il vescovo Bettazzi e le nuove sfide che la chiesa deve affrontare

«comunione ai divorziati e gay, la chiesa affronti le nuove sfide»

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Mons. Bettazzi

mons. Bettazzi

intervista con mons. Bettazzi: «Con Francesco torna lo spirito del Concilio»

Bruno Quaranta

 

il peccato per cui la Chiesa deve chiedere specialmente misericordia? Non aver attuato pienamente il Concilio Vaticano II, scegliendo di essere Chiesa dei poveri e Chiesa comunione a tutti i livelli. Il peccato che “segna” in particolare l’uomo d’oggi? L’indifferenza di fronte ai grandi valori (a cominciare da quello religioso)».

 

meditando sull’Anno Santo prossimo venturo con Luigi Bettazzi nel verde Canavese. Dal 1966 al 1999 vescovo di Ivrea, il novantunenne monsignore, fra i pastori che non sdegnano, anzi, l’odore delle pecore (dagli operai olivettiani agli obiettori di coscienza), già frettolosamente, mediaticamente, soprannominato «il vescovo rosso», ha infine trovato conforto – se mai abbisognasse di conforto -nelle parole di Francesco: «Privilegiare i poveri non vuol dire  essere comunisti».

Papa Francesco ha già creato diversi cardinali ultraottantenni. Potrebbe ricevere anche lei la porpora.

«Non sono una figura così di rilievo. E comunque: Loris Capovilla, il segretario di Roncalli, è diventato cardinale a novantasette anni, sono ancora giovane…».

 

Torino è fra le sorprese dell’ultimo Concistoro…

«La mancata berretta cardinalizia è motivo di riflessione, certo. Ma non dimentichiamo che il Papa mira a segnalare situazioni peculiari, come nel caso di Francesco Montenegro, vescovo di Agrigento, che accolse Francesco a Lampedusa».

 

È pur vero che Torino è la città della Sindone.

«Sì, forse la prossima ostensione autorizzava l’attesa della porpora».

 

Per lei la Sindone è un’icona o una reliquia?

«E’ anche reliquia. Secondo Odifreddi è falsa perché non si è riusciti finora a spiegarla scientificamente. Per me è l’esatto contrario: ciò che non è spiegabile, implica un intervento al di là della scienza».

 

La Sindone icona e reliquia del Dolore. La carneficina tunisina come quella parigina (Charlie Ebdo) sollecita un quesito: l’Occidente decristianizzato potrà arginare il fondamentalismo islamico?

«La secolarizzazione del cristianesimo ha un sicuro risvolto positivo: ci ha consentito di arrivare alla democrazia. Vi è chi ha definito la Carta dei diritti dell’uomo il vangelo secondo l’Onu, un ventaglio di principi evangelici laicamente espressi. L’auspicio è che il mondo musulmano compia il medesimo cammino».

 

Papa Francesco: ha avuto occasione di incontrarlo?

«Un paio di volte, a Santa Marta. Una volta concelebrando con lui. Mi sono presentato: “Sono un superstite del Concilio”. Mi ha iniettato fiducia: “Un testimone”».

 

Quale Papa sente più affine?

«Giovanni XXIII, tale la sua umanità. Luciani mi invitò a non turbare la fede della gente. Giovanni Paolo II mi bacchettò: “Si fa presto a scrivere una lettera a Berlinguer, quando non si è vissuto sotto i comunisti”».

 

Lei testimone del Concilio, accanto a Lercaro di cui fu ausiliare.

«L’11 ottobre 1963 pronunciai l’intervento in favore della collegialità. In idem sentire, di lì a poco, Joseph Ratzinger, teologo del cardinal Frings».

 

Ma il dopo Vaticano non si caratterizza per la collegialità mancata?

«Purtroppo. Francesco vi sta rimediando grazie ai cardinali che ha voluto al suo fianco. Le remore non sono poche, né lievi: il Vaticano è il governo, il Concilio è il parlamento, i governi, notoriamente, soffrono i parlamenti».

 

Sarebbe favorevole a un Vaticano III?

«Come lo intendeva il cardinal Martini. Una serie di sessioni tematiche, che durino un mese: la bioetica, il sesso, la collegialità…Francesco, con il Sinodo in due tempi, si avvicina a Martini».

 

Il Sinodo che si esprimerà, fra l’altro, sulla comunione ai divorziati risposati e sulla condizione omosessuale.

«La comunione: vi sono cristiani ortodossi che, appellandosi al Concilio di Nicea, ammettono persino un secondo matrimonio, nel segno beninteso della sobrietà. L’omosessualità: la questione del sesso va studiata, emancipandosi dai neoplatonici che facevano coincidere sesso e decadenza dello spirito. Perché non espressione dello spirito umano? È noto che mi pronunciai in favore dei Dico, il riconoscimento delle unioni civili».

 

Torniamo al Concilio, al gruppo bolognese: Lercaro, Dossetti, lei. E Giuseppe Alberigo, storico del Vaticano II. Quando morì, sette anni fa, la curia felsinea (cardinal Caffarra) non le permise di presiedere la celebrazione eucaristica. Poté solo concelebrare. Quali le colpe di Alberigo?

«La sua lettura del Concilio: non l’umanità per la Chiesa, ma la Chiesa per l’umanità; non il laicato per la gerarchia, ma la gerarchia per il laicato».

 

Dossetti, un padre costituente. Jemolo rimproverò a Montini di non averlo nominato arcivescovo.

«Montini era un diplomatico, di respiro moroteo. Dossetti lo allarmava».

 

Jemolo avrebbe voluto vedere vescovo un’anima irrequieta come don Milani, magari a capo della pastorale per gli immigrati.

«Distinguerei tra i pastori e i profeti».

 

Francesco ha scandalizzato i cattolici «medi» sostenendo che «il proselitismo è una solenne sciocchezza».

«Francesco è latino-americano. Nel suo bagaglio storico ci sono i nostri antenati che, traversato l’Oceano, non lesinavano l’aut-aut agli indigeni: o diventavano cristiani o venivano eliminati. Le religione è, sia, un affare di coscienza. Cito il Concilio: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio”».

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un vescovo di cui vergognarsi!

 

 

 

 

il vescovo ‘ciellino’ di Ferrara: “il ’68 origine di tutti i mali”

sull’esorcismo: “è carità verso i fratelli posseduti, che portano nel volto i segni di questa nuova lebbra

negriil ’68? L’origine di tutti i mali. Il vescovo di Ferrara Luigi Negri mette una pietra tombale sul movimento che cercò di diffondere nel mondo le istanze di pacifismo, antirazzismo, onestà nella politica, pari diritti per donne e minoranze. Il movimento che protestò contro la guerra in Vietnam, la mancanza di libertà del regime sovietico con la Primavera di Praga, che voleva l’istruzione per i ceti meno abbienti e lottò contro l’oppressione sociale.

La critica all’anno delle contestazioni arriva nel corso di un intervento di Negri al X Corso internazionale sul ministero dell’esorcismo e la preghiera di liberazione organizzato dall’Istituto Sacerdos dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, in collaborazione con il Gruppo di ricerca e informazione socio-religiosa (Gris).

Di fronte agli oltre 150 partecipanti, venuti ad ascoltare il dibattito su esorcismo, pericoli delle sette, magia, occultismo e satanismo, sono intervenuti tra gli altri, Matteo Borrini, professore di antropologia forense, mons. Davide Salvatori, che introdurrà gli aspetti canonici e i padri Pedro Barrajón e Cesar Truqui.

Nella sua lezione il vescovo ha parlato della mancanza di regole che spesso guida fuori strada i giovani. “Nel ’68, che è all’origine di tutti i mali per i nostri giovani – riporta l’agenzia Adnkronos -, si diceva ‘vietato vietare’: i rischi per i ragazzi, oggi arrivano proprio da qui, da questo permissivismo totale per cui fare quel che pare e piace è l’unica regola”. “Vivere in una dimensione di immoralismo – continua il prelato- in cui non c’è più bene o male, può rendere più debole di fronte alle tentazioni del diavolo: ad esempio, se tu dici che con la donna puoi fare tutto quello che vuoi, che non c’è più niente di male, diventi più vulnerabile alle sollecitazioni”. Una “crisi etica dilagante” di fronte alla quale mons. Negri vede utile avere più esorcisti, ma soprattutto “figure che aiutino a fare un cammino”.

Il vescovo ha proseguito parlando del male, che “non è un problema metafisico – si legge su Avvenire -, ma una sfida all’intelligenza, alla sensibilità, alla capacità di costruire e di amare dell’uomo”. Oltre al male, che “esiste e l’uomo ne ha una rovinosa complicità perché lo persegue come se fosse la strada verso il bene”, Negri mette in guardia anche dal demonio, che “nella sua articolata presenza, interviene nella vita degli uomini e attacca perché la fede diminuisca, scompaia”. Quanto ai “fratelli posseduti”, “la carità verso di loro, che portano nel volto i segni di questa nuova lebbra, si esprime nell’esorcismo”, praticato da quei sacerdoti che sono “un avamposto dell’amore di Dio per gli uomini di oggi”.

