la pace necessaria per le teologhe italiane

 

pace necessaria

La pace è necessaria

cristina simonelli

«La debolezza, la paura e la disperazione sono morti. Sono nati forza, potenza e coraggio. Io sono la stessa Malala. Le mie ambizioni sono le stesse. Le mie speranze sono le stesse. I miei sogni sono gli stessi […] Signor Segretario Generale la pace è necessaria..».

Le parole di Malala Yousafzai all’ONU lo scorso luglio, hanno fatto il giro del mondo, insieme alla sua figura avvolta nello scialle rosa appartenuto a Benazir Bhutto: ricorrere a lei per parlare di pace e diritti può sembrare una facile scorciatoia. E’ tuttavia il modo con cui vogliamo impegnarci a guardare fuori dalla finestra, fuori dai nostri cortili e dalle nostre comodità, per collocare i temi che ci sono abituali in più ampio orizzonte. Di fronte al dramma delle guerre – come di fronte agli sbarchi di questa estate, col loro carico di speranza e di sofferenza – recuperiamo priorità e proporzioni.

Con questo senso del limite ma anche con la determinazione e la speranza che possiamo apprendere da quanti sono portatori di una visione, riapriamo ufficialmente i nostri cantieri: che hanno vissuto e tuttora stanno vivendo congressi e convegni – italiani ed europei / ecclesiali e laici – e vedono profilarsi la ripresa dei più ordinari percorsi. Vorremmo riprenderli ora con la disponibilità a pazienti lavori di scavo: archeologico, si potrebbe anche dire, nella misura in cui gli studi “di settore” per quello che riguarda antropologia inclusiva e teologie delle donne vs teologia della donna, come pure per quanto attiene a duplici principi mariano/petrini contano ormai molti decenni di vita, sia pure con scarsi esiti di ascolto (lo faceva sinteticamente notare Gebara poche settimane or sono invitando a una ricerca su.. Google!); ma anche di scavo sistematico, necessario quanto meno per evitare sovrapposizioni di piani – spirituali e istituzionali – che si fanno di fatto più frequenti quando si parla di donne. Ma, appunto, con senso della proporzione e del limite, non lo riteniamo l’unico argomento possibile. E contiamo di portarlo avanti con tranquilla laboriosità, contando anche sull’onesta ricchezza di amiche e amici, compagni di un percorso storico e di un’avventura teologica di questo oggi, problematico ma non privo di speranza.

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troppi bambini rom in classe: via i nostri

Via gli italiani dalla scuola, troppi bambini rom

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E’ il secondo caso dopo quello accaduto nel Bergamasco, in cui genitori decidono di portare i propri figli in altre scuole perché quelle vicino a casa hanno troppi stranieri. Stavolta la notizia arriva dalla provincia di Novara, a Landiona, un paese di circa 600 abitanti dove il sindaco Marisa Albertini ha spiegato: “Abbiamo cercato di convincerli a lasciare i loro figli, ma hanno preferito portarli a Vicolungo, il paese qui vicino”.

Eppure 10 anni fa la scuola aveva invitato i bimbi rom a iscriversi perché era a rischio chiusura, ma ora invece sono gli italiani ad andar via. ”I bimbi rom iscritti sono 25 – ha spiegato il Sindaco – ma quelli che frequentano le lezioni sono molti di meno. Gli italiani, se vogliamo definirli così, sono una dozzina. Avevamo tentato di accorpare le classi con quelle di Sillavengo, altro paese della zona, per favorire una maggiore integrazione, ma non è stato possibile”.

“Non siamo razzisti” assicura il Consigliere comunale di minoranza, Francesco Cavagnino, ma questo “fatto di una gravità assoluta” ha screditato tutto il paese, commenta. Franca Biondelli, deputata Pd di Novara, ha annunciato di voler dare il via ad una interrogazione parlamentare.

