cresce la solidarietà in Italia? Chiara Saraceno meno pessimista del Censis

Chiara Saraceno

«L’Italia è meno cupa: torna la solidarietà e il desiderio di politica»

Rapporto Censis 2019

intervista alla sociologa e filosofa Chiara Saraceno

«In Italia non c’è abbastanza lavoro né reddito sufficiente per vivere» ma «lo stesso Censis registra il fatto che è aumentato il numero di chi partecipa al volontariato, un aspetto che contraddice l’immagine di una società sfiduciata di cui parla nel rapporto»

di Roberto Ciccarelli

Professoressa Chiara Saraceno il Censis sostiene che prima o poi gli italiani si renderanno conto che delle élite non si può fare a meno.  Cosa ne pensa?

Élite è un concetto usato sempre in modo strumentale, non è mai chiaro che cosa significhi, raramente è specificato.

Significa persone competenti, la classe economica, i professionisti?

Indica anche chi dice di essere contro le élite, ma ne fa parte. Salvini e la Lega, ad esempio. Élite comprende chi governa e chi aspira a governare. Anche la categoria di «italiani» è generica: c’è chi vota in un modo e chi in un altro o si astiene. Chi ha certi saperi e chi altri. Vorrei capire qual è la base empirica di queste indagini. Non imparo mai molto da questi rapporti del Censis, e sempre meno negli ultimi anni. Anche questo rapporto, come tutti gli altri, mette insieme cose di senso comune, più o meno empiricamente fondate, e produce ambivalenze. Sono fantasiosi nel trovare parole chiave e metafore che funzionano per i media, ma rischiano di oscurare la realtà.

Pensa la stessa cosa sulla valutazione del Censis per cui il 48% del campione dei loro intervistati dichiara che ci vorrebbe l’ “uomo forte al potere”?

Non so su cosa sia basato questo 48 per cento. In ogni caso, direi che c’è anche il rovescio: il 62 per cento non lo vuole. Ragionerei invece sul dato più solido e ricorrente delle intenzioni di voto. Sappiamo che il centrodestra guidato da Salvini al momento ha la maggioranza nel paese. Per questo non c’è bisogno del Censis.

Il caso delle sardine, da ultimo, dimostra invece che esiste una ricerca di partecipazione a cui la politica non risponde…

Infatti, anche se può essere un fenomeno ancora minoritario. E si spera che questi movimenti non si disperdano andando troppo in Tv. Lo stesso Censis registra il fatto che è aumentato il numero di coloro che partecipano al volontariato, un aspetto che contraddice l’immagine di una società sfiduciata di cui parla nel rapporto. La situazione è meno cupa di quanto si pensi: esistono molte persone per cui vale la pena di fare qualcosa con gli altri e per gli altri.

Il Censis dice che l’occupazione è un «bluff», nel senso che non produce reddito e crescita ma moltiplica la precarietà. Quando ha scritto un libro come «Il lavoro non basta» è a questo scenario che pensava?

Sì, in Italia non c’è abbastanza lavoro né reddito sufficiente per vivere. Parlo dei working poor, coloro che lavorano e sono poveri. Ci sono sempre stati in questo paese, ma negli anni della crisi sono aumentati sia quelli su base individuale che guadagnano meno, anche a causa dell’aumento del part-time involontario, sia quelli su base familiare che, pur avendo un reddito modesto ma adeguato alle medie salariali, soffrono. A cominciare dai nuclei dove almeno il capofamiglia svolge un lavoro operaio, o assimilato. Nel 12% dei casi si parla di povertà assoluta.

Si è sempre occupata del reddito minimo o di base. Che bilancio dà del cosiddetto “reddito di cittadinanza” istituito in Italia?

Non mi aspettavo che trovasse ai beneficiari un lavoro e quindi non mi scandalizza che oggi non ci sia. Mi scandalizza di più chi oggi in malafede si scandalizza. E mi scandalizza che non sia stato ancora messo in campo un modo per portare al lavoro chi potrebbe lavorare. Vedo due possibili sbocchi a questa situazione: o vanno avanti a oltranza continuando a erogare il sussidio, oppure i beneficiari alla scadenza della misura saranno buttati fuori perché un lavoro non gli è stato offerto e loro non l’hanno trovato. E sarà peggio per loro. Al momento sappiamo che solo una quota sembra pari al 30% dei beneficiari sarebbe nelle condizioni di lavorare subito o quasi. La dice lunga sul tentativo di presentare questa operazione come una politica attiva del lavoro. Se il 70% dei beneficiari non è in grado di lavorare allora parliamo di un sostegno alla qualità della vita, sperando che le nuove generazioni si trovino in una situazione migliore. Bisognerebbe occuparsi della povertà educativa a cominciare dai minori. Ma purtroppo questo lavoro non viene nemmeno fatto oggi.

Anche il Censis parla dei processi di denatalizzazione molto avanzati in Italia. Basta un «assegno universale» alle famiglie dal 2021 di cui parla la ministra Bonetti?

