Quadalti, morto il 18 maggio 1945. È ancora il nipote a mostrare la sua ultima lettera al comandante americano: «Chiedo a voi di far trasportare questo mio scheletrito corpo nella mia Patria, onde possa prima di dar l’addio a questa valle di lacrime baciare il bianco capo della mia piangente Mamma». Troppo tardi anche per questo: è tuttora sepolto fuori Dora. Il 12 maggio 1945 von Braun, con i suoi piani di costruzione delle V2, si consegna agli americani e con tutti i suoi ingegneri passa al servizio degli Usa, asilo garantito e crimini di guerra cancellati. Di Mittelbau Dora si ‘dimenticano’ anche i processi di Norimberga e nel 1969 l’uomo arriva sulla Luna spinto dal razzo Saturno 5: l’evoluzione della V2. «In quelle gallerie mi chiedevo solo: perché? Che male ho fatto io? Per conto di chi stavo scontando quelle pene? Sono pieno di domande e non ho risposte », sorride Guido Bianchedi nel documentario. È morto tre mesi fa, senza trovarle.

l’importanza della ‘giornata della memoria per il popolo rom

La memoria negata

così il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia:

ancora oggi le popolazioni Rom e Sinti sono oggetto di razzismo e marginalizzazione sociale
perché è importante ricordarli nel giorno della ‘memoria’?

ancora oggi le popolazioni Rom e Sinti sono vittime di processi di marginalizzazione e ghettizzazione perpetrati dalla società maggioritaria. In questo giorno della Memoria è perciò importante considerare la storia delle popolazioni Rom e Sinti come un frammento importante di una Storia Europea condivisa da preservare perché i diritti di tutti vengano rispettati.

Il rapporto delle popolazioni Rom e Sinti con le popolazioni sedentarie è stato sempre problematico e complesso, segnato da rifiuti, rimozioni e violenze. La categoria del «Rom – zingaro – nomade» è stata il frutto di politiche che dal 1400 fino ad oggi hanno cercato di classificare «l’Altro» al fine di dominarlo e controllarlo.

Infatti i Rom, dalla nascita degli Stati nazionali fino ad oggi, sono stati spesso percepiti come non-cittadini, considerati indegni di beneficiare dei servizi che lo Stato poteva offrire loro. Le relazioni tra Rom e gagé (non-Rom) si sono così sviluppate tra pregiudizi e stereotipi, che hanno portato alla separazione, alla marginalizzazione ed in alcuni casi allo sfruttamento dei Rom stessi.

Agli inizi del secolo scorso, la presunta «asocialità zingara» è stata addirittura considerata, come una caratteristica genetica ed ereditaria. Il regime nazista adottando le idee introdotte nel dibattito pubblico dal darwinismo sociale, considerò i Rom e i Sinti come razze deboli e inferiori che avrebbe potuto infettare la Germania. Robert Ritter, Adolf Würth, Eva Justin e altri ricercatori che lavorarono all’interno dell’Unità di Igiene Razziale del Reich diedero seguito a queste tesi arrivando a definire il gene del «Wandertrieb», il gene dell’istinto al nomadismo, come fattore specifico che rendeva i Rom una razza impura.

Di conseguenza, il regime nazista cercò una soluzione adeguata, razionale, pianificata e scientificamente informata per risolvere questa situazione. La risposta venne trovata nel “totale isolamento dei soggetti patogeni ed infetti, attraverso la completa separazione spaziale e la successiva distruzione fisica”. Gli ebrei, gli omosessuali, gli immigrati, i renitenti alla leva (tra cui i Testimoni di Geova) e tutte quelle persone considerate «anti- sociali» (Rom e Sinti, lesbiche, anarchici, senzatetto, alcolisti, malati mentali e prostitute furono così coinvolte nella più grande operazione di ingegneria sociale mai intrapresa nella storia dell’umanità.

Nel 1942 Otto Thierack, ministro nazista della Giustizia introdusse il principio di sterminio attraverso il lavoro come metodo per liberare il popolo tedesco da questi individui. Al giorno d’oggi, determinare la percentuale di Rom che morirono nel Porrajmos (Grande Divoramento) non è facile. Le cifre approssimative stimano che nel corso degli anni morirono da 500.000 a 1.500.000 persone appartenenti alle comunità Rom e Sinti. Nonostante questo solo nel 1982, la Germania Ovest riconobbe lo sterminio sistematico delle popolazioni Rom sotto il regime nazista. Fino a tale data l’atteggiamento del Europa nei confronti delle popolazioni Rom è stata considerata da diversi studiosi come assolutamente inadeguata. Ad esempio, nessun Rom fu chiamato a testimoniare al Processo di Norimberga e nessun riconoscimento economico fu dato ai familiari delle vittime coinvolti nello stermino nazista.

A differenza degli ebrei la cui esperienza dell’Olocausto diede alla luce una rinnovata militanza politica e un’elaborazione anche artistica delle atrocità subite, i Rom furono messi a tacere. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale in Europa le comunità Rom erano un popolo decapitato, alla ricerca di qualcuno che li potesse aiutare a comprendere cosa era appena accaduto. Trovarono invece un muro di silenzio da parte delle autorità. Nessun risarcimento, nessuna scusa, nessun film o narrazione pubblica, nessuna nuova terra dove stabilirsi.

Riprendendo alcune delle riflessioni di Hannah Arendt, esposte, in particolare, nell’opera La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, le atrocità commesse in quel periodo furono portate a termine da persone «terribilmente normali» e non da perversi né da sadici. Da persone calate, semplicemente, nella realtà che avevano davanti: lavorare, cercare una promozione, riordinare numeri sulle statistiche.

Ancora oggi le popolazioni Rom e Sinti sono vittime di processi di marginalizzazione e ghettizzazione perpetrati dalla società maggioritaria. In questo giorno della Memoria è perciò importante considerare la storia delle popolazioni Rom e Sinti come un frammento importante di una Storia Europea condivisa da preservare perché i diritti di tutti vengano rispettati.

