come spendiamo il nostro tempo online

 

 

Come spendiamo il nostro tempo online

di Luca Fiorini 
bella farfalla da dkt

 

Le cifre sono oltremodo eloquenti: più del 50% della popolazione mondiale ha meno di 30 anni e oltre il 30% della stessa naviga sul web. A intavolare i dati è il sito Go-gulf.com, che nei diagrammi dell’infografica “How users spend their time on the Internet”, basata su dati di ComScore, Nielsen, TNS e PewResearch, ha stimato il numero di persone connesse globalmente – 2,095,006,005 (il 30% della popolazione mondiale di cui sopra), – specificando che il tempo speso in rete, in media, nel mondo, è equivalente alla cifra record di 35 miliardi di mesi, traducibili in 3,995,444 di anni.

Se l’utenza statunitense stacca nettamente le restanti, con 32 ore di tempo medie mensili contro le 16 circa degli altri Paesi, la nazione col numero maggiore di users è la Gran Bretagna (85%), seguita a ruota da Germania (81%), Francia e Giappone a pari merito (80%), Usa (79%), Russia (43%), Brasile (40%), Cina (34%), Nigeria (28%) ed India (7%).

La fetta più grande della torta-tempo, supposizione legittima, non è ad appannaggio del porno on demand: fra i così detti “highlights”, ovvero le attività più sdoganate sul web, primeggino i siti di stampo social, col 22% del minutaggio complessivo, più di 250 milioni di tweets postati ogni giorno e oltre 800 milioni di aggiornamenti di status a infarcire il padre dei social network, Facebook – che è usato dal 56% degli utenti solo per spiare il proprio partner –, lì dove il record del numero di “amici” è riferibile ai brasiliani (con 481 contatti), mentre ai giapponesi tocca accontentarsi del piolo più basso della scala (appena 29 friends); ai social network si accodano le ricerche sui “motori” preposti, col 21% del tempo complessivo di connessione e un milione di richieste quotidiane gestite da Google, ed il 20% è occupato dalla lettura di contenuti testuali; il 19% è destinato a chat ed email, il 13% improntato all’ascolto o alla visualizzazzione di siti e file multimediali (con 4 miliardi di visite al giorno su Youtube e più di 60 ore di video uploadati ogni minuto), e solo il 5% è investito per lo shopping in rete, in cui primeggiano i compratori cinesi sforando le cinque ore settimanali.

Il record di visitatori unici al mese è saldamente detenuto dal gigante di Mountin View, Google (153,441,000), incalzato da Facebook (137,644,000), Yahoo! (130,121,000), Msn Bing (115,890.000), Youtube (106,692,000), Microsoft (83,691,000), Aol. (74,633,000), Wikipedia (62,097,000), Apple (61,608,000) ed Ask (60,552,000).

Fra le attività on line più routinarie, invece, prescindendo dalla collocazione geografica dell’utenza, si registrano la ricerca di informazioni mediche e mappe stradali, previsioni meteo e dettagli sull’acquisto di prodotti, oltre alla lettura di quotidiani e web magazine, stimando che, nella nuova era telematica, si verificherà un aumento delle web tv e dei servizi geolocalizzati e di home banking, a discapito della diffusione di video “professionali”, live show e clip amatoriali, prossimi al declino.

Chi poi, insoddisfatto dai rilevamenti di massa, volesse entrare nel dettaglio degli standard personali di navigazione, portebbe scaricare un’app apposita, Timing – Time Tracker (su App Store al costo di $9.99), grazie alla quale ottenere report particolareggiati sullo scorrere quotidiano, talvolta impenintente, del proprio tempo al desk.

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Battiato bacchetta il papa

battiato

Battiato bacchetta il Papa: “Parli più seriamente di Dio”

“Papa Francesco è popolaresco, ma mi piacerebbe se parlasse di Dio in maniera più seria”.

Lo ha detto Franco Battiato durante il talk show ‘Io chi sono?’ che si è tenuto in piazza Duomo a Ragusa Ibla, durante il quale si è confrontato col cantautore ragusano Giovanni Caccamo, da lui prodotto e che di recente ‘apre’ i suoi concerti.

”Sono nato con un microchip incorporato – ha ironizzato – che mi indirizza verso la spiritualità. All’età di otto anni scrissi, andando clamorosamente fuori tema, ‘Io chi sono?’. Una domanda particolare per un bambino nato in una famiglia dove non si avevano libri da leggere, ma nella quale sono stato felice di nascere. Credo che ogni individuo abbia il dovere di approfondire la conoscenza di se stesso. Nascere nel regno umano e non in uno di quelli inferiori è un grande dono che non deve essere sprecato. La dimensione del silenzio è ideale e preziosa per indagare la propria autentica natura”.