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ex sindaco leghista denuncia la segregazione degli alunni sinti

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I bambini italiani sono stati trasferiti dalla scuola del comune di Landiona, in provincia di Novara, nell’elementare di un comune limitrofo. Mentre i bambini sinti non potrebbero farlo per un vincolo di residenza. L’ha denunciato al fattoquotidiano.it il consigliere comunale per la Lista civica, Francesco Cavagnino. La deputata del Pd Franca Biondelli prepara un’interrogazione parlamentare

Per una ventina di bambini sinti che frequentano le scuole primarie di Landiona, piccolo comune nel Novarese, il nuovo anno scolastico è iniziato con una polemica. Una quindicina dei loro compagni di classe, tutti bambini italiani, saranno trasferiti nella scuola di Vicolungo, un altro comune in provincia di Novara. La decisione è stata presa ancora nel maggio scorso, quando si è tenuto un incontro a cui hanno partecipato i sindaci dei rispettivi comuni insieme ai genitori di tutti gli alunni e al direttore vicario dell’Istituto comprensivo statale “Guido da Biandarate”, che raggruppa le scuole di 10 piccoli paesi situati alla periferia di Novara. Alla riunione era presente anche l’ex sindaco leghista di Landiona, Francesco Cavagnino, che è uscito dal Carroccio ed ora è consigliere comunale di minoranza per la Lista civica. Lui stesso parla di un suo avvicinamento al Pd. E’ stato proprio Cavagnino a denunciare il caso.

Nel corso della riunione è stato specificato che non tutti i bambini potevano essere trasferiti a causa del numero limitato dei posti nel plesso scolastico di Vicolungo, e che la preferenza andava data a coloro che avevano la residenza a Landiona. Il requisito al quale la maggior parte dei bambini sinti non corrispondeva. Così il tutto è finito in una specie di segregazione degli alunni non italiani. Questi ultimi, tra l’altro, venivano accusati di non pagare le rate per la mensa e il doposcuola. La cosa che non corrisponde alla verità dei fatti, come sostiene il consigliere Cavagnino, che aveva verificato tutto di persona. Secondo lui, la gravità dell’accaduto sta nel fatto che nella Regione di Piemonte non ci sia nessuna norma che definisca la residenza come un fattore vincolante ai fini scolastici.

Le radici della controversia sono lontane nel tempo. Una decina di anni fa, per tenere aperta la scuola del paesino, le famiglie sinte erano state invitate a portare i loro figli a scuola. L’elementare era stata così salvata dalla chiusura. La prima cittadina di Landiona, Marisa Albertini, sostenuta alle elezioni del maggio 2012 dalla lista Landiona nuova spiega così il caso: “I bimbi rom iscritti sono 25, ma quelli che frequentano le lezioni sono molti di meno. Gli italiani, se vogliamo definirli così, sono una dozzina. Avevamo tentato di accorpare le classi con quelle di Sillavengo, altro paese della zona, per favorire una maggiore integrazione, ma non è stato possibile”. Non si esprime, invece, il direttore dell’Istituto comprensivo statale “Guido da Biandarate”: “Ho ricevuto l’incarico da una settimana, ho sentito qualcosa, ma non posso dire nulla”. Sulla vicenda Franca Biondelli, deputata novarese del Pd, ha annunciato un’ interrogazione parlamentare. Mentre il consigliere Cavagnino che nei prossimi giorni dovrà verificare l’evolversi della situazione sul posto dichiara: “Questa storia getta discredito su tutto il paese, ma noi non siamo razzisti“.

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i conventi chiusi per i poveri: parola di papa

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 PAPA FRANCESCO, USIAMO I CONVENTI CHIUSI PER I RIFUGIATI. NON DOBBIAMO AVER PAURA DELLE DIFFERENZE. BERGOGLIO SENZA SCORTA IN VISITA AL CENTRO ASTALLI

 ‘Conventi vuoti non sono nostri, ma per la carne di Cristo che sono i rifugiati’. Ai rifugiati, voi difendete anche nostra dignita’. Benedizione a una donna incinta il primo gesto. Invito a citta’ di Roma ad essere piu’ accogliente.

