l’Italia e la questione dei diritti civili

P. Zanca fa un utilissimo punto della situazione su ‘il Fatto quotidiano’ e C. Saraceno in una chiarissima riflessione da par suo, su ‘la Repubblica’, aiuta a capire che metter in contrasto politiche per la famiglia e diritti civili è semplicemente fuori di ogni logica e politicamente fuorviante; di seguito una significativa intervista al ministro M. Cecilia Guerro e, per finire, una riflessione su tutto questo di C. Sardo:

IL PAESE INCIVILE: SUI DIRITTI È TUTTO FERMO DA DIECI ANNI

 

Ceccato

CON GLI ANNI DUEMILA SEMBRAVA APRIRSI UNA NUOVA STAGIONE DI LIBERAZIONE MA SU DIVORZIO, FECONDAZIONE, UNIONI ED EUTANASIA NON SI MUOVE UNA FOGLIA.

L’unica volta che ci si era avvicinato, era riuscito perfino a portare a casa un risultato storico: con un decreto, addio per sempre alla distinzione tra figli nati dentro e fuori dal matrimonio. Ma per il governo Letta, sul tema dei diritti civili, doveva ancora arrivare la grana Renzi e i suoi “trattiamo con chi ci sta”. O meglio, dopo le toppe al bilancio, a Palazzo Chigi doveva ancora capitare la sventura di trovarsi di fronte ai buchi di civiltà. Non che fosse un imprevisto: dalle unioni civili al divorzio, dalla fecondazione assistita al testamento biologico, dall’omofobia allo ius soli, quando si è trattato di assicurare la possibilità di piena realizzazione delle libertà individuali, lo Stato italiano si è dimostrato sempre più ingombrante del solito. Ecco come siamo messi, nel Paese in cui non sembra mai il momento buono per cambiare registro.

Pacs, Dico, Cus e niente più

L’accidentato percorso dei contratti tra persone che vivono stabilmente insieme si avvicina a festeggiare il suo ottavo compleanno. E oggi, alcuni parlamentari sono ancora lì a tentare di rimediare al tentativo fallito dal governo Prodi di regolamentare il settore delle unioni di fatto. In Parlamento ci sono una serie di proposte depositate, da quella dei Pd Andrea Marcucci e Luigi Man-coni, a quella di Alessia Petra-glia (Sel) fino alle proposte del Nuovo centrodestra (Giovanardi) e di Forza Italia (Alberti Casellati). Non si tratta di un riconoscimento sociale e simbolico: il patto tra conviventi serve soprattutto in momenti difficili come la malattia o la morte. Sulle varie proposte (se ne contano 8) si sta valutando l’esame congiunto in commissione al Senato. Il presidente Nitto Palma ha chiesto al Pd di “conoscere l’orientamento definitivo del gruppo”. Ha risposto Giuseppe Lumia: “Da un lato va considerata l’opportunità di disciplinare la condizione delle coppie di fatto – si legge nel resoconto – dall’altro occorre valutare se vi siano le condizioni per l’estensione in favore delle coppie composte da persone dello stesso sesso”. Spiega che bisogna confrontarsi con l’esecutivo. Chiarisce Lucio Barani di Gal: sui matrimoni omosessuali esiste “una maggioranza numerica in Commissione che non corrisponde a quella che sostiene attualmente l’azione di governo”. Il centrodestra conferma. “La Commissione prende atto”. E rimanda a fine gennaio.

Se ti lascio non ti cancello

La legge è ferma al 1970. E anche qui sono dieci anni che si cerca di portare l’intervallo obbligatorio tra separazione e divorzio da 3 anni a 1. Ma niente da fare. Ora, a Montecitorio, ci riprovano il 5 Stelle Alfonso Bonafede e la Pd Alessandra Moretti. Se ne discuterà in commissione Giustizia, sperando sia la volta buona.