‘fare memoria’

auschwitz

memoria

è la forza della memoria nell’impegno quotidiano a vigilare che le coscienze,

anche le nostre,  non siano nuovamente sedotte ed oscurate

 memoria

che diventa veicolo di libertà, porta sempre aperta alla democrazia,

strumento di misericordia per ognuno

auswitz

memoria

è necessario ‘fare memoria’ per poter costruire

la storia positiva del nostro presente

e quella del futuro senza regressioni

memoria olocausto zingari

“la memoria non è un’istantanea sul passato, non è passiva, ma costruttiva: nel momento stesso in cui ricorda, infatti, costruisce, seleziona, sceglie, trasforma, ricerca, in una parola ‘fa storia’ e apre la continuità del futuro … “

(U. Garimberti)

 

memoria

 

il senso della memoria

di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 27 gennaio 2016

Bianchi

«Ricordati di non scordare», cantava Battisti a inizi anni settanta. E la pubblicità del film «Memento» gli faceva eco trent’anni dopo: «Ricordati di non dimenticare!». Frasi paradossali, ma che ben rendono l’idea del significato e dell’importanza della «Giornata della memoria». L’uno dopo l’altro scompaiono i testimoni-vittime della tragedia della shoah: figli, parenti, amici raccolgono le ultime briciole di racconto di un vissuto impossibile da narrare e da essere accolto come credibile; libri, monumenti, pellicole cercano di fissare una verità che vorremmo tutti rimuovere. E intanto, a furia di rimuovere e di schedare, perdiamo la nostra facoltà di memoria: «Archiviare significa dimenticare», ammonisce Enzensberger. Allora il senso e la portata della giornata della memoria vanno rinnovati ogni anno, non solo e non tanto per trasmettere il testimone alle nuove generazioni, ma prima ancora come terapia per una società malata di amnesia, una società afflitta da Alzheimer collettivo, in preda all’incapacità di conservare memoria di ciò che è stato e, quindi, di discernere ciò che accade e di intuire ciò che avverrà. A livello culturale le nostre difese immunologiche non sanno più come far tesoro, né individualmente né collettivamente, di quelle che chiamavamo le «lezioni della storia»: il linguaggio stesso è superato. Così, per esempio, un Paese che per oltre un secolo ha visto decine di milioni di suoi cittadini emigrare nei cinque continenti alla ricerca di un lavoro e di una vita degna di questo nome, nello spazio di un paio di generazioni si ritrova a percepire l’immigrazione come un morbo da combattere e i migranti come minacce capaci di destare le più irrazionali paure. Il teologo tedesco Johannes Baptist Metz, tra i primi e i più acuti nel ripensare la teologia cristiana «dopo Auschwitz», constatava con tristezza l’affermarsi di un uomo «completamente insensibile al tempo, un uomo come macchina dolcemente funzionante, come intelligenza computerizzata che non ha bisogno di ricordare perché non è minacciata da alcuna dimenticanza, come intelligenza digitale senza storia e senza passione». Non basta infatti che un fatto sia accaduto perché diventi patrimonio acquisito, individuale e collettivo: è la memoria che compie questa metamorfosi, che coglie, rilegge e interpreta il passato affinché non piombi nel baratro dell’oblio e l’onda del non senso ci sommerga. Non so quanto siamo consapevoli che si registra un raffreddamento di convinzioni verso ogni forma di «commemorazione»: chi ricorda appare a molti una persona paralizzata sul suo passato che non ha saputo rottamare. Così anche questa giornata odierna rischia di essere ascritta tra le cose che si devono fare ma senza abitarle, senza cioè che ci interpellino in profondità, senza che suscitino in ciascuno di noi responsabilità. Per la mia generazione, andare a visitare i campi di sterminio in gennaio – come feci recandomi con la scuola a Dachau a diciassette anni – era una scoperta che scuoteva fino alle fondamenta la nostra umanità. Oggi rischia di essere un’esperienza tra tante, abituati come siamo alla «conoscenza» delle notizie e degli orrori perpetrati nel mondo intero. In verità, se non ci si ricorda ciò che avvenne nell’epifania del male che colpì gli ebrei, non si è più capaci nemmeno di provare orrore per ciò che può di nuovo accadere. Ma bisogna anche vigilare per non trasformare il «dovere» della memoria in un’ossessione paralizzante: ricordare le offese e i torti subiti – come persona, come gruppo sociale, etnico o religioso, oppure come membro dell’unica umanità condivisa – non deve servire a riattizzarli, ad alimentare sentimenti di vendetta uguale e contraria, a ridare loro vitalità. Al contrario, la memoria del male serve a farcelo assumere come atto nelle possibilità di ogni essere umano – e quindi anche di me stesso – e a considerarlo vincibile solo attraverso un preciso, ostinato, intelligente lavoro quotidiano fatto di pensieri e azioni radicalmente «altri». È questo innanzitutto il compito dell’indispensabile «purificazione della memoria»: non un cinico cancellare i misfatti, non una oltraggiosa equiparazione di vittime e carnefici, ma la faticosa accettazione che l’interrogativo postoci emblematicamente da Primo Levi – «se questo è un uomo» – contiene in sé l’ancor più
tragica costatazione che «questo è stato fatto da un uomo». A quelli che continuano a ripetere «Dov’era Dio?» – e oggi lo fanno senza aver patito nulla, per semplice vezzo letterario – io chiedo di porsi una domanda ancor più seria: «Dov’era l’uomo?». Sì, dov’era l’umanità? Perché ha taciuto quando sapeva? Perché è stata testimone e per anni ha attenuato o cercato di nascondere quanto accaduto? La memoria è essenziale all’umanizzazione: dove regna la dimenticanza, regna la barbarie. La memoria diventa allora il luogo dell’indispensabile discernimento, l’esercizio in cui il passato, anche se amaro, diventa nutrimento per il futuro. Discernimento ancor più cogente in un tempo come il nostro in cui si assiste all’incepparsi stesso della trasmissione – non solo di valori, ma degli eventi che tali valori hanno suscitato – all’enfasi posta sull’oggi o su un futuro concepito dagli uni come irraggiungibile miraggio e dagli altri come l’ossessivo aggrapparsi all’attimo presente. Ci si scorda delle radici, si rimuove il travaglio del passato, si rottama l’oscuro lavorio di generazioni o il tragico annientamento di popoli e così ci si priva del fondamentale strumento per discernere ciò che dell’oggi merita di avere un futuro. La memoria infatti non è la meccanica riesumazione di un evento passato che in esso ci rinchiude: al contrario, quando facciamo memoria noi richiamiamo l’evento accaduto ieri, lo invochiamo nel suo permanere oggi, lo sentiamo portatore di senso per il domani. In questa accezione la memoria apre al futuro e nel contempo attesta una fedeltà a eventi e verità, a un intrecciarsi di vicende che assume lo spessore di «storia». Se fare memoria è questo operare un discernimento sul già avvenuto per alimentare l’attesa del non ancora realizzato, possiamo a ragione far nostre le parole intelligenti e sorprendenti del filosofo ebreo francese MarcAlain Ouaknin, che così parafrasa il quarto comandamento: «Onora tuo padre e tua madre, cioè: Ricordati del tuo futuro!».

