Lo stupore dei gay cattolici “Ha risposto alla nostra lettera”

due omo

il papa risponde, supera la barriera del … curialmente corretto, risponde anche alla loro lettera, loro, i gay cattolici che nessun vescovo ha voluto mai incontrare, compreso il loro vescovo, il cardinale di Firenze, card. Betori, perché è vero, tutti siamo figli di Dio, e anche loro lo sono, diamine!, ma riceverli o parlare ufficialmente con loro significherebbe legittimarli ‘come gay’, non sia mai! dunque se ne stiano da parte nella chiesa di Dio, anzi di B etori e compagni e non pretendano troppa visibilità! … ma lui ha risposto!, ha risposto alla loro lettera, li ha presi in considerazione. ha accettato un dialogo con loro, ha detto loro non con delle belle parole ma coi fatti: ‘esistete’ e avete diritto di esistere nella chiesa di Dio, non quella dei Betori e compagni … e allora manifestano stupore, meraviglia, gioia, i tipici sentimenti di chi sente che il vangelo è davvero ‘evangelo’, ‘buona notizia’, buona radicale novità che straccia le rigidità e le violenze curiali!
qui sotto la meraviglia e la gioia della comunità gay di Firenze descritta da:

Maria Cristina Carratù
in “la Repubblica” – Firenze – del 8 ottobre 2013

Fra le tante rivoluzioni compiute da Papa Bergoglio, oltre alle telefonate a casa a gente qualunque (è di questi giorni la notizia di una famiglia del Galluzzo chiamata al telefono da Francesco, che dopo averla invitata ad Assisi, ha chiesto se poteva benedirla e l’ha invitata a portare «i saluti e la benedizione del Papa» alla parrocchia), c’è anche l’«effetto posta». La montagna di lettere recapitate ogni giorno nella sua residenza di Santa Marta, e inviate direttamente a lui da chi spera, così, di raggiungerlo scavalcando gli «ostacoli» curiali. E adesso c’è chi pensa che possa essere stata una di questi «messaggi in bottiglia» ad aver ispirato la svolta di Bergoglio sui gay. Una lettera inviata lo scorso giugno al Papa da vari omosessuali cattolici italiani, ma le cui firme erano state in gran parte raccolte nel gruppo Kairos di Firenze, molto attivo su questo fronte. E in cui gay e lesbiche chiedevano a Francesco di venire riconosciuti come persone e non come «categoria », invocando apertura e dialogo da parte della Chiesa, e ricordando che la chiusura «alimenta sempre l’omofobia». Non la prima del genere inviata a un pontefice, ma a cui, come racconta uno dei responsabili di Kairos, Innocenzo Pontillo, «nessuno aveva mai dato neanche un cenno di risposta». Questa volta, invece, la risposta è arrivata. Con un’altra lettera della Segreteria di Stato vaticana (il contenuto di entrambe le lettere è privato, e solo da poco si è deciso di rendere noto lo scambio), in cui si legge, spiega Pontillo, che Papa Francesco «ha apprezzato molto quello che gli avevamo scritto, definendolo un gesto di ‘spontanea confidenza’», nonché «il modo in cui lo avevamo scritto». Ma non solo: «Il Papa ci assicurava anche il suo saluto benedicente ». «Nessuno di noi si era spinto a immaginare una cosa del genere» dice il rappresentante di Kairos, ricordando, per contrasto, come l’arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, «si sia sempre rifiutato anche solo di riceverci, sostenendo che altrimenti saremmo stati legittimati in quanto omosessuali». Adesso papa Francesco invia addirittura la sua benedizione, e chissà che le sue uscite successive sugli omosessuali («Chi sono io per giudicare i gay?» detto in aereo di ritorno da Rio de Janeiro, e poi le dirompenti parole a Civiltà Cattolica: «Dio, quandoguarda a una persona omosessuale, ne approva l’esistenza con affetto, o la respinge condannandola? Bisogna sempre considerare la persona») non si debbano davvero anche a questo scambio epistolare. E a Bergoglio, intanto, scrivono i detenuti di Sollicciano, una lettera (già consegnata direttamente a lui nei giorni scorsi dal cappellano del carcere don Vincenzo Russo), in cui gli raccontano i drammi della vita carceraria e lo invitano ad andarli a trovare, magari in occasione del Convegno ecclesiale nazionale della Cei che si terràa Firenze nel 2015 e a cui è già prevista la presenza del pontefice. Mentre al Papa si rivolge adesso anche la Comunità delle Piagge: «Il clima è cambiato, e chi, adesso, vuole per la Chiesa qualcosa di diverso, deve stare col Papa» riconosce don Alessandro Santoro. «Come Comunità» spiega «ci sentiamo liberati dai troppi lacci dottrinali del passato, Francesco Papa dimostra che è possibile passare dalla sola obbedienza dottrinale, alla fedeltà alla vita delle persone». Il che «non toglie che la Chiesa abbia la sua dottrina, purché, però, al centro ci sia l’uomo con le sue sofferenze, come dice il Vangelo». Da qui l’idea (in occasione del 4° anniversario, il 27 ottobre, della celebrazione del matrimonio religioso, con un altro uomo, di una donna nata uomo, che a Santoro costò l’allontanamento dalle Piagge), di scrivere al Papa «per parlargli della nostra Comunità, di quello che fa e del perché lo fa, e per chiedergli come considera le tante condanne da noi subite» (oltre che per il matrimonio, anche per la comunione a gay edivorziati risposati).

image_pdfimage_print

la ‘Bossi-Fini’ da abolire

migranti-tuttacronaca

non basta piangere o dirsi rattristati per quanto succede nei nostri mari che si trasformano sempre più in cimiteri per disperati, occorre rimuovere le condizioni strutturali e legislative che favoriscono o causano queste tragedie

utilissima la lettura di questa riflessione che S. Rodotà da par suo fa quest’oggi su ‘la Repubblica’:
Cancellare subito lo scandalo della Bossi-Fini

(Stefano Rodotà).