“A cosa servono alla Chiesa i conventi chiusi? I conventi dovrebbero servire alla carne di Cristo e i rifugiati sono la carne di Cristo”. Lo ha detto Papa Francesco, durante il suo discorso nel centro Astalli, ipotizzando l’utilizzo dei conventi chiusi per l’accoglienza dei rifugiati. Agli operatori del centro Astalli, il Papa ha detto che bisogna “tenere sempre viva la speranza! Aiutare a recuperare la fiducia! Mostrare che con l’accoglienza e la fraternita’ si puo’ aprire una finestra sul futuro, piu’ che una finestra, una porta, e piu’ si puo’ avere ancora un futuro”. “Ed e’ bello – ha aggiunto Bergoglio – che a lavorare per i rifugiati, insieme con i Gesuiti, siano uomini e donne cristiani e anche non credenti o di altre religioni, uniti nel nome del bene comune, che per noi cristiani e’ espressione dell’amore del Padre in Cristo Gesu’. Sant’Ignazio di Loyola volle che ci fosse uno spazio per accogliere i piu’ poveri nei locali dove aveva la sua residenza a Roma, e il Padre Arrupe, nel 1981, fondo’ il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, e volle che la sede romana fosse in quei locali, nel cuore della citta’”.

Entrando nel Centro Astalli, la struttura romana dei Gesuiti per l’accoglienza dei rifugiati, il primo gesto di Papa Francesco e’ stato di avvicinarsi a una donna incinta dando la benedizione a lei e al bimbo che portava in grembo. Il Papa e’ subito stato circondato dalla folla dei rifugiati con cui si e’ intrattenuto salutandoli e dando loro la benedizione.

Il Papa Ssi è recato al centro Astalli per i rifugiati, nel cuore di Roma, senza scorta. Bergoglio ha utilizzato la consueta “utilitaria” di colore blu che usa nei suoi spostamenti, a bordo della quale c’era come sua personale “scorta” il capo della Gendarmeria vaticana, Domenico Giani.

“I Siriani in Europa sentono la grande responsabilita’ di non essere un peso, vogliamo sentirci parte attiva di una nuova societa’”. Lo ha detto una donna siriana, Carol, a Papa Francesco durante l’incontro al centro Astalli per i rifugiati. E’ stato lo stesso Bergoglio ha riferire la frase nel suo discorso e spiegando che “anche questo e’ un diritto. Ecco, questa responsabilita’ e’ la base etica, e’ la forza per costruire insieme. Mi domando: noi accompagniamo questo cammino?”. Un altro rifugiato, Adam, ha detto al Papa: “Noi abbiamo il dovere di fare del nostro meglio per essere integrati in Italia”.

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la crisi e gli italiani

fragole

 

Crisi, 11% italiani senza beni di prima necessità: dal riscaldamento alla carne

da Il Fatto Quotidiano – 09.09.2013

 

Una percentuale pari al doppio rispetto a Regno Unito, Francia e Germania. Mentre sul fronte sanitario, nonostante le difficoltà economiche, l’Italia esce a testa alta dalla relazione di Bruxelles

Un italiano su dieci in condizione di “gravi privazioni materiali”. E’ quanto afferma un rapporto della Commissione europea, secondo cui l’11% della popolazione non ha accesso a beni di prima necessità, tra cui il riscaldamento e la carne. Questa percentuale, relativa al 2011, è pari al doppio rispetto alle altre grandi nazioni dell’Unione come Regno Unito, Francia e Germania. Nonostante le rassicurazioni del governo sui miglioramenti della nostra economia, appaiono quindi critiche le condizioni di vita di una fetta considerevole della popolazione.