 

 

 

la ‘giornata della memoria’ a Lecco dedicata quest’anno all’ ‘olocausto degli zingari’

“l’olocausto dimenticato” degli zingari

tema della Giornata della Memoria

di C.Franci

olocausto dimenticato degli zingari 

la locandina dello spettacolo che andrà in scena mercoledì 27 gennaio alle ore 21 a Teatro della Società. Ingresso libero

 

 E’ una storia meno nota del genocidio ebraico ma ugualmente drammatica quella raccontata nello spettacolo teatrale di Pino Petruzzelli che andrà in scena mercoledì 27 Gennaio, Giorno della Memoria, alle ore 21 presso il Teatro della Società di Lecco.

“Zingari, l’olocausto dimenticato” l’eloquente titolo della rappresentazione, scelta dalla Provincia e dal Comune di Lecco per onorare l’importante appuntamento del 27 gennaio. Viaggio nella memoria di una pagina di storia di cui si sente poco parlare, lo spettacolo, prodotto dal Centro Teatro Ipotesi in collaborazione col Teatro Stabile di Genova, getta luce sul genocidio di più di 500 mila rom e sinti avvenuto nei campi nazisti, nato come quello ebreo dal pregiudizio e dal razzismo imperanti nella Germania degli anni ’30.

“Nei vari processi contro i nazisti responsabili di crimini contro l’umanità, primo fra tutti quello di Norimberga, mai nessuno si preoccupò di sentire la testimonianza di uno zingaro. Al processo di Gerusalemme, nonostante Eichmann si fosse dimostrato consapevole delle pratiche di deportazione degli zingari, il capo d’imputazione che riguardava questo argomento venne annullato. Nessun responsabile fu chiamato a rendere conto dello sterminio degli zingari”

Queste le parole del regista e attore Pino Petruzzelli, già autore di diversi reportages – sempre in forma di spettacolo – dedicati al Marocco, all’Albania, al G8 di Genova e al Messico. Da oltre un anno l’artista, nato a Brindisi, viaggia per l’Europa sulle orme dei cosiddetti zingari, tra Italia, Bulgaria, Albania, Francia e nei paesi della ex Jugoslavia.

“Miscuglio di razze deteriorate” , “asociali e fannulloni” erano alcune delle definizioni che i ricercatori del Centro per l’Igiene e la Razza avevano coniato nella Berlino nazista, infuocando un odio e una repressione crudele, quale fu quella che avvenne nei campi di sterminio.   

Lo spettacolo, come spiegato da Ugo Panzeri e Simona Piazza, rispettivamente consigliere provinciale con delega alla Cultura e assessore alla Cultura del Comune di Lecco, è stato portato a Lecco con il preciso intento di rendere la cittadinanza cosciente di questa seconda Shoah, com’è stata spesso definita: “Ancora oggi gli zingari ai nostri occhi vengono visti con una diversità che imbarazza e crea discriminazione – ha detto Ugo Panzeri – eppure questo popolo fa parte della realtà europea da migliaia di anni e come quello ebraico ed altri prima di loro ha subito una crudele ferita, che  non può e non deve essere dimenticata. La rappresentazione teatrale vuole ricordarci che è esistita anche questa piaga, di cui dobbiamo conservare memoria”.

“Parliamo di vittime ingiustamente dimenticate – ha aggiunto Simona Piazza – lo spettacolo è  importante per riflettere anche sulle nuove generazioni, potenzialmente sensibili ai concetti di diversità e discriminazione. Occorre istruire i ragazzi su quello che è stato un vero e proprio sterminio programmato, che ha toccato non solo gli ebrei ma tanti altri popoli”.

L’appuntamento dunque è per mercoledì 27 gennaio alle ore 21 presso il Teatro della Società, ingresso libero.

Lo stesso giorno, alle ore 11 a Palazzo delle Paure, si terrà la cerimonia di consegna delle medaglie d’onore ai familiari di quattro cittadini italiani residenti in Provincia di Lecco che furono deportati o internati nei lager nazisti, e destinati al lavoro coatto per l’economia di guerra nella seconda guerra mondiale. L’iniziativa è della Prefettura di Lecco e vedrà la presenza dei ragazzi del Liceo musicale di Lecco che accompagneranno la cerimonia suonando dei brani scelti per l’occasione.

 

riflessioni di p. E. Bianchi a proposito della ‘giornata della memoria

auswitz

Credenti di buona memoria

riflessioni di p. Enzo Bianchi per il ‘giorno della memoria’ :”una giornata in cui fa bene a tutti ricordare: a chi vorrebbe dimenticare perché il dolore subito è troppo grande e a chi vorrebbe farsi dimenticare perché di quel dolore è stato complice. E ricordare fa bene anche e soprattutto a chi l’inferno della Shoah non l’ha vissuto, né direttamente né attraverso persone care”:

di Enzo Bianchi

in “Avvenire” del 24 gennaio 2014

 

La Giornata della memoria è un momento privilegiato di etica condivisa, un’occasione che l’umanità si è data per esercitarsi nel discernimento tra ciò che è bene e ciò che è male, per riconoscere che anche nelle buie stagioni di barbarie la responsabilità delle proprie azioni – e dei pensieri che le muovono – è personale. Una giornata, allora, in cui fa bene a tutti ricordare: a chi vorrebbe dimenticare perché il dolore subito è troppo grande e a chi vorrebbe farsi dimenticare perché di quel dolore è stato complice. E ricordare fa bene anche e soprattutto a chi l’inferno della Shoah non l’ha vissuto, né direttamente né attraverso persone care.

Ma cosa significa in particolare questa Giornata di etica universale per ebrei e cristiani – per i credenti nel Dio biblico – e per le loro relazioni? Ebraismo e cristianesimo non solo hanno dimestichezza con la memoria, ma trovano in questa categoria del “memoriale”, del ricordo attualizzante, il cuore delle celebrazioni della loro fede. Fare memoria  dell’esodo dall’Egitto, della liberazione dalla condizione di schiavitù è l’essenza stessa della  esta della Pasqua ebraica. Il Dio di Israele è il Dio che ha liberato e libera il suo popolo da ogni condizione di estraneità: ogni comandamento donato dal Signore al Sinai prende le mosse da quel «Ricordati che eri straniero nel paese d’Egitto!». Se questa  emoria accompagnerà ogni tuo istante di vita, non potrai che comportarti come il tuo Dio misericordioso e compassionevole ti chiede di comportarti

.Ma anche per i cristiani la Pasqua è memoriale di un esodo decisivo nella storia della salvezza: ilpassaggio di Gesù di Nazareth dalla morte alla vita, il dono fatto dal Messia, Figlio di Dio, del suo corpo e del suo sangue, da celebrare osservando la sua parola: «Fate questo in memoria di me». Per questo parlare di “memoria” per ebrei e cristiani significa andare al cuore della loro fede e non solo rievocare eventi tragici perché non si ripetano più o gesti di profonda umanità perché servano da esempio.

