le fantasie degli intriganti di professione: tre pontefici al colpo!

Vatileaks

il papa verso le dimissioni?

Luigi Bisignani: e se ci trovassimo presto con tre pontefici?

Papa Francesco

L’assunto del pensiero di Luigi Bisignani, sempre assai informato su intrighi ed intrallazzi, è chiaro sin dal titolo che campeggia sulla prima pagina de Il Tempo:

“Ci ritroveremo con tre Pontefici?”

Quella di Bisignani è una lettera rivolta al direttore Gian Marco Chiocci, una lettera che pone una domanda dal sapore retorico, ribadita in attacco: “E se ci trovassimo presto anche con tre Papi?”. Dunque L’uomo che sussurrava ai potenti ripercorre in sintesi i fatti degli ultimi giorni, il “rigurgito” di Vatileaks, cita il libro di Gianluigi Nuzzi, e sottolinea come “pagina dopo pagina si viene immersi in un universo fatto di riti e regole solo apparentemente antiche il cui denominatore comune finora è stata l’inerzia”.

Le frasi nel libro 

Dunque Bisignani cita la domanda posta nell’ultima pagina del libro di Nuzzi: “Il Papa riuscirà a vincere la sua battaglia?”. Una domanda, ad ora, senza risposta. Eppure Bisignani mostra di avere quantomeno un’idea su come possa andare a finire, e cita ancora Nuzzi: “La sua è una strada obbligata e di certo il Pontefice non si farà intimidire, a meno che le pressioni diventino insopportabili, tali da indurlo alle dimissioni, come ogni tanto si lascia sfuggire”. Chiosa Bisignani: “Parole come pietre, quelle scritte da Nuzzi che ben conosce i personaggi chiave all’interno delle mura leonine che gli hanno fornito uno spaccato ancora più drammatico rispetto alla crisi. C’è solo da augurarsi che quello che viene paventato rimanga solamente un rischio”. Eppure, a leggere la lettera del faccendiere, sembra che il rischio sia più che concreto, e che la possibile conseguenza sia il passo indietro di Francesco. A quel punto, con due Papi emeriti – Ratzinger e Bergoglio -, come da titolo ci “ritroveremo con tre Pontefici”.

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un non credente scrive al papa una lettera di sostegno alla sua attività di pulizia dentro la chiesa

lettera aperta (e dura)

a papa Francesco

Papa Francesco

di PAOLO ERCOLANI

 

San­tità,

chi scrive non pos­siede il dono della fede. In que­sto senso fatico non poco anche a defi­nirmi ateo, per­ché ritengo la posi­zione di chi esclude cate­go­ri­ca­mente l’esistenza di un’entità supe­riore, biso­gnosa di un’altra fede quan­to­meno equi­va­lente alla prima.

In buona sostanza, insomma, la que­stione prin­ci­pale non è tanto l’esistenza o meno di un’eventuale divi­nità, quanto la mia pro­pen­sione ad affi­darmi alla ragione evi­tando atteg­gia­menti fideistici.

Que­sta ragione, e non la fede, mi sug­ge­ri­sce due ele­menti ben precisi.

FEDE E RAGIONE

Il primo riguarda l’impossibilità dell’uomo di con­se­guire una posi­zione certa rispetto all’esistenza o meno di una o più divi­nità (agnosticismo).

Certo, gli atei scien­ti­sti si oppon­gono a que­sta posi­zione, soste­nendo che un atteg­gia­mento scien­ti­fico richiede che si por­tino prove per soste­nere l’esistenza di una pre­sunta verità affer­mata. Men­tre non è richie­sto nulla di simile per negarla, quella pre­sunta verità.

Ma, dall’altra parte, biso­gna pur dire che una ragione «ragio­ne­vole» (o una scienza umana e quindi uma­ni­stica) deve fare i conti con il dato rile­vato dallo stesso Car­te­sio: ossia l’originaria, insop­pri­mi­bile, costante idea che alberga nell’uomo di «per­fe­zione», ovvero di divi­nità, che da qual­che parte deve pur provenire.