Il commissario alla sanità Tonio Borg ha pubblicato una relazione dedicata alle disuguaglianze in materia di salute tra gli Stati membri che evidenzia come i fattori socioeconomici contribuiscono a determinare le disuguaglianze: vanno dal livello del reddito al tasso di disoccupazione al livello di istruzione di una popolazione, a cui si aggiungono fattori di rischio come il tabagismo e l’obesità.

Sul fronte sanitario, nonostante le difficoltà economiche, l’Italia esce a testa alta dalla relazione di Bruxelles. I dati parlano da soli. L’Italia in 10 anni è riuscita a ridurre ulteriormente – rispetto a Francia, Germania e Regno Unito – la mortalità infantile, portandola da una media nel 2001 di 4,4 decessi per mille nati vivi, a 3,2 nel 2011. Calo che pure si registra a livello europeo dove nello stesso periodo si è passati in media da 5,7 a 3,9 decessi.

Incoraggiante è anche la situazione in Europa che, secondo le conclusioni di Bruxelles, continua a fare passi avanti nella lotta alle disuguaglianze in materia di salute. Infatti, oltre alla diminuzione della mortalità infantile si riduce tra gli Stati membri anche la differenza sulla speranza di vita dei loro cittadini. Differenza che purtroppo resta ancora elevata. Un solo esempio: nel 2011 la Lituania ha registrato un tasso di mortalità maschile sotto i 65 anni tre volte più elevato di quello dell’Italia, che si pone al secondo posto nell’Ue dopo la Svezia per minor numero di decessi. Borg non ha dubbi: “colmare le disuguaglianze sanitarie in Europa deve rimanere una priorità a tutti i livelli”.

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Boff e papa Francesco

 

 

«Con Papa Francesco la chiesa compirà una vera rivoluzione»
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Intervista a Leonardo Boff, l’uomo che fu tra i primi teologi della liberazione e che oggi è a Bolzano

 

Leonardo Boff è considerato uno degli iniziatori della teologia della liberazione, che alla fine degli anni ’60 in America Latina mise in primo piano i valori di emancipazione sociale e politica presenti nel messaggio cristiano. Boff sarà a Bolzano oggi per un incontro organizzato dal Centro per la Pace del Comune di Bolzano che sarà ospitato dalla Libera Università (ore 18, aula D1.02, primo piano, ingresso libero e gratuito). Boff parlerà sul tema “Papa Francesco, il Concilio e la chiesa dei poveri” e dedicherà grande attenzione anche alle tematiche ecologiche e dell’equilibrio globale, senza trascurare il tema attualissimo della possibile nuova guerra in Siria. Nel corso dell’incontro verrà anche presentata la Fondazione Val di Seren del Grappa, che si propone di promuovere lo sviluppo e la rinascita della zona da cui è originaria la famiglia di Leonardo Boff, nel Bellunese. Abbiamo raggiunto Boff al telefono ed abbiamo anticipato con lui alcuni dei temi che saranno oggetto di discussione nell’incontro odierno.

Si è appena conclusa la veglia giornata mondiale di digiuno e preghiera per la pace promossa da papa Francesco. Lei cosa ne pensa della situazione in Siria e dell’iniziativa del papa?

Papa Francesco è nella linea del papa Giovanni XXIII. È molto interessato alle questioni della pace perché sa che tutte le guerre sono perverse. Non c’è guerra giusta né guerra santa che tenga: sono tutte da evitare perché producono morte. E in questo senso io penso che l’impegno del papa abbia avuto un respiro mondiale. Peccato che proprio negli Stati Uniti la reazione non sia stata così forte. Ad ogni modo penso che la voce del papa, etica e spirituale, si sia fatta ascoltare ed abbia dato da pensare a coloro che vogliono sempre usare mezzi violenti, economici o militari, per risolvere i problemi umani.

Nel marzo 2013 nel giro di pochi giorni la chiesa cattolica ha dovuto affrontare due rivoluzioni: il pensionamento di un vecchio papa e l’arrivo di un nuovo papa che fin dai primi minuti ha lanciato segnali di grandissimo cambiamento. Cosa vuol dire, per la chiesa cattolica, avere un papa latinoamericano che si chiama Francesco?