In questo senso la Giornata della memoria è anche l’occasione perché ebrei e cristiani si chiedano quanta est nobis via?, quanto cammino ancora ci resta da compiere sulla strada del dialogo, della conoscenza reciproca, dell’obbedienza all’unico Signore? E, come sappiamo, questo cammino è fatto sì di incontri ufficiali, di dichiarazioni comuni, di studi e  appondimenti storici e scientifici, riaperture di archivi, di riletture di eventi, ma è fatto anche di persone concrete, di ascolto cordiale, di incontri cuore a cuore più ancora che faccia a faccia. In questo senso abbiamo visto come l’elezione a vescovo di Roma di un cardinale proveniente dal Paese dell’America Latina con la comunità ebraica più consistente – e nello stesso tempo in cui ha trovato rifugio un gran numero di artefici della Shoah – e legato da cordiale amicizia con il rettore del seminario rabbinico di  Buenos Aires abbia conferito agli scambi formali una connotazione di umana simpatia e solidarietà.

Ora, “fare memoria insieme” significa anche ammettere che purtroppo per oltre diciannove secoli l’atteggiamento dei cristiani verso gli ebrei è stato modellato dall’emulazione, dalla condanna, dal disprezzo, dalla persecuzione, è stato cioè un antigiudaismo perdurante, mai contraddetto in modo decisivo da parte delle istituzioni, dei magisteri, delle voci autorevoli delle diverse Chiese. Un atteggiamento, questo dell’antigiudaismo cristiano, che, pur distinto dall’antisemitismo, lo ha accompagnato producendo una ricaduta con effetti di potenziamento; antigiudaismo cristiano teologico e pratico che di fatto ha favorito il silenzio, l’indifferenza e la passività della quasi totalità dei cristiani e delle Chiese nell’ora del male assoluto, l’ora della Shoah. Ma è innegabile che papa Giovanni XXIII, il Vaticano II e il suo decreto Nostra aetate abbiano rappresentato in questo senso una svolta epocale. Dopo quella stagione primaverile, che molti ritrovano nell’ora attuale, è possibile per le due religioni essere una accanto all’altra nella forma non della loro reciproca negazione ma del riconoscimento, ammettendo che nessuna forma religiosa può esprimere pienamente la verità, né la sua unità integrale. Questo richiede però di perseverare in un lungo cammino che non si accontenta di liquidare l’antigiudaismo come “errore teologico” e di condannarne la prassi nella storia, ma che diventa anche esame critico delle sue motivazioni e ispirazioni. Cammino lungo, faticoso, che comporta un lavoro su di sé, ma cammino assolutamente necessario se non vogliamo arrestarci alla cura dei sintomi senza sanare le cause. Da almeno una dozzina d’anni, poi, è iniziata anche la ricezione della svolta da parte degli ebrei, come testimoniato sia da documenti e dichiarazioni sia da un mutato atteggiamento nel vissuto quotidiano di tante comunità. Anche questo dato non fa che accrescere la speranza di un nuovo rapporto che sia confronto e cordiale dialettica tra le due religioni. 

Del resto, la Giornata della memoria non ricorda solo il male assoluto e le sue vittime, ma anche la “banalità del bene” di coloro – e sono stati tanti, anche tra i cristiani – che a rischio della  ropria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati, i “Giusti fra le Nazioni”. È doveroso allora ricordare come alcuni giorni fa papa Francesco abbia ricevuto per un lungo colloquio personale uno di loro, fratello Arturo Paoli, ultracentenario prete da sempre vicino ai poveri e alle vittime della storia: un testimone del Vangelo che ha molto sofferto a causa della giustizia, anche a opera di fratelli nella fede che lo hanno emarginato. Presenze e incontri come questo sono allora un richiamo alla responsabilità personale di ciascuno: nessuno potrà più invocare a propria scusante l’ignoranza su quanto accaduto nella storia. Ciascuno di noi è e sarà responsabile in prima persona di una conferma o di una contraddizione alla svolta nel dialogo tra ebrei e cristiani. Anche questo ci ricorda la Giornata della memoria.

riflessioni nel ‘giorno della memoria’

auswitz

nel ‘giorno della memoria’ è importante soprattutto riflettere perché la rimozione sbrigativa e superficiale del passato ci porta, senza che ce ne accorgiamo, a riprodurre atteggiamenti, insensibilità e disumanità che sono le premesse perché cio che è stato possa rivirsi ancorché in forme inedite

niente di più opportuno che riflettere su una intervista di E. Biagi a Primo Levi stesso, verrà inoltre proposto un articolo di L. Mazzetti su forme di razzismo ancora presenti fra noi nell’azione disinvolta di qualche forza politica come la Lega ed infine la reazione comprensibilmente durissima a gesti di volgare razzismo antisemita coi pacchi contenenti teste di maiale:

“Come nascono i lager? Facendo finta di niente”

 intervista a Primo Levi a cura di Enzo Biagi

in “il Fatto quotidiano” del 26 gennaio 2014

(in onda su RaiUno l’8 giugno 1982)

Levi come ricorda la promulgazione delle leggi razziali?

Non è stata una sorpresa quello che è avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì Il manifesto della razza, dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana. Tutto questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non ci fu sorpresa, delusione sì, con grande paura sin dall’inizio mitigata dal falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè negare il pericolo.

Che cosa cambiò per lei da quel momento?

Abbastanza poco, perché una disposizione delle leggi razziali permetteva che gli studenti ebrei, già iscritti all’università, finissero il corso. Con noi c’erano studenti polacchi, cecoslovacchi, ungheresi, perfino tedeschi che, essendo già iscritti al primo anno, hanno potuto laurearsi. È esattamente quello che è accaduto al sottoscritto.

Lei si sentiva ebreo?