E qui arri­viamo al secondo dato sug­ge­ri­tomi dalla ragione. Cioè che l’essere umano, dalla notte dei tempi, è un «homo reli­gio­sus», ossia costi­tu­zio­nal­mente por­tato a cer­care rife­ri­menti ulte­riori, appi­gli meta­fi­sici, con­forti ultramondani.

Certo, in virtù del primo dato egli non potrà mai pos­se­dere la cer­tezza di un’effettiva esi­stenza di tale divi­nità, ma cio­non­di­meno sarà comun­que spinto a cer­care rispo­ste e con­forto rispetto a un’esistenza in cui è stato get­tato dispe­ra­ta­mente privo di quelle mede­sime rispo­ste e di quel conforto.

Il fatto è che quelle rispo­ste e quel vano motivo di con­forto l’uomo con­ti­nua a cer­carli imper­ter­rito. E spesso, spe­cie nei momenti di crisi delle grandi reli­gioni, fini­sce per tro­varli in entità terrene.

Che sia un Par­tito, un Lea­der, il Mer­cato o per­sino la Tec­nica, quando ciò è avve­nuto sono seguiti sem­pre degli eventi dram­ma­tici e sanguinosi.

Por­tare Dio in terra, o illu­dersi di costruire il Para­diso nel nostro mondo, para­fra­sando Pop­per, ha sem­pre avuto come seguito ine­vi­ta­bile la crea­zione di un inferno terreno.

CIELO E TERRA

La dei­fi­ca­zione, con con­se­guente ido­la­tria, di qual­che essere umano o di qual­che entità ter­rena, ha sem­pre finito per con­sen­tire a un grande dit­ta­tore e alla sua ple­tora di cor­ti­giani di assur­gere a un potere tal­mente incon­tra­stato da rive­larsi distrut­tivo per il genere umano.

In un modo molto simile, la Chiesa, lad­dove ha ope­rato un pro­gres­sivo e ine­so­ra­bile allon­ta­na­mento dal rife­ri­mento divino (e da que­gli stessi Coman­da­menti e dogmi di cui essa stessa è stata l’indiscussa testi­mone in terra), si è costi­tuita sem­pre più alla stre­gua di una potenza ter­rena volta alla gestione del potere e del denaro, non­ché allo sfrut­ta­mento dei poveri e degli oppressi (e della loro difesa a parole) per otte­nere finan­zia­menti pub­blici e pri­vati di dimen­sioni esor­bi­tanti e oscene.

Quando il cielo è «vuoto», la terra si popola e riem­pie delle bestie peg­giori. Anche porporate.

Fondi, è appena il caso di dirlo, che anche in que­sti giorni sco­priamo essere stati uti­liz­zati all’interno della Chiesa per fini per­so­nali di qual­che alto pre­lato, per inve­sti­menti finan­ziari di enorme por­tata, per la costi­tu­zione di un patri­mo­nio immo­bi­liare di dimen­sioni inimmaginabili.

Sì, ha letto bene San­tità, ho scritto «anche in que­sti giorni», gra­zie alla docu­men­ta­zione pre­cisa e inquie­tante for­nita dai libri in uscita di Emi­liano Fit­ti­paldi («Ava­ri­zia», Fel­tri­nelli) e Gian­luigi Nuzzi («Via cru­cis», Chiarelettere).

Da cui emerge un uti­lizzo dell’enorme denaro pub­blico ita­liano (Otto per mille, in par­ti­co­lare) per fina­lità e in quan­tità tali da ren­dere risi­bile l’accusa di pecu­lato rivolta nei con­fronti dell’ex Sin­daco Marino.

Curioso il fatto che il «pecu­lato» (cioè il reato di appro­pria­zione inde­bita di denaro pub­blico), nel diritto romano come nel Dige­sto di Giu­sti­niano, fosse acco­stato al «sacri­le­gio», il reato di appro­pria­zione inde­bita di cose sacre. Per entrambi era pre­vi­sta la pena capitale.