 

 
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che ne sarà delle religioni nel 2050?

 

 

così cambierà la “mappa” delle religioni nel 2050

il cristianesimo resterà la prima fede, ma si sposterà verso l’Africa

boom di musulmani e calo degli atei

Lucandrea Massaro
Da qui al 2050 la popolazione dell’intero pianeta sarà di 9 miliardi e 300 mila persone, con un aumento stimato del 35%, ma se i cristiani cresceranno nella stessa media della popolazione globale, i musulmani saliranno invece di oltre il doppio (circa del 73%), avvicinandosi così al sorpasso. Sono queste le stime del Pew Research Center contenute nel rapporto “Il futuro delle religioni”, basato su tassi di fertilità e mortalità, ma anche su flussi migratori e conversioni.

Il quadro globale: salgono i musulmani, decrescono gli atei
Se oggi i cristiani sono 2,1 miliardi, tra 35 anni saranno 2,9 miliardi, sempre pari al 31% della popolazione mondiale, mentre i musulmani passeranno – grazie a tassi di fertilità più alti – da 1,6 a 2,7 miliardi, ovvero dal 23 al 29%. In aumento anche gli induisti da 1 a 1,4 miliardi (crescita del 34%), e gli ebrei da 14 a 16,1 milioni (16%) e tutte le altre religioni ad eccezione del Buddismo. In calo gli atei e gli agnostici, dal 16% al 13%, poiché le coppie non credenti hanno in media 1,7 figli contro i 2,6 di coppie credenti. Se si sconfessa l’avanzata – paventata nei decenni scorsi – dei ‘senza Dio’, cade contestualmente anche la prospettiva dell’Eurabia: i musulmani infatti resteranno una minoranza del 10% nel vecchio continente, che però perderà il primato numerico dei cristiani nel mondo, passando dal 26 al 16%, a tutto vantaggio dell’Africa che salirà di 10 punti dal 19 al 29%. In leggero calo l’America Latina dal 24 al 22%; in lieve aumento l’Asia dal 17 al 20% (Radio Vaticana, 9 aprile).


(elaborazione Sole 24 ore)

I cristiani nel mondo
Nel complesso nel 2050 si prevede che il 60% della cristianità vivrà in America Latina, Caraibi e Africa. Mentre i cristiani europei e nordamericani saranno il 25 % del totale. Si tratta di una “migrazione” della presenza e del peso dei credenti in Cristo già iniziata da circa un secolo, che viene però non solo confermata, ma anche irrobustita col passare del tempo. Nel complesso tra 35 anni il rapporto percentuale tra cristiani e non cristiani sul pianeta appare destinato a restare stabile (Avvenire, 9 aprile).

Che cosa accadrà dunque al cristianesimo nei prossimi 35 anni? È quanto cerca di prevedere anche un recente studio dal titolo: «Lo status del cristianesimo globale» (The Status of Global Christianity) realizzato da George Weigel, senior fellow alla Ethics and Public Policy Center di Washington, e pubblicato dall’International Bulletin of Missionary Research. La ricerca riguarda una linea temporale che si estende dal 1900 al 2050 e fa delle proiezioni relative ai cristiani attraverso le prossime generazioni.

(elaborazione Avvenire)

Weigel ha incentrato i suoi studi su tre grandi gruppi: i cristiani in Africa, i cristiani delle grandi città e i cosiddetti “carismatici”, che fanno riferimento a comunità di ispirazione cristiana nate dall’ispirazione di leader carismatici. Secondo lo studioso, entro il 2050 ci saranno in Africa tanti cristiani quanti ce ne sono in America latina e in Europa messe insieme, per un totale di 1,2 miliardi di persone. I dati evidenziano che l’Africa nel secolo scorso ha registrato una crescita di cristiani esponenziale. Per i cristiani che vivono nelle aree urbane si prevede invece un calo del 6 per cento entro il 2050, attestandosi al 59 per cento della popolazione. Tuttavia, il cristianesimo urbano è cresciuto in questo secolo del 65 per cento, rispetto al 29 per cento del 1900. Passando ai circa 644 milioni di cristiani pentecostali e “carismatici”, secondo la ricerca, il numero di questi fedeli dovrebbe raggiungere oltre un miliardo nel corso dei prossimi 35 anni, il che li rende uno dei gruppi in maggiore rapida crescita nel panorama religioso odierno (L’Osservatore Romano, 6 marzo).

Come sta cambiando la Chiesa globale?
A rispondere c’è lo studioso Philip Jenkins, direttore del centro di Studi delle religioni della Baylor University di Waco (Texas) «Probabilmente sta tornando a quello che era molto tempo fa. Nel Primo millennio il cristianesimo era presente in Asia ed Africa, oltre che in Europa: era una religione transcontinentale. È solo nel Medioevo che ha iniziato a identificarsi con la tradizione occidentale. Di fatto, ora sta recuperando le sue condizioni originarie, quelle che le sono familiari. Il futuro della Chiesa cattolica, in particolare, è in Africa e Asia, non c’è dubbio. E il cambiamento più radicale è in Africa: nel 1900 aveva 10 milioni di cristiani, nel 2050 saranno quasi un miliardo» (Tracce di aprile 2015).


(elaborazione Avvenire)

Cristianesimo e Islam: il 60% della popolazione mondiale
L’altro dato interessante è la quasi parità (in termini percentuali) che si raggiungerà nel 2050 tra cristiani (2,9 miliardi) e musulmani (2,8 miliardi). Insieme le due religioni rappresenteranno il 60% della popolazione mondiale. Il sorpasso invece, si legge nel report del Pew Research Center, avverrà presumibilmente nel 2070. Le ragioni del boom demografico dell’Islam si possono individuare nel più alto tasso di fertilità a livello internazionale: 3,1 figli contro i 2,7 delle donne cristiane. Per allargare il discorso alle altre religioni: gli indu mostrano 2,3 figli per ogni donna, gli ebrei 2,3 e i non credenti 1,7. Chiaramente il presupposto dell’analisi sul dato della fertilità è che i figli di famiglie cristiane abbraccino il credo di papà e mamma, tuttavia i ricercatori hanno tenuto in considerazione anche la quota di conversione per ciascuna religione (Il Sole 24 ore, 9 aprile).


(elaborazione Avvenire)
Ma in Europa prevarranno i non credenti per lo più concentrati nel Vecchio Continente. Il declino del cristianesimo (figlio anche della crisi demografica che coinvolge tutti) nella culla dell’Occidente va di pari passo con la sua secolarizzazione.

sources: ALETEIA
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in memoria di Eduardo Galeano

 

 

 

È morto lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano

Lo scrittore Eduardo Galeano a Montevideo, in Uruguay, nel 2010. - Ricardo Ceppi, Corbis/Contrasto
 lo scrittore Eduardo Galeano a Montevideo, in Uruguay, nel 2010. Ricardo Ceppi

lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano è morto a 74 anni a Montevideo. Era stato ricoverato in ospedale il 10 aprile per le conseguenze di un cancro ai polmoni. Galeano era nato a Montevideo il 3 settembre 1940 ed era giornalista, scrittore e saggista.

Dalla pubblicazione nel 1971 del romanzo Le vene aperte dell’America Latina, Galeano è diventato un punto di riferimento della letteratura di denuncia sudamericana. Le sue opere sono state pubblicate in una ventina di lingue. Prima di diventare uno dei più importanti intellettuali di sinistra dell’America Latina, Galeano aveva lavorato come operaio, disegnatore, imbianchino, postino, dattilografo e cassiere.