La fuga delle provette

Anche la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, quest’anno ne compie dieci. In mezzo c’è un referendum (senza quorum) e una serie di sentenze della Corte Costituzionale. Adesso è la deputata Pd Michela Marzano a tentare di mettere fine al calvario di migliaia di coppie in cerca di un figlio. L’obiettivo – già sollecitato dalla Consulta – è quello di stabilire che “la regola di fondo” è “la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali”. Sono loro, e non qualche centinaio di parlamentari , a dover stabilire il numero di impianti necessari, la tempistica, le diagnosi da fare se il problema non è l’infertilità ma una malattia genetica. Visto che in Italia non si può, solo nel 2011 sono 4 mila le coppie fuggite all’estero. Rosetta e Walter hanno scelto di restare qui a combattere contro una legge ingiusta. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato lo Stato italiano a risarcirli per danni morali.

Il testamento di Marino

Ci vorrà – ahinoi – un altro caso Englaro o un altro Welby per rimettersi a parlare di fine vita e di testamento biologico. Il documento del comitato nazionale di bioetica porta di nuovo la data di dieci anni fa, il 2003. Già allora di parlava di Dat, la dichiarazione anticipata di trattamento. Ma al Senato la proposta che porta la firma di Ignazio Marino (nel frattempo diventato sindaco di Roma) è ancora lì che si dimena tra i pareri delle commissioni.

La cicogna non parla straniero

Tutto fermo anche in materia di cittadinanza ai figli degli stranieri nati in Italia. Gli autorevolissimi appelli – da Napolitano in giù – sono rimasti nei cassetti. Ci sono una quindicina di proposte depositate in commissione, compresa quella del Cinque Stelle Giorgio Sorial: prevede uno ius soli temperato, dove la cittadinanza si acquista se si è nati da almeno un genitore straniero residente legalmente in Italia da non meno di tre anni. Per Grillo però una legge del genere non può non passare da un referendum popolare: “Una decisione che può cambiare nel tempo la geografia del Paese – ha detto a maggio – non può essere lasciata a un gruppetto di parlamentari e di politici in campagna elettorale permanente”.

Da Il Fatto Quotidiano del 05/01/2014.

 

FAMIGLIA E DIRITTI NON SONO NEMICI

 