LA STORIA CHE SI RIPETE

Ver­rebbe anche da chie­dersi som­mes­sa­mente, ma temo che nes­suno lo farà, se lo Stato ita­liano (nelle cui vicende la Chiesa entra con legit­tima ma discu­ti­bile auto­rità), non pos­segga gli stru­menti per rivol­gersi alle vie legali, visto che le abbon­danti elar­gi­zioni che esso fa alla Chiesa sono pre­vi­ste dal Con­cor­dato, ma per fina­lità che non sono pro­pria­mente quelle mala­vi­tose emerse in que­sti giorni.

Già, in que­sti giorni. Ma è una sto­ria che si ripete.

Lei ricor­derà cer­ta­mente, infatti, l’articolo del quo­ti­diano inglese «Guar­dian» (How the Vati­can Built a Secret Pro­perty Empire Using Mussolini’s Mil­lions, 21 gen­naio 2013), in cui si par­lava di un capi­tale immo­bi­liare di dimen­sioni ecce­zio­nali tra Fran­cia e Inghil­terra (in aggiunta a quello, ster­mi­nato, in Ita­lia), uffi­cial­mente inte­stato a una società off-shore (con tutti i bene­fici fiscali del caso, quindi).

L’ingente somma di denaro con cui il Vati­cano aveva potuto costi­tuire que­sto capi­tale immo­bi­liare immenso (circa 650 milioni di euro, per l’epoca), era stato il frutto di soldi ancora una volta ver­sati dallo Stato ita­liano, nella per­sona di Benito Mus­so­lini, nel 1929 (per inciso, anno della fune­sta crisi eco­no­mica che ridusse sul lastrico milioni di fami­glie), con lo scopo di «risar­cire la Chiesa della per­dita del potere temporale».

Ovvero, fuori dal buro­cra­ti­chese: lo Stato ita­liano pagava per la sua nascita (avve­nuta nel 1861), che era costata alla Chiesa la per­dita dello Stato Pon­ti­fi­cio e del potere tem­po­rale su buona parte del ter­ri­to­rio italiano.

QUALI VALORI?

Da que­sto punto di vista susci­tano ila­rità que­gli ana­li­sti (spesso legit­ti­ma­mente e ben com­pren­si­bil­mente appog­giati dalla Chiesa stessa), che sosten­gono di voler difen­dere l’identità nazio­nale, non­ché di voler com­bat­tere (a chiac­chiere) un capi­ta­li­smo che si è dato l’obiettivo di uni­for­mare il genere umano ope­rando la distru­zione dei valori, dei dogmi e delle isti­tu­zioni cri­stiane (a comin­ciare dalla famiglia).

Per­ché que­sti ana­li­sti nulla dicono di un’istituzione, la Chiesa appunto, che in buona parte non solo si fa beffe dello Stato ita­liano uti­liz­zando per fini per­so­nali, mala­vi­tosi e impro­pri i tanti soldi che esso gli elar­gi­sce ogni anno; ma che anche dimo­stra di essere ben inse­rita in quelle logi­che per­verse e anti­so­ciali (per non dire anti­u­mane) del capi­ta­li­smo finan­zia­rio più spinto. Igno­rando (o comun­que depo­ten­ziando for­te­mente), per fare ciò, la piena assi­stenza ai poveri, agli emar­gi­nati non­ché a quelle fami­glie sul cui valore la Chiesa insi­ste tanto e giustamente?!

Abbiamo apprez­zato in molti, San­tità, e io fra quelli, la Sua corag­gio­sis­sima enci­clica (la «Lau­dato si’»), in cui fra molte cri­ti­che al capi­ta­li­smo finan­zia­rio emerge una pro­po­sta forte affin­ché la poli­tica (e quindi l’etica, il bene comune) torni a eser­ci­tare un «governo» sull’economia e sugli inte­ressi egoistici.