Mi sentivo ebreo al venti per cento perché appartenevo a una famiglia ebrea. I miei genitori non erano praticanti, andavano in sinagoga una o due volte all’anno più per ragioni sociali che religiose, per accontentare i nonni, io mai. Quanto al resto dell’ebraismo, cioè all’appartenenza a una certa cultura, da noi non era molto sentita, in famiglia si parlava sempre l’italiano, vestivamo come gli altri italiani, avevamo lo stesso aspetto fisico, eravamo perfettamente integrati, eravamo indistinguibili.

C’era una vita delle comunità ebraiche?

Sì anche perché le comunità erano numerose, molto più di ora. Una vita religiosa, naturalmente, una vita sociale e assistenziale, per quello che era possibile, fatta da un orfanotrofio, una scuola, una casa di riposo per gli anziani e per i malati. Tutto questo aggregava gli ebrei e costituiva la comunità. Per me non era molto importante.

Quando Mussolini entrò in guerra, lei come la prese?

Con un po’ di paura, ma senza rendermi conto, come del resto molti miei coetanei. Non avevamo un’educazione politica. Il fascismo aveva funzionato soprattutto come anestetico, cioè privandoci della sensibilità. C’era la convinzione che la guerra l’Italia l’avrebbe vinta velocemente e in modo indolore. Ma quando abbiamo cominciato a vedere come erano messe le truppe che andavano al fronte occidentale, abbiamo capito che finiva male.

Sapevate quello che stava accadendo in Germania?

Abbastanza poco, anche per la stupidità, che è intrinseca nell’uomo che è in pericolo. La maggior parte delle persone quando sono in pericolo invece di provvedere, ignorano, chiudono gli occhi, come hanno fatto tanti ebrei italiani, nonostante certe notizie che arrivavano da studenti profughi, che venivano dall’Ungheria, dalla Polonia: raccontavano cose spaventose. Era uscito allora un libro bianco, fatto dagli inglesi, girava clandestinamente, su cosa stava accadendo in Germania, sulle atrocità tedesche, lo tradussi io. Avevo vent’anni e pensavo che, quando si è in guerra, si è portati a ingigantire le atrocità dell’avversario. Ci siamo costruiti intorno una falsa difesa, abbiamo chiuso gli occhi e in tanti hanno pagato per questo.

Come ha vissuto quel tempo fino alla caduta del fascismo?

Abbastanza tranquillo, studiando, andando in montagna. Avevo un vago presentimento che l’andare in montagna mi sarebbe servito. È stato un allenamento alla fatica, alla fame e al freddo.

E quando è arrivato l’8 settembre?

Io stavo a Milano, lavoravo regolarmente per una ditta svizzera, ritornai a Torino e raggiunsi i miei che erano sfollati in collina per decidere il da farsi.

La situazione con l’avvento della Repubblica sociale peggiorò?

Sì, certo, peggiorò quando il Duce, nel dicembre ’43, disse esplicitamente, attraverso un manifesto, che tutti gli ebrei dovevano presentarsi per essere internati nei campi di concentramento.

Cosa fece?

Nel dicembre ’43 ero già in montagna: da sfollato diventai partigiano in Val d’Aosta. Fui arrestato nel marzo del ’44 e poi deportato.

Lei è stato deportato perché era partigiano o perché era ebreo?

Mi hanno catturato perché ero partigiano, che fossi ebreo, stupidamente, l’ho detto io. Ma i fascisti che mi hanno catturato lo sospettavano già, perché qualcuno glielo aveva detto, nella valle ero abbastanza conosciuto. Mi hanno detto: “Se sei ebreo ti mandiamo a Carpi, nel campo di concentramento di Fossoli, se sei partigiano ti mettiamo al muro”. Decisi di dire che ero ebreo, sarebbe venuto fuori lo stesso, avevo dei documenti falsi che erano mal fatti.

Che cos’è un lager?

Lager in tedesco vuol dire almeno otto cose diverse, compreso i cuscinetti a sfera. Lager vuol dire giaciglio,vuol dire accampamento, vuol dire luogo in cui si riposa, vuol dire magazzino, ma nella terminologia attuale lager significa solo campo di concentramento, è il campo di distruzione.

Lei ricorda il viaggio verso Auschwitz?

Lo ricordo come il momento peggiore. Ero in un vagone con cinquanta persone, c’erano anche bambini e un neonato che avrebbe dovuto prendere il latte, ma la madre non ne aveva più, perché non si poteva bere, non c’era acqua. Eravamo tutti pigiati. Fu atroce. Abbiamo percepito la volontà precisa, malvagia, maligna, che volevano farci del male. Avrebbero potuto darci un po’ d’acqua, non gli costava niente. Questo non è accaduto per tutti i cinque giorni di viaggio. Era un atto persecutorio. Volevano farci soffrire il più possibile.

Come ricorda la vita ad Auschwitz?

L’ho descritta in Se questo è un uomo. La notte, sotto i fari, era qualcosa di irreale. Era uno sbarco in un mondo imprevisto in cui tutti urlavano. I tedeschi creavano il fracasso a scopo intimidatorio. Questo l’ho capito dopo, serviva a far soffrire, a spaventare per troncare l’eventuale resistenza, anche quella passiva. Siamo stati privati di tutto, dei bagagli prima, degli abiti poi, delle famiglie subito.

Esistono lager tedeschi e russi. C’è qualche differenza?

Per mia fortuna non ho visto i lager russi, se non in condizioni molto diverse, cioè in transito durante il viaggio di ritorno, che ho raccontato nel libro La tregua. Non posso fare un confronto. Ma per quello che ho letto non si possono lodare quelli russi: hanno avuto un numero di vittime paragonabile a quelle dei lager tedeschi, ma per conto mio una differenza c’era, ed è fondamentale: in quelli tedeschi si cercava la morte, era lo scopo principale, erano stati costruiti per sterminare un popolo, quelli russi sterminavano ugualmente ma lo scopo era diverso, era quello di stroncare una resistenza politica, un avversario politico.

Che cosa l’ha aiutata a resistere nel campo di concentramento?

Principalmente la fortuna. Non c’era una regola precisa, visibile, che faceva sopravvivere il più colto o il più ignorante, il più religioso o il più incredulo. Prima di tutto la fortuna, poi a molta distanza la salute e proseguendo ancora, la mia curiosità verso il mondo intero, che mi ha permesso di non cadere nell’atrofia, nell’indifferenza. Perdere l’interesse per il mondo era mortale, voleva dire cadere, voleva dire rassegnarsi alla morte.

Come ha vissuto ad Auschwitz?