Quando i militari presero il potere con un colpo di stato in Uruguay nel 1973, Galeano fu messo in carcere e poi fuggì in Argentina. Quando il generale Jorge Rafael Videla salì al potere in Argentina, il suo nome fu aggiunto alla lista delle persone condannate dagli squadroni della morte e lui fuggì in Spagna. Tornò a Montevideo all’inizio del 1985.

di seguito l’ultimo articolo che Galeano ha scritto per ‘il manifesto’ :

l’impero del consumo

Società dei consumi. La bocca è una delle porte dell’anima, dicevano gli antichi. Ma se da lì passa solo cibo spazzatura, la vita è ridotta a un insieme infinito di acquisti di merci usa e getta. E lo struscio domenicale nel centro delle città è sostituito dal pellegrinaggio negli shopping mall che accerchiano le periferie

performance contro il consumismo a Natal, capitale del Rio Grande do Norte in Brasile

L’esplosione del con­sumo nel mondo di oggi fa più rumore della guerra e più bac­cano del car­ne­vale. Come dice un antico pro­ver­bio turco, chi beve a cre­dito si ubriaca due volte. La bisboc­cia ottunde e obnu­bila lo sguardo; e quest’enorme sbronza uni­ver­sale sem­bra non cono­scere limiti di spa­zio e di tempo. Ma la cul­tura del con­sumo risuona molto, come il tam­buro, per­ché è vuota; all’ora della verità, quando gli stre­piti si cal­mano e la festa fini­sce, l’ubriaco di sve­glia solo, con l’unica com­pa­gnia della sua ombra e dei piatti rotti che dovrà pagare. L’espandersi della domanda cozza con i limiti impo­sti dallo stesso sistema che la genera. Il sistema ha biso­gno di mer­cati sem­pre più aperti e ampi, come i pol­moni hanno biso­gno dell’aria, e al tempo stesso ha biso­gno che si ridu­cano sem­pre più, come in effetti accade, i prezzi delle mate­rie prime e il costo della forza lavoro umana. Il sistema parla in nome di tutti, a tutti dà l’imperioso ordine di con­su­mare, fra tutti dif­fonde la feb­bre degli acqui­sti; ma niente da fare: per quasi tutti quest’avventura ini­zia e fini­sce davanti allo schermo del tele­vi­sore. La mag­gio­ranza, che fa debiti per otte­nere delle cose, fini­sce per avere solo più debiti, con­tratti per pagare debiti che ne pro­du­cono altri, e si limita a con­su­mare fan­ta­sie che tal­volta poi diven­tano realtà con il ricorso ad atti­vità delittuose.

Il diritto allo spreco, pri­vi­le­gio di pochi, pro­clama di essere la libertà per tutti. Dimmi quanto con­sumi e ti dirò quando vali. Que­sta civiltà non lascia dor­mire i fiori, le gal­line, la gente. Nelle serre, i fiori sono sot­to­po­sti a illu­mi­na­zione con­ti­nua, per­ché cre­scano più velo­ce­mente. E la notte è proi­bita anche alle gal­line, nelle fab­bri­che di uova.

È un modo di vivere che non è buono per le per­sone, ma è ottimo per l’industria far­ma­ceu­tica. Gli Stati Uniti con­su­mano la metà dei seda­tivi, degli ansio­li­tici e delle altre dro­ghe chi­mi­che ven­dute legal­mente nel mondo, e oltre la metà delle dro­ghe proi­bite, quelle ven­dute ille­gal­mente. Non è cosa di poco conto, visto che gli sta­tu­ni­tensi sono appena il 5% della popo­la­zione mondiale.

«Gente infe­lice, che vive in com­pe­ti­zione», dice una donna nel bar­rio del Buceo, a Mon­te­vi­deo. Il dolore di non essere, un tempo can­tato nel tango, ha ceduto il posto alla ver­go­gna di non avere. Un uomo povero è un pover’uomo. «quando non hai niente pensi di non valere niente», dice un tipo nel bar­rio Villa Fio­rito, a Bue­nos Aires. Con­fer­mano altri, nella città domi­ni­cana di San Fran­ci­sco de Maco­rís: «I miei fra­telli lavo­rano per le mar­che. Vivono com­prando cose fir­mate, e but­tano san­gue per pagare le rate».

Invi­si­bile vio­lenza del mer­cato: la diver­sità è nemica del pro­fitto, e l’uniformità comanda. La pro­du­zione in serie, su scala gigan­te­sca, impone ovun­que i pro­pri obbli­ga­tori modelli di con­sumo. La dit­ta­tura dell’uniformizzazione è più deva­stante di qua­lun­que dit­ta­tura del par­tito unico: impone, nel mondo intero, un modo di vita che fa degli esseri umani foto­co­pie del con­su­ma­tore esemplare.

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La dit­ta­tura del sapore unico

Il con­su­ma­tore esem­plare è l’uomo tran­quillo. Que­sta civiltà, che con­fonde la quan­tità con la qua­lità, con­fonde la gras­sezza con la buona ali­men­ta­zione. Secondo la rivi­sta scien­ti­fica «The Lan­cet», negli ultimi dieci anni l’«obesità severa» è cre­sciuta di quasi il 30% fra la popo­la­zione gio­vane dei paesi più svi­lup­pati. Fra i bam­bini nor­da­me­ri­cani, negli ultimi 16 anni l’obesità è cre­sciuta del 40%, secondo uno stu­dio recente del Cen­tro scienze della salute presso l’università di Colo­rado. Il paese che ha inven­tato i cibi e le bevande light, il diet food e gli ali­menti fat free, ha la mag­gior quan­tità di grassi del mondo. Il con­su­ma­tore esem­plare scende dall’automobile solo per lavo­rare e guar­dare la tivù. Quat­tro ore al giorno le passa davanti allo schermo, divo­rando cibi di plastica.

Trionfa la spaz­za­tura tra­ve­stita da cibo: quest’industria sta con­qui­stando i palati del mondo e fa a pezzi le tra­di­zioni culi­na­rie locali. Le buone anti­che abi­tu­dini a tavola, che si sono raf­fi­nate e diver­si­fi­cate magari in migliaia di anni, sono un patri­mo­nio col­let­tivo acces­si­bile a tutti e non solo alle mense dei ric­chi. Que­ste tra­di­zioni, que­sti segni di iden­tità cul­tu­rale, que­ste feste della vita, ven­gono schiac­ciate dall’imposizione del sapere chi­mico e unico: la glo­ba­liz­za­zione degli ham­bur­ger, la dit­ta­tura del fast-food. La pla­sti­fi­ca­zione del cibo su scala mon­diale, opera di McDonald’s, Bur­ger King e altre catene, viola con suc­cesso il diritto all’autodeterminazione dei popoli in cucina: un diritto sacro, per­ché la bocca è una delle porte dell’anima.

Il cam­pio­nato mon­diale di cal­cio del 1998 ci ha con­fer­mato, fra l’altro, che la Master­Card toni­fica i muscoli, la Coca-Cola porta l’eterna gio­vi­nezza e che il menù di McDonald’s non può man­care nella pan­cia di un buon atleta. L’immenso eser­cito di McDonald’s spara ham­bur­ger nella bocca di bam­bini e adulti del mondo intero. Il dop­pio arco di que­sta M è ser­vito da stan­dard, nella recente con­qui­sta dei paesi dell’Europa dell’Est. Le code davanti alla McDonald’s di Mosca, inau­gu­rata in pompa magna nel 1990, hanno sim­bo­leg­giato la vit­to­ria dell’Occidente con altret­tanta elo­quenza della demo­li­zione del Muro di Ber­lino. Segno dei tempi: quest’azienda, che incarna le virtù del mondo libero, nega ai suoi dipen­denti la libertà di orga­niz­zarsi in sin­da­cato. McDonald’s viola in tal modo un diritto legal­mente rico­no­sciuto nei molti paesi nei quali opera. Nel 1997, alcuni suoi lavo­ra­tori, mem­bri di quella che l’azienda chiama la Mac­fa­mi­glia, cer­ca­rono di sin­da­ca­liz­zarsi in un risto­rante di Mon­treal in Canada: il risto­rante chiuse. Ma nel 1998, altri dipen­denti di McDonald’s in una pic­cola città presso Van­cou­ver, riu­sci­rono nell’impresa, degna del Guin­ness dei primati.

Gli uni­ver­sali della pubblicità

Le masse con­su­ma­trici rice­vono ordini in un lin­guag­gio uni­ver­sale: la pub­bli­cità è riu­scita là dove l’esperanto ha fal­lito. Tutti capi­scono, ovun­que, i mes­saggi tra­smessi dalla tivù. Nell’ultimo quarto di secolo, gra­zie al fatto che nel mondo le spese per la pub­bli­cità si sono decu­pli­cate, i bam­bini poveri bevono sem­pre più Coca-Cola e sem­pre meno latte, e il tempo prima dedi­cato all’ozio sta diven­tando tempo di con­sumo obbli­ga­to­rio. Tempo libero, tempo pri­gio­niero: le case molto povere non hanno letti, ma hanno il tele­vi­sore, ed è que­sto a det­tar legge. Com­prato a rate, que­sto pic­colo ani­male prova la voca­zione demo­cra­tica del pro­gresso: non ascolta nes­suno, ma parla per tutti. Poveri e ric­chi cono­scono, in tal modo, le virtù dell’ultimo modello di auto­mo­bili, e poveri e ric­chi si infor­mano sui van­tag­giosi tassi di inte­ressi offerti da que­sta o quella banca.

Gli esperti sanno con­ver­tire le merci in stru­menti magici con­tro la soli­tu­dine. Le cose hanno attri­buti umani: acca­rez­zano, accom­pa­gnano, capi­scono, aiu­tano, il pro­fumo ti bacia e l’auto è un amico che non tra­di­sce mai. La cul­tura del con­sumo ha fatto della soli­tu­dine il più lucroso dei mer­cati. Le ferite del cuore si risa­nano riem­pien­dole di cose, o sognando di farlo. E le cose non pos­sono solo abbrac­ciare: pos­sono anche essere sim­boli di ascesa sociale, sal­va­con­dotti per attra­ver­sare le dogane della società clas­si­sta, chiavi che aprono le porte proibite.