Prima il sostegno alla famiglia e poi eventualmente, si può discutere dei diritti degli omosessuali a veder riconosciuti i propri legami di coppia e le proprie famiglie. È ormai un riflesso condizionato. Ogni volta che si parla del diritto al riconoscimento sociale e giuridico delle coppie omosessuali, chi è contrario evoca una gerarchia di priorità, quando non di mutua esclusione, tra i “diritti della famiglia” e quelli delle coppie omosessuali e delle loro famiglie, senza, peraltro, chiarire dove starebbe la contrapposizione tra l’una e l’altra cosa e perché riconoscere le coppie omosessuali indebolirebbe la possibilità di fornire sostegni alle famiglie. Questi, infatti, riguardano politiche abitative e di trasferimenti monetari e di servizi, principalmente, anche se non esclusivamente, a favore di chi ha famigliari a carico — figli minori, persone non autosufficienti e bisognose di cura. Proprio quelle politiche di cui sono stati molto avari tutti i governi italiani dal dopoguerra a oggi, nonostante siano stati per lo più retti da maggioranze in cui prevalevano i “difensori della famiglia” che si sono fin qui opposti a ogni riconoscimento delle coppie omosessuali e delle loro famiglie. Quelle politiche che negli ultimi anni sono state ulteriormente ridotte, proprio quando i bilanci delle famiglie erano in maggiore sofferenza, con i tagli drastici effettuati a carico della spesa sociale. Per non parlare delle politiche economiche, che hanno reso sempre più difficile ai giovani formare una famiglia — di qualsiasi tipo — se lo desiderano e a chi ne ha formata una di riuscire a mantenerla adeguatamente. L’evocazione della “priorità della famiglia”, sembra servire solo come paravento per nascondere quanto poco si faccia a favore delle famiglie concretamente esistenti, mostrandosi come campioni dei “valori”, purché a costo zero. O meglio, a costo dei diritti di libertà e del riconoscimento di un pluralismo etico e nel modo di definire e realizzare progetti di solidarietà, intimità, amore. Questi difensori a oltranza dei “valori” e della “famiglia” univocamente e monoliticamente intesi, tuttavia, rischiano di essere spiazzati proprio da chi riconoscono come guida in questo campo o, più prosaicamente, vogliono compiacere per un qualche calcolo politico. Le chiese cristiane, infatti, stanno mostrando un forte dinamismo riflessivo. Il fenomeno è più evidente, e più consolidato, nelle chiese protestanti, anche italiane, che hanno ormai riconosciuto che non esiste una “famiglia naturale”, bensì forme storico-culturali di intendere famiglia e matrimonio. Perciò parlano di concetto plurale di famiglia, ove tutte le varie forme, incluse quelle basate su una coppia omosessuale, sono ugualmente dotate di valore. La chiesa cattolica si addentra con maggiore lentezza e prudenza in questo terreno, almeno sul piano dei documenti ufficiali (anche se il dibattito teologico non è in realtà molto distante dalle posizioni protestanti richiamate sopra). Tuttavia sta manifestando crescenti aperture alla varietà delle forme famigliari, innanzitutto sul piano pastorale, soprattutto per merito di papa Francesco e della sua insistenza su una chiesa inclusiva piuttosto che giudicante ed esclusiva. Si è anche aperto un piccolo varco a chi, nella chiesa cattolica, sarebbe disponibile ad accettare una qualche forma di riconoscimento giuridico delle coppie di fatto, etero e omosessuali. Certo, siamo molto lontani dalla accettazione che il matrimonio sia consentito anche alle coppie omosessuali. E c’è spesso una insistenza quasi ossessiva nel sottolineare che la famiglia è una sola, quella fondata sul matrimonio tra uomo e donna, salvo dover fare i conti con il fatto che molti genitori divorziano e si risposano e altri convivono, senza che per questo sia loro che i figli siano “senza famiglia”. Tuttavia, a differenza degli Alfano e dei Lupi, non solo singoli parroci, o teologi più o meno marginali, ma anche parte della gerarchia cattolica, incluso il responsabile della Pastorale per la famiglia, non escludono che sia venuto il momento di dare un qualche riconoscimento a queste coppie, se non altro per cercare di frenare la richiesta di matrimonio. Questa, piccola, apertura, può non bastare alle persone omosessuali, che legittimamente chiedono pari opportunità anche nel fare famiglia. Ma segnala che anche nei piani alti della gerarchia della Chiesa cattolica italiana le posizioni non sono più così monolitiche come un tempo. E infatti le controversie e gli attacchi dei conservatori dell’ortodossia non sono mancati. Sarebbe tuttavia singolare che i difensori a oltranza nostrani della famiglia unica e della insanabile opposizione tra questa difesa e l’allargamento dei diritti sostenessero la propria posizione con argomentazioni che sono messe in dubbio anche nelle sedi che tradizionalmente le hanno elaborate e divulgate.

Da La Repubblica del 06/01/2014.

«Coppie etero o gay: stessi diritti»

intervista a Maria Cecilia Guerra

a cura di Alessandra Arlachi

in “Corriere della Sera” del 9 gennaio 2014

«L’intervento di Renzi sulle unioni civili anche omosessuali deve essere ascoltato. Questo non è un

problema che deve aspettare, non più».

Maria Cecilia Guerra, viceministro per il Lavoro, ha tra le mani la delicata delega per le Pari

opportunità. Non ha intenzione di lasciarla sulla carta.

Cosa intende fare per dar seguito alle parole del segretario Matteo Renzi sulle unioni civili

omosessuali, un decreto del governo?

«No, il governo è maggioranza. E questo non è un tema che deve essere affrontato da una

maggioranza o da una parte politica. Non deve essere un tema da campagna elettorale. Deve essere

un dibattito trasversale, sereno. Il Paese è maturo per questo. Ci sono leggi già in Parlamento sulle

unioni civili, bisogna dare seguito a quelle».

