una chiesa povera e per i poveri

per i  lunedì del Meic di Lodi

CRISTINA SIMONELLI 
( in Aula  magna del Liceo Verri – Lodi – 17 marzo 2014)

UNA CHIESA “POVERA E PER I POVERI”

Idee, problemi, passi da compiere

sito: http://goo.gl/3ACD5c
01:05:56

 

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p. Zanotelli e il suo incontro coi poveri

 

“mi hanno convertito i poveri”

  a tu per tu con uno dei missionari più noti d’Italia. Prima in Sudan, poi in Kenya, oggi vive e opera a Napoli. In mezzo la stagione di “Nigrizia”.

“in Africa ho visto che noi portiamo il Vangelo, ma Dio è già lì”

intervista di ‘Credere’ a cura di

«I poveri mi hanno convertito: scrivilo».

Finisce così, con una frase che sa di “testamento spirituale”, l’intervista che padre Alex Zanotelli ha concesso a Credere, nella quale ha rivisitato mezzo secolo di vita missionaria, sempre giocata in prima linea: in Africa (dapprima Sudan,poi Kenya), alla direzione di Nigrizia e,oggi, nel cuore di Napoli. Il comboniano, che contende a padre Piero Gheddo del Pime la palma del più noto missionario italiano, compie 76 anni il prossimo 28 agosto e da pocoha celebrato il cinquantesimo di sacerdozioa Verona, poi nel suo paese natale, Livo, in Trentino.

Padre Alex, perché i poveri ti hanno convertito?
«Perché, come spiega papa Francesco, nella mia esperienza missionaria ho toccato con mano che noi annunciamo il Vangelo, ma Dio è già lì, ci precede sempre. Un episodio che non potrò mai dimenticare mi è accaduto a Korogocho, la baraccopoli di Nairobi dove ho vissuto: andavamo a celebrare l’Eucaristia nelle baracche, con i malati di Aids. Una sera arrivo al capezzale di Florence, una ragazza che la madre aveva avviato alla prostituzione all’età di 11 anni; a 15 aveva contratto l’Aids, a 17 stava morendo. La stanza è tutta buia, accendiamo una candela e mi metto a pregare. Poi le chiedo: “Florence, chi è il volto di Dio per te oggi?”. Lei resta in silenzio, poi il suo viso si illumina in un sorriso: “Sono io il volto di Dio!”, mormora lei, che non era cristiana e non frequentava la Chiesa. Io, sul letto di morte, non riuscirò a fare una preghiera del genere».

Perché ti sei fatto missionario e perché comboniano?
«La mia vocazione nasce da ragazzino in Val di Non. La scelta missionaria è nata all’indomani di un incontro con un comboniano: io ero uno dei peggiori della classe, ma avevo dentro un forte desiderio di donare la vita. Da lì è nato l’amore per Comboni. La mamma, una delle persone più altruiste che abbia mai conosciuto, mi ha appoggiato. Papà, invece, non era molto contento della mia scelta, almeno all’inizio».

 

 

Il giorno della tua ordinazione eravate in 56. Nel 2014 i numeri sono completamente diversi. Perché ai giovani italiani pare che l’ideale missionario non interessi più?
«Il crollo delle vocazioni ha varie ragioni.Una delle principali è che il consumismo ha portato a un azzeramento dei valori fondamentali. Lavorando con i giovani, a Napoli, ne ho avuto conferma: un giovane, appena laureato, sta per entrare nei Comboniani, una ragazza nelle Comboniane. Ma per entrambi è stato necessario uscire dalla sbornia del consumismo e misurarsi con le domande importanti sulla vita. C’è poi un altro problema: manca spesso una conoscenza profonda di Gesù. La nostra è rimasta, in molti casi, una religiosità di superficie. Una seria animazione giovanile deve, quindi, proporre cammini di fede autentici. Ma guai se abbandonassimo questo campo solo perché oggi non ci sono vocazioni dall’Europa!».

A novembre si terrà il convegno missionario nazionale a Sacrofano. Cosa occorre per ridare slancio alla missione?
«Sono molto preoccupato per il futuro: la spinta missionaria in Italia sta languendo. Ma il Papa, nell’Evangelii gaudium, ci stimola a “uscire”. Come fare? La spinta al cambiamento non viene da ragionamenti o da discussioni teologiche, ma dalla testimonianza concreta di gente che sa rischiare. Abbiamo bisogno di testimoni. I giovani questo chiedono, altrimenti non sono interessati: vogliono vedere scelte contro correntee, quando questo accade, si infiammano. Il problema di fondo della Chiesa italiana è che, come mi ha detto una volta il vescovo Ramazzini del Guatemala, siamo schizofrenici. Ovvero: in chiesa diciamo certe cose, fuori facciamo altro. Basta vedere i nostri comportamenti nell’uso dei beni. Vale anche per gli istituti missionari: è possibile che, con tutte le case mezze vuote che abbiamo in giro per l’Italia, non riusciamo ad accogliere i migranti?».