Quanto più sono esclu­sive, tanto meglio è: le cose esclu­sive ti scel­gono e ti sal­vano dall’anonimato della folla. La pub­bli­cità non ci informa sul pro­dotto che vende, o lo fa poche volte. Quello è il meno. La sua fun­zione prin­ci­pale con­si­ste nel com­pen­sare fru­stra­zioni e ali­men­tare fan­ta­sie: in chi ti vuoi tra­sfor­mare com­prando que­sta crema da barba?

Il cri­mi­no­logo Anthony Platt ha osser­vato che i delitti nelle strade non sono solo frutto della povertà estrema, ma anche dell’etica indi­vi­dua­li­sta. L’ossessione sociale del suc­cesso, dice Platt, incide in modo deci­sivo sull’appropriazione ille­gale delle cose altrui. Ho sem­pre sen­tito dire che il denaro non fa la feli­cità; ma qua­lun­que tele­di­pen­dente ha motivo di cre­dere che il denaro pro­duca qual­cosa di tanto simile alla feli­cità, che fare la dif­fe­renza è cosa da spe­cia­li­sti.
Secondo lo sto­rico Eric Hob­sbawm, il XX secolo ha messo fine a set­te­mila anni di vita umana cen­trata sull’agricoltura , da quando nel paleo­li­tico appar­vero le prime forme di col­ti­va­zione. La popo­la­zione mon­diale si con­cen­tra nelle città, i con­ta­dini diven­tano cit­ta­dini. In Ame­rica latina abbiamo campi senza per­sone ed enormi for­mi­cai umani urbani: le più grandi città del mondo, e le più ingiu­ste. Espulsi dalla moderna agri­col­tura per l’export, e dal degrado dei suoli, i con­ta­dini inva­dono le peri­fe­rie. Cre­dono che Dio sia ovun­que, ma per espe­rienza sanno che abita nei grandi cen­tri. Le città pro­met­tono lavoro, pro­spe­rità, un avve­nire per i loro figli. Nei campi, si guarda la vita pas­sare e si muore sba­di­gliando; nelle città la vita scorre, e chiama. Poi, la prima cosa che i nuovi arri­vati sco­prono, ammuc­chiati nelle cata­pec­chie, è che manca il lavoro e le brac­cia sono troppe, che niente è gra­tis e che gli arti­coli di lusso più cari sono l’aria e il silenzio.

Agli inizi del secolo XIV, frate Gior­dano da Rivalta pro­nun­ciò a Firenze un elo­gio delle città. Disse che cre­sce­vano «per­ché le per­sone amano stare insieme». Stare insieme, incon­trarsi. Ma adesso, chi si incon­tra con chi? E la spe­ranza, si incon­tra con la realtà? Il desi­de­rio, si incon­tra con il mondo? E la gente, si incon­tra con la gente? Se i rap­porti umani si sono ridotti a rap­porti fra le cose, quanta gente si incon­tra con le cose?

La mino­ranza compradora

Il mondo intero tende a diven­tare un grande schermo tele­vi­sivo, dal quale le cose si guar­dano ma non si toc­cano. Le mer­can­zie in offerta inva­dono e pri­va­tiz­zano gli spazi pub­blici. Le sta­zioni di pull­man e treni, che fino a poco tempo fa erano spazi di incon­tro fra le per­sone, si stanno tra­sfor­mando in spazi commerciali.

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Lo shop­ping cen­ter, o shop­ping mall, vetrina di tutte le vetrine, impone la sua abba­gliante pre­senza. Le masse accor­rono, in pel­le­gri­nag­gio, a que­sto grande tem­pio della messa del con­sumo. La mag­gio­ranza dei devoti con­tem­pla, in estasi, oggetti che il por­ta­fo­glio non può pagare, men­tre la mino­ranza com­pra­dora risponde al bom­bar­da­mento inces­sante ed este­nuante dell’offerta. La folla che sale e scende dalle scale mobili viag­gia nel mondo: i mani­chini sono vestiti come a Milano o Parigi e le auto­mo­bili hanno lo stesso suono che a Chi­cago, e per vedere e ascol­tare non occorre pagare il biglietto. I turi­sti che ven­gono dai vil­laggi dell’interno, o dalle città che non hanno ancora meri­tato que­ste bene­di­zioni della moderna feli­cità, posano per una foto, davanti alle mar­che inter­na­zio­nali più famose, come un tempo posa­vano ai piedi della sta­tua a cavallo nella piazza. Bea­triz Solano ha osser­vato che gli abi­tanti delle peri­fe­rie vanno allo shop­ping cen­ter come prima anda­vano in cen­tro. Il tra­di­zio­nale stru­scio di fine set­ti­mana al cen­tro della città tende a essere sosti­tuito dalle escur­sioni a que­sti cen­tri. Lavati e pet­ti­nati, con indosso gli abiti migliori, i visi­ta­tori ven­gono a una festa dove non sono invi­tati, ma dove pos­sono essere spet­ta­tori. Intere fami­glie fanno il viag­gio nella navi­cella spa­ziale che per­corre l’universo del con­sumo, nel quale l’estetica del mer­cato ha dise­gnato un pae­sag­gio allu­ci­nante di modelli, mar­che ed etichette.

La cul­tura del con­sumo, cul­tura dell’effimero, con­danna tutto alla desue­tu­dine media­tica. Tutto cam­bia al ritmo ver­ti­gi­noso della moda, messa al ser­vi­zio della neces­sità di ven­dere. Le cose invec­chiano in un baleno, per essere sosti­tuite da altre che avranno una vita altret­tanto fugace. L’unica cosa che per­mane è l’insicurezza; le merci, fab­bri­cate per­ché durino poco, sono vola­tili quanto il capi­tale che le finan­zia e il lavoro che le pro­duce. Il denaro vola alla velo­cità della luce; ieri era là, adesso è qua, domani chissà, e ogni lavo­ra­tore è un poten­ziale disoc­cu­pato. Para­dos­sal­mente, gli shop­ping cen­ters, sovrani della fuga­cità, offrono l’illusione di sicu­rezza più effi­cace. Resi­stono infatti fuori dal tempo, senza età né radici, senza notte né giorno né memo­ria, ed esi­stono fuori dallo spa­zio, al di là delle tur­bo­lenze della peri­gliosa realtà del mondo.

I nuovi idoli

I padroni del mondo lo usano come se fosse un usa e getta: una merce dalla vita effi­mera, che si esau­ri­sce come si esau­ri­scono, quasi appena nate, le imma­gini spa­rate dalla mitra­glia­trice della tivù e le mode e gli idoli che la pub­bli­cità lan­cia inces­san­te­mente sul mer­cato. Ma in quale altro mondo potremmo andare? Siamo tutti obbli­gati a cre­dere che Dio abbia ven­duto il pia­neta a un certo numero di imprese, per­ché essendo di cat­tivo umano ha deciso di pri­va­tiz­zare l’universo?

La società dei con­sumi è una trap­pola esplo­siva. Chi ne ha le redini fa finta di igno­rarlo, ma chiun­que abbia gli occhi può vedere che la grande mag­gio­ranza delle per­sone con­suma poco, poco o niente neces­sa­ria­mente, così da garan­tire l’esistenza della poca natura che ci rimane. L’ingiustizia sociale non è con­si­de­rata un errore da cor­reg­gere, né un difetto da supe­rare: è una neces­sità essen­ziale. Non c’è natura capace di ali­men­tare uno shop­ping cen­ter delle dimen­sioni del pianeta.