Ma que­sto apprez­za­mento sem­bra stri­dere con la Sua rea­zione di que­sti giorni, appa­ren­te­mente volta a con­dan­nare non tanto il dato ogget­tivo (di una Chiesa gra­ve­mente preda della cor­ru­zione) quanto la fuga di noti­zie (si parla per­sino di una pos­si­bile richie­sta di ritiro dal com­mer­cio dei due libri summenzionati).

Con­cludo là dove ho ini­ziato. L’uomo è sostan­zial­mente «homo reli­gio­sus», biso­gnoso di tro­vare un legame con la dimen­sione trascendente.

La cura di que­ste anime dal desi­de­rio più che legit­timo (e sono la stra­grande mag­gio­ranza), spet­tano a una Chiesa che sap­pia essere dav­vero «povera», «umile», dalla parte degli ultimi e degli emarginati.

Che essa rie­sca in tale obiet­tivo (se non vogliamo che venga sosti­tuita da divi­nità ter­rene assai più fune­ste), è inte­resse di tutti noi. Cre­denti e non credenti.

Per que­sto mi sento di appog­giare la dif­fi­cile bat­ta­glia che Lei, San­tità, sostiene di com­bat­tere con ama­rezza e vigore per espel­lere ser­penti e fari­sei dal con­sesso ecclesiastico.

Credo che siamo in tanti a farlo, cre­denti e non, pra­ti­canti e non.

Sol­tanto, San­tità, abbiamo biso­gno di mag­giore tra­spa­renza e coe­renza, di una Chiesa che non tenta di oscu­rare le pro­prie debo­lezze ma che piut­to­sto le affronta con forza e aper­ta­mente, per­ché come inse­gnava San Tom­maso, l’anima dell’uomo richiede un nutri­mento che dia forza alla sua fede ma anche alla sua ragione.

E quest’ultima, se sa di non poter cono­scere con cer­tezza le cose divine, è tut­ta­via molto abile a com­pren­dere le mise­rie terrene.

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fare memoria dei morti: il 2 novembre

Bianchi

 

memoria dei morti

2 novembre

commento di E. Bianchi

Con questa memoria, siamo al cuore dell’autunno: gli alberi si spogliano delle foglie, le nebbie mattutine indugiano a dissolversi, il giorno si accorcia e la luce perde la sua intensità. Eppure ci sono lembi di terra, i cimiteri, che paiono prati primaverili in fiore, animati nella penombra da un crepitare di lucciole. Sì, perché da secoli gli abitanti delle nostre terre, finita la stagione dei frutti, seminato il grano destinato a rinascere in primavera, hanno voluto che in questi primi giorni di novembre si ricordassero i morti.

Sono stati i celti a collocare in questo tempo dell’anno la memoria dei morti, memoria che poi la chiesa ha cristianizzato, rendendola una delle ricorrenze più vissute e partecipate, non solo nei secoli passati e nelle campagne, ma ancora oggi e nelle città più anonime, nonostante la cultura dominante tenda a rimuovere la morte. Nell’accogliere questa memoria, questa risposta umana alla “grande domanda” posta a ogni uomo, la chiesa l’ha proiettata nella luce della fede pasquale che canta la resurrezione di Gesù Cristo da morte, e per questo ha voluto farla precedere dalla festa di tutti i santi, quasi a indicare che i santi trascinano con sé i morti, li prendono per mano per ricordare a noi tutti che non ci si salva da soli. Ed è al tramonto della festa di tutti i santi che i cristiani non solo ricordano i morti, ma si recano al cimitero per visitarli, come a incontrarli e a manifestare l’affetto per loro coprendo di fiori le loro tombe: un affetto che in questa circostanza diventa capace anche di assumere il male che si è potuto leggere nella vita dei propri cari e di avvolgerlo in una grande compassione che abbraccia le proprie e le altrui ombre. Per molti di noi là sotto terra ci sono le nostre radici, il padre, la madre, quanti ci hanno preceduti e ci hanno trasmesso la vita, la fede cristiana e quell’eredità culturale, quel tessuto di valori su cui, pur tra molte contraddizioni, cerchiamo di fondare il nostro vivere quotidiano.