Il nome Francesco è molto più di un nome. È un progetto di chiesa e un progetto di mondo. Significa una chiesa più vicina al popolo, con un papa pastore piuttosto che un papa dottore. Una chiesa aperta al dialogo con tutti e aperta al servizio, senza riserve e senza critiche nei confronti del mondo moderno e postmoderno. Dove ci sono persone il papa è aperto al dialogo con loro: lo ha mostrato adesso quando è stato in Brasile, ma in realtà in tutta la sua vita. Poi prima di occuparsi della riforma della curia si è impegnato in quella del papato. Abbiamo infatti ancora un papato monarchico, in cui i cardinali sono principi. Lui allora ha deciso di presentarsi come vescovo di Roma, abbandonando tutti i simboli del potere per essere un fratello fra altri fratelli e presiedere la chiesa non con il diritto canonico, ma nella carità, nella convivenza e nel dialogo. Per me è una vera rivoluzione, una prima. vera dopo un rigoroso inverno. Questo papa è una speranza per la chiesa e per tanti uomini nel mondo che cercano cammini di pace e di incontro per affrontare i grandi problemi che sono vere minacce per il sistema vita e terra.

Lei ha conosciuto bene Josef Ratzinger. Cosa ne pensa invece del suo pontificato?

Ha proseguito sulla via di Giovanni Paolo II, ma senza averne il carisma. Ratzinger si è presentato piuttosto come un professore, uno della dottrina, e meno come un pastore. Ha rinforzato la chiesa all’interno ma che aveva in qualche modo paura di avvicinarsi al mondo moderno perché lo vedeva come troppo relativista e secolarizzato. La chiesa non ha la facoltà di scegliere il mondo in cui opera; deve invece accettare la realtà per quello che è e trovarvi il suo posto, un posto di evangelizzazione e dialogo. Papa Benedetto comunque ha fatto un gesto di grande umiltà riconoscendo i suo limiti fisici, psicologici e anche spirituali nell’affrontare i problemi della chiesa.

Il Brasile è diventata una delle economie trainanti a livello globale. Ma a che punto si trova la sua contemporanea lotta alle diseguaglianze sociali?

Una delle cose più importanti realizzata da Lula è stata proprio la riduzione delle disuguaglianze. Nei suoi 8 anni da presidente sono diminuite del 17%: è riuscito a reintegrare nella società 40 milioni di poveri che ora possono vivere con un minimo di dignità ed indipendenza. Sulla stessa linea si muove anche la nuova presidenta Dilma Yussef, che ha avviato progetto intitolato “Brasil carinhoso” che in due anni è riuscito a recuperare altri 2 milioni di miserabili.

Questa di diminuire le diseguaglianze è una scommessa di tutto lo stato, non solo del governo, e comporta anche la fondamentale conseguenza di rafforzare al democrazia rappresentativa rendendola più partecipata, includendo sempre più cittadini nelle decisioni che si prendono nel paese.

Cinque anni fa lei in occasione della sua precedente visita a Bolzano parlò sul tema “che ne sarà di nostra sorella madre terra?”. Lei non ha smesso di occuparsi di ecologia e di salvaguardia del pianeta. In questi 5 anni abbiamo fatto dei passi in avanti?

Purtroppo no: la situazione globale della terra è invece molto peggiorata. E il peggioramento ha riguardato 13 parametri su 15 di quelli indicati dall’Onu.

Non abbiamo fatto praticamente niente per diminuire il riscaldamento globale e le sue conseguenze. Le minacce che pesano sulla terra sono più gravi di prima e se non viene attuata una politica globale per riequilibrare il clima della terra andremo inevitabilmente incontro a una grave crisi ecologica.

Lei è in Italia anche per visitare la terra d’origine dei suoi antenati. Qual è il suo rapporto con l’Italia?