Le terribili  tragedie collettive sono ormai diventate grandi rappresentazioni pubbliche, che vedono tra i loro attori i rappresentanti delle istituzioni, ben allenati ormai nel recitare il ruolo di chi deve dare voce ai sentimenti di cordoglio, dire che il dramma non si ripeterà, promettere che «nulla sarà come prima». Il pellegrinaggio a Lampedusa era ovviamente doveroso, arriverà anche il presidente della Commissione europea Barroso, si è già fatta sentire la voce del primo ministro francese perché sia anche l’Unione europea a discutere la questione. Sembra così che sia stata soddisfatta la richiesta del governo italiano di considerare il tema in questa più larga dimensione, guardando alle coste del nostro paese come alla frontiera sud dell’Unione.
Attenzione, però, a non operare una sorta di rimozione, rimettendoci alle istituzioni europee e non considerando primario l’obbligo di mettere ordine in casa nostra. Lunga, e ben nota da tempo, è la lista delle questioni da affrontare, a cominciare dalla condizione dei centri di accoglienza dove troppo spesso ai migranti viene negato il rispetto della dignità, anzi della loro stessa umanità. Ma oggi possiamo ben dire che vi è una priorità assoluta, che deve essere affrontata e che può esserlo senza che si obietti, come accade per i centri di accoglienza, che mancano le risorse necessarie. Questa priorità è la cosiddetta legge Bossi-Fini.

LA BOSSI-FINI è quasi un compendio di inciviltà per le motivazioni profonde che l’hanno generata e per le regole che ne hanno costituito la traduzione concreta. Per questa legge l’emigrazione deve essere considerata come un problema di ordine pubblico, con conseguente ricorso massiccio alle norme penali e agli interventi di polizia. All’origine vi è il rifiuto dell’altro, del diverso, del lontano, che con il solo suo insediarsi nel nostro paese ne mette in pericolo i fondamenti culturali e religiosi. Un attentato perenne, dunque, da contrastare in ogni modo. Inutile insistere sulla radice razzista di questo atteggiamento e sul fatto che, considerando pregiudizialmente il migrante irregolare come il responsabile di un reato, viene così potentemente e pericolosamente rafforzata la propensione al rifiuto. Non dimentichiamo che a Milano si cercò di impedire l’iscrizione alle scuole per l’infanzia dei figli dei migranti irregolari, che si è cercato di escludere tutti questi migranti dall’accesso alle cure mediche, pena la denuncia penale.
In questi anni sono stati soltanto i pericolosi giudici, la detestata Corte costituzionale, a cercar di porre parzialmente riparo a questa vergognosa situazione, a reagire a questa perversa “cultura”. Già nel 2001 la Corte costituzionale aveva scritto che vi sono garanzie costituzionali che valgono per tutte le persone, cittadini dello Stato o stranieri, “non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”, sì che “lo straniero presente, anche irregolarmente, nello Stato ha il diritto di fruire di tutte le prestazioni che risultino indifferibili e urgenti”. Un orientamento, questo, ripetutamente confermato negli anni seguenti, motivato riferendosi all’“insopprimibile tutela della persona umana”.
Le persone che ci spingono alla commozione, allora, non possono essere soltanto quelle chiuse in una schiera di bare destinata ad allungarsi. Sono i sopravvissuti che, con “atto dovuto” della magistratura”, sono stati denunciati per il reato di immigrazione clandestina. Di essi non possiamo disinteressarci, rinviando tutto ad una auspicata strategia comune europea. I rappresentanti delle istituzioni, presenti a Lampedusa o prodighi di dichiarazioni a distanza, non possono ignorare questo problema, mille volte segnalato e mille volte eluso. Così come non possono ignorare il fatto che lo stesso soccorso “umanitario” ai migranti in pericolo di vita è istituzionalmente ostacolato da una norma che, prevedendo il reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, fa sì che il soccorritore possa essere incriminato. A tutto questo si aggiunge la pratica dei respingimenti in mare, anch’essa illegittima e pericolosa per i migranti, sì che non deve sorprendere che proprio in questi giorni il Consiglio d’Europa abbia definito sbagliate e pregiudizievoli le politiche italiane nella materia dell’immigrazione.
L’unica seria risposta istituzionale alla tragedia di Lampedusa è l’abrogazione della legge Bossi-Fini, sostituendola con norme rispettose dei diritti delle persone. Contro una misura così ragionevole e urgente si leveranno certamente le obiezioni e i distinguo di chi invoca la necessità di non turbare i fragili equilibri politici, di fare i conti con le varie “sensibilità” all’interno dell’attuale maggioranza. Miserie di una politica che, in tal modo, rivelerebbe una volta di più la sua incapacità di cogliere i grandi temi del nostro tempo. Siano i cittadini attivi, spesso protagonisti vincenti di un’“altra politica”, ad indicare imperiosamente quali siano le vie che, in nome dell’umanità e dei diritti, devono essere seguite.

Da La Repubblica del 08/10/2013.

image_pdfimage_print

piangere fa bene …

cento bare

a distanza di qualche giorno dall’immane tragedia delle centinaia di morti in mare mi fermo ancora a riflettere e sento ancora drammaticamente vera questa pagina di don Renato Sacco, e anch’io piango sentendo nell’animo come una grande spina che mi fa male, e quasi mi vergogno di queste lacrime, e però sento che nonostante tutto mi fanno bene, non so come e perché, ma così sento …