Questa memoria dei morti è per i cristiani una grande celebrazione della resurrezione: quello che è stato confessato, creduto e cantato nella celebrazione delle singole esequie, viene riproposto qui, in un unico giorno, per tutti i morti. La morte non è più l’ultima realtà per gli uomini, e quanti sono già morti, andando verso Cristo, non sono da lui respinti ma vengono risuscitati per la vita eterna, la vita per sempre con lui, il Risorto-Vivente. Sì, c’è questa parola di Gesù, questa sua promessa nel Vangelo di Giovanni che oggi dobbiamo ripetere nel cuore per vincere ogni tristezza e ogni timore: “Chi viene a me, io non lo respingerò!” (cf. Gv 6,37ss.). Il cristiano è colui che va al Figlio ogni giorno, anche se la sua vita è contraddetta dal peccato e dalle cadute, è colui che si allontana e ritorna, che cade e si rialza, che riprende con fiducia il cammino di sequela. E Gesù non lo respinge, anzi, abbracciandolo nel suo amore gli dona la remissione dei peccati e lo conduce definitivamente alla vita eterna.

La morte è un passaggio, una pasqua, un esodo da questo mondo al Padre: per i credenti essa non è più enigma ma mistero perché inscritta una volta per tutte nella morte di Gesù, il Figlio di Dio che ha saputo fare di essa in modo autentico e totale un atto di offerta al Padre. Il cristiano, che per vocazione con-muore con Cristo (cf. Rm 6,8) ed è con Cristo con-sepolto nella sua morte, proprio quando muore porta a pienezza la sua obbedienza di creatura e in Cristo è trasfigurato, risuscitato dalle energie di vita eterna dello Spirito santo.

E’ in questa consapevolezza, in questa visione che deriva dalla sola fede, che la morte finisce per apparire “sorella”, per trasfigurarsi in un atto in cui si riconsegna a Dio, per amore e nella libertà, quello che lui stesso ci ha donato: la vita e la comunione. Per questo la chiesa della terra, ricordando i fedeli defunti, si unisce alla chiesa del cielo e in una grande intercessione invoca misericordia per chi è morto e sta davanti a Dio in giudizio per rendere conto di tutte le sue opere (cf. Ap 20,12).

Certo, nel ricordo di chi vive ci sono anche i morti la cui vita è stata segnata dal male, dai vizi, dalla cattiveria, dall’errore; ma c’è come un’urgenza, un istinto del cuore che chiede di onorare tutti i morti, di pensarli in questo giorno come all’ombra dei beati, sperando che “tutti siano salvati”.

La preghiera per i morti è un atto di autentica intercessione, di amore e carità per chi ha raggiunto la patria celeste; è un atto dovuto a chi muore perché la solidarietà con lui non dev’essere interrotta ma vissuta ancora come communio sanctorum, “comunione dei santi”, cioè di poveri uomini e donne perdonati da Dio: è il modo per eccellenza per entrare nella preghiera di Gesù Cristo: “Padre, che nessuno si perda… che tutti siano uno!”.

 
 
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il commento al vangelo della domenica

 