Quali? Ce ne sono tante…

«Lo deciderà il Parlamento».

Ma lei quale legge vorrebbe?

«Esprimo un parere personale. E dico che non ci sono motivi per trattare in modo diverso una

coppia omosessuale rispetto ad una coppia eterosessuale. Siamo sempre davanti a due persone che

hanno un rapporto d’amore e sono disponibili ad una relazione di reciprocità fatta di diritti e doveri,

di responsabilità rispetto alla società. Del resto in molti Paesi d’Europa i due tipi di coppie sono già

equiparate».

Intende quei Paesi dove sono leciti i matrimoni fra omosessuali?

«Già. Sono tanti. La Gran Bretagna, la Francia, l’Olanda, la Svezia, il Belgio, la Danimarca. Poi ci

sono anche la Germania e il Portogallo, lì però ci sono dei distinguo che riguardano le adozioni per

le coppie omosessuali».

Lei pensa che sarebbe giusto concedere anche la possibilità di adozione alle coppie

omosessuali?

«Personalmente penso di sì perché sono a favore di una piena equiparazione. Ma intanto penso si

debba convenire sul fatto che se all’interno della coppia omosessuale c’è un genitore naturale

single, credo che il partner debba avere la possibilità di adottare quel figlio. E non vedo che tipo di

obiezioni potrebbero esserci a una cosa simile».

Si rende conto che le prime obiezioni potrebbero arrivare proprio dall’interno del suo partito,

il Pd?

«Non è un problema di partito. Un tema di questo genere, l’ho già detto, non deve essere

appannaggio di un partito o di un altro. È un tema talmente sensibile che deve essere affidato alla

coscienza di ognuno. E io vorrei che con coscienza ognuno mi spiegasse qual è il problema a

trattare gli esseri umani alla stessa maniera. Del resto anche la Corte costituzionale ci ha sollecitato,

fin dal 2010, a legiferare in tema di diritti alle coppie omosessuali. E il Paese è maturo per questo.

Lo dicono i sondaggi».

Quali? E cosa dicono?

«L’Istat ha scoperto che il 62,8% degli italiani pensa che sia giusto che una coppia di omosessuali

che convive possa avere per legge gli stessi diritti di una coppia sposata. Il 43,9% pensa sia

addirittura giusto che si sposino. Non crede che il Paese sia maturo? Non pensa sia giusto smetterla

con gli alibi che dare i diritti alle coppie omosessuali costa?».

Se parliamo di concedere la pensione di reversibilità un costo in effetti c’è…

«Ma ci può essere anche un risparmio se parliamo di assegni familiari o di detrazioni fiscali: se non

si riconosce una famiglia omosessuale qui lo Stato ci va a rimettere. Questo per anticipare alcune

obiezioni che, comunque, in un momento così sembrano fuori luogo. Del resto anche il Papa ha

fatto grandi aperture in tal senso».

Allude alle frasi di papa Francesco di pochi giorni fa di bambine con due madri?

«È una grande apertura di ascolto, molto importante».

Ma lei si rende conto che siamo stati bocciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di

Strasburgo anche per una cosa semplice come il diritto della madre a dare il cognome in

esclusiva al proprio figlio?

«Questo è un problema relativamente semplice al quale il governo sta lavorando per trovare una

soluzione. E presto formalizzeremo una proposta. Anche su questo la Corte costituzionale aveva

invitato il legislatore ad occuparsi del tema. In questo caso possiamo essere veloci».

Nell’altro caso meno…

«Dobbiamo essere una società inclusiva. E capire che questo problema delle coppie omosessuali

non può davvero più aspettare. Non dico che devono essere tutti d’accordo con me, ma porsi il

problema del rispetto delle persone sì».