Davanti alla tragedia di oggi, 3 ottobre a Lampedusa, con centinaia di morti, ti vengono in mente le parole di Francesco, pronunciate là, a Lampedusa: “Chi ha pianto per quanti sono morti in mare?”. E ti chiedi se sei proprio tu interpellato. Con tutte le cose da fare, come ogni giorno. Cose anche serie, importanti. E non trovi lo spazio, il tempo per piangere, per sentirti umano e lasciarti andare. E devi incontrare le persone, fare delle cose con loro. Allora cerchi di guardarle con occhi diversi, quasi a voler comunicare il magone che hai dentro, e cerchi di essere più umano. E poi ti metti in macchina in un pomeriggio grigio, triste. Pensi alle storie di quelle persone, ai loro affetti, a chi sta aspettando qualche notizia per sapere se sono arrivati alla ‘terra promessa’. E cerchi di immaginarti al loro posto. Ma di loro non si saprà più nulla. Neanche i loro nomi. Solo Dio, che conosce il povero Lazzaro per nome. Noi invece conosciamo bene i nomi dei potenti, dei ricchi, di chi mette in atto una cultura di violenza e respingimento che è di morte, non di vita. I loro nomi li conosciamo. Abbiamo visto ieri il teatro-commedia in Parlamento.
E oggi la tragedia.
E, mentre sei fermo al semaforo, ti cade l’occhio sui manifesti della Lega che se la prende con chi si interessa di rom e migranti. Come fai a piangere? ‘Prima il Nord’. E ti viene la rabbia, più forte del magone. E non ce la fai a piangere. E ti senti in colpa di abitare in un Paese così, in un mondo così. Ti chiedi se non è davvero anche un po’ colpa tua, dei tuoi silenzi, della tua rassegnazione. E’ un pugno nello stomaco. E non sai se piangere o arrabbiarti. Forse ha ragione Francesco. Prima bisogna piangere. Per avere poi la forza di arrabbiarsi veramente. Di gridare con lui: “Vergogna”. La debolezza del pianto ti fa sentire un essere umano per reagire, per non essere complice di queste tragedie umane. Ormai è sera. Mi arriva un sms per dirmi che si parla di Lampedusa anche da Bruna Vespa. E da Santoro c’è pure il ministro della Difesa. No, basta. Non accendo neanche la Tv, se no la rabbia cresce a dismisura. Mi rileggo le parole di don Tonino Bello, al ritorno da Sarajevo, nel dicembre 1992: “Poi rimango solo e sento per la prima volta una grande voglia di piangere. Tenerezza, rimorso e percezione del poco che si è potuto seminare e della lunga strada che rimane da compiere”.

3 ottobre 2013

d. Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi

d. Renato Sacco
Via alla Chiesa 20 – 28891 Cesara – Vb
0323-827120 *** 348-3035658
drenato@tin.it

 

image_pdfimage_print

“la speranza si è messa in cammino”

papa-francesco1
Jacques Noyers – Vescovo emerito di Amiens:

Francesco, l’ultimo dei papi?

«Francesco anticipa nella sua persona una forma escatologica di esistenza, che, in quanto forma
generale di vita, appartiene ancora all’avvenire» (1). È una citazione di Benedetto XVI! o piuttosto
di Joseph Ratzinger quando era semplicemente un teologo. Preciso subito che si tratta di Francesco
d’Assisi visto da san Bonaventura e non di papa Francesco annunciato dal suo predecessore.
Vedendolo abbandonare i segni sfarzosi del Sovrano Pontefice, come il primo Francesco restituì
sulla piazza di Assisi i suoi vestiti da borghese al proprio padre, si potrebbe pensarlo. Un papa che
augura «buon appetito» ai suoi interlocutori, un papa che paga il conto dell’hotel, un papa che
viaggia portando a mano il proprio bagaglio, un papa che parla di stare con i poveri e nelle periferie
e che va loro incontro a Lampedusa…
Per mesi, sono rimasto a bocca aperta davanti a tante sorprese. Avevamo delle idee sul futuro della
Chiesa, sulle qualità auspicabili del nuovo papa, sulla priorità delle riforme da intraprendere. Ma
non avevamo previsto questo: un papa che non “gioca” a fare il papa!
Aspettavo quello che sarebbe successo: una fine del mondo? Eravamo forse agli ultimi giorni della
chiesa e all’avvento della pienezza del Regno di Dio?
Ohimé, la mia età non mi permette più di volare facilmente nell’entusiasmo dell’apocalisse. Vedevo
questa chiesa, il suo peso, le sue abitudini, le sue certezze. Conoscevo la sua inerzia. Come avrebbe
potuto quella farfalla risvegliare la balena?
Mi domandavo se fosse possibile lasciar arrugginire senza rimpianti in un angolo la struttura
ingombrante e mal funzionante del Vaticano e ripartire da zero, con le parole del vangelo.
La nostra chiesa sarebbe stata capace di far la muta come il serpente che abbandona sul posto la
propria ingombrante corazza?
Al nostro papa è sufficiente uno spazio libero dove dare appuntamento a tutti gli assetati della
Buona Notizia.