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TRE OMICIDI SU 10 IN ITALIA HANNO COME VITTIMA UNA DONNA. 38MILA LE DENUNCE DI STALKING, IL 77% PRESENTATE DA DONNE

Circa il 30% degli omicidi commessi in un anno in Italia (505) ha come vittima le donne. E’ quanto emerge dai dati diffusi in occasione della conferenza stampa di Ferragosto al Viminale. Dall’entrata in vigore della legge sullo stalking sono state 38.142 le denunce presentate, di cui 9.116 dal primo agosto del 2012 al 31 luglio del 2013. A denunciare nel 77% dei casi sono le donne. Ultima tragedia al contrario a Firenze, protagonisti due romeni: lei, 27 anni, lo aveva denunciato per stalking, lui (34 anni) dopo averla perseguitata si impicca davanti casa.

 

 

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guardare al povero con sguardo ‘teologale’

 

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LA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE DI FRONTE AL POVERO

Dio si è incarnato come povero. E questo ha un significato teologico molto chiaro: non é che Gesù sia un ricco che si maschera da povero, ma Dio ha voluto incarnarsi come povero perchè questo è il suo modo di essere. Nella povertà, infatti, ci sono dei valori intrinseci che sono quelli che costruiscono il Regno: essenzialità, solidarietà, generosità, fiducia e abbandono in Dio, condivisione, etc.
In quest’ottica, la principale differenza fra la Teologia della Liberazione e un certo modo di intendere la Dottrina Sociale della Chiesa, è che per quest’ultima i poveri sono sopprattutto un problema sociale e etico, che interpella la nostra coscienza. Per la Teologia della Liberazione, invece, prima ancora di essere un problema sociale, i poveri hanno uno status teologale: Gesù si identifica con loro (Mt 25,31-46), cioè è lì che ci incontriamo con Dio, e quindi è a partire dai valori dei poveri che Dio vuole costruire il suo Regno. Detto in altri termini, i poveri ci evangelizzano, nel senso che sono i depositari di quei misteri che Dio ha nascosto ai sapienti e ai potenti di questo mondo (Mt 11,25). È questa la intuizione fondamentale della Teologia della Liberazione, una intuizione che è profondamente radicata nel Vangelo, e che quindi rappresenta una ricchezza per tutta la Chiesa universale.

Il “Buon Samaritano” in America Latina
E’ a partire da questa intuizione che i Teologi della Liberazione leggono la Bibbia. E così, letta in America Latina, la Parabola del Buon Samaritano assume una valenza particolare, come ci insegna Jon Sobrino.
L’uomo che si trova “mezzo morto” al lato della strada che va da Gerusalemme a Gerico non si trova lí per caso o per fatalitá: sta morendo perchè dei “briganti” l’hanno “spogliato” e “percosso”. Oggigiorno i briganti sono un intero sistema, il sistema neoliberale che spoglia milioni di poveri dei loro diritti fondamentali e poi li lascia mezzi morti al bordo della strada.
Il sacerdote e il levita vedono il ferito ma “passano oltre”, non si fermano per aiutarlo: perchè? La principale ragione é che hanno paura: i briganti, forse, sono ancora lì nascosti da qualche parte, e potrebbero attaccare ancora. Ma non è solo questo; anche se i briganti se ne sono già andati via, il sacerdote e il levita non vogliono far niente che possa dar loro fastidio: fermarsi presso il moribondo e ridargli vita è una cosa che non fa piacere ai briganti, perché il moribondo potrebbe averli riconosciuti e potrebbe denunciarli. Il sacerdote e il levita, pii israeliti, preferiscono non immischiarsi in queste cose ‘politiche’ e “passano oltre”. Le questioni politiche sono questioni di vita o di morte per la gente. E noi spesso vi “passiamo oltre”.
Arriva poi il Buon Samaritano, che ha “compassione” del moribondo: gli “fascia le ferite”, e lo porta a una locanda perchè possa recuperare pienamente la salute. La compassione del Samaritano sfida i briganti probabilmente nascosti lì vicino da qualche parte: la misericordia implica la disponibilità ad affrontare i ladroni e gli oppressori di questo mondo. Senza questo coraggio di affrontare il peccato strutturale che produce la morte di tanti nostri fratelli non è possibile nessuna misericordia, e si “passa oltre”.
Il sacerdote e il levita frequentavano il Tempio tutti i giorni (oggi si potrebbe dire che andavano a messa quotidianamente). Noi siamo abituati a vedere il Samaritano come una figura molto positiva, peró allora il Samaritano – per il pio israelita – era uno ‘scomunicato’, un nemico di Israele, una persona spregevole, una figura pericolosa, escluso dalla salvezza che Dio riserva ai suoi figli. Attualizandolo all’oggi, si potrebbe chiamarlo il “Buon sovversivo” o il “Buon comunista” o il “Buon Islamico”. Ebbene, dice Sobrino, la Chiesa – se questo é necessario per difendere i poveri e gli oppresssi – deve avere il coraggio di farsi chiamare ‘samaritana’, comunista o filoislamica. Mons. Romero molte volte fu accusato d’essere comunista solo perché difendeva la vita dei poveri. Una Chiesa che fascia le ferite degli oppressi moribondi sa che sará perseguitata, calunniata, minacciata, sa che la chiameranno ‘samaritana’, ‘sovversiva’. Ma non per questo si arrende o cede alle minacce dei potenti. Come dice mons. Romero, “Noi riconosciamo Gesú come unico Re: Lui solo vogliamo amare e seguire, a Lui solo ci inginocchiamo… Anche padre Octavio Ortiz voleva seguire Gesú, e per questo l´hanno ucciso: gli hanno schiacciato la faccia, non é stato possibile ricomporla. Ma proprio in questo periodo in cui i nostri sacerdoti sono perseguitati e uccisi crescono le vocazioni sacerdotali; molti giovani entrano nei nostri seminari e, come l’apostolo Tommaso, vogliono seguire Gesú e dicono: ‘Andiamo con Lui, e moriamo con Lui!’ ” (Gv11,18).