Famiglia e unioni gay

di Claudio Sardo

in “l’Unità” del 9 gennaio 2014

È insopportabile la continua contrapposizione tra le politiche a sostegno della famiglia e il

riconoscimento giuridico delle unioni gay. Anche perché i risultati di queste polemiche sono i tristi

primati italiani: ultimi nelle politiche familiari, ultimi nei diritti delle persone omosessuali. E si

parla ancora di rinvii, come esito inesorabile di una reciproca elisione.

Invece si potrebbe persino approfittare di un governo, eccezionalmente formato da antagonisti

politici, per cambiare direzione di marcia e togliere l’ipoteca dei pregiudizi ideologici.

A questo Paese servono politiche per la famiglia, perché il suo potenziale di solidarietà resta, al di là

delle trasformazioni economiche e culturali che ne hanno mutato la fisionomia, una risorsa

insostituibile per la coesione sociale e per la trasmissione di relazioni improntate alla gratuità. E a

questo Paese serve una disciplina di carattere pubblico, che dia stabilità alle unioni omosessuali e

che realizzi così la disposizione dell’articolo 2 della nostra Carta costituzionale, quello che

garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, non solo come singolo ma nelle formazioni sociali «ove si

svolge la sua personalità».

Scontiamo ritardi storici. Il riflesso delle politiche demografiche attuate dal fascismo ha frenato nel

tempo le misure legislative, fiscali, sociali a favore delle famiglie, e in special modo delle donne

che lavorano e dei nuclei più numerosi. Un deficit che ha prodotto diseguaglianza sostanziale, dal

momento che il carico familiare è diventato causa di povertà in misura assai maggiore che nel resto

dell’Europa. E ora paghiamo anche con gli interessi perché l’Italia è al tempo stesso la nazione con

la più bassa natalità e con la più alta inoccupazione femminile. Se non bastasse il buon senso, sono

proprio i dati reali a smentire clamorosamente i pregiudizi. Le famiglie sono oggi più forti dove è

maggiore l’occupazione delle donne e dove migliori sono gli asili-nido, i servizi per i non

autosufficienti e le politiche di conciliazione tra i tempi di lavoro e quelli di cura. Le famiglie sono

più forti – e i giovani più incoraggiati a costituirle – dove il fisco tiene in maggiore considerazione il

numero dei componenti della famiglia anagrafica. In Francia il sostegno economico alle famiglie

con bambini tra zero e tre anni è tra i più alti dell’Unione.

E sempre in Francia funziona un quoziente familiare corretto (nel senso della progressività fiscale)

che costituisce una significativa integrazione al reddito per i nuclei numerosi. Il risultato è che si

formano più famiglie, che le donne generano più figli e che l’occupazione femminile è ben

maggiore che in Italia. Ancora più evidenti sono in tal senso gli effetti del welfare dei Paesi nordici,

dove i giovani sono in grado di promuovere il loro progetto familiare molto prima che da noi. Oggi

migliori politiche familiari possono diventare anche vettori di ripresa economica dopo la crisi.

I cattolici italiani, in questo caso, devono fare autocritica. E la sinistra italiana deve porsi il

problema di migliorare quel welfare, che è nato dalle grandi lotte sindacali degli anni 70 ma che è

modellato sulla figura del lavoratore maschio e adulto. Le politiche per la famiglia, fuori da ogni

ideologia, sono le politiche redistributive più giuste e concrete. E possono favorire, oltre alla

solidarietà, un’alleanza generazionale che sconfigga la retorica liberista dei padri contro i figli.

Certo, non si cambiano le cose con un colpo di bacchetta magica. Ma si può avviare una nuova

strategia decennale. E non c’è motivo perché queste scelte vengano opposte al riconoscimento dei

diritti e dei doveri delle persone omosessuali. La società in carne e ossa non è un congresso, o un

concilio, in cui si disputa il modello ideale di famiglia. L’ordinamento non può non tener conto

della libertà, della molteplicità, del pluralismo culturale e religioso. Ed è bene che valorizzi ciò che

produce coesione, stabilità negli affetti, solidarietà umana: le derive individualiste riducono le

libertà più delle norme restrittive. La moratoria dovrebbe scattare sui pregiudizi anziché su una

nuova legge: ciò che le unioni civili tra omosessuali devono tutelare è anzitutto la centralità della

persona, la sua irriducibile dignità. E la persona, a differenza dell’individuo, si esprime attraverso

relazioni non esclusivamente economiche e attraverso i mondi vitali che riesce a costruire.