La speranza

Bene! So di sognare. Non si cancella di colpo il peso di mille anni di cristianità. Ci sono
ambasciate. Ci sono cardinali. Ci sono gendarmi. Ci sono guardie svizzere. Ci sono finanze. Ci sono
uffici. C’è la curia.
Allora mi domando se saprà, col suo sorriso disarmante, trasformare lo scenario che non può
cancellare. Si sono già visti alcuni gesti profetici. Si è già vista la differenza tra un pastore che si
cura delle persone e un dottore che si cura dei discorsi. Si è ascoltato il richiamo ad andare verso le
periferie, invece dell’invito a riunirsi docili attorno al centro.
Abbiamo visto mettere al primo posto l’attenzione nei confronti di tutti coloro che questo mondo
non vuole vedere.
Si aspettano parole nuove, immagini inattese, gesti profetici. Si commenta, ci si diverte… Invece i
media vedono solo operazioni di comunicazione più o meno abili. Nella chiesa non c’è la
rivoluzione. Si sono cambiate le immagini dei papi nelle sacrestie. Ma tutto continua come prima. Del resto, potrebbe apparire offensivo per il nuovo papa immaginare che possa veramente dire cose
diverse dai suoi predecessori. Chi oserebbe mettere in pratica la consegna di papa Francesco ai
giovani: fate casino?
Tuttavia non riesco a rassegnarmi a questo comodo pessimismo. Le grandi rivoluzioni richiedono
del tempo. Bisogna che si scontrino con ciò che è diventato abitudine. Occorre che corrodano, che
minino, che le si creda soffocate perché un giorno le grandi istituzioni crollino. Posso credere nello
Spirito di Dio che in questo modo rinnova la faccia della terra?
Già so che uomini e donne scoraggiate dall’immobilismo della chiesa riprendono un po’ fiducia.
Iniziative quasi clandestine osano lentamente manifestarsi. I vescovi che avevano creduto di far
piacere al papa mandando cristiani sulle strade per difendere la morale si rendono conto che forse il
papa attende da loro altri cammini verso i poveri.
Siamo sempre in attesa. Attesa di nuove iniziative del papa per approfondire la rimessa in questione
della pseudocristianità del potere. Attesa di un’eco più chiara di questa nuova parola negli
ingranaggi complicati della chiesa. Attesa anche di reazioni che certamente non mancheranno di
sollevare tutti coloro che si sentono sicuri nelle istituzioni del passato. Attesa soprattutto che il
desiderio di avanzare sulle strade del vangelo sia permesso e incoraggiato. Mai la testa avanza senza
i piedi!
È ancora troppo presto per cantare l’alleluia dell’ultimo giorno. Ma la speranza si è già messa in
cammino.
(da “Adista”)

image_pdfimage_print

H. Kung di fronte alla sua morte

 

Il teologo svizzero potrebbe scegliere il suicidio assistito

Trasmissione Raitre Che tempo che fa

Hans Küng, tra i più famosi sacerdoti e teologi cattolici contemporanei – noto soprattutto per le idee progressiste e di rottura rispetto alla tradizione – potrebbe scegliere la strada del suicidio assistito.

Lo studioso svizzero, nato nel 1928, è da tempo affetto dal morbo di Parkinson e nel suo ultimo libro di memorie “Erlebte Menschlichkeit” (pubblicato in lingua tedesca la scorsa settimana) esprime il proprio parere favorevole all’autodeterminazione sul fine vita.

image_pdfimage_print

una guerra tra poveri

un bell’articolo di Chiara Saraceno su ‘la Repubblica’ odierna sulla guerra tra poveri: “Non appena il ministro Giovannini annuncia di voler introdurre un reddito minimo per chi si trova in povertà – una misura che esiste da diversi decenni in quasi tutti i paesi europei – non solo la destra, ma anche i sindacati fanno opposizione, chiedendo che prima, appunto, vengano salvaguardati e rifinanziati tutti i diversi tipi di ammortizzatori sociali esistenti. Mantenendo proprio quella frammentazione categoriale che ha finora impedito di garantire diritti certi e omogenei”

reddito-di-cittadinanza1
UNA GUERRA TRA POVERI
(Chiara Saraceno)

Quanto è difficile nel nostro paese uscire da logiche puramente categoriali: che riconoscono diritti e protezioni diversi a persone nella stessa condizione oggettiva, ma appartenenti a categorie – professionali, territoriali, di età, ecc. – differenti. Non appena il ministro Giovannini annuncia di voler introdurre un reddito minimo per chi si trova in povertà – una misura che esiste da diversi decenni in quasi tutti i paesi europei – non solo la destra, ma anche i sindacati fanno opposizione, chiedendo che prima, appunto, vengano salvaguardati e rifinanziati tutti i diversi tipi di ammortizzatori sociali esistenti. Mantenendo proprio quella frammentazione categoriale che ha finora impedito di garantire diritti certi e omogenei per omogeneità di condizione: una indennità di disoccupazione universale per tutti coloro che perdono il lavoro e non sistemi macchinosamente differenziati che si prestano a logiche clientelari e lasciano scoperti ampi gruppi di disoccupati, unitamente, appunto, ad un sostegno al reddito per i poveri.

Condivido il timore dei sindacati che, in una situazione di risorse scarse, ci sia il rischio che avvengano tagli senza compensazione. È dovere dei sindacati, oltre che dei partiti che dovrebbero avere a cuore l’equità e l’uguaglianza almeno di fronte al bisogno, sorvegliare che ciò non avvenga. Capisco, e in linea di principio condivido, anche la richiesta di risorse aggiuntive, specie dopo che la questione della mancanza di fondi non ha fermato la cancellazione della prima, e forse anche della seconda, rata dell’Imu sulla prima casa, con ovvio beneficio per i più abbienti. Ciò che non condivido è la difesa strenua della frammentazione categoriale. Come se un giovane che perde un lavoro a tempo determinato valesse meno di uno che perde un lavoro a tempo determinato e viene messo indefinitamente in cassa integrazione a zero ore; come se un esodato avesse più diritti di un/una cinquantenne che ha perso il lavoro e difficilmente ne ritroverà un altro; come se chi è povero e non appartiene a nessuna “categoria protetta” avesse meno diritti.

La frammentazione categoriale cui assistiamo oggi, con tutte le ingiustizie che produce e i buchi che lascia aperti, è frutto del modo in cui si è sviluppato il sistema di protezione sociale italiano: per progressivo incrementalismo che allargava sì la platea dei “protetti”, ma senza mai ridefinire il disegno complessivo, creando disuguaglianze anche tra gli stessi “protetti”. È avvenuto per i lavoratori, i pensionati e persino i disabili. In modo diverso è avvenuto anche per quanto riguarda il sostegno al costo dei figli, ove chi finisce con il non aver diritto a nulla sono proprio i più poveri. In effetti, non si può non rimanere colpiti dall’attenzione, nel migliore dei casi marginale, per la povertà che caratterizza il dibattito politico e la stessa posizione dei sindacati, oltre che del Pd.