* tratto dal sito www​.apor​rea​.org
  trad. di Mari­nella Correggia

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ancora sgomberi per i rom di Pisa

 

 

tra diritto all’abitare e sgomberi: famiglie Rom di Putigliano, vivono in terreni regolarmente acquistati e chiedono una soluzione

rom di putigliano.si è tenuta in Logge di Banchi (davanti al Comune di Pisa) la conferenza stampa di alcune famiglie rom residenti a Putignano, colpite dai recenti provvedimenti di sgombero e di sequestro dei terreni, hanno partecipato oltre ai capofamiglia anche alcuni residenti di Putignano e i volontari dell’Associazione Africa Insieme

 

rom putigliano«Chiediamo di poter vivere in pace, di avere un posto dove dormire e di mandare i nostri figli a scuola». Comincia così, con questo appello lanciato da un capofamiglia, la conferenza stampa convocata da alcuni nuclei rom insediati a Putignano. Gianni – così si fa chiamare l’uomo, nato in Italia da genitori bosniaci – si rivolge al Sindaco: «abbiamo avuto un ordine di sgombero, e non sappiamo dove andare».
rom putigliano2La storia dei rom di Putignano è molto diversa rispetto ad altre: queste famiglie non abitano in campi “abusivi” ma in terreni regolarmente acquistati, e dunque di loro proprietà. «Abbiamo cercato una casa in affitto», spiega Gianni, «e per un certo periodo siamo stati anche aiutati dal Comune con “Città Sottili” [il programma di accoglienza varato nel 2002 e chiuso nel 2009, ndr.]. Purtroppo, per una famiglia rom è impossibile trovare casa: quando sentono che sei zingaro, i proprietari dicono sempre di no…».

rom putigliano5Impossibilitati a trovare un alloggio, i rom si sono decisi ad acquistare un terreno: «sono titolare di una piccola impresa individuale», spiega ancora Gianni, «non sono mai stato ricco, ma avevo qualche risparmio e ho pensato di investirlo per dare un tetto ai miei figli». Il problema è che i terreni erano  a destinazione agricola, e la legge urbanistica vieta qualunque insediamento abitativo in aree agricole. Così, gli uffici del Comune hanno avviato una procedura per la confisca dei terreni e lo sgombero. «Se questa è la legge», dice ancora Gianni, «è giusto applicarla. Ciò che chiediamo è di avere un posto dove dormire: il Comune ci dia un’alternativa».

«Si tratta di un problema nazionale», spiegano i volontari di Africa Insieme e gli attivisti del Progetto Rebeldia, intervenuti nella conferenza stampa a sostegno delle famiglie. «Ovunque in Italia, per uscire dai campi, i rom hanno acquistato terreni agricoli. E ovunque hanno ricevuto ordini di sgombero». Eppure, dicono gli attivisti, altrove si sono trovate soluzioni alternative.

rom putigliano,«Ci sono esperienze importanti a Trento, Bologna o Modena, solo per fare degli esempi», spiega Sergio Bontempelli, presidente di Africa Insieme. «In queste città i Comuni hanno allestito direttamente le micro-aree e le hanno assegnate ai rom in cambio di un affitto. Sono progetti che costano poco e risolvono il problema».Alla conferenza stampa sono intervenuti alcuni residenti di Putignano, i “vicini di casa” dei rom. «Non c’è un problema di convivenza con queste famiglie», ha spiegato Clelia Bargagli, «i loro figli vanno a scuola con i nostri, e ci conosciamo ormai da molti anni». La richiesta di una soluzione abitativa è condivisa anche da molti residenti: «le leggi vanno applicate», dice ancora Clelia Bargagli, «ma vanno applicate tutte: anche quelle che garantiscono il diritto all’abitare».

A sostegno delle famiglie rom è arrivata anche la voce di Ciccio Auletta, consigliere di Una Città in Comune, che porterà la questione all’attenzione del Consiglio Comunale.
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la difficile vita da zingari …

 

il cattivissimo Salvini! ma … e i ‘buoni’?

lo sappiamo e siamo tutti d’accordo che Salvini è il più cattivo, il cattivissimo nei confronti del popolo rom: non teme di usare perfino parole borden-line come ‘demolire’ e ‘radere al suolo i campi rom’ ammiccando ad una possibile ‘soluzione’ del ‘problema’, anzi dell’emergenza delinquenziale (che altri, meno furbi di lui hanno espresso più chiaramente nei social media invocando la necessità di portare a compimento ciò che in orrendi ‘campi’ di concentramento non è stato fatto in ‘risolutivo’), aggiungendo solo in un secondo tempo che tale operazione andava fatta ‘ovviamente’ solo dopo che i campi fossero svuotati: ma intanto chi doveva capire ha raccolto l’ammiccamento … non molto tempo fa frasi simili le ha pronunciate anche nei confronti degli immigrati che su barconi del tutto improbabili si dibattevano disperatamente tra i flutti in alto mare … dunque lo sappiamo: Salvini è cattivo e basta!
salvini
Ma i buoni?  dove sono i ‘buoni’? cosa fanno i nostri bravi amministratori e politici e parroci e fedeli che riempiono le chiese per pasqua e gli animatori e i programmatori di una vita alternativa per loro e sulle loro teste … ?
Sembra ormai generalizzato l’atteggiamento di amministratori, anche di sinistra, anzi soprattutto di sinistra, di contrattare un posto nel campo o l’erogazione della luce o dell’acqua con il rispetto di norme di regolamenti scritti spesso senza la minima conoscenza di quelle dinamiche quotidiane di vita che solo a chi ha con loro una lunghissima frequentazione e amicizia sono note. A volte viene perfino spontaneo dire: “almeno Salvini parla chiaro dicendo semplicemente quello che pensa!” Quanti amministratori o persone che intendono ‘occuparsi’ di loro per risolvere il ‘problema’ che loro sono a se stessi e alla convivenza ‘civile’ fingono di scandalizzarsi alle sue parole ma di fatto quotidianamente si comportano in ugual modo? Si faccia una prova, si entri in qualsiasi campo o struttura abitativa costruita ‘per loro’ secondo i nostri gusti e criteri, e si interroghi i rom che si incontrano: avremmo risposte di questo tenore appena raccolte nel campo rom di Coltano – Pisa – (Pisa il cui sindaco è stato strombazzato come il migliore ‘risolutore’ del ‘problema’ rom in ambito regionale e nazionale!):

 

 rottamazione rom
un libero scambio di battute tra Rom  

Cosa ne sa la gente italiana della nostra vita? Ho paura che per noi è ormai finita. Sai che novità quella di Salvini? Perchè quando sgomberavano i campi di Rom,chi si scandalizzava? Perchè forse lo facevano senza le ruspe, con dolcezza? Lo hanno sempre fatto tutti: destra o sinistra che differenza fa? Tutti si riempiono la bocca di integrazione, bello ma quello che sanno fare è renderti la vita impossibile. Ad esempio quelli del Comune parlano di integrazione, ma ci disprezzano e non lo nascondono neanche.

Ci tolgono i documenti anche senza motivo, ad esempio rinnovare un Permesso di Soggiorno qui a Pisa dobbiamo aspettare non 30 giorni, ma sette, otto mesi e non ti dicono neanche il motivo.

E senza permesso di soggiorno non puoi fare niente, vivi una vita sospesa e speri che qualcuno abbia un pochino di comprensione e compassione. Ma non è più come prima.
 
Figurati trovare un lavoro per un Rom. La gente ti guarda sempre male, con sospetto anche quando sei a fare la spesa con i tuoi bambini, anche a scuola i nostri figli sono spesso disprezzati e visti con diffidenza.
Chi ti aiuta oggi? Quando arriva un finanziamento dalla Regione per noi Rom, si inventano cose perchè i soldi se li prendono solo i gage..sulla nostra pelle e convinti di farlo per il nostro bene. E’ assurdo e noi facciamo la fame..la nostra vita continua ad essere “rasa al suolo”, con o senza Salvini!
rom Torre del Lago
credo di poter dire che non basta essere animati da buoni propositi perché ogni modalità di relazione nei confronti dei rom e ogni opera che viene realizzata per risolvere ‘il loro problema’ sia considerata giusta, adeguata, rispettosa … una bella vignetta di Snoopy dice giustamente che al mondo “nessuno ha fatto più danni di quelli che credevano di fare bene!”
mi piace riportare qui sotto un documentino che ho firmato con alcuni amici che da tanti anni conoscono non dal di fuori il popolo rom ma, per così dire, ‘dal di dentro’, sia per un lunghissimo rapporto di amicizia che da trenta o quarant’anni realizzano quotidianamente con esso, sia perché ne condividono concretamente la vita abitando fisicamente con loro, condividendo con loro la difficile quotidianità della marginalità, delle ingiustizie e spesso delle violenze che questo popolo ogni giorno subisce … e non solo da Salvini!

credere di far bene

 

 

 

VITA DA ZINGARI (VISTA DA NOI) E LA VITA VISTA DAI ROM..PUNTI DI VISTA DIVERSI!

 

Siamo un piccolo gruppo sorto grazie ai Rom e ai Sinti,  ognuno di noi vive in forme e tempi diversi il proprio rapporto con loro, ma è certo che loro sono il collante del nostro gruppo, in un certo senso anche la fonte dell’amicizia che ci unisce.

Il gruppo è sorto spontaneamente e  ha come unica caratteristica l’amicizia con i rom e le loro famiglie, molte di queste vivono in campi, altre vivono in case o in insediamenti “abusivi”. Un’amicizia di lunga data, non mediata da progetti, e di questo ne andiamo anche un po’ fieri.

Non siamo un’Associazione, una ONG e tantomeno un gruppo di volontari con lo scopo di risolvere o alleviare le difficoltà dei Rom o quello di proporre possibili soluzioni al “problema Rom”.  Ognuno di noi vive la sua vicinanza con i Sinti e Rom, chi per ragioni della propria fede e appartenenza a vario titolo alla Chiesa, chi per senso di umanità verso questa gente e  ha arricchito la nostra stessa fede e la nostra vita.