Ero nel campo centrale, quello più grande, eravamo in dieci-dodici mila prigionieri. Il campo era incorporato nell’industria chimica, per me è stato provvidenziale perché io sono laureato in Chimica. Ero non Primo Levi ma il chimico n. 4517, questo mi ha permesso di lavorare negli ultimi due mesi, quelli più freddi, dentro a un laboratorio. Questo mi ha aiutato a sopravvivere. C’erano due allarmi al giorno: quando suonava la prima sirena, dovevo portare tutta l’apparecchiatura in cantina, poi, quando suonava quella di cessato allarme, dovevo riportare di nuovo tutto su.

Lei ha scritto che sopravvivevano più facilmente quelli che avevano fede.

Sì, questa è una constatazione che ho fatto e che in molti mi hanno confermato. Qualunque fede religiosa, cattolica, ebraica o protestante, o fede politica. È il percepire se stessi non più come individui ma come membri di un gruppo: “Anche se muoio io qualcosa sopravvive e la mia sofferenza non è vana”. Io, questo fattore di sopravvivenza non lo avevo.

È vero che cadevano più facilmente i più robusti?

È vero. È anche spiegabile fisiologicamente: un uomo di quaranta-cinquanta chili mangia la metà di un uomo di novanta, ha bisogno di metà calorie, e siccome le calorie erano sempre quelle, ed erano molto poche, un uomo robusto rischiava di più la vita. Quando sono entrato nel lager pesavo 49 chili, ero molto magro, non ero malato. Molti contadini ebrei ungheresi, pur essendo dei colossi, morivano di fame in sei o sette giorni.

Che cosa mancava di più: la facoltà di decidere?

In primo luogo il cibo. Questa era l’ossessione di tutti. Quando uno aveva mangiato un pezzo di pane allora venivano a galla le altre mancanze, il freddo, la mancanza di contatti umani, la lontananza da casa…

La nostalgia, pesava di più?

Pesava soltanto quando i bisogni elementari erano soddisfatti. La nostalgia è un dolore umano, un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che riguarda l’essere pensante, che gli animali non conoscono. La vita del lager era animalesca e le sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie. Poi venivamo picchiati, quasi tutti i giorni, a qualsiasi ora. Anche un asino soffre per le botte, per la fame, per il gelo e quando, nei rari momenti, in cui capitava che le sofferenze primarie, accadeva molto di rado, erano per un momento soddisfatte, allora affiorava la nostalgia della famiglia perduta. La paura della morte era relegata in secondo ordine. Ho raccontato nei miei libri la storia di un compagno di prigionia condannato alla camera gas. Sapeva che per usanza, a chi stava per morire, davano una seconda razione di zuppa, siccome avevano dimenticato di dargliela, ha protestato: “Ma signor capo baracca io vado nella camera a gas quindi devo avere un’altra porzione di minestra”.

Lei ha raccontato che nei lager si verificavano pochi suicidi: la disperazione non arrivava che raramente alla autodistruzione.

Sì, è vero, ed è stato poi studiato da sociologi, psicologi e filosofi. Il suicidio era raro nei campi, le ragioni erano molte, una per me è la più credibile: gli animali non si suicidano e noi eravamo animali intenti per la maggior parte del tempo a far passare la fame. Il calcolo che quel vivere era peggiore della morte era al di là della nostra portata.

Quando ha saputo dell’esistenza dei forni?

Per gradi, ma la parola crematorio è una delle prime che ho imparato appena arrivato nel campo, ma non gli ho dato molta importanza perché non ero lucido, eravamo tutti molto depressi. Crematorio, gas, sono parole che sono entrate subito nelle nostra testa, raccontate da chi aveva più esperienza. Sapevamo dell’esistenza degli impianti con i forni a tre o quattro chilometri da noi. Io mi sono esattamente comportato come allora quando ho saputo delle leggi razziali: credendoci e poi dimenticando. Questo per necessità, le reazioni d’ira erano impossibili, era meglio calare il sipario e non occuparsene.

Poi arrivarono i russi e fu la libertà. Come ricorda quel giorno?

Il giorno della liberazione non è stato un giorno lieto perché per noi è avvenuto in mezzo ai cadaveri. Per nostra fortuna i tedeschi erano scappati senza mitragliarci, come hanno fatto in altri lager. I sani sono stati ri-deportati. Da noi sono rimasti solo gli ammalati e io ero ammalato. Siamo stati abbandonati, per dieci giorni, a noi stessi, al gelo, abbiamo mangiato solo quelle poche patate che trovavamo in giro. Eravamo in ottocento, in quei dieci giorni seicento sono morti di fame e freddo, quindi, i russi mi hanno trovato vivo in mezzo a tanti morti.

Questa esperienza ha cambiato la sua visione del mondo?

Penso di sì, anche se non ho ben chiara quale sarebbe stata la mia visione del mondo se non fossi stato deportato, se non fossi ebreo, se non fossi italiano e così via. Questa esperienza mi ha insegnato molte cose, è stata la mia seconda università, quella vera. Il lager mi ha maturato, non durante ma dopo, pensando a tutto quello che ho vissuto. Ho capito che non esiste né la felicità, né l’infelicità perfetta. Ho imparato che non bisogna mai nascondersi per non guardare in faccia la realtà e sempre bisogna trovare la forza per pensare.

Grazie, Levi. Biagi, grazie a lei.