Eppure la povertà è aumentata notevolmente negli ultimi anni, colpendo soprattutto le famiglie con figli minori e toccando anche ceti che fino a poco tempo fa pesavano di esserne al sicuro. A farla crescere non è stato solo l’aumento della disoccupazione, ma anche la riduzione forzata degli orari di lavoro e lo scarto tra redditi e costo della vita. Il reddito minimo, proposto dalla commissione di esperti che il ministro Giovannini sembra voler far propria, mira a coprire almeno parte della distanza tra reddito disponibile e costo di mantenimento di un livello di vita decente. Per chi non ha lavoro, o è in una forte situazione di precariato, sarebbe accompagnata da attività di formazione e accompagnamento al lavoro, per rafforzarne, come si dice, l’occupabilità. Da questo punto di vista, potrebbe essere anche inteso come uno stimolo dal lato dell’offerta di lavoro, a integrazione di quelli che si dovrebbero mettere in campo dal lato della domanda (riduzione del cuneo fiscale, sostegni a chi assume, ecc.), per evitare che i più poveri manchino anche queste opportunità.

È sicuramente legittimo chiedere risorse aggiuntive, e prima ancora chiedere che, in una situazione di risorse scarse, queste non vengano erogate principalmente a favore dei più abbienti, cui anzi si dovrebbe chiedere una solidarietà maggiore, rinunciando ad una quota dei propri benefici (disboscando le detrazioni fiscali, ad esempio, e tassando le pensioni alte). Tale richiesta sarebbe, tuttavia, più forte se si accompagnasse alla disponibilità a rivedere anche le ingiustizie che si nascondono nel categorialismo spinto del nostro frammentato sistema di protezione sociale.

image_pdfimage_print

in memoria

 

cento bare

(ricevo da p. Agostino e metto a disposizione per la comune riflessione)
IN MEMORIA
3 OTTOBRE 2013

Sarebbe forse stato più adatto il silenzio per aprire questa serata. Siamo infatti sommersi dalle parole, dalle immagini, scelte apposta per farci piangere di più, dalla retorica insopportabile dei politici(Alfano è corso a Lampedusa con la stessa fretta con cui AVEVA votato il pacchetto Maroni sui respingimenti) dai mezzi di comunicazione, dagli addetti ai lavori. Resta il fatto che di circa 500 persone ne sono rimaste vive 155 il resto , cioè volti, storie, affetti, speranze giù in fondo al mare dove faranno compagnia agli altri cira 25.000 , morti dal 1988 in po, di cui ci siamo dimenticati, come faremo con questi ultimi, fra qualche giorno, travolti dalle miserabili storiucce dei nostri cosiddetti governanti. Se fossimo davvero sinceri nel manifestare il dolore per queste tragedie, potremmo piangere per queste creature, ma non siamo credibili perché anche quelli che arrivano vivi li trattiamo mica tanto bene; li ammassiamo nei CPT per mesi come delinquenti dato che abbiamo creato il reato di clandestinità. oppure li sfruttiamo col lavoro nero. Questi ultimi disperati venivano da Eritrea Etiopia Somalia, scappavano dalla guerra infinita che da anni affligge quelle popolazioni, quindi erano rifugiati politici e l’articolo…. della Costituzione e la convenzione di Ginevra chiede di accoglierli. In questo caso lo loro emigrazione era dettata dal bisogno estremo di salvarsi la vita e invece hanno trovato ancora morte. L’emigrazione in genere è un effetto la cui causa trova le sue radici nel mondo occidentale: radici economiche prima di tutto ,e vendita molto lucrosa di armi(in Africa non ci sono fabbriche di armi e anche l’Italia e l’Europa tutta sopperiscono ben volentieri a questa mancanza). Di questo si dovrebbe occupare tutta l’Europa cambiando i suoi rapporti con questi paesi, e sopratutto cambiando il capitalismo di rapina che invece piace tanto a chi è già ricco e se ne sbatte di chi crepa in un modo o in un altro. Quindi piangiamo pure le vittime ma interroghiamo anche le nostre coscienze perché c’è qualcosa che uccide più della morte stessa ed è l’indifferenza, il non curarsi di chi ti è vicino, di chi soffre, di chi ha meno di te anche se ti sembra di avere poco. E’ vero, molti di noi sono poveri e altri se ne aggiungeranno se per
esempio a Piombino verrà messa la pietra tombale sulle acciaierie, ma se qui da noi ci ammaliamo abbiamo ancora ospedali che ci curano , se non abbiamo pane ci sono opere di carità che in qualche modo ci sostentano. Nei paesi da dove vengono queste persone non c’è niente di niente e le donne muoiono di parto, i bimbi per una diarrea. Che faremmo noi al loro posto se ci fosse una sola possibilità di scampare a questa sorte? Non ho altro da dire se non un grazie dal profondo del cuore ai lampedusani e a tutti quelli che in mille modi si sono affannati per salvare quelle vite. Loro non sono rimasti indifferenti.

image_pdfimage_print

una mostra a Roma dei ‘senza fissa dimora’

homless

HOMELESS

(Wlodek Goldkorn)
 
Nel mondo i senza tetto sono cento milioni. In Italia cinquantamila. Un fotografo per anni li ha ritratti. Dappertutto. E ha colto il sacro che è in loro. Il suo lavoro in mostra a Roma

A parlare sono gli occhi, gli sguardi di coloro che ha fotografato Lee Jeffries, nella sua serie di ritratti degli homeless, dei senza casa. Sono immagini che non necessitano di molte parole: e che saranno in mostra, in anteprima mondiale, al Museo di Roma a Trastevere, a partire dal 19 ottobre (twitter.com/Lee Jeffries). Jeffries l’autore, o forse co-autore, perché i soggetti dei suoi ritratti sono partecipi all’opera, è un inglese di Manchester, ha 41 anni, ed è stato per vari anni in giro per le strade di Londra, Parigi, New York, Miami, Las Vegas e anche di Roma. Era alla«ricerca di un incontro», dice nel breve testo scritto per il catalogo della mostra.