È un rapporto familiare: sentiamo l’Italia come una nostra seconda patria. In casa nostra abbiamo parlato in dialetto veneto e quindi andare a Seren del Grappa per noi è un po’ un tornare alle radici. Lì tutto è impregnato dello spirito di coloro che sono emigrati, troviamo delle tracce, e noi che andiamo in quei posti è come se entrassimo di nuovo in contatto con coloro che hanno avviato l’avventura americana della nostra famiglia. .

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papa Francesco incontrerà Gutierrez

 

cardinale

Papa Francesco incontrerà Gutierrez
e presto Oscar Romero sarà Beato

L’annuncio all’incontro nella basilica di Santa Barbara con il padre della teologia della liberazione A darlo il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede Müller, che visse con lui nelle favela

 

 

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A Mantova ieri è successo qualcosa di straordinario per la vita della Chiesa, e la basilica di Santa Barbara ha ospitato quello che si potrebbe chiamare “l’annuncio”: papa Bergoglio incontrerà tra pochi giorni Gustavo Gutierrez, il padre della teologia della liberazione, e in tempi brevi Oscar Romero, il vescovo assassinato sull’altare in Salvador, diventerà beato. A confermare queste due notizie, che pesano molto per la Chiesa cattolica, è stato l’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, quello che tavolta si chiama ancora ex Sant’Uffizio. Accanto a lui, tedesco di 66 anni, l’atteso Gutierrez, 83 anni, piccolo, dall’enigmatico viso peruviano, che parlando si scioglieva in sorrisi dolcissimi e guizzi di passione e di speranza. Che i due fossero amici, in ambienti ristretti si sapeva, ma quando l’anno scorso papa Benedetto XVI lo nominò al vertice dell’istituzione che vigila sulle posizioni teologiche nella Chiesa, l’annuncio fu commentato soltanto ricordando che il professore di teologia dogmatica a Monaco di Baviera era «amico di Ratzinger». In realtà, dentro di lui, era sempre rimasto vivo il germoglio che Gutierrez aveva seminato nel giovane sacerdote che lo aveva raggiunto a Lima, e che lui aveva messo a contatto con i poveri che vivono nelle favelas e con i campesinos, di cui per periodi ricorrenti condivise così la dura vita, dormendo nelle stesse capanne. Evidentemente Ratzinger, che ai tempi del Concilio Vaticano II si era prima avvicinato e poi allontanato dal mondo dei teologi più innovativi, e a suo tempo aveva di fatto condannato la teologia della liberazione di Gutierrez, forse ha deciso era arrivato il tempo di un uomo, come Müller, che aveva assorbito da lui e dal domenicano di Lima.

Ora c’è papa Francesco, sudamericano, gesuita che ha immediatamente parlato di poveri, ma sul quale il giudizio è rimasto come sospeso in attesa di capire. E tanti suoi gesti, dal viaggio a Lampedusa, alle parole pronunciate a Rio de Janeiro, all’ultima forte posizione per costruire la pace e non la guerra in Siria aprono un nuovo orizzonte. «Ho letto 6 tomi riguardanti Oscar Romero – ha detto Müller – e alla fine la Congregazione per la dottrina della fede ha dato il suo nihil obstat». Ciò significa che il vescovo ucciso perché difendeva poveri e sfruttati sarà santo. «Per il popolo in America latina – ha commentato Gutierrez – Romero era già santo, ma è molto importante e pieno di significato che lo diventi per la Chiesa».

L’incontro, coordinato dal francescano e giornalista Ugo Sartorio (ex direttore del Messaggero di Sant’Antonio) dopo il saluto di papa Francesco al pubblico del Festivaletteratura, riunito in santa Barbara, portato da Müller, è iniziato con un suo lungo e complesso discorso teologico in perfetto italiano. Alla fine è risuonato chiaro un concetto: «Cristo è morto in croce per salvare l’umanità» e c’è «un’opzione preferenziale per i poveri». Da qui è iniziato l’intervento di Gutierrez. La povertà è una condizione inumana, per mancanza economica – ha detto – ma anche culturale, sociale, perché donne, e ha citato il «Dio dei poveri, dei sofferenti», che non si vuole certo portare al consumismo o al comunismo, al presunto paradiso in terra, ma liberare dalla schiavitù. La politica deve servire la gente, ma «il Vangelo è l’unica strada per la vera liberazione dell’uomo». E il riscatto dei poveri deve far ascoltare la voce dei poveri.