La teologia como espressione d’amore
Tanti anni fa invitarono Gustavo Gutierrez, il fondatore della teologia della liberazione, a un Convegno internazionale su Giovanni della Croce. Molti si meravigliarono: cosa c’entra un teologo della liberazione – impegnato sui problemi sociali – con la figura di una grande mistico come Giovanni della Croce? E Gutierrez spiegò: ‘C’entra molto. Tutta l’opera di Giovanni della Croce ci descrive un Dio innamorato di noi. Attraverso i suoi scritti Giovanni della Croce vuole convincerci che Dio ci ama. Ebbene, quando viviamo tra poveri che devono affrontare ogni giorno problemi legati all’ingiustizia, alla corruzione, all’oppressione, alla violenza, alla povertà, davvero si domandano: ma Dio ci ama? Per cui il problema centrale della Teologia della liberazione è: come dire al povero ‘Dio ti ama’? Come rendere credibile per i poveri la Buona Novella in un contesto di ingiustizia e violenza?’

Per molto tempo si è pensato che la teologia ha una finalità di tipo eminentemente intellettuale: dimostrare, fin dove è possibile, l’esistenza di Dio e spiegare – in un linguaggio razionale – le verità della fede. Ma in termini biblici non è assolutamente evidente che la priorità della teologia sia dare una spiegazione razionale della nostra fede.
Il popolo d’Israele non sentiva la necessità di dare una spiegazione razionale dell’esistenza di Dio, perchè per loro Dio era una realtà evidente, Qualcuno che sperimentavano tutti i giorni della loro vita. Il problema, per il popolo d’Israele, non era sapere se Dio esiste ma verificare se Dio continua ad amare il suo popolo o si è stancato di lui. Il punto centrale della rivelazione non è la trasmissione di verità o dogmi. Gesù non si è incarnato per insegnarci dei dogmi, ma per farci sapere che Dio “ci ama fino alla fine” ed è disposto a dare la sua vita per amor nostro. Per cui la prima risposta che Dio si aspetta da noi non è una risposta di tipo intellettuale: Dio non ci chiede – come prima cosa – di accettare i dogmi di fede, ma di accogliere la sua chiamata amando i nostri fratelli come Lui ha amato noi. Il comandamento di Gesù è: Amatevi come io vi ho amato!
Anche la teologia, come attività cristiana, deve rispondere a questo comandamento: è un’espressione d’amore e non deve ridursi ad essere una mera riflessione razionale sulla Parola. La finalità della vita cristiana è la carità, la costruzione del Regno. Anche la teologia, dunque, dev’essere orientata alla costruzione del Regno e alla trasformazione della società.
Non sempre i teologi sono stati consapevoli di questo. Perciò Jon Sobrino parla di ‘peccaminosità’ della riflessione teologica: quando la teologia rimane ad un livello astratto e si disinteressa completamente della sofferenza in cui vivono milioni di esseri umani, sta commettendo peccato, il peccato di cinismo. E’ quindi urgente che la teologia si converta al Vangelo della pace, della giustizia e dell’amore.