La Corte costituzionale nel 2010 ha invitato il Parlamento a dare pieno riconoscimento legislativo

alle coppie omosessuali: ci auguriamo che non si ripeta quanto è accaduto con la legge elettorale.

La stessa Corte ha sottolineato che non è necessario equiparare le unioni gay al matrimonio, definito

dall’art. 29 della Costituzione. Gli ostacoli possono e debbono essere superati. Come accadde nel

1975, quando personalità come Nilde Iotti, Maria Eletta Martini e Giglia Tedesco scrissero insieme

il nuovo diritto di famiglia. Era passato solo un anno dallo scontro epocale sul divorzio. Ma se la

politica si arrende quando sono in gioco valori costituzionali primari, allora si dà ragione a chi dice

che la politica non serve

 

una guerra tra poveri

un bell’articolo di Chiara Saraceno su ‘la Repubblica’ odierna sulla guerra tra poveri: “Non appena il ministro Giovannini annuncia di voler introdurre un reddito minimo per chi si trova in povertà – una misura che esiste da diversi decenni in quasi tutti i paesi europei – non solo la destra, ma anche i sindacati fanno opposizione, chiedendo che prima, appunto, vengano salvaguardati e rifinanziati tutti i diversi tipi di ammortizzatori sociali esistenti. Mantenendo proprio quella frammentazione categoriale che ha finora impedito di garantire diritti certi e omogenei”

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UNA GUERRA TRA POVERI
(Chiara Saraceno)

Quanto è difficile nel nostro paese uscire da logiche puramente categoriali: che riconoscono diritti e protezioni diversi a persone nella stessa condizione oggettiva, ma appartenenti a categorie – professionali, territoriali, di età, ecc. – differenti. Non appena il ministro Giovannini annuncia di voler introdurre un reddito minimo per chi si trova in povertà – una misura che esiste da diversi decenni in quasi tutti i paesi europei – non solo la destra, ma anche i sindacati fanno opposizione, chiedendo che prima, appunto, vengano salvaguardati e rifinanziati tutti i diversi tipi di ammortizzatori sociali esistenti. Mantenendo proprio quella frammentazione categoriale che ha finora impedito di garantire diritti certi e omogenei per omogeneità di condizione: una indennità di disoccupazione universale per tutti coloro che perdono il lavoro e non sistemi macchinosamente differenziati che si prestano a logiche clientelari e lasciano scoperti ampi gruppi di disoccupati, unitamente, appunto, ad un sostegno al reddito per i poveri.

Condivido il timore dei sindacati che, in una situazione di risorse scarse, ci sia il rischio che avvengano tagli senza compensazione. È dovere dei sindacati, oltre che dei partiti che dovrebbero avere a cuore l’equità e l’uguaglianza almeno di fronte al bisogno, sorvegliare che ciò non avvenga. Capisco, e in linea di principio condivido, anche la richiesta di risorse aggiuntive, specie dopo che la questione della mancanza di fondi non ha fermato la cancellazione della prima, e forse anche della seconda, rata dell’Imu sulla prima casa, con ovvio beneficio per i più abbienti. Ciò che non condivido è la difesa strenua della frammentazione categoriale. Come se un giovane che perde un lavoro a tempo determinato valesse meno di uno che perde un lavoro a tempo determinato e viene messo indefinitamente in cassa integrazione a zero ore; come se un esodato avesse più diritti di un/una cinquantenne che ha perso il lavoro e difficilmente ne ritroverà un altro; come se chi è povero e non appartiene a nessuna “categoria protetta” avesse meno diritti.