Voleva entrare in contatto con uomini e donne che in strada vivono ogni giorno e ogni notte perché non hanno né tetto né letto; i senza fissa dimora li chiamiamo nel gergo burocratico. La sua intenzione non era tanto quella di documentare un fenomeno sociale, quanto stabilire un rapporto che durasse nel tempo, attraverso l’immagine impressa dalla camera. Ha finito per creare intimità, con le persone ritratte. Basta vedere le immagini: i protagonisti della sua opera si danno con estrema generosità; come ci si affida a un amico, fratello, amante. L’artista tuttavia non ha voluto fornire né i nomi delle persone né raccontare i luoghi e le circostanze in cui le ha fotografate. Non perché i senza casa, “i barboni”, si assomiglino tutti. Al contrario, l’ipotesi di Jeffries, un’ipotesi che ogni spettatore può verificare, è questa: i volti degli homeless sono segnati da elementi di santità. E sono i corpi non le parole a raccontare le pene patite.

homless2

Detto così, può sembrare una teoria sentimentale, new age, da sazi signori facili a commuoversi di fronte alla sofferenza: basta sia sofferenza altrui. Verrebbe naturale muovergli l’accusa di voyeurismo: spesso ai fotografi si rimprovera questo peccato. Ad assolvere Jeffries da ogni presunta colpa e, anzi, far ammirare la sua opera, è, come si è detto, il centro della sua narrazione, gli occhi appunto (perfino gli occhi ciechi, ma espressivi del ragazzo a pagina 82). Infatti, Jeffries sembra aver capito che gli occhi servono non solo a guardare, ma anche a essere guardati, a svelare i segreti; sono gli occhi a raccontare le nostre gioie, tristezze, speranze, sogni. Si dice, a ragione, che gli occhi sono lo specchio dell’anima. Ma l’anima cosa è? Secondo la geniale intuizione del filosofo Franz Rosenzweig, l’anima non è altro che la luce di dio in ciascuno di noi. Ecco spiegato il tentativo di Jeffries: fotografare l’anima; cogliere la luce divina che emanano (quando ne sono capaci) gli umani. Più prosaicamente, il fotografo tenta di compiere un’operazione simile a quella che guida ogni artista: si immedesima nell’oggetto del racconto, cerca di provare le sue stesse emozioni, per dar loro una forma. Un procedimento che i grandi scrittori e narratori chiamano empatia. O se vogliamo: il fotografo si dà il compito di rubare l’anima del soggetto protagonista del suo lavoro; gli antropologi sanno che esistono popolazioni e tribù che per questo motivo rifiutano di farsi fotografare.

Dice Jeffries: «La sofferenza e la spiritualità sono sinonimi. Il mio scopo è far appello al senso di fede e all’umanità degli spettatori». La stessa frase può essere detta, laicamente, così: siamo tutti vagabondi sulla Terra e l’esperienza del lasciare la casa paterna per andare a esplorare strade ignote è l’essenza di ogni narrazione; i miti in fondo di questo parlano. È un vagabondo che sfida il destino Ulisse; lo è Abramo che lascia la sua dimora in Mesopotamia per seguire la voce divina. Ed è vagabondo il folle don Chisciotte nella ricerca della gloria e del riscatto. Cervantes non raccontò solo il nobile avventuriero: dalla sua penna sono uscite narrazioni di picari veri, reietti, marginali che vagavano per le strade di Spagna. E siamo tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, periodo in cui comincia a darsi forma la modernità con il suo impellente bisogno di ordine e razionalità e con il conseguente rifiuto degli esseri umani considerati superflui, disadattati al lavoro e alla quotidiana disciplina. È il periodo in cui “le corti dei miracoli”, gli assembramenti di coloro che non possiedono altro che la loro nuda vita e i loro corpi, magari deformati dalle malattie, dipinti meravigliosamente qualche anno prima (come se fossero a futura memoria) da Peter Bruegel, vengono soppressi d’autorità. Caravaggio, ancora saprà usare i volti dei marginali per dare forma ai santi (e la poetica di Jeffreis vi assomiglia). Poi su quel mondo cadrà la scure della Ragione.

Racconta lo storico polacco Bronislaw Geremek che alla vita dei vagabondi e dei marginali ha dedicato la carriera di studioso (in italiano con Laterza), come nel Seicento, a Parigi, capitale emergente del mondo della Ragione, appunto, viene sancito il divieto di accattonaggio. I senza casa sono rinchiusi negli “Ospedali dei poveri”. Sveglia all’alba, lavoro pesante, poco cibo, gli uomini separati dalle donne e chi non produce non mangia. In altre parole: con la Razionalità (Spinoza in quel periodo separa la filosofia dalla teologia e il mito dalla storia) nasce il modello qualche secolo più tardi conosciuto come Lager. È un modello che non prevede spazi per coloro che rifiutano l’equazione tra lavoro e felicità. E c’è chi vede negli “Ospedali dei poveri”, il prototipo della fabbrica industriale.

C’è un bellissimo e poco frequentato libro di Jack London, “Il popolo degli abissi” (Robin edizioni) che richiama le foto di Jeffries. E che testimonia come il regno della Razionalità, che a parole tenderebbe ad abolire la marginalità e la follia, in realtà le moltiplica. A partire dai poveri e dai senza casa, appunto. Lo scrittore americano, nel 1902, andò a vivere per qualche mese a East End a Londra; quartiere dei miserabili, dei pazzi, degli homeless. Il suo racconto è integrato da decine di foto: bambini che dormono sulle panche, poveri sotto la neve nei giardini pubblici, venditori di stracci. Aveva il dono dell’empatia London, come pochi scrittori prima e dopo di lui. Ecco, nel libro usa espresioni strane: «Ho visto cose che avrei preferito non vedere»; «una donna che non assomigliava più a un essere umano». E anche «sono cose inenarrabili». Ebbene, con 40 anni di anticipo, London adopera, come toccato da una premonizione, gli stessi termini che verranno usati di fronte alla necessità di narrare la Shoah. Il limite dell’indicibile si era spostato più in là dai tempi di London. Ma, l’intuizione è di Zygmunt Bauman, chi cerca di eliminare marginalità, non solo la moltiplica, finisce per sterminare le masse di presunti marginali.