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accorato appello a papa Francesco di ‘noi siamo chiesa’

 

empatia

a Francesco
pastore della Chiesa che è in Roma
ai fratelli e alle sorelle, popolo di Dio in Roma.

Sabato scorso un nostro giovane fratello Roberto si è ucciso travolto dal silenzio, dalla emarginazione, dalla non comprensione e accettazione, dalla solitudine, dalla mancanza di qualcuno
che ascoltasse e comprendesse la sua vita più grande e problematica della sua adolescenza, e la sua modalità di amore.
Ogni gesto così violento esige silenzio e rispetto.
Ma a noi credenti impone anche degli interrogativi.
Come popolo di Dio, come fratelli a cui Roberto era stato affidato, dobbiamo interrogarci sulla sua morte!

Non possiamo più tacere, non possiamo più essere complici di questa violenza che testimoniano solo la sconfitta del messaggio di accoglienza e di attenzione agli “ultimi” della nostra città.
Ogni vita persa, ogni suicidio è una sconfitta per noi tutti. La solitudine di Roberto è una solitudine che uccide, uccide il tessuto umano della nostra città,
uccide il tessuto di amore della nostra comunità di fede.
E’ una sconfitta. Sconfitta per non esserci presi cura del fratello. Sconfitta perchè non siamo riusciti a vederlo, a capirlo, ad aiutarlo, ad accoglierlo. Ad essere suo compagno di strada.
Non possiamo più solo piangere, solo confortare, solo dare l’ultimo saluto a chi ha vissuto, anche per colpa nostra, l’emarginazione, la derisione, l’umiliazione per un’orientamento sessuale differente.
Non possiamo sempre arrivare dopo!
Dobbiamo dire basta!
Sulle strade della Galilea, Cristo andava incontro. Anticipava. Sapeva interrogarsi dei mali e delle sofferenze dell’umanità ferita e offriva accoglienza. Sapeva accogliere e valorizzare le differenze
e amarle.
La morte di Roberto invece ci ricorda la nostra dimenticanza. Ancora una volta ci siamo dimenticati.
E le nostre dimenticanze diventano giorno dopo giorno assuefazione, routine, solo titoli di giornali e non più indignazione.
Non abbiamo visto, anzi abbiamo cercato di nascondere ed emarginare ai confini delle nostre città, non abbiamo condiviso e capito.
È ora di dire basta!
Come pastore soprattutto di questi fratelli e di queste sorelle che maggiormente oggi soffrono per un orientamento che è ai più giudizio e condanna, Francesco, ti chiediamo un segno forte, evangelico,
di amore e accoglienza.

E’ giunto il momento di aprire un dialogo vero nelle nostre chiese, nelle nostre comunità. Aprirsi a un dialogo profondo
perché il suicidio di Roberto sia davvero l’ultimo. O almeno sia ultimo con il nostro silenzio complice.
La comunità deve iniziare un percorso per andare incontro, per conoscere i vissuti, per abbracciare e condividere le sofferenze e le diversità, e accoglierle nella ricchezza del nuovo che vivono.

Come Noi Siamo Chiesa, nodo romano ti chiediamo di iniziare questo cammino di ascolto, dialogo, accoglienza verso i nostri fratelli e le nostre sorelle omosessuali
che vivono e soffrono l’emarginazione proprio nella comunità dei figli e delle figlie di Dio quotidianamente, perché la morte di Roberto non si vana.

Chiediamo a tutta la chiesa di Roma di chiedere perdono nelle prossime celebrazioni comunitarie domenicale per questa morte, per il silenzio e la solitudine di Roberto
perché tutti siamo responsabili di questa morte.
E chiedere perdono è ricominciare da dove si è fallito perché nessuno viva più la solitudine, la sofferenza e il dolore di Roberto. Ma soprattutto per non dimenticare.

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p. Balducci commenta il vangelo della festa dell’assunta

bel crocifisso

 

Omelia di Ernesto Balducci per la festa dell’Assunta

II confronto col drago
Festa dell’Assunta
Letture:
Ap 11,10; 12,1-6.10
1 Cor 15.20-26
Lc 1,39-56