La teologia della liberazione fu accusata di sostenere il marxismo in America Latina, ma qui ha avuto gioco facile Müller a concordare con Gutierrez che non è così, e che oggi nessuno considera rivoluzionaria la sociologia perché segnala quanto reddito va a pochi e quanto poco a tanti. «La sociologia no nè marxista». «Dopo la caduta del Muro, il capitalismo ha vinto il comunismo». E Sartorio ha ricordato che in novembre Müller aveva detto che «il capitalismo neoliberale è la vergogna del nostro tempo». «Papa Francesco mi ha detto: già, tu sei della teologia della liberazione». Di certo Müller e Gutierrez insieme hanno ora pubblicato “Dalla parte dei poveri. Teologia della liberazione, teologia della Chiesa” (ed. San Paolo-Emi).

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ventennio leghista e cattolicesimo veneto

anemoni gialli con farfalla

una riflessione responsabile e puntuale e critica su un ventennio di convivenza tra la Lega Nord e il cattolicesimo veneto da parte di un sacerdote di Treviso, don Giorgio Morlin, a partire da questo interrogativo: “perché nel ricco nord-est, erede di una grande tradizione cattolica e di un’efficienza industriale senza rivali nel mondo, continua ad imperversare una deprimente povertà culturale e una colpevole dissipazione del patrimonio etico che i nostri padri ci hanno lasciato?”

 

Fine di una stagione?