Rimane il fatto che gli homeless vivono tra di noi. I dati globali parlano di cento milioni di persone, ma sono difficili da verificare. In Italia, secondo Istat e Caritas i senza fissa dimora sono oltre 50 mila. Sei su dieci si trovano in questa condizione perché hanno perso il lavoro. Più precisi i dati della Fondazione De Benedetti che riguardano la sola Milano. Nella metropoli del Nord i senza casa sono oltre 2.600. Il 72 per cento dorme in strada. Nove su dieci ha esperienze di lavoro. Hanno fiducia solo negli assistenti sociali e un po’ nel Comune. In altre parole: sono il risultato del crollo di quel modello che prevedeva la fabbrica come centro della vita e il lavoro come strumento della crescita personale.

La deindustrializzazione ha finito per far tornare nelle nostre strade i vagabondi, le Madri Coraggio, descritte nel Seicento in Germania da Grimmelshausen da cui Brecht ha tratto il suo celebre dramma; donne disposte a tutto perché hanno perso tutto. Ma poi, guardiamo le foto di Jeffries. Forse ha ragione lui; forse la sofferenza va insieme con la spiritualità, e basti pensare all’emozione che suscita anche in non credenti il corpo nudo di Cristo sulla croce (e Gesù era un vagabondo) o i corpi dei santoni indiani sulle rive del Gange a Benares; oppure basta ascoltare quel poeta che alla stazione Santa Maria Novella di Firenze la sera recita versi bellissimi, mescolati con terribili improperi in spagnolo.

image_pdfimage_print

perché?!

cento bare

“Le persone valgono in quanto tali. Sempre. E in ogni luogo. È la loro umanità che infonde valore a tutto il resto. E non il contrario. Si tratti delle più prestigiose istituzioni. Morali o politiche. Economiche o familiari. Si tratti della ragion di stato o di quella celeste”

una bella riflessione-denuncia che merita di esser letta e meditata:

Solo fortuna.

Luca Calvetta

 Io non ho chiesto a nessuno di nascere. Non ho scelto alcunché. Nè le mani, le labbra, il passato dei miei genitori. Nè il denaro e la sensibilità che mi avrebbero formato. E neanche le paure o l’amore che avrei ricevuto. Sono nato un giorno di settembre, io, senza volerlo. E senza meriti particolari. Senza altre colpe, neppure, che non fossero il sangue che ho in corpo.

Sono nato cittadino italiano, io. Per puro caso. Sono nato in una famiglia benestante. E non ingrasso se anche mangio molto. Sono nato uomo, bianco e con gli occhi verdi. E godo di tutti i privilegi che questa condizione mi riserva. Per puro caso. O se vogliamo, per la storia che l’umanità ha fino a qui sedimentato.

Per puro caso, allora, e per una certa antichissima violenza.

Sono nato dalla parte opportuna dell’ingranaggio. Acquisto vestiti, alimenti ed oggetti fabbricati in altre parti del mondo o in Italia, anche. Non molto curante, a dire il vero, dei processi, delle mani e dei corpi che li hanno portati fino a me. Deposito soldi, in banca. Spendo, perfino investo, io, dei soldi. Ancora meno consapevole delle loro traiettorie. Purché un margine di profitto sia garantito. E posso permettermi addirittura di esigere che quel cibo sia talvolta biologico, equo e solidale. Che quel conto corrente sia sufficientemente poco chiaro da non recare in calce il nome di una qualche dittatura, all’altro capo del pianeta.

Per puro caso, dunque, e per una certa deliziosa pigrizia.

Sono cresciuto attraversando molti paesi e culture. Camminando sul filo delle frontierecome un equilibrista in scena, durante l’esibizione. Senza pericolo alcuno di cadere. Senza pericolo alcuno di cadere, mai. Perché non mi erano destinate barriere di nessun genere. Dogane. Oceani o procedure di ammissione. Perché l’unica frontiera sono sempre stati i miei soli, altissimi desideri. E per questo, sempre, mi sono potuto dire cosmopolita. Democratico. Liberale. Per pura conseguenza del caso.

Io non ho mai dovuto chiedere a criminali di alcuna sorta un favore, un aiuto, una tutela. Perché solamente chi non ha diritti si trova a comprendere, fin dentro alla propria carne, che i diritti esistono. E si violano. E si lodano come un salmo alla domenica, mentre si pensa a tutt’altro. O non si pensa affatto.

Io non ho mai dovuto chiedere a nessuno che la mia dignità venisse rispettata. Perché la mia dignità poteva tranquillamente fare a meno di un lavoro, di una religione, di una patria, in qualche modo. Perché la mia dignità poteva tranquillamente oltrepassare le distinzioni di razza, orientamento sessuale o istruzione. Per mero frutto del caso e per niente altro ancora.

Io sono sempre stato profondamente europeista. Perché dalle finestre del mio appartamento all’ultimo piano, si gode di una vista meravigliosa sulle nuvole al tramonto. Ed è facile inseguire le più nobili astrazioni. Spetteranno agli altri, suppongo, accalcati negli autobus in basso, per la strada, le incoerenze e gli scarti dei miei sogni sovranazionali. Per la strada in basso e, certo, più lontano: al di là dei monti e delle acque. Al di là degli occhi.

Per mia sorte, mia sorte, mia grandissima sorte.

Io posso permettermi di dire, quindi, che le diverse leggi poste a guardia dei confini sono una barbarie. Io posso permettermi di dire che l’idea stessa di confine è un arbitrio morale e perfino filosofico. Io posso permettermi di insultare chi permane razzista e xenofobo. E posso dire che la retorica sopra i morti a Lampedusa e ovunque, non deve condannarsi, se serve a proporre una questione. E a porla davvero nei cuori. Di tutti. Per puro caso.