solennità di TUTTI I SANTI – 1 novembre 2015

RALLEGRATEVI ED ESULTATE, PERCHE’ GRANDE E’ LA VOSTRA RICOMPENSA NEI CIELI

commento al vangelo di p. Alberto Maggi

p. Maggi

Mt 5,1-12

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

La nuova relazione d’amore tra Dio e il suo popolo ha bisogno di una nuova alleanza. E’ quanto ci presenta Matteo nel suo vangelo al capitolo 5 con le beatitudini di Gesù. L’evangelista presenta Gesù collocato su “il” monte. L’articolo determinativo indica che no né un monte qualunque, ma il monte già conosciuto. Vuole rappresentare il monte Sinai dove Mosè ricevette da Dio l’alleanza con il popolo di Israele. 1 Ebbene ora Gesù non riceve da Dio, ma lui – che è Dio e l’evangelista lo ha presentato come “il Dio con noi” – propone una nuova alleanza con il popolo. Mosè, il servo del Signore, ha imposto un’alleanza tra dei servi e il loro Signore basata sull’obbedienza. Gesù, che non è il servo del Signore, ma il figlio di Dio, propone un’alleanza tra dei figli e il loro padre basata sull’accoglienza e la pratica del suo amore. E poi Gesù apre bocca ed elenca le beatitudini. L’evangelista ha curato in maniera particolare questo testo, sia per il numero delle beatitudini che sono otto. Perché otto? Gesù è risuscitato il primo giorno dopo la settimana, cioè l’ottavo giorno e questo nel cristianesimo primitivo, questa cifra “otto” ha sempre indicato la vita capace di superare la morte. Il numero otto era il numero della risurrezione. Allora l’evangelista, che ha in mente il decalogo di Mosè, presenta l’alternativa delle beatitudini. Mentre l’accoglienza e la pratica del decalogo garantiva lunga vita in questa terra, l’accoglienza e la pratica delle beatitudini garantisce una vita talmente forte, talmente potente che non sarà interrotta neanche dalla morte. Ma non solo, l’evangelista addirittura calcola con quante parole, secondo lo stile letterario del tempo, comporre il suo scritto. Ebbene sono esattamente 72. Perché proprio 72? Perché secondo il libro del Genesi era il numero delle nazioni pagane conosciute. Mentre il decalogo era esclusivo per il popolo di Israele, le beatitudini sono per tutta l’umanità. Poi il decalogo si apriva con l’affermazione, la rivendicazione di Dio quale unico Signore del suo popolo, ecco perché la prima delle beatitudini non è uguale alle altre, ha il verbo al presente. E’ la scelta del Padre come unico Dio. Nel decalogo poi si proseguiva con tre comandamenti, che erano esclusivi del popolo di Israele, ed erano gli obblighi assoluti nei confronti di Dio. Nelle beatitudini non ci sono obblighi nei confronti di Dio, perché Gesù è il Dio con noi, Dio si è fatto uomo e c’è da andare con lui e come lui verso l’umanità. Ecco allora che al primo posto vengono elencate situazioni di sofferenza dell’umanità con la possibilità di soluzione e d’aiuto da parte di Dio e del suo popolo. Nel decalogo si continuava con sette comandamenti nei confronti degli uomini, ebbene nelle beatitudini non ci sono questi doveri nei confronti egli uomini, che sono già stati espressi, ma l’azione di Dio nella comunità che accoglie le beatitudini. E allora, accogliendo le beatitudini, sarà una fioritura di atteggiamenti diversi che emergeranno non come qualità di qualcuno, ma come atteggiamenti riconoscibili da parte di coloro che, mediante l’accoglienza delle beatitudini, saranno a loro volta misericordiosi come il Padre è misericordioso, saranno puri di cuore, saranno costruttori di pace. E, infine, l’ultima beatitudine, che ha il verbo al presente come la prima, l’accoglienza e la fedeltà alle beatitudini non porterà al plauso delle persone, ma porterà alla persecuzione. Ma come la scelta della prima beatitudine, quella della povertà, cioè la decisione di condividere gioiosamente e liberamente con gli altri, non comporta effetti negativi perché Dio si prende cura di queste persone, così ugualmente l’ultima beatitudine, quella della persecuzione, è attenuata dal fatto che Dio si prende cura di costoro. 2 La beatitudine iniziale si riallaccia all’ultimo dei comandamenti. L’ultimo dei comandamenti qual era? Non desiderare le cose degli altri. La prima beatitudine è “desidera che gli altri abbiano le tue stesse cose”.

Questa è la novità del regno che Gesù è venuto a proporre.