Succede spesso, ormai, che quando siamo chiamati a riflettere su alcuni momenti del mistero cristiano, dobbiamo abbandonare le immagini che si sono consolidate lungo i secoli, le fabulazioni con cui il cuore devoto ha creato dinanzi a sé e al di sopra di sé un mondo splendente in cui si appaga il sogno, il desiderio di felicità. Succede spesso che siamo costretti — dovendo per necessità leggere la parola della Scrittura — a seguire una strada totalmente opposta. Per celebrare la gloria di Maria assunta in cielo, non si potevano togliere dal Vangelo se non queste pagine, dove però Maria ci appare in una totale condizione umana, senza splendore regale, senza nessuna esenzione dalle leggi comuni del vivere. Quella che l’immaginazione pensa come gloria celeste, qui, in questo stupendo episodio, è semplicemente il palpito di un neonato nel seno della madre. Al polo opposto della forza, della grandezza, c’è il germogliare della vita. E’ questa la vera via evangelica per entrare in un mistero dove — come voi capite — la realtà di Dio e quella dell’uomo, non possono più essere separate, mentre, più di quanto non sembri, il nostro bisogno è di tenere Dio nel suo splendore e di colorare questo splendore di tutte le ansie e le aspettative umane senza più rispetto, però, per il mistero dell’uomo, che è il luogo in cui Dio abita. Se l’incarnazione ha un senso, ha questo senso.
Tenendo fermo questo invito della Scrittura, possiamo disporre in un certo ordine, le molte cose che ci sono state dette dalla parola di Dio, oggi. Al primo posto, come è proprio di un messaggio la cui natura è profetica, c’è la rappresentazione del punto di arrivo del mistero della salvezza. Questo punto di arrivo ci è detto, con parole ferme e grandiose, da Paolo quando parla della fine che coinciderà con 1’annientamento di «tutti i principati, di tutte le potestà e di tutte le potenze»: in quel momento il regno sarà consegnato al Padre. Solo allora la creazione, ricomposta nella pace e nella fratellanza, liberata dalla sovrastruttura demoniaca del potere — come si toglie la scorza da un frutto —, sarà consegnata al Padre. Questo termine di arrivo implica qualcosa di assolutamente indicibile, di incredibile secondo le misure umane: l’annientamento della morte, l’ultima nemica. In questa visione mistica del potere avverso al regno di Dio, la morte non è che un momento – quello decisivo – che svela la sostanza di tutti gli altri e che l’autore dell’Apocalisse rappresenta come un drago. Storicamente sappiamo cosa era il drago: era l’Impero Romano. Questo drago rosso con sette teste e dieci corna e con sulle teste sette diademi, è una rappresentazione, fatta con una immaginazione iperbolica all’orientale, dell’impero di Roma. La donna che partorisce non è Maria, ma è il popolo di Dio, e la chiesa appena allo stato nascente che si trova dinanzi questo drago terribile. E’ un modo di esprimere il conflitto fra le fragili e povere comunità di credenti nella resurrezione e l’immenso apparato dell’Impero Romano. La riflessione medievale poi ha identificato la donna coronata di dodici stelle con Maria. Del resto nella nostra fede, liberata da ogni superstizione, sappiamo che gli aspetti tipici della storia del popolo di Dio, sono riferibili tutti alla storia di Maria che è come l’emblema, il segno anticipato del destino intero del popolo di Dio. Questo conflitto è come quello spiegato prima da Paolo, tra un popolo di Dio il cui principio è l’amore, la mitezza, la non violenza e il drago che è la violenza stessa. Dall’Impero Romano ai blocchi atomici di oggi, c’è una linea di continuità. Non so cosa potrebbe di¬re oggi un veggente come quello dell’Apocalisse per descrivere il drago: basterebbe una descrizione scientifica, senza bisogno di simboli, per darci un’immagine molto più paurosa che quella lievemente infantile del drago dell’Apocalisse. Basterebbe fare il conto delle testate atomiche già pronte per capire che cosa è il potere, intrinsecamente disumano, nemico dell’uomo, omicida e perciò “regno di Satana” di cui siamo tutti contribuenti in qualche modo, al livello fiscale se non altro. Dinanzi all’apparato del potere sta la vita che possiamo osservare o nel seno di Elisabetta che è presa da improvvisa gioia, o nelle piccole comunità che sono dinanzi al drago come il neonato della donna di cui parla l’Apocalisse: è la fragilità vitale dinanzi alla mortale potenza che la minaccia. Credere vuol dire fare la nostra scelta. Se fosse luogo, potremmo anche spiegare tutta la storia dei nostri tradimenti come un tentativo di fare un compromesso con il drago. Il drago dà a questo figlio nato