Citi spesso il gesuita John Haughey: «Noi occidentali leggiamo il Vangelo come se non avessimo soldi e usiamo i soldi come se non conoscessimo nulla del Vangelo»…
«L’insegnamento di Gesù sui soldi è di una chiarezza incredibile. Il teologo Chiavacci lo riassumeva in due “comandamenti”: primo, cerca di non arricchirti; secondo: se hai, hai per condividere. Ebbene: oggi bisogna dire chiaramente che giocare con i soldi, sia in Borsa sia nel “gratta e vinci”, è immorale perché si accumula denaro senza lavorare. Inoltre abbiamo l’obbligo morale di sapere dove vanno a finire i nostri soldi, se le banche cui ci appoggiamo usano strumenti immorali, come paradisi fiscali e “derivati”, se finanziano il commercio di armi… Le nostre comunità cristiane purtroppo non applicano questa regola, le congregazioni religiose idem. Dovremmo mettere in crisi questo sistema economico, invece ci siamo dentro fino al collo».

Padre Alex Zanotelli. Foto Giulio Piscitelli/Contrasto.

Padre Alex Zanotelli. Foto Giulio Piscitelli/Contrasto.

 

Il Papa invita i cristiani ad andare in periferia. Ti sembra che la Chiesa stia raccogliendo questa sfida?
«Sono molto grato al Papa per i suoi messaggi e, su tutti, per il richiamo alla Chiesa povera per i poveri: l’impressione è che ci siano, però, resistenze. Vale anche per congregazioni e ordini religiosi e per noi missionari. Penso a certi conventi, che ancora accolgono solo poche persone, rinchiuse nelle loro mura. Cosa ci vuole a chiudere e spostarsi in zone degradate? Anche nel Nord del mondo ci sono dei Sud e molte occasioni per testimoniare una “Chiesa in uscita”».

Dal 2001 tu hai scelto di stare a Napoli, nel quartiere Sanità. Cosa dici di questa esperienza?
«È più difficile vivere a Napoli che a Korogocho. Qui ognuno cerca di risolvere i problemi da solo, manca la solidarietà che ho respirato in Africa. Per questo, stiamo cercando di creare reti, di mettere insieme la gente su obiettivi comuni, l’acqua, i rifiuti… Ma non è facile».

L’ultimo tuo libro, Il Dio che si svuota (Emi), è un commento alla lettera ai Filippesi. Perché questa scelta?
«Sto rileggendo Paolo in una nuova prospettiva, aiutato da vari biblisti americani. Recuperare lui, ebreo, come fondatore di comunità alternative all’impero romano, lo fa emergere in una luce di straordinaria attualità. Ai Filippesi san Paolo manda un forte richiamo, proprio citando il processo di kènosis, ossia lo “svuotamento” di Dio in Gesù. E, ai cristiani di quel tempo e di sempre, dice: ricordate che un’altra è la vostra cittadinanza».

Sei stato per anni direttore della rivista dei comboniani Nigrizia: una battuta sulla stampa missionaria, che non attraversa un momento facile.
«Non ho ricette particolari, se non questa: ritrovare il coraggio della denuncia. Come istituti missionari non siamo legati a nessun potere: dimostriamolo! In caso contrario, camminiamo con i poveri del Sud del mondo, ma di fatto rimaniamo legati al sistema. E poi occorre portare alla luce testimonianze poco conosciute. Penso, ad esempio, a monsignor Christophe Munzihirwa, arcivescovo congolese di Bukavu, ucciso nel 1996; da noi è un nome sconosciuto, ma fuori dall’Europa lo conoscono come il “Romero d’Africa”».

 
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il messaggio biblico nei confronti dello straniero

e la bibbia accolse lo straniero

di Gianfranco Ravasi 

in “Avvenire” del 22 gennaio 2015

 