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

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uno ‘sguardo’ alternativo sui migranti che diventano maestri …

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Lidia Maggi

Lidia Maggi

 la Bibbia è scritta e narrata dalla prospettiva dei migranti, di quanti sono stati costretti a viaggiare in cerca di un futuro. Accogliere i migranti oggi è un atto di solidarietà ma anche una necessità teologica

il Signore disse ad Abramo: «Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò» (Genesi 12, 1)

«Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come straniero con poca gente e vi diventò una nazione grande, potente e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci oppressero e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore udì la nostra voce, vide la nostra oppressione, il nostro travaglio e la nostra afflizione, e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con potente mano e con braccio steso, con grandi e tremendi miracoli e prodigi, ci ha condotti in questo luogo e ci ha dato questo paese, paese dove scorrono il latte e il miele. E ora io porto le primizie dei frutti della terra che tu, o Signore, mi hai data!» (Deuteronomio 26, 5-10)
Di che cosa abbiamo bisogno per comprendere la Bibbia? Ho provato a porre questa semplice domanda alla mia comunità. Le risposte ricevute oscillano da ingredienti spirituali, come la fede e l’amore, a strumenti più concreti come un traduttore, qualcuno che la spieghi, ecc. Tutti elementi utili, alcuni indispensabili.
Oggi, tuttavia, vorrei soffermarmi su una categoria di persone che, nella chiesa, è chiamata ad aiutare i credenti a comprendere meglio la Parola. Parlo dei dottori che Paolo, nella chiesa, nomina al terzo posto, dopo gli apostoli e i profeti (I Cor. 12, 28). Ma che cosa c’entrano i dottori con il cammino, la via? Per intuire il legame che intercorre tra i dottori della chiesa e la fede come viaggio è necessaria un’altra uscita, dal momento che abbiamo trasformato la figura dei dottori in persone erudite e piene di titoli di studio. È evidente che, per comprendere la Bibbia, occorrano persone preparate, se non altro perché la Parola di Dio si consegna come testo scritto, letterario. Mi chiedo, tuttavia, se Paolo, parlando di dottori, pensasse ai nostri teologi preparati nelle università o nei seminari. Per non cadere in anacronismi interpretativi, occorre che ogni generazione si interroghi su chi siano, oggi, i profeti della chiesa e i suoi dottori.
Forse uno dei criteri di discernimento per identificare il senso del carisma del dottore può essere ricercato nella capacità di saper aiutare chi crede, o chi cerca di credere, a cambiare prospettiva, a modificare il proprio sguardo per provare a vedere il mondo dal punto di vista della narrazione biblica. I dottori sono coloro che ci sollecitano a comprendere che il nostro punto di vista non coincide con quello della Bibbia; e non soltanto perché viviamo una distanza cronologica e geografica con un testo composto nell’arco di differenti secoli in una regione del mondo che non abitiamo. Piuttosto, perché la Bibbia è scritta e narrata dalla prospettiva dei migranti, di coloro che sono costretti a lasciare la propria terra per le ragioni più diverse: carestie, persecuzioni, una chiamata, una cacciata…
La storia biblica non è solo la vicenda di un popolo migrante, ma è soprattutto la storia raccontata dal punto di vista dei migranti.
Un migrante non lascia la propria terra per turismo, per curiosità, ma per ricercare una vita vivibile. Nella saga di Giuseppe, Giacobbe dice ai suoi figli in piena carestia: «Perché state a guardarvi l’un l’altro? Ho sentito dire che c’è grano in Egitto, scendete là a comprarne, così vivremo e non moriremo» (Gen. 42, 1-2). L’immobilismo porta alla morte; mettersi in viaggio apre a possibilità di vita. Il migrante affronta il rischio del viaggio alla ricerca di una nuova possibilità, quando tutte le vie gli appaiono sbarrate. A volte è meglio affrontare il deserto, piuttosto che rimanere su una terra dove i propri figli sono condannati a morte e il lavoro è solo schiavitù.