dalla donna, a questo popolo di Dio inerme come un bambino in culla, un po’ di sicurezza. Pensiamo al Papa che va a Lourdes in nome del Signore, però ha attorno tremilaseicento uomini col fucile puntato. Il drago mette a disposizione del Messaggero la sua forza per tutelarlo. Ma quando un drago mette la sua forza a disposizione del messaggero, qualcosa di grave — voi capite — avviene, non imputabile alla persona, ma alla logica delle strutture di cui pure dobbiamo renderci conto se vogliamo non dire cose vane o non ridurre il Vangelo ad una pura esercitazione retorica. Dobbiamo do¬mandarci: come liberarci da questa insidia del drago che è — lo ripeto — la presunzione di mettere il potere come tale, con la sua forza coattiva, deterrente, al servizio del Regno di Dio, cioè di qualcosa di estremamente fragile come il neonato nel seno di Elisabetta?
Quando Gesù parla del suo regno usa sempre immagini che ci riconducono al piccolo, al fragile, all’improbabile, al minacciato: ad un pizzico di sale, ad una manciata di lievito, ad una fiammella accesa… cose piccole, che però sono nell’ordine della vita e di fronte a cui invece il potere ha l’aspetto dell’onnipotenza della morte. Il potere non fa che creare morti. Le cronache di questi giorni ce lo dicono, in America, e nell’Africa. Il potere non fa altro che darci la possibilità di fare le statistiche dei morti. II regno di Dio è dall’altra parte. Aver capito questo significa, intanto, esultare. La tristezza consiste nell’obbedire all’istinto di potenza, nel voler riusci-re, nel cercare di essere considerati nella gerarchia del drago, di essere in alto. II che comporta frustrazioni, tradimento di amici, finzione, doppi sensi, menzogne. Uno che entra nel mondo non può che pagare il suo pedaggio con la tristezza, perché in tutti noi c’è l’alba dell’idea di un mondo diverso da questo, un mondo che pare impossibile, al punto tale che l’educazione che noi diamo ai ragazzi consiste nell’addestrarli a ricordarsi che certe cose sono impossibili. Quando si sono rassegnati, sono già diventati adulti, come noi. Il regno di Dio è nel capovolgere le cose.
Torniamo pure a Maria, a questa donna che enuncia nell’inno così caro alla memoria cristiana la sua esultanza. Il suo messaggio non ha un carattere personale, intimistico, ma storico e universale. Maria non è, per cosi dire, una «devota». Quante sono le devote alla Madonna che appena si parla di problemi sociali e politici, inorridiscono! Ma la Madonna quando esulta, esulta perché «Dio ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote». E’ un capovolgimento sociale e politico quello che Maria contempla, per esaltare il Padre. In questa esaltazione è riflessa la coscienza di una scelta di vita, una scelta dove tutti i valori si trasformano. Ciò che conta nel primo registro, quello del potere, qui non conta niente, mentre conta quello che per il potere è degno di un sorriso. Credere questo significa entrare nella grande beatitudine. Cosa dice Elisabetta a Ma¬ria? «Beata te che hai creduto».
L’aver creduto all’impossibile che le fu annunciato è la vera ragione della beatitudine di Maria: le altre glorie sono frutto più o meno dell’immaginazione. Una volta accettato questo dato di fatto che Maria ha detto un si con tutta se stessa alla proposta di Dio, ha creduto alla proposta di Dio ed è entrata nel mistero del Cristo, il resto viene di conseguenza. Noi crediamo che essa è nella gloria, ma non siamo affatto curiosi di sapere come vi è salita. L’unica beatitudine che il Vangelo esplicitamente le attribuisce è questa: «Beata te che hai creduto». E quando Gesù udì dalla folla una voce che disse: «Beate le mammelle che ti hanno allattato», quasi a voler — per cosi dire — scoraggiare tutte le devozioni maria¬ne del futuro, disse: Beati quelli che ascoltano la parola del Padre — cioè che credono — costoro sono mia madre, miei fratelli e mie sorelle. Questa verità evangelica abolisce tutte le altre misure di grandezza. Nasce così in noi la simpatia per tutti coloro che nel mondo rassomigliano a questa creatura senza potere e senza importanza. Maria è in ogni donna che partorisce nella povertà e nella miseria, in ogni donna profuga, in esilio nel suo Egitto lontano, in ogni donna che accoglie sulle sue braccia il cadavere del figlio ucciso. Questo è il mistero che si ripete con puntualità nelle Viae crucis reali del mondo, fuori degli spazi sacri. Entrare in questa via vuol dire entrare in un’altra sapienza il cui frutto immediato e profondo è davvero la consolazione di ogni uomo che crede nella parola di Dio e che è perciò madre e fratello e sorella di Gesù.