Ventennio leghista e cattolicesimo veneto

La debacle politica dello schieramento berlusconiano-leghista nelle ultime consultazioni amministrative, che hanno coinvolto quasi 7 milioni di elettori in 564 comuni italiani, ha registrato un’autentica Caporetto anche a Tre- viso, da circa 20 anni amministrata e diventata indiscusso feudo leghista del sindaco Gian- Carlo Gentilini, assurto nell’immaginario nazionale a macchietta umoristica di sindaco sceriffo. Vorrei porre alcune mie considerazioni a proposito di una stagione che, probabilmente, si è chiusa per sempre e che merita un’analisi di tipo culturale oltre che politico. L’ex sindaco di Treviso, Gentilini, figura dal linguaggio eccentrico e spesso becero, diventa un caso nazionale nell’ottobre 1997 quando to- glie le panchine della stazione ferroviaria per allontanare «negri e perdigiorno», o quando, nel 2004, in un’intervista alla stampa, spara contro gli omosessuali dicendo: «Darò disposizione ai vigili affinché facciano pulizia etnica dei culatoni!», oppure nel 2005 quando attacca gli immigrati presenti in città affermando perento- rio: «Bisognerebbe vestirli da leprotti per fare pim pum pam con il fucile!». E quando, molto timidamente qualche parroco trevigiano, in nome del vangelo, parla di tolleranza, di accoglienza e di fraternità, il nostro sceriffo punta simboli- camente  il fucile contro «i preti rossi che sono da mandar via a furor di popolo!». A Treviso, durante il ventennio leghista, il linguaggio gentiliniano registra un crescendo misto di folklore truce e di arroganza impunita che incrementa l’immagine popolana e vincente
dello sceriffo,il quale si presenta come paladino della città per difenderla da «comunisti, negri e omosessuali». Un sindaco che, per quanto ri- guarda dichiarazioni ad effetto, fa scuola e moltiplica attorno a sé numerosi proseliti. Come, ad esempio, avviene con il consigliere comunale leghista Bettio il quale, in un’intervista alla stampa del 2004, ha l’impudenza di affermare: «Sarebbe giusto far capire agli immigrati come ci si comporta usando gli stessi metodi nazisti. Per ogni trevigiano a cui recano danno o disturbo, vengono puniti 10 extracomunitari!» (cfr. Repubblica del 4 dicembre 2004). E da ultimo, nell’amarezza della sconfitta all’indomani dei negativi risultati elettorali del giugno 2013, il sindaco, richiamandosi addirittura a Gesù Cristo e al van- gelo, si lascia prendere dalla foga anticomunista di sempre: «Mi sento come un secondo Gesù Cristo che ha parlato nel deserto. Il mio Vangelo non l’hanno capito; la sinistra è come l’Islam che pensa di risolvere i problemi uccidendo e massacrando gli infedeli». Con simili linguaggi e con i molteplici gesti provocatori che conosciamo, in questa lunga stagione si è assistito ad un progressivo e triste dissolvimento di un humus culturale ed etico che, a Treviso, aveva plasmato il tessuto di una convivenza civile e solidale a partire dal dopo- guerra fino ai primissimi anni ’90. Lentamente è andato mutando il dna antropologico della società trevigiana che, nel giro di appena 20 anni, non solo ha fatto una chiara opzione politica per la Lega, arrivando a percentuali bulgare che sfiorano o superano il 50% dei con- sensi ma che sembra anche aver cambiato i suoi valori etico-culturali di riferimento. Cosa e per- ché è accaduto di talmente nefasto nella Marca Trevigiana, conosciuta fin dal medioevo come «la marca gioiosa e amorosa», da diventare nel giro di due decenni «la marca rabbiosa e ranco- rosa»? Cosa e perché è accaduto che la sola parola clandestino, com’era successo per la parola ebreo 60 anni prima, venisse considerata reato e colpisse gli immigrati come una condanna già emessa e pronta ad essere eseguita? Cosa e
perché è accaduto che un territorio, da sempre considerato la sacrestia d’Italia per la sua capillare cultura cattolica e la sua diffusa pratica re ligiosa, entrasse nell’immaginario collettivo italiano come la patria della xenofobia nazionale? E l’ultima ciliegina sulla torta della vergogna padana la possiamo leggere in una pagina Facebook del 13 giugno 2013, dove la militante leghista di Padova, Dolores Calandro, scrive la seguente infamia riferita alla neoministra ita- liana di colore Cécile Kyenge: «Ma non c’è mai nessuno che se la stupri?…». Perché nel ricco Nordest, erede di una grande tradizione cattolica e di un’efficienza industriale senza rivali nel mondo, continua ad imperversare una deprimente povertà cult rale e una colpevole dissipazione del patrimonio etico che i nostri padri ci hanno lasciato? Sono interrogativi quanto mai angoscianti per tutti. Dopo l’attraversamento del lungo tunnel che si spera di lasciare alle spalle, con quest’ultimo passaggio viene oggi posta l’attenzione non solo sull’appartenenza politica ma anche sulla coscienza ecclesiale ed etica di un popolo, quello trevigiano, che si professa cattolico. Una coscienza che, anche a livello di presbiterio diocesano e di comunità parrocchiali nel loro complesso, probabilmente è rimasta latitante proprio nel momento in cui il virus letale entrava subdolamente in circolo nel corpo sociale a corrompere e a dissolvere il tessuto connettivo di una realtà popolare che ha secoli di storia solidale. Nel corso degli anni, senza percepire la gravità del fenomeno degenerativo, è avvenuta al- l’interno di questa realtà una lenta ma micidiale metabolizzazione per cui, ad esempio, si me- scolava banalmente, come niente fosse, la blasfema espressione del cosiddetto dio Po, gene- rata dalla dissacrante e idiota ritualità celtico- leghista, con la fede nel Dio di Gesù Cristo, la sola che qualifica l’identità del cristiano.
don Giorgio Morlin (Treviso)

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