Ravasi

Non è difficile rilevare nella Bibbia, dopo una logica dell’esclusione, una dell’accoglienza, che costituisce l’ambito in cui Dio agisce per portare i figli d’Israele a essergli testimoni tra le genti. Come si è visto, Dio, per educare il suo popolo a non sentirsi un privilegiato, invia profeti, che invitano ad aprire il cuore e le braccia a tutti, e sapienti, che trovano i semi di verità dispersi in tutte le culture. A proposito dell’accoglienza rituale prendiamo ad esempio una pagina cruciale della Bibbia come il Decalogo. Cosa si legge nel comandamento del sabato? Che il riposo sabbatico deve essere praticato anche dal forestiero che dimora presso l’israelita (Es 20,10); anche lui ha diritto al riposo con l’ebreo. In alcuni passi legislativi dell’Antico Testamento, come nei libri del Levitico (16,29) e dei Numeri (9,14), si andrà oltre, affermando che anche lo straniero ha diritto a far festa nel giorno di Pasqua, e a partecipare addirittura a quella celebrazione che è forse la più ebraica di tutte: il Kippur, la solennità del digiuno, dell’espiazione delle colpe. Per il culto sinagogale il Kippur è la celebrazione che in assoluto contraddistingue l’ebreo nell’ambito della liturgia. Ecco, anche questa festa è aperta allo straniero, se vuole partecipare. E come non ricordare il Terzo Isaia che al capitolo 56 arriva al punto di definire il tempio di Sion come «casa di preghiera per tutti i popoli»? La stessa direzione è percorsa anche dal Primo Isaia al capitolo 2, quando descrive la scena di un’immensa processione di popoli attratti dalla parola del Signore e pronti a ritrovare la pace e la fraternità, «a non alzare più la spada contro un altro popolo» (2,2-5). Un passo poco conosciuto del profeta Sofonia, più o meno contemporaneo o di poco precedente a Geremia, ci presenta in proposito in un solo versetto un sorprendente bozzetto del tempio di Gerusalemme e del suo culto. Potrebbe trattarsi forse di un sogno, e sicuramente lo è ancora per noi cristiani che non possiamo attuarlo nell’interno delle nostre chiese con tutte le diverse confessioni dei credenti in Cristo. Ecco il ritratto di Sofonia 3,9 con una traduzione italiana molto vicina all’originale ebraico: «Io – dice il Signore – darò a tutti i popoli un labbro puro perché invochino il nome del Signore e lo servano tutti spalla a spalla». È bella quest’immagine del vedere gli uomini tutti uguali, non ce n’è uno che è più su, che sta sulla predella o nel recinto sacro, come avveniva nel tempio di Gerusalemme, perché più importante e più puro degli altri. Nessuno è inferiore all’altro quando si trova nel luogo di preghiera perché impuro o indegno, ma tutti sono spalla a spalla. Tutti aderiscono allo stesso Dio e tutti hanno il labbro puro quando pregano, anche se le loro invocazioni non sono forse formulate secondo i canoni necessari della ritualità. «Non dica lo straniero che ha aderito al Signore – sarà ancora la voce del Terzo Isaia al capitolo 56,3 –: certo il Signore mi escluderà dal suo popolo». La seconda logica dell’accoglienza, dopo quella cultuale, è quella sociale; un tema, tra l’altro, che sentiamo attuale e che è continuamente all’ordine del giorno nella nostra società. Stiamo vivendo un’esperienza che per molti versi sarà epocale e che qualcuno definisce come qualcosa di simile a quando ci furono le grandi immigrazioni e migrazioni dei cosiddetti barbari. In fin dei conti quelle genti erano semplicemente altre popolazioni, con un differente tipo di società e di civiltà, che nello scontro venivano però concepite come diverse, come molto più primitive. Tra parentesi, ricordiamo che, se è vero che talvolta l’evoluzione registra diversità, tuttavia non dobbiamo dimenticare che spesso il concetto di progresso è veramente molto relativo. Ebbene già nell’Antico Testamento, in diversi passi, troviamo un’importante ammissione che si estende poi anche a livello sociale e politico: «Vi sarà una sola legge per il nativo e per lo straniero che è residente in mezzo a voi» (Es 12,49). Unica è la legislazione quindi per l’ebreo e per lo straniero. Si potrebbe obiettare che dal punto di vista storico Israele probabilmente non ha messo in pratica questa norma, ma questo è un altro discorso. Molti, ancora ai nostri giorni, chiedono di
evitare assolutamente di parlare di qualsiasi vaga idea di parità di diritti tra nativi e stranieri. E questo è segno di paura. Tuttavia non ci dobbiamo dimenticare che la storia concreta ha il suo peso; la comprensione, quindi, è d’obbligo per capire meglio le ragioni dell’altro, sperando che ne abbia, e per giudicare le sue convinzioni non sempre e solo come primitive e istintive. Tuttavia, è necessario essere favorevoli e sostenitori di una cultura incline al dialogo e a uno stile multietnico, senza per questo scadere in una visione irenica che vede l’approccio tra i diversi popoli come una sorta di incontro facile, gioioso e danzato. Anche nel mondo biblico ci troviamo di fronte a culture che spesso tra loro si respingono e che pongono gravi problemi di tipo sociale. Il principio da cui partire e la meta da raggiungere rimangono, comunque e sempre, non l’esclusione e il rigetto, ma lo spirito di accoglienza, anche se le forze dei popoli nella storia, andando oltre i nostri desideri, premono e risultano essere incontrollabili nel loro flusso e nel loro confronto concreto. Nella Scrittura anche lo straniero ha diritto al rispetto, alla tutela, all’amore. In Lv 19,33-34, in un’opera che parla dei principi di purità, si legge: «Quando un forestiero dimorerà presso di voi, nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi. Tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto». E quanto questo testo dovrebbe far ricordare agli italiani il loro essere stati emigranti nei secoli scorsi! In questi due versetti è profondamente sottolineato il fatto che occorre amare lo straniero come se stessi, perché anche Israele ha provato cosa vuol dire essere straniero. Certo, qui si distingue tra il forestiero che è residente rispetto agli stranieri di tutto il mondo, però si osserva che la persona pur «diversa» che abita nella tua stessa via deve aver assicurata la stessa legge, lo stesso trattamento e la stessa tutela e persino l’amore.

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