(Ernesto Balducci: Il Vangelo della pace; Borla 1985 – Vol. 3 , pp. 332-337

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‘grazia’ grazie ai rom

graziagrazia2Agostino

Agostino l’ha scampata bella: può ringraziare i rom se è stata ‘graziata’ la sua campina a pochi centimetri della quale si sono ‘miracolosamente’ fermate le fiamme in pieno agosto (anche l’impietoso ‘agosto’ non ha voluto essere spietato contro ‘Agostino’!), … per questa volta almeno!

qui sotto il racconto del ‘miracolato’ stesso che ha creduto bene di finire tutto a … tarallucci e vino (non ha fatto assolutamente come quello che: “fatta la festa gabbato lu santu”):

L’altro giorno mentre mi trovavo in un altro campo Rom di Pisa, è scoppiato un incendio proprio a pochi metri dalla mia campina, alimentato anche dal vento che soffiava. In un attimo le fiamme sono diventate quasi incontrollabili, alte e rapide. Ma i rom si sono dati da fare, quando hanno capito che la mia campina rischiava di finire in arrosto, chi con l’acqua presa dalle piscine x bambini, chi con stracci usati per allontanare le fiamme e grazie a Dio a 2 estintori presi dalle loro macchine, sono riusciti9 a fermare le fiamme che nel frattempo avevano raggiunto l’autostrada che passa a lato del campo. Poi l’arrivo dei vigili del fuoc hanno completato l’opera.

Quando sono tornato al campo tutto già era al sicuro, mi hanno raccontato l’accaduto e la loro soddisfazione per essere riusciti a salvare la mia roulotte.

ieri sera ho offerto pizze, birra, bevande, una torta e una bella anguria in segno di ringraziamento..gesto apprezzato dai rom.

Grazie a Dio (e ai Rom) tutto è andato bene!

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i rom in Italia e in Europa

 

 

 

rom

I rom, quanti sono e dove vivono in Italia

Secondo i dati del Viminale quelli che vivono nel Paese sono 160 mila di cui 100 mila non censiti. Il record a Roma: 7.100 nomadi

mappa rom 
LA COMUNITA’ ROM IN ITALIA E IN EUROPA
I rom che vivono in Italia sono 160 mila di cui 100 mila non censiti che si muovono all’interno del territorio italiano, la metà ha meno di 14 anni. Circa il 60% dei residenti ha la cittadinanza italiana, secondo gli ultimi dati del Viminale. Per l’Opera nomadi i dati sono leggermente diversi: in Italia vivono 180 mila rom, 70 mila italiani e 110 mila provenienti dai Balcani. Una quota del 60-80% ha una casa e la parte restante vive nei campi.

Tra gli stranieri 30 mila sono cittadini ex jugoslavi e 30-40 mila sono romeni o di altre nazionalità appartenenti all’Unione europea.

Il Lazio ha il numero più alto di rom in Italia, 10.160 con il record a Roma. La Capitale ospita la comunità più grande con 7.100 rom, di cui 2.500 abitano nei campi nomadi abusivi. Il piano del sindaco Gianni Alemanno prevede dai 10 ai 12 campi attrezzati da realizzare fuori al Grande raccordo anulare con una capienza di 6.000 posti.

In Lombardia vivono 7.157 cittadini di etnia rom: a Milano, invece, vivono 3.500 rom di cui 1.500-2.000 in 10 insediamenti regolari e 1.500 in campi abusivi. Le altre regioni dove è registrata una notevole concentrazione di comunità nomadi sono l’Emilia Romagna e il Piemonte (entrambe con 3.585 cittadini rom). (Apcom)

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ancora (doverosamente) a proposito del ragazzino gay suicida

 

bel giglio

un contributo illuminate e ,si direbbe, da par suo!, ci viene oggi da Natalia Aspesi su ‘La Repubblica’  in riferimento al caso (e ai troppi casi che si ripetono in successione diacronica e talora anche in pluralità sincronica!) dell’adolescente incompreso, deriso, non aiutato a comprendere e accettare la sua ‘diversità’ sessuale:

 
Se la diversità è una vergogna

(NATALIA ASPESI).

 

UN RAGAZZINO si uccide, come hanno fatto altri, perché omosessuale, perché emarginato e schernito dai compagni in quanto omosessuale, perché non sa come dirlo ai suoi genitori che immagina non lo capirebbero.