Vorremmo fare alcune nostre libere e spontanee considerazioni, anche come reazione all’articolo pubblicato su Mosaico di Pace di Ottobre, dal titolo: “Vita da zingari”, firmato da Cristina Mattiello.

  1. E’ certo che il primo atteggiamento a chi si interessa a vario titolo dei Rom e della loro vita,  è la conoscenza di questi mondi variegati e diversi tra di loro, ma anche la stima nei confronti dei Rom stessi. Spesso questo atteggiamento  in tanti operatori, lo si da per scontato, ma dalla nostra esperienza constatiamo in tanti di loro diffidenza, pregiudizio e sospetto. Quindi è facile constatare che il tentativo di “risolvere il problema Rom”, fin dall’inizio parta con il piede sbagliato, per poi finire proprio con il peggiorare ulteriormente la loro già fragile esistenza.

Senza stima non si costruisce niente, anche se si ha tra le mani il miglior Progetto.

 

  1. Ogni popolo, compreso quello dei Rom e Sinti, ha il diritto della propria auto-determinazione. Perché  lo riconosciamo quasi automaticamente a tanti popoli, invece per i Rom questo non avviene? Da decenni ormai sono continuamente assaliti da assistenti, operatori, Associazioni, Cooperative di vario genere.. Quanti Progetti di ogni tipo, abbiamo visto scorrere sulle loro teste, quante soluzioni si sono accavallate sulle loro vite, per poi rivelarsi fallimentari e quasi sempre incolpare i Rom del loro insuccesso. Le soluzioni che in questi decenni sono state proposte, non hanno fatto altro che incancrenire il problema.

La loro auto-determinazione, spesso viene sacrificata in nome di un bene stabilito da altri, al di fuori del loro mondo, o per lo meno non sufficientemente conosciuto e quasi sempre (ieri come oggi) senza una loro reale partecipazione e coinvolgimento. A loro in genere spetta adeguarsi al “benefattore/salvatore” di turno. E’ uno dei tanti luoghi comuni, tra i più diffusi anche tra coloro che si occupano di Rom, quello di credere che loro hanno bisogno di qualcuno che decida al posto dei Rom, nel bene e nel male.

C’è sempre qualcuno pronto a suggerire come organizzare la loro vita: che la lavatrice non va messa in quel posto, che i bambini devono vestire in altro modo, chi devono frequentane e chi no, chi può e non può venire a visitarli, che la casa è la soluzione del problema Rom, che i Rom non sono più nomadi, che i campi devono essere superati, che non devono andare più ad accattonare perché non è dignitoso, che non bisogna accendere più fuochi all’aperto, che bisogna stare nello spazio assegnato, che l’integrazione è fare questo e non quello, che le regole bisogna rispettarle sempre, anche quando sono state sottoscritte sotto forma di ricatto o per incutere paura o semplicemente pensate e scritte in qualche ufficio “competente”, ma quasi mai stipulate ufficialmente, nel rispetto di regole democratiche, con le parti interessate: alla pari!

Noi con le nostre Associazioni, con le più fantasiose politiche sociali studiate ad hoc.. pensiamo di dover essere noi a trovare per loro le soluzioni, con convegni nazionali/internazionali, dibattiti, seminari, studi.. i Rom invece decidono della loro vita attorno ad un fuoco o bevendo insieme una tazza di caffè, consultandosi tra di loro. Luoghi e tempi diversissimi e distanti tra loro. I nostri a lunga programmazione, i loro invece, hanno il respiro breve, perche seguono quelli della loro esistenza, fatta di sensazioni, possibilità da cogliere al volo, clima che si respira in un dato momento, paure.. I nostri luoghi cercano la visibilità, i loro invece sono più nascosti, lontani dai centri di decisione, seguono altre mappe, altri canali, ma sono il cammino che loro seguono perché fiutano la vita.

  1. Rimanere in balia di chi ha un potere più alto del loro, di chi ha la possibilità e la capacità di accedere a finanziamenti destinati ai Rom, ma che mai un Rom potrà intascare o gestire, perché questo toccherà sempre ad altri: incaricati a gestire al posto loro.  Sembra proprio essere la  condizione di vita dei Rom e Sinti, ieri come oggi.

Progetti pensati da altri. E i fatti recenti di Roma vanno proprio in questa direzione..solo Roma?                   Quasi sempre,  questi Progetti (finanziati) presentati dalle Amministrazioni locali e Associazioni, hanno come una delle finalità la volontà di disgregare le comunità Rom, che è un modo per cercare di cancellarli.

Oggi il diritto di parola è accordato a chi propone soluzioni, possibilmente quelle a noi congeniali. E’ il tempo della “politica del fare”, ed  è uno dei rischi che vediamo diffondersi:  basta perdere tempo con tentennamenti e analisi sociologiche e antropologiche, che portano a nessun risultato, “vogliamo risultati e alla svelta, basta attendere”. Ora bisogna indicare soluzioni, percorsi chiari e risolutivi, perché i Rom devono finalmente integrarsi, altrimenti non ci può essere futuro per loro”.

Ma quale futuro? Il loro o il nostro futuro?

  1. Anche oggi chi si occupa dei Rom (del resto come ieri), non fa altro che parlare di casa, che bisogna guardare oltre i campi, che l’Italia è il paese dei campi, l’unico in Europa, che è poi una bugia perché di campi Rom e Sinti ce ne sono un po’ ovunque nei paesi Europei: Inghilterra, Francia, Irlanda, Spagna..di simili ai nostri, altri strutturati diversamente, ma pur sempre campi. Basta fare una semplice ricerca in Internet con Google per scoprire l’esistenza di campi un po’ ovunque.

Campi = ghetti sembra una equazione scontata. Ne siamo sicuri? Il campo è solo e sempre ghetto?

Spesso parlando dei campi “nostrani” si dice che bisogna chiuderli perché sono dei ghetti, in quanto non aiutano l’integrazione, perché si trovano in posti isolati, lontani dalle città e dai servizi..e c’è anche del vero in questo. Ma, si dà per scontata, come unica alternativa possibile al campo-ghetto,  sempre e solo la casa. Per noi è invece è una soluzione semplicistica e miope.     Nei loro paesi di origine, lo si sente dire spesso da chi sostiene la casa come unica “soluzione”, i Rom vivevano e vivono in case e non nei campi. Ma vivono tutt’ora in autentici quartieri ghetto scomodi e spesso distanti dai centri, più o meno come i nostri campi.

Il campo è anche lo spazio della sopravvivenza per tanti Rom,  ma è anche quello della relazione, è il respiro che permette a tanti di loro di vivere e di affrontare la vita. Ovunque i Rom cercano e si costruiscono uno “spazio a loro misura” dove poter vivere..è questo che molti Rom cercano, sia qui da noi, come nei loro paesi di origine:  in quartieri ghetto o nei campi Rom in  Italia o in altri paesi Europei.

I quartieri di Rom della ex Jugoslavia o dei Balcani, fatti prevalentemente di case, alloggi  e baracche non sono poi tanto diversi dallo “spirito” dei campi Rom, rispecchiano lo stesso modo di vivere lo spazio, che è diverso dal nostro, è un modo di stare insieme. In effetti i campi, con tutti i loro limiti che ben conosciamo, riproduce questo “stile di stare insieme”, che la nostra società ormai ha perso da tempo e che spesso giudica negativamente o frettolosamente e lo rimuove e colpevolizza.

I campi sono, con tanti limiti e le loro contraddizioni, lo spazio condiviso, spazi nei quali la relazione costituisce il soggetto e l’arricchisce.  La nostra società (quella Occidentale in genere), invece tende a isolare, la persona viene percepita come separata, appartata..”appartamento” appunto!

Ridateci per cortesia il campo di prima, almeno c’era più vita, in questo villaggio (nuovo) la gente non si parla più, è un casino!”

Con ciò non vogliamo negare o nascondere che spesso i campi di oggi stanno diventando invivibili anche per gli stessi abitanti e bisognerebbe analizzare con saggezza e ponderazione le cause. E una di queste, per noi è riconducibile anche all’intervento delle politiche sociali, che spesso rischiano di peggiorare di molto il tessuto già fragile delle stesse comunità Rom.  La domanda che noi ci poniamo è la seguente: perché anche lo “spazio” all’interno degli stessi campi Rom sta degenerando e i campi stanno perdendo la loro specificità?  Quanto è dipeso dalla scelta dei Rom?