E posso perfino gridare che non cambierà mai nulla fin quando si insegnerà che l’essere umano deve salvarsi o redimere da una colpa precedente. Che la sua dignità gli deriva dal sudore della fronte. Dal lavoro. O i suoi diritti dalla condizione di cittadino di un numero limitato di nazioni. O fedele d’una specifica religione. Che la sua dignità e finanche la sua sopravvivenza gli derivano dall’essere maschio o femmina, omosessuale o altro ancora. Che la sua vita dipende, in altre parole, dal ruolo che gli spetta all’interno di un insieme più ampio. E nella misura in cui rimane subordinato agli interessi di chi controlla quello stesso insieme.

Io posso dire tutto questo, senza nessuna certezza di venire compreso. Per puro caso, posso dirlo e pensarlo. Quello che non posso, invece, dire per un semplice giro della fortuna, ma perché devo dirlo, è che Lampedusa, lei, non è figlia del caso. E non dipende da una legge. Dal coraggio di un peschereccio e neppure dai soli strumenti dell’Unione europea.

Perché Lampedusa non è un incidente. Un dramma. Una triste notizia. Ed i morti senza nome di Lampedusa non sono altri morti da quelli vomitati ogni singolo giorno dal nostro sistema nel suo complesso. In ciascuno dei nostri gesti. Gusti. E consumi. Ovunque si subordini l’umanità di una persona ad un criterio ulteriore. Ad un’altra, più stringente qualità. Oltre quella, semplicemente, di essere al mondo.

Genere, razza o fede, allora, cittadinanza, occupazione o produttività, assemblea degli azionisti o sfruttamento delle risorse naturali. Le persone valgono in quanto tali. Sempre. E in ogni luogo. È la loro umanità che infonde valore a tutto il resto. E non il contrario. Si tratti delle più prestigiose istituzioni. Morali o politiche. Economiche o familiari. Si tratti della ragion di stato o di quella celeste. Perché questo non è il caso. È la nostra responsabilità. E la logica di un sistema che implica per sua stessa natura partizioni, ingiustizie e morti.

O se ne cambia l’essenza, quindi. A piccoli passi, magari. Progressivamente. O Lampedusa tornerà senza sosta. Vicino e lontano e dentro ciascuno di noi. Perché non ho chiesto a nessuno di nascere, io, tanti anni fa, ma ho lasciato che qualcun altro morisse. Ogni giorno.

image_pdfimage_print

la burocrazia del mare che uccide

migranti-tuttacronaca

è giustamente arrabbiatissimo A. Padellaro, direttore de ‘il fatto quotidiano’ nei confronti della burocrazia marina (ma non solo) che in nome di protocolli e formalità astratte permette non solo la morte di tante persone non soccorse in tempo utile, ma impedisce a volontari di farlo, pena l’accusa di favoreggiamento dell’emigrazione illegale …

Lampedusa, il protocollo dell’Isola dei Conigli

di Antonio Padellaro 

Ma quali imperdonabili colpe hanno i poveri morti di Lampedusa abbandonati, bruciati, annegati e adesso usati, maneggiati, falsificati ed esibiti come una qualunque, dozzinale merce politica e televisiva? Che dire del ministro Alfano che “unendosi alla vergogna del Papa” ne tradisce il pensiero e lesto se ne appropria avendo, al contrario, Francesco rivolto il grido sdegnato anche e soprattutto a quegli uomini di governo che potevano fare e non hanno fatto. E che poco hanno intenzione di fare visto che Angelino mette le mani avanti e ci comunica che “forse non sarà l’ultima tragedia” come se gli oltre 6mila migranti, che in un decennio hanno concluso la loro traversata in fondo al mare morto siciliano, fossero la conseguenza di una fatalità imperscrutabile e inevitabile. Cosa dunque dobbiamo pensare quando la presidente della Camera Boldrini ci dice che “nulla dovrà essere più come prima”, visto che “prima” c’era lei che per conto dell’Onu si occupava a tempo pieno di quei rifugiati di cui ora non risulta che si occupi più nessuno? E quel tutto che deve cambiare perché nulla sia più come prima come potrà farlo in presenza di leggi infami e imbecilli come quella Bossi-Fini che prevede l’accusa di favoreggiamento anche per chi soccorre in mare persone stremate che stanno per morire? (Senza contare il reato di immigrazione clandestina che sarà contestato ai superstiti, colpevoli forse, di essere rimasti vivi). Come può cambiare la burocrazia vigliacca del nulla impastato col niente che, mentre le barche dei pescatori affondavano stracolme di corpi disperati, avrebbe risposto alla richiesta di trasbordarli sulle motovedette, “non possiamo, dobbiamo aspettare il protocollo”.

Frase talmente abietta che l’unica cosa da augurarsi è che non sia mai stata pronunciata. E se il premio Nobel per la Pace andrebbe giustamente assegnato alla nobile gente di Lampedusa, per il senso profondo che hanno dato alle parole accoglienza e soccorso, quale solenne menzione di biasimo si dovrebbe appuntare sul petto di chi doveva intercettare il barcone con il dispositivo Frontex o per lo meno, avvistarlo con i radar e che avrà per sempre sulla coscienza quella moltitudine implorante e sommersa a poche centinaia di metri dalla costa? Vicino a quell’Isola dei Conigli, dalla notte del 2 ottobre luogo geografico della disperazione e dell’ignavia. Che hanno fatto di male i poveri corpi di Lampedusa per essere esposti infine nei talk show della sera, vittime che i consueti ospiti urlanti si sono rinfacciate nel solito pollaio tra finta commozione e autentica oscenità? Potrebbe non essere l’ultima pena riservata a questi eritrei e somali colpevoli di essere fuggiti dalla fame se, come si teme, il minuto di silenzio loro tributato negli stadi dovesse essere interrotto dai fischi e cori razzisti. Sarebbe la degna marcia funebre per un Paese che è naufragato molto tempo fa.

Il Fatto Quotidiano, 6 Ottobre 2013

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print