La frammentazione categoriale cui assistiamo oggi, con tutte le ingiustizie che produce e i buchi che lascia aperti, è frutto del modo in cui si è sviluppato il sistema di protezione sociale italiano: per progressivo incrementalismo che allargava sì la platea dei “protetti”, ma senza mai ridefinire il disegno complessivo, creando disuguaglianze anche tra gli stessi “protetti”. È avvenuto per i lavoratori, i pensionati e persino i disabili. In modo diverso è avvenuto anche per quanto riguarda il sostegno al costo dei figli, ove chi finisce con il non aver diritto a nulla sono proprio i più poveri. In effetti, non si può non rimanere colpiti dall’attenzione, nel migliore dei casi marginale, per la povertà che caratterizza il dibattito politico e la stessa posizione dei sindacati, oltre che del Pd.

Eppure la povertà è aumentata notevolmente negli ultimi anni, colpendo soprattutto le famiglie con figli minori e toccando anche ceti che fino a poco tempo fa pesavano di esserne al sicuro. A farla crescere non è stato solo l’aumento della disoccupazione, ma anche la riduzione forzata degli orari di lavoro e lo scarto tra redditi e costo della vita. Il reddito minimo, proposto dalla commissione di esperti che il ministro Giovannini sembra voler far propria, mira a coprire almeno parte della distanza tra reddito disponibile e costo di mantenimento di un livello di vita decente. Per chi non ha lavoro, o è in una forte situazione di precariato, sarebbe accompagnata da attività di formazione e accompagnamento al lavoro, per rafforzarne, come si dice, l’occupabilità. Da questo punto di vista, potrebbe essere anche inteso come uno stimolo dal lato dell’offerta di lavoro, a integrazione di quelli che si dovrebbero mettere in campo dal lato della domanda (riduzione del cuneo fiscale, sostegni a chi assume, ecc.), per evitare che i più poveri manchino anche queste opportunità.

È sicuramente legittimo chiedere risorse aggiuntive, e prima ancora chiedere che, in una situazione di risorse scarse, queste non vengano erogate principalmente a favore dei più abbienti, cui anzi si dovrebbe chiedere una solidarietà maggiore, rinunciando ad una quota dei propri benefici (disboscando le detrazioni fiscali, ad esempio, e tassando le pensioni alte). Tale richiesta sarebbe, tuttavia, più forte se si accompagnasse alla disponibilità a rivedere anche le ingiustizie che si nascondono nel categorialismo spinto del nostro frammentato sistema di protezione sociale.

poveri, sempre più poveri!

 

 

bambino

secondo l’Istat 3 milioni di famiglie vivono in povertà

poveri, sempre più poveri : un milione e settecentoventicinquemila sono da considerarsi assolutamente povere

qui sotto una appropriata riflessione di Chiara Saraceno:

UN ARGINE ALLA POVERTÀ (Chiara Saraceno)