Non è anche di questo che parla l’evento fondatore della storia di Israele, l’esodo? Fuggire dal genocidio, dalla schiavitù, per sottrarsi alla persecuzione. Meglio il deserto, che una terra apparentemente ricca ma segnata da un governo ingiusto.
La Bibbia, in quanto storia di migranti, affronta tutte le questioni che i migranti ancora oggi affrontano, quando arrivano in una nuova terra. A iniziare dalla lingua. La Bibbia è uno strano testo, composto da una miscellanea di lingue: ebraico, aramaico, greco. Noi non ci poniamo il problema della traduzione solo per rendere fruibile questo libro a chiunque voglia leggerlo. La questione è presente nel testo stesso. Come mai le parole di Gesù, che parla in aramaico, un dialetto ebraico, vengono riportate dai suoi testimoni in greco, ovvero tradotte in una lingua straniera? Al di là della risposta tecnica, mi interessa qui segnalare che, nello stesso testo biblico, esiste un passaggio da una lingua a un’altra. Tema che non affronta una cultura stanziale. Chi nasce, vive e muore nello stesso posto, non si trova sollecitato a dover ricercare una mediazione linguistica che, invece, è di vitale importanza per tutti coloro che emigrano. Il migrante deve imparare la lingua del posto, oltre ai diversi usi e costumi. Si trova di continuo a dover definire i propri confini culturali, tra desiderio di integrazione (come Israele in Egitto, ai tempi di Giuseppe), scelta del nascondimento (come la regina Ester, che non rivela la sua identità religiosa e culturale) o differenziazione (come Israele al tempo di Mosè: «Lascia andare il mio popolo!» – come nella vicenda di Daniele e dei suoi amici, alla corte di Babilonia, che rifiutano di nutrirsi con il cibo regale). Tutto il libro del Levitico, pur presentando leggi arcaiche a noi perlopiù incomprensibili, può essere percorso con questa categoria: la necessità di un popolo, in una terra abitata da altri popoli, di differenziare la propria identità – un po’ come succede al protestantesimo in Italia che, sentendosi accerchiato da un contesto culturale a maggioranza cattolico, differenzia se stesso definendo la propria fede in contrapposizione all’altro. Una medesima strategia connota il Levitico, il libro della santità, della separazione: persino questo testo lo si comprende differentemente, se lo si considera un codice di migranti, preoccupati di perdere la propria memoria culturale.
È dal punto di vista del migrante che è raccontata la vicenda della terra promessa, poiché quel territorio è già occupato da altra gente, non è libero, vuoto. Questo genera conflitti, tensioni, che devono essere affrontati per tentare una convivenza non sempre facile.
Il Dio biblico è il Dio dei migranti. Li chiama a uscire, a lasciare la propria terra (Abramo), li forza a scappare da una situazione di morte (l’esodo) e si mette in viaggio con loro (i patriarchi e le matriarche, ma anche con il popolo in esilio, a Babilonia). Il protagonista divino si sente più a proprio agio in case precarie, nelle tende dei beduini, che nelle mura del tempio. È quanto intuisce il saggio Salomone, per quanto sia proprio lui a costruire un tempio per Dio: «Ma è pro- prio vero che Dio abiterà sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non ti possono contenere; quanto meno questa casa che io ho costruita!» (I Re 8, 27).
Per comprendere questo Dio e la sua Parola, narrata dalla prospettiva dei migranti, abbiamo bisogno di metterci in viaggio, di diventare a nostra volta migranti; oppure abbiamo bisogno di dottori, uomini e donne che ci aiutino a leggere la realtà dalla prospettiva degli stranieri. I dottori della chiesa sono oggi proprio i migranti che con la loro stessa esistenza preservano la memoria dello sguardo biblico. Accoglierli tra noi non è solo un atto di solidarietà, ma una necessità teologica: abbiamo bisogno del loro magistero!
Noi che rischiamo di farci un’idea del mettersi in cammino sui tapis roulants delle nostre chiese statiche, abbiamo bisogno di chi ha sperimentato realmente che cosa significhi essere dislocato, come i nostri padri, aramei erranti (Deut. 26, 5), come Gesù che non aveva dove posare il capo (Mt. 8, 20).
da Riforma n. 38 del 9 ottobre 2015
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