  1. Politiche sociali e sicurezza.

Oggi constatiamo un po’ ovunque, che le politiche sociali hanno rinunciato alla loro tipica “missione” di ascolto e di prevenzione del disagio e di accompagnamento, preferendo di fatto allinearsi più alle politiche della sicurezza e del controllo, che dare risposte a questi disagi.  Con i Rom è quasi scontato, complice anche la politica che in questi ultimi anni non ha voluto affrontare il tema della povertà, preferendo rimuoverla e nasconderla. Spesso assecondando gli “imprenditori della paura”, diffusi in tanti settori sia della politica e della stampa. Così facendo si rischia di speculare solo sulla sicurezza e non sulle cause del disagio in sé, questo vale in particolar modo per le popolazioni Rom, ma si allarga anche sui settori deboli della nostra società: immigrati, profughi, poveri, cittadini italiani senza casa.

Ciò che notiamo da diverso tempo è una vera “assenza di cuore” nelle politiche sociali verso i deboli in genere. Il rischio è che questo vuoto oggi, come ieri è sostituito da altri interessi di varia natura, in primis quello economico, appetibile a molti, forse a troppi: sempre sulla pelle dei Rom, arrivando a constatare come anche la “politica” ruba sui Rom e sulle fasce deboli della popolazione.  Perché l’integrazione proprio perché costa, oggi è diventata una affare che fa gola a tanti.

  1. “Basta campi”.. e poi?

Oggi lo dicono tutti, in tutte le salse. Molti di questi mai hanno messo piede in un campo, mai hanno conosciuto realmente un Rom, mai hanno partecipato ad una loro festa, nemmeno ascoltato un loro desiderio o raccolto un loro timore. Basta campi è un mantra che si ripete da ogni parte..senza la minima conoscenza della realtà, oggi è di moda dirlo: “Basta campi”, che coincide, il più delle volte a: “basta Rom”.

Noi la pensiamo in maniera diversa. Innanzitutto, perché spetta a loro scegliersi il loro futuro, non noi. Tutto all’più, quello di saper accompagnare e sostenere la loro scelta, che sia la casa, un terreno, un campo o altro. Oggi quando si parla dei campi Rom si sottolineano solo gli aspetti negativi, che anche noi condividiamo, frequentandoli o vivendoci dentro li conosciamo bene, ma le analisi e le cause di tanto degrado spesso sono assenti. Perché i campi hanno subito questo degrado? E’ solo imputabile tutto ai Rom?  Senz’altro loro hanno delle colpe, ma non tutte!

I campi Rom sono anche l’unico spazio, dove i Rom si sentono “custoditi”, sostenuti ed aiutati (non dagli operatori, assistenti sociali..) da altri Rom. I campi Rom sono anche il frutto di relazione umane, di valori che aiutano le persone a guardare la vita a crescere e confrontarsi.  Cose che non sempre avvengono in un anonimo appartamento posto in un quartiere periferico della nostra città. Anzi, è più facile che un Rom si senta giudicato, additato e rifiutato, visto con sospetto e con la stessa diffidenza del Rom che vive in un campo. Spingendoli a vivere in case, in nome di una presunta integrazione,  spesso non si fa che alimentare ancora più intolleranza verso i Rom. Abbiamo visto anche il fallimento di tante famiglie Rom incentivate dai servizi sociali ad andare a vivere in case o appartamenti. E’ vero che molte famiglie Rom lo hanno scelto, e altre lo desiderano; ma è anche vero che molte non ce l’hanno fatta, andando ad accrescere le fila del disagio sociale cittadino. Stranamente all’interno di un campo Rom, non esiste il disagio sociale nelle forme tipiche di un quartiere cittadino, non c’è lo “scarto”, è più facile che questo si manifesti invece, con le nostre politiche sociali, i nostri progetti. A volte il degrado di un quartiere, può essere peggiore di quello di un campo Rom.

Il campo, con tutte le sue difficoltà, i suoi disagi, comprese le sue contraddizioni interne (che abbiamo visto aumentare  in questi ultimi anni), nonostante tutto..permette a tanti  Rom di “sentirsi accarezzati”: con i tempi che corrono non è certo poca cosa!

Meglio la “carezza di una semplice baracca” di un campo Rom, che la paura di un futuro incerto gestito da cuori anonimi e freddi. Perché la “casa” non è questione di sole mura..è anche spazio condiviso, vissuto insieme: “Per favore, ridatemi il campo di prima, quando stavamo nelle nostre povere baracche..c’era più vita.

 

don Agostino Rota Martir – Pisa

  1. Luciano Meli – Lucca

Sr. Rita Viberti – Torino

Sr. Carla Viberti – Torino

don Piero Gabella Brescia

Marcello Palagi – Massa Carrara

Franca Felici – Massa Carrara

f Flavio Gianessi – Reggio Emilia

 

27 Gennaio 2015 – Giorno della Memoria

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
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il commento al vangelo della domenica

 

 

“OTTO GIORNI DOPO VENNE GESU’ “

commento al vangelo della seconda domenica di pasqua (12 aprile 2015) di p. Alberto Maggi

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Gv 20, 19-31

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il
Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

Le prime parole che Gesù pronuncia ai suoi discepoli che si erano nascosti per paura di fare la stessa fine del loro maestro – il mandato di cattura era per tutto il gruppo di Gesù – sono: “Pace a voi”. Non sono un augurio, un invito, Gesù non dice: “La pace sia con voi”, ma sono un dono, Gesù dona loro la pace.
Nel termine “pace” viene racchiuso tutto quello che concorre alla pienezza di vita dell’uomo, in una parola alla “felicità”, quindi Gesù si presenta con il dono di una pienezza di felicità. E poi mostra loro subito il perché devono essere felici, infatti mostra le mani e il fianco, cioè mostra la permanenza dei segni dell’amore, con il quale Gesù ha dato la vita per i suoi discepoli.
Infatti al momento dell’arresto Gesù aveva detto alle guardie “Se cercate me lasciate che questi se ne vadano”. E’ il pastore che ha dato la vita per le sue pecore. Poi Gesù torna di nuovo a ripetere questo dono della pace, ma questa volta è perché la comunichino all’umanità. Infatti, dopo aver ripetuto “Pace a voi”, Gesù aggiunge: “Come il Padre ha mandato me…”, il Padre ha mandato il figlio a dimostrare un amore sino alla fine, “… così anch’io mando voi”.
Gesù invita i suoi discepoli a prolungare nel tempo l’offerta di vita di Gesù. E per questo comunica loro la sua stessa capacità d’amare, cioè comunica lo Spirito Santo. L’attività di Gesù, che in questo vangelo è stata descritta come quella dell’agnello che toglie il peccato del mondo, e toglie il peccato del mondo effondendo sulle persone lo Spirito Santo, viene prolungata dalla sua comunità.
Deve proporre e offrire ad ogni persona una pienezza di vita, una pienezza d’amore. E poi Gesù continua dicendo: “Coloro ai quali cancellerete i peccati saranno cancellati, a coloro ai quali non cancellerete, non saranno cancellati”, questo è il verbo adoperato dall’evangelista. Cosa vuol dire Gesù? Non dà un potere per alcuni, ma una capacità, una responsabilità per tutti.
La comunità deve essere come la luce che splende nelle tenebre. Quanti vivendo nelle tenebre se ne sentono attratti ed entrano a far parte del raggio d’azione di questo amore, hanno il passato completamente cancellato. Quanti invece, pur vedendo brillare questa luce, si ritraggono ancora di più nelle tenebre – Gesù l’aveva detto: “Chi fa il  male odia la luce” – rimangono sotto la cappa dei loro peccati, sotto la cappa delle tenebre di morte.
A questo incontro di Gesù con i suoi discepoli non c’era Tommaso. Come mai Tommaso era assente? I discepoli erano nascosti per paura di fare la stessa fine di Gesù. Tommaso non ha paura; Tommaso è colui che al momento della risurrezione di Lazzaro aveva detto: “andiamo anche noi a morire con lui”. Ecco perché Tommaso è chiamato “il gemello”, quello che più assomiglia a Gesù. Tommaso non è presente e quando gli dicono che Gesù è apparso, lui non esprime la sua incredulità, ma il disperato bisogno di credere.
E lo fa con quell’espressione: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi … “, è l’equivalente dell’italiano, quando di fronte ad una notizia, noi diciamo “Non ci posso credere! Non è possibile!”
Non stiamo negando il fatto, significa che è troppo bello. Otto giorni dopo, il ritmo è quello della celebrazione eucaristica. E’ nell’eucaristia che Gesù si fa presente e comunica il suo amore. Gesù si manifesta a Tommaso che si guarda bene dal mettere il dito nelle piaghe di Gesù, ma prorompe nella più alta professione di fede di tutti i vangeli.
Gesù era stato descritto dall’inizio del vangelo, come il Dio che nessuno aveva mai visto e che in lui si era manifestato. Tommaso lo comprende, si rivolge a Gesù chiamandolo “Mio Signore e mio Dio”. Il brano si conclude con una beatitudine. I credenti di tutti i tempi non sono svantaggiati nei confronti di coloro che hanno fatto quest’esperienza, ma addirittura avvantaggiati, perché hanno la beatitudine che non è stata detta per i discepoli, “Quanti crederanno senza aver bisogno di vedere”, Gesù li proclama “beati”. Quanti chiedono un segno da vedere per poter credere, Gesù li invita a credere per essere loro segno  che gli altri possono vedere. Questa è la buona notizia di Gesù che la comunità dei discepoli è chiamata a portare.