Ma i razzisti ci sono ancora: vedi la Lega

di Loris Mazzetti

in “il Fatto quotidiano” del 26 gennaio 2014

divieto ai nomadi

Il 27 gennaio 1945 le truppe dell’Armata Rossa entrarono nella città polacca di Oswiecim e scoprirono il campo di concentramento più tristemente noto con il nome di Auschwitz. I soldati sovietici trovarono una montagna di cadaveri, ma anche qualche superstite, la cui testimonianza fece scoprire al mondo, per la prima volta, l’orrore del genocidio nazista, strumenti di tortura e di annientamento: i forni crematori. È importante non dimenticare il passato ma i fatti ci dimostrano invece che dimenticare è molto facile. Nella “Bell’Italia” esiste un partito, la Lega, che senza giri di parole mette alla gogna il ministro della Repubblica Kyenge, prima paragonandola a un orango tango per il colore della pelle, poi pubblicando su La Padania i suoi impegni pubblici perché i “padani” sappiano dove poterla contestare; il poco onorevole Bonanno dà dell’ebreo a Gad Lerner perché aveva definito il suo gesto di presentarsi in Parlamento con il volto dipinto di nero, un atto nazista; il segretario Salvini annuncia che alle Europee di maggio la Lega sarà alleata con il partito xenofobo di estrema destra Front National di Marine Le Pen. L’intervista di Enzo Biagi che il Fatto Quotidiano pubblica alla vigilia del “Giorno della Memoria” – istituito per non dimenticare le vittime dell’Olocausto e in onore di coloro che, rischiando la propria vita, hanno protetto i perseguitati – è allo scrittore Primo Levi, uno dei pochi sopravvissuti ad Auschwitz. L’intervista andò in onda su RaiUno l’8 giugno 1982 nel programma Questo secolo: 1935 e dintorni, viaggio negli anni che contano. Quando Mussolini cambiò idea e gli italiani divennero ariani Levi, nato a Torino nel ’19, fu partigiano nel Partito d’Azione in Val d’Aosta. Nel dicembre del 1943, insieme a due compagni, venne preso dai fascisti. Prima deportato nel campo di concentramento di Fossoli, a Carpi, poi, il 22 febbraio del ’44, insieme ad altri 650 ebrei, fu sbattuto dentro un treno merci con destinazione Auschwitz. Solo in 22 si salvarono. “L’esperienza del  campo di concentramento può venire superata e resa indolore, addirittura resa utile come tutte le esperienze della vita. Ma non si cancella mai”, scrisse Levi. L’esperienza vissuta ad Auschwitz la raccontò nel libro Se questo è un uomo, pubblicato per la prima volta nel 1947. Biagi e Levi si conobbero quando lo scrittore piemontese con La tregua, in cui raccontò il viaggio di ritorno dal lager nazista, vinse, nel 1963, la prima edizione del Premio Campiello. Biagi lo volle conoscere perché aveva letto Se questo è un uomo, ed era stato molto colpito per la narrazione asciutta, piena di particolari, realista. Il libro, ripubblicato da Einaudi nel 1956, aveva avuto un grande successo.

porraimos

Il Giorno della Memoria ci riporta alla mattina del 1938, quando in Italia tutto iniziò. Allora Biagi, diciottenne, lavorava già in una redazione. I quotidiani, ha ricordato più volte il grande giornalista, per disposizioni ricevute dal regime uscirono con questo titolo: “Le leggi per la difesa della Razza”. Il fascismo voleva mettersi al passo con i camerati di Berlino. Gli italiani furono invitati, inizialmente attraverso la stampa, a considerare, che tranne una piccola minoranza, appartenevano alla razza ariana. “Era un privilegio, per la verità, del quale nessuno si era mai preoccupato, Mussolini compreso”, disse Biagi nella presentazione dell’intervista. Nel 1934 ricevendo uno dei capi del sionismo internazionale, alla presenza del rabbino di Roma, parlando del Führer, il Duce affermò, a proposito degli ebrei: “Il signor Hitler è un imbecille e un cialtrone fanatico, ascoltarlo parlare è una tortura, un giorno non ci sarà più traccia di lui, gli ebrei saranno sempre un grande popolo, Hitler è una cosa da ridere non lo temete e dite alla vostra gente di non averne paura”. Mussolini che aveva amato una ragazza ebrea, Margherita Sarfatti, non era, inizialmente, frenato da pregiudizi, cambiò per convenienza, come tante altre volte, opinione. La sopravvivenza vissuta come colpa e il suicidio Il 6 ottobre 1938, i 60 mila cittadini italiani di religione ebraica seppero che per loro stava cominciando una nuova persecuzione. Il Gran Consiglio stabilì che erano proibiti i matrimoni misti, gli ebrei non dovevano avere industrie con più di 100 dipendenti, né terreni che superassero un certo valore, né domestici ariani, niente servizio militare, niente radio, niente nome sull’elenco del telefono, niente annunci funebri. Li ributtarono ancora una volta nel ghetto. In Italia 200 professori persero la cattedra, 23 mila professionisti perdettero il lavoro, 150 tra ufficiali e sottufficiali vennero congedati, chiusi i portoni delle scuole, che erano di tutti, per 6 mila studenti. Venne diffuso il Manifesto della Razza a firma di dieci illustri scienziati nel quale si affermava: “Gli ebrei non appartengono alla Razza italiana”. L’11 aprile 1987 Levi morì suicida. Ferdinando Camon nel libro Conversazione con Primo Levi ha scritto: “Dopo Auschwitz lui non viveva ma sopravviveva, che vivere ancora per lui è una colpa, che sulla Terra non c’è spazio per le vittime dello Sterminio e per chi lo nega

macellai delle coscienze

di Gad Lerner

in “la Repubblica” del 26 gennaio 2014

il-giorno-della-memoria

Sono poche le specie animali di cui la Bibbia consente, e solo a determinate condizioni, l’utilizzo per alimentazione. Il maiale non rientra fra di esse in quanto, pur avendo l’unghia bipartita come i bovini e gli ovini, non è un ruminante.

Il Libro sacro non fa alcun riferimento all’impurità del maiale, creatura di Dio come le altre. Solo nella tradizione postuma e nella secolare contrapposizione alle altrui usanze, la carne suina è assurta a simbolo di cibo proibito. Per gli ebrei così come per i musulmani.

Naturalmente gli antisemiti che hanno voluto infliggere un’offesa blasfema agli ebrei, non a caso alla vigilia della Giornata della Memoria, recapitando teste di maiale al tempio Maggiore di Roma, ll’ambasciata d’Israele e al Museo della Storia di Trastevere dov’è in corso una mostra sulla Shoah, nulla sanno riguardo alle leggi alimentari della Kashrut. Il loro scopo era solo quello di intimidire gli ebrei con una minaccia tipica del linguaggio mafioso, e nel contempo di perpetrare l’ennesima umiliazione al popolo sterminato settant’anni or sono.