Perché alla fine nel mondo, anche nel suo mondo di riferimento adolescenziale, i gay sono sempre di più: belli, celebri, accettati, capiti, amati, venerati, stilisti e registi, cantanti e attori, nuotatori e tennisti, calciatori e politici. Una élite che vive in un contesto privilegiato dove contano le persone e non le loro preferenze sessuali: persone che sono se stesse, che non si nascondono, che vivono in coppia, che fuori dall’Italia si sposano e adottano figli.
Questi modelli vincenti non sono di aiuto, non danno accettazione e sicurezza a un ragazzino che si immagina diverso, o teme di esserlo: e che si sente troppo lontano da quelle figure irraggiungibili che lo fanno sentire un escluso, colpevole di una diversità senza via d’uscita, senza luce, senza amore, senza riconoscimento, nel suo ambiente quotidiano: una diversità imperdonabile, vergognosa, che non si può né nascondere né mostrare, né vivere serenamente, come capita nel vasto mondo dei gay che hanno successo malgrado siano gay o proprio perché gay, o perché non ha nessuna importanza che siano gay.. Ma se hai 14 anni, e vivi in una borgata dove le scritte sui muri sono di rabbia razzista contro tutto e tutti, quindi anche contro gli omosessuali, se gli insegnanti non si accorgono del capro espiatorio della classe, la ragazzina brutta, il ciccione, il nero, quella che subisce le molestie sessuali, il ragazzo con i modi e la voce gentile e le unghie pulite, che non fa a cazzotti e che dunque esce dalla normalità del crudele, vecchio, rozzo immaginario macho, dei giovanissimi ancora più che degli adulti, allora puoi sentirti perduto: un mostro che non ha diritto di esistere. Le leggi non impediscono i reati, ma li rendono tali, non cambiano i cervelli ignoranti e violenti, ma possono spaventarli, e metterli davanti al fatto che perseguitare un gay, con le parole o coi fatti, è un’aggravante che porta diritto in galera. La discussione chiacchierona e inutilmente protratta con ogni tipo di cavillo e filosofia, su una legge antiomofobia, si è interrotta il 5 agosto causa vacanze, e riprenderà in settembre. Nel frattempo si spera che altri gay non si ammazzino. E sì che non ci vogliono tanti pensieri, perché basterebbe aggiungere alla legge che già considera un’aggravante la violenza fisica perpetrata per motivi di razza, etnia, religione, solo un paio di parole, “e per odio omofobico e transfobico”. Naturalmente tutti la vogliono questa legge, con cautela però, per non impensierire quell’elettorato che non ce l’avrebbe con quelli che chiama diversi o froci, se però se ne stessero in disparte, senza pretendere una particolare difesa, e soprattutto non aspirassero a quella cosa che fa rizzare i capelli in testa anche a parecchi politici, addirittura il matrimonio e l’adozione, o anche solo i patti civili di convivenza. Quando in parlamento un cosiddetto onorevole, il leghista Buonanno, parla di lobby sodomita, ha le sue ragioni, perché si assicura qualche voto, e magari non solo leghista. Resta da chiedersi se basterebbero queste leggi, in Italia, per impedire a un ragazzino che teme di non essere quello che si vantano di essere gli altri, come se fosse merito loro, di buttarsi da un terrazzo, nel vuoto del disamore e dell’indifferenza degli altri, della sua fragilità e infelicità vissuta nel silenzio e nella solitudine.

Da La Repubblica del 12/08/2013.

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a proposito del ragazzino gay suicida

 

micino primaverile

ha fatto giustamente parlare e riflettere molto la notizia del ragazzino quattordicenne suicida perché denigrato e incompreso socialmente e familiarmente, incapace quindi di gestire in totale solitudine le incertezze della sua dimensione sessuale

trovo opportune queste indignate domande e riflessioni preliminari, che attendono certo ulteriori e più pacati approfondimenti, che ho trovato nel blog ‘cor-pus’:

  sessualità obbligata, sessualità deviata 
 .

quando leggo di un ragazzo di 14 anni che si uccide perchè si sente gay e gli altri lo classificano come tale, vorrei gridare: chi in tutta onestà non ha sentito a quell’età in certi momenti di poterlo essere?

chi mette in testa agli adolescenti di oggi che si vive incasellati dentro categorie invalicabili?

chi propaga questa idea di sessualità incanalata, obbligata, rigida, predefinita?

in una parola, deviata?

i veri deviati sessuali sono loro, questi etero obbligati.

* * *

lo fanno sia coloro che ritengono di dovere ostentare la loro virilità perseguitando chi esprime un modo di essere maschile diverso dal loro.

ma lo fanno anche coloro che sono pronti a incasellare come cosa propria qualunque incertezza, curiosità, crisi di fiducia, che a 14 anni sono cosa del tutto comune.

* * *

chi dirà ai ragazzi d’oggi la verità sul sesso, cioè sulla loro stessa identità?

anche sessualmente, ognuno di noi è un unicum, e poveretti coloro che perdono la loro unicità prima ancora di cominciare a viverla pienamente, per correre a incasellarsi nelle definizioni senza fantasia che porteranno soltanto noia a loro e a chi si avvicinerà a loro…

vivere e costruire la propria identità sessuale è una sfida da vincere in modo creativo.

 

 

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