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la Norvegia chiede scusa ai rom e promette che li risarcirà

 

il primo ministro norvegese Solberg: “risarciremo i Rom”

 le scuse e le promesse della Solberg

Ieri il primo ministro norvegese Emma Solberg non solo si è scusata con la comunità Rom norvegese ma ha anche promesso un risarcimento per le discriminazioni subite prima e dopo la seconda guerra mondiale.

La Solberg senza giri di parole ha definito il trattamento riservato dalle autorità nazionali alla minoranza, in particolare durante e immediatamente dopo il secondo conflitto mondiale, un “periodo oscuro della storia del nostro paese”.

Il commento del primo ministro segue la pubblicazione di un dettagliato rapporto, commissionato dal governo di Oslo nel mese di febbraio, sulle conseguenze di un provvedimento con cui venne impedito ai cittadini Rom norvegesi di rientrare nel paese dopo i viaggi all’estero a partire dal 1930.

norvegia rom

Dal rapporto è emerso che 62 Rom norvegesi furono trucidati nei campi di concentramento del Terzo Reich a causa del mancato ingresso (secondo le ultime stime la comunità Rom norvegese, nella seconda metà degli anni ’20, contava tra i 100 e i 150 individui).

Un altro rapporto, curato dal Centro Studi sulla Shoah e sulle minoranze religiose norvegese, ha dimostrato che il governo norvegese impedì il ritorno dei Rom sopravvissuti all’olocausto anche per il decennio successivo alla fine delle ostilità.

 

Norvegia: l’autocritica di un intero paese

È ormai giunto il momento della resa dei conti morale con questo periodo oscuro della storia del nostro paese – ha detto la Solbergoggi lo stato riconosce le proprie responsabilità, gli errori commessi e l’ingiustizia che è stata fatta nei confronti dei rom norvegesi” attraverso un vera e propria “politica di esclusione razziale”.

Ci sono voluti più di vent’anni (la battaglia per il risarcimento ma soprattutto per il riconoscimento dei torti subiti è cominciata nel 1990) ma la piccola comunità Rom norvegese, che al momento conta circa 500 appartenenti, ha finalmente ottenuto giustizia.

Tuttavia, si sottolinea nel rapporto, c’è ancora molto lavoro da fare per conoscere approfonditamente le violenze subite dai Rom durante la lunga occupazione nazista del paese.

Solo due mesi fa la coalizione di centro-destra con a capo la Solberg aveva promosso un controverso progetto di legge contro l’accattonaggio che, a detta dei critici, avrebbe sortito l’effetto di criminalizzare i cittadini Rom.

Successivamente, sia il Partito Conservatore del primo ministro che il Partito del Progresso, partner di maggioranza dichiaratamente “anti-immigrazione”, hanno ritirato il proprio sostegno alla normativa.

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le parole feroci di Salvini contro i rom

la politica della ferocia

a proposito di ‘radere al suolo i campi rom’

di Michele Serra
in “la Repubblica” del 9 aprile 2015

Serra

È sperabile e forse probabile che Matteo Salvini, quando dice che bisognerebbe “radere al suolo i campi Rom”, abbia in mente qualcosa di meno insolente e meno violento. Per esempio che, con congruo preavviso, quei campi andrebbero sgomberati. Perché allora, Salvini dice proprio “raderli al suolo”? Lo dice perché è al tempo stesso artefice e vittima di uno dei più funesti equivoci della scena politica italiana degli ultimi anni. L’idea che il “parlare come si mangia” sia un decisivo passo avanti; mentre è un penoso, umiliante passo indietro. La politica è — da sempre — il tentativo di dare una forma, anche verbale, alle pulsioni di massa. Di renderle, diciamo così, presentabili in pubblico, e non per il piacere privato di quattro intellettuali, ma per dare una voce più intellegibile e dunque più autorevole soprattutto a chi voce non ha. Che quella dei campi rom sia una questione sociale rilevante, e lo sia tanto per i rom quanto per chi con quei campi convive, è perfettamente vero. Ma nemmeno il più ottuso e infelice dei politici, a meno che sia un nazista (e Salvini non lo è)

salvini

può dire pubblicamente che quei campi vanno “rasi al suolo” senza attirarsi la dura critica e lo spregio di chi (per esempio la Caritas) la politica la fa sul campo. La fa nelle strade e nelle case, nelle periferie e nei campi nomadi, non nei “salotti del centro” tanto invisi a Salvini: e proprio per questo conosce le difficoltà, la fatica, la povertà, il degrado, le paure, il dolore umano, insomma la maledetta complicazione del problema. E detesta le semplificazioni becere, quelle scodellate in tivù per cercare l’applauso facile. L’urlaccio, il grido minaccioso, il borborigmo che non trova sbocchi non sono politica. Sono, della politica, un ingrediente bruto che chi fa politica ha il dovere di elaborare. Ignorare quegli ingredienti per non sporcarsi le mani è un vizio grave. Ma ficcarcele dentro, le mani, estraendone i peggiori effluvi e le più dolenti frattaglie come trofei, è il vizio opposto. In questo vizio sguazza, fino dalle sue origini, la Lega, che della sua matrice “popolana” si fa un vanto. Non rendendosi conto che il politicamente scorretto, per quanto lucroso (a tratti) e per quanto di facilissimo conio, ha il difetto strutturale di non riuscire a risolvere neanche mezzo problema. Se il politicamente corretto è spesso ipocrita, il politicamente scorretto è sempre impotente, rabbia da parata, smargiassata mediatica, niente che odori di soluzione anche parziale, anche imperfetta dei problemi. Niente che possa diventare governo, egemonia culturale, nuova identità condivisa e operativa. Se non si è Hitler o Tamerlano il politicamente scorretto, la minaccia feroce, le soluzioni finali sono solamente il segno della più fragorosa inettitudine. A questo danno interno, il politicamente scorretto aggiunge i danni inflitti, suo malgrado, alla comunità intera. Come un contagio. La dequalificazione del linguaggio politico, la sua capillare corrosione fa male a tutti indistintamente. Contamina, indebolisce, danneggia, peggiora, incanaglisce: diventa parte integrante del discredito della politica e della classe dirigente. Un personaggio come Razzi, oggi considerato una amabile macchietta, fino a non troppi anni fa sarebbe stato visto come una figura scandalosa o un caso umano da soccorrere. Quando ci si abitua a sdoganare l’insolenza, l’aggressività e l’ignoranza come ragioni identitarie, niente può più sbalordire e niente può più indignare. Fino a vent’anni fa a dire che bisogna “radere al suolo” i campi rom era qualche personaggio da bar. Nei bar si diceva (e si dice) anche molto peggio. Ma trasformare la polis in un bar vuol dire non avere alcun rispetto né della polis, né del bar.

il cardinale Vegliò le ha definite ‘parole stupide non meritevoli di commento’, il grande Vauro le ha commentate così:

Salvini e i rom

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via gli zingari da tutto il comune: “non li vogliamo!”

 

Rom, comune vicentino affigge divieti di sosta per nomadi. “Non li vogliamo qui”

i divieti affissi proprio il giorno dedicato ai rom e sinti: l’8 aprile

 

Campo Nomadi

 

Il sindaco di Albettone Joe Formaggio, nella Giornata internazionale dei Rom e dei Sinti, ha firmato un’ordinanza di divieto per le carovane: “E’ il nostro regalo per queste persone: non le vogliamo. I campi sono covi di criminalità”. Il primo cittadino si schierò per primo in sostegno del benzinaio Graziano Stacchio, che in un comune vicino sparò durante una rapina in gioelleria uccidendo un bandito, proveniente proprio da un campo nomadi del trevigiano

L’affissione dei cartelli va ricollegata all‘ordinanza di divieto per carovane ed altri mezzi firmata dal sindaco, ufficialmente per ragioni igienico-sanitarie, dato che il comune non è dotato di piazzole per la sosta e attacchi per gli scarichi. Ma Formaggio non ha problemi ad ammettere che la ragione è quella di impedire a Rom e Sinti di fermarsi perchè i campi sono “covi di criminalità”. D’altra parte Joe Formaggio è il sindaco che si vanta di dormire con il fucile sotto al cuscino, regolarmente denunciato e usato più volte come deterrente per i malintenzionati, e che si schierò per primo in sostegno del benzinaio Graziano Stacchio, che a Ponte di Nanto – comune vicino ad Albettone – sparò durante una rapina in gioelleria uccidendo un bandito, proveniente proprio da un campo nomadi del trevigiano.

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