Per il secondo anno consecutivo, e in modo più accentuato, è aumentata sia la povertà relativa (cioè in riferimento al tenore di vita medio, per altro diminuito nel 2012 rispetto all’anno precedente) sia quella assoluta, che riguarda l’impossibilità di acquistare un paniere di beni essenziali. In entrambi i casi, il peggioramento riguarda tutte le aree territoriali (anche se nel Mezzogiorno l’incidenza della povertà relativa è oltre tre volte quella del Centro-Nord e quella assoluta quasi doppia) e quasi tutti i tipi di famiglie: le più giovani e le meno giovani, quelle più numerose e quelle più piccole, quelle in cui nessun adulto è occupato ma anche, in minor misura, quelle con occupati, le famiglie di operai e, in minor misura, quelle di impiegati. La disoccupazione ha ridotto il numero di percettori di reddito in famiglia, la riduzione dell’orario di lavoro e la cassa integrazione hanno ridotto il reddito degli occupati. Sono soprattutto le famiglie relativamente giovani e con figli minori quelle che hanno visto peggiorare maggiormente la propria situazione. Si trova in condizione di povertà assoluta, cioè non in grado di alimentarsi adeguatamente e di far fronte alle necessarie spese per l’abitazione, il 17,1% delle famiglie con tre o più figli minori (oltre il 6% in più dell’anno precedente), e il 10% (quasi il doppio dell’anno precedente) di quelle con due. Le percentuali sono più alte – rispettivamente 28,5 e 20,1 per cento – nel caso della povertà relativa. I minori e le loro famiglie si confermano così i soggetti più vulnerabili alla povertà nel nostro Paese. I minori in condizione di povertà assoluta sono un
milione e 58 mila, un quarto di tutte le persone in queste condizioni. Un dato impressionante in un Paese in cui periodicamente ci si lamenta per la bassa fecondità e ci si preoccupa, giustamente, dei Neet, dei giovani che non sono né a scuola né al lavoro, ma poco o nulla si fa per evitare che un’ampia porzione dei bambini che ci sono cresca in condizioni materiali inadeguate. La vulnerabilità dei minori è particolarmente alta se abitano nel Mezzogiorno e se nessun adulto in famiglia è occupato. Quasi la metà di tutti coloro che sono in condizioni di povertà assoluta, infatti, vive nel Mezzogiorno, dove è anche più alta l’incidenza di famiglie in cui nessuno è occupato o ritirato dal lavoro. Tra queste ultime, a livello nazionale si trova in povertà assoluta il 30,8% delle famiglie (l’8,5% in più rispetto all’anno prima). La mancanza di occupazione, e il suo prolungarsi senza speranza, sta diventando un disastro antropologico, che allarga le sue conseguenze dagli individui alle famiglie, dagli adulti ai più piccoli.
Solo per gli anziani che vivono da soli l’incidenza della povertà assoluta non è aumentata e quella della povertà relativa è diminuita un po’ (per effetto del peggioramento complessivo del restante della popolazione). È probabilmente l’effetto positivo del mantenimento dell’indicizzazione per le pensioni più basse. Stante l’elevato numero di coloro che – come segnalato ieri dal rapporto annuale Inps – hanno una pensione attorno, o inferiore, ai 500 euro, esso non è stato tuttavia sufficiente a ridurre la povertà degli anziani che vivono con altri e la cui pensione è talvolta l’unico reddito sicuro in
famiglia.
A parte le pensioni, ci si può interrogare sull’adeguatezza degli ammortizzatori sociali messi in campo. Sempre il rapporto Inps ha evidenziato che la spesa per il sostegno al reddito non è piccola: oltre 22 miliardi nel 2012, di cui sei per la sola cassa integrazione, il resto per indennità di disoccupazione e mobilità, invalidità civile, contributi figurativi e simili. Sicuramente queste misure di sostegno hanno impedito a molte famiglie di cadere in povertà assoluta. Ma, a fronte dell’aumento di quest’ultima e delle caratteristiche di chi la sperimenta, non ci si può esimere dal riflettere sui costi sociali della mancanza, nel nostro Paese, di due strumenti che in altri si sono rivelati piuttosto efficaci nel contrastare gli effetti più negativi della povertà. Il primo è l’assegno per i figli, che aiuti chi ha figli a sostenerne il costo, perciò impedendo che la scelta individuale di investire sul futuro si traduca in povertà per sé e per i propri figli. Il secondo è un reddito di garanzia per chi si trova, appunto, in povertà, integrato da misure di inclusione e attivazione. L’Italia è uno dei pochi Paesi europei occidentali a non avere né l’uno né l’altro strumento, affidandosi invece a misure frammentate e categoriali, che, mentre lasciano molti, di solito i più deboli, scoperti, talvolta beneficiano chi invece non ne avrebbe bisogno. Sarebbe opportuno che la presa d’atto dell’emergenza sociale evidenziata dai dati sulla povertà sollecitasse in tutti la necessità di una revisione della spesa per il sostegno al reddito, in direzione di una maggiore equità ed efficacia.

Da La Repubblica del 18/07/2013.

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