Analoga ignoranza manifestano purtroppo da tempo certi esponenti politici che hanno condotto dei maiali, o hanno cosparso la loro urina, nei luoghi destinati alla costruzione di edifici di culto islamico. Anche lì, in verità, basta una preghiera per purificare l’area; ma è lo sfregio quello che si vuole perpetrare. Il dileggio di una fede religiosa. L’ostentazione razzista. Da alcuni anni, purtroppo, le celebrazioni della Giornata della Memoria, in coincidenza con la liberazione del lager di Auschwitz Birkenau in cui furono uccisi oltre un milione di deportati, vengono utilizzate anche come palcoscenico di scellerate provocazioni. L’anno scorso Berlusconi colse l’occasione di una cerimonia al Binario 21 della Stazione Centrale di Milano, da cui partirono venti convogli di prigionieri destinati alla morte, per un pubblico elogio di Mussolini.Ma è il negazionismo l’insidia più velenosa. Quello che si è manifestato di nuovo ieri con le scritte vergate, sempre a Roma, per sostenere che l’Olocausto sarebbe una “menzogna” e Anna Frank una “bugiardona”. È l’arma più crudele con cui si rinnova la sofferenza dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime. Liquidare come un’abile invenzione propagandistica il genocidio degli ebrei d’Europa è la modalità prescelta per additarli nuovamente come popolo subdolo e dominatore, meritevole quindi di essere perseguitato. Non a caso il negazionismo ha fatto tanti proseliti nel mondo arabo e musulmano in guerra con lo Stato d’Israele. Ma più in generale minimizzare l’esito delle leggi razziali e delle deportazioni novecentesche, sostenendo che la Soluzione Finale non rientrasse nei piani del regime nazista, serve anche a addormentare le coscienze di fronte al ritorno delle pulsioni razziste e delle legislazioni discriminatorie alimentate dal fenomeno migratorio e dalla sofferenza sociale.

Basterebbe l’orribile episodio di ieri per confermare l’importanza di un buon uso della memoria storica come insegnamento per il presente, oltre che come omaggio alle vittime. Sicché la miglior risposta alla barbarie culturale della testa di maiale spedita in sinagoga saranno le migliaia di manifestazioni già organizzate nelle scuole italiane per la Giornata di domani. Resta però la speciale offesa di cui è stata fatta oggetto la Comunità romana, la più antica della diaspora ebraica. Nel corso degli ultimi vent’anni abbiamo assistito a una straordinaria rivitalizzazione culturale del quartiere ebraico della capitale che sorge sulla sponda sinistra del Tevere. Non solo luoghi di culto ma anche centri studi, scuole, negozi e ristoranti kasher. Qualcuno vorrebbe ridurre tale luogo, affascinante per chiunque voglia confrontarsi con la vicenda millenaria dell’ebraismo, di nuovo a Ghetto chiuso in se stesso e assediato. Come fu prima del 1870. Bene ha fatto, dunque, il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, Renzo Gattegna, a elogiare la costante opera di prevenzione e vigilanza delle forze dell’ordine, scattata anche di fronte alla provocazione di ieri. Spetta allo Stato difendere l’incolumità dei cittadini e il patrimonio culturale ebraico. Vincendo così la tentazione di ricorrere a impropri strumenti di autodifesa che la diffusione dell’odio antisemita rischia di far degenerare. Gli ebrei italiani, per fortuna, non sono soli contro tutti. Purché la coscienza democratica non abbassi la guardia, ora che si affacciano di nuovo tempi bui. È un sinistro avvertimento questo ricorso a un animale che si pretende impuro. Contro gli ebrei, così come prima contro i musulmani. Ma in realtà contro la nostra democrazia. Viene davvero da dire: poveri maiali innocenti, vittime dei macellai delle coscienze 

27 gennaio: la nostra memoria troppo insenbile

Noi, incapaci di sentire davvero quel dolore

per ricordare e riflettere significativamente nel ‘giorno della memoria’ riporto qui sotto l’articolo di fondo di Ferruccio Sansa su ‘il Fattoquotidiano’ odierno:

Il giorno della memoria

Olocausto, la memoria sia parte della vita

Così un giorno ti ritrovi a un bivio. Sei andato a Monaco, per vedere la cattedrale, le birrerie, i musei. Poi uscendo dalla città, tra distese di fabbriche e capannoni, a un incrocio vedi un cartello giallo con quella scritta: DACHAU.

Non te lo aspettavi, quasi disturba la spensieratezza del viaggio. Quel segnale scompiglia i pensieri. Ma senti di dover svoltare. Quasi più per dovere che per convinzione. Senza quasi accorgertene ti trovi in un grande spiazzo. I rumori della città non ci sono più. Eppure non sai cosa fare, non sei pronto. Indugi nell’oltrepassare quel cancello di ferro battuto che senza aver mai visto già conosci così bene: “Arbeit Macht Frei”, il lavoro rende liberi.

Cosa dirò ai bambini?, ti chiedi. E io, come reagirò?, quasi temi di non essere all’altezza. Di non capire. Di non soffrire abbastanza. Eccolo dunque il campo di concentramento. Ecco i camini, le baracche. Avanzi sulla ghiaia, in un silenzio di cattedrale. Leggi i pannelli: “Dachau fu il primo campo di concentramento nazista, fu inaugurato nel 1933. Qui trovarono subito posto cinquemila internati”. Cinquemila uomini, donne e bambini. Provi a immaginarteli uno per uno, gente come te, come tua moglie, come i bambini cui chiudi la giacca perché non prendano freddo.

Ti sforzi di capire, di soffrire perfino, ma non ti senti adeguato. Non ci riesci davvero.

Leggi quei numeri spaventosi, diecimila, centomila morti, così grandi che invece di accrescere lo sgomento ti fanno quasi perdere di vista ogni singola vita, confusa nella cifra immensa.

Ebrei, polacchi, nomadi. Arrivi davanti al monumento dedicato ai bambini. Ti volti verso i tuoi, così misteriosamente silenziosi, quasi avessero capito, lo avessero sentito sulla pelle senza bisogno di tante spiegazioni. Proprio Giovanni e Nino, che vanno alla scuola germanica, che conoscono la grandezza di questa civiltà. E, però, provi a spiegare, a ricordare l’orrore che questo popolo, ogni popolo, ogni uomo a volte trova dentro di sé.

É quasi finito. Hai fatto il tuo dovere, puoi tornare a casa. Mancano le baracche ai margini del campo. La “Barache X”. Entri. Ti trovi in una stanza spoglia, in un buio che si infittisce procedendo verso una porta: le docce. Quindi è successo qui. Oltre quella soglia. Rimani fermo, non riesci a entrare. Ti guardi intorno. Non ci avevi ancora fatto caso: subito prima di superare l’ultima porta, lo sguardo incontra una piccola finestra quadrata. Di sicuro, sì, certamente è successo anche a loro in quegli ultimi istanti. Si vede solo un frammento di prato, il verde acceso dalla pioggia appena caduta. La vita. Lo vedi e d’improvviso ti metti a piangere, non riesci a fermarti, singhiozzi come non ti accadeva da quando eri bambino.

Da Il Fatto Quotidiano del 27/01/2014.

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