Sono favorevole all’assegno universale ma a prescindere dal reddito perché non avrebbe effetti negativi sul secondo reddito. Se ci fossero le risorse, ovviamente. Se l’assegno è legato al reddito più alto, com’era nella proposta Delrio, si producono ingiustizie. Se lo leghi al reddito familiare c’è il rischio di penalizzare il secondo reddito in famiglia. Mi sembra che il governo sia orientato a una misura di questo tipo. Bisogna allora fare in modo che non ci siano scaglioni di reddito troppo bruschi per cui una differenza di un euro provoca il passaggio a un altro gruppo causando la perdita della misura. Spero però che oltre a questo assegno ci siano i servizi.

Nella legge di bilancio dovrebbero esserci gli asili gratis…

Saranno gratis per chi il nido ce lo ha già, ma non credo sia previsto un intervento per il 75 per cento dei bambini sotto i tre anni che non lo hanno, soprattutto al Sud. Questo è un problema di pari opportunità tra i bambini: bisogna assicurare loro risorse educative al di là della famiglia. Gli investimenti sociali sui servizi non sono costi. Producono domanda di lavoro, e in particolare per le donne. Ci saranno più persone che pagano le tasse, più tutele. C’è sempre una restituzione. È vero che le risorse non sono infinite, ma si può scegliere se spenderle in un modo o in un altro. È sempre una questione di scelte.

la criminalizzazione della solidarietà spia della disumanizzazione

un’umanità dis-umanizzata

dalla narrazione delle migrazioni alla criminalizzazione della solidarietà

da Comitato di Redazione

copertina

di Francesco David

In principio fu il caso del respingimento della nave Aquarius, fino a quelli più recenti della Sea Watch 3 e dell’Open Arms, imbarcazioni delle Organizzazioni Non Governative impegnate in operazioni di Search and Rescue nel Mar Mediterraneo dopo la fine delle missioni europee di pattugliamento e salvataggio di migranti in quella che è ormai divenuta la frontiera più pericolosa del mondo. Senza dimenticare i numerosissimi altri episodi avvenuti in tutta Europa, in particolare ai confini tra i vari Stati, in cui la solidarietà, l’assistenza e il salvataggio di vite umane sono diventati il bersaglio principale di politiche, slogan e retoriche xenofobe e regressive da parte di governi e partiti di destra, o comunque di ispirazione nazionalista e populista, e non solo. Ma come si è giunti a tutto questo? Come si è potuti arrivare a mettere in discussione, e persino criminalizzare, il salvataggio di vite umane?

In questo articolo, partendo dall’analisi dei “discorsi” relativi alla questione dei fenomeni migratori, ovvero di quella che può essere definita “narrazione delle migrazioni”, proverò ad esaminare il processo socio-culturale che ha condotto alla cosiddetta «criminalizzazione della solidarietà».

Il fenomeno delle migrazioni può essere considerato a tutti gli effetti un «fatto sociale totale» (Mauss, 2002; Sayad, 2002), ovvero rientra in quell’insieme di elementi capaci di coinvolgere nel loro accadere la pluralità complessiva dei vari livelli sociali e delle dinamiche delle comunità umane. Allo stesso modo, rientrando tra i principali aspetti all’origine della formazione e dei cambiamenti della società, le migrazioni possono essere pensate come “fatto politico totale”, cioè come parte integrante della vita umana in quanto tale e, quindi, possono essere interpretate e analizzate nel quadro delle caratteristiche salienti dell’organizzazione politica della società (Palidda, 2008). Ciò vuol dire, in sostanza, che non si possono comprendere le migrazioni, o meglio, le «mobilità umane» [ibid.], senza capire il processo di cambiamento della società che, ovviamente, riguarda gli aspetti economici, sociali, culturali e le conseguenze che ne derivano sulle caratteristiche della società stessa. In questo senso, «le mobilità si situano nei giochi delle molteplici interazioni di questo processo conducendo a conflitti e a mediazioni. Sono quindi rivelatrici delle caratteristiche salienti della società di partenza, di quella d’arrivo e delle relazioni tra questi due poli» (Palidda, 2010: 7). Da ciò deriva la cosiddetta “funzione specchio” (Sayad, 2002) delle migrazioni, ovvero il fatto che queste spesso costituiscano un riflesso della società di immigrazione nel suo complesso. Tale effetto specchio delle società di immigrazione e delle loro istituzioni ne rivela le profonde e problematiche sfumature, predisponendo così l’antropologia in generale, e l’antropologia delle migrazioni in particolare, a farsi critica culturale (Marcus, Fisher, 1994).

Tale critica, innanzitutto, non può prescindere dal presupposto e dalla consapevolezza che i fenomeni migratori rientrano anch’essi nell’ambito di quell’insieme di “discorsi” che vanno a costituire ciò che si potrebbe definire una vera e propria “narrazione delle migrazioni”. In questo senso, parlare di discorso nell’accezione foucaultiana del termine significa fare riferimento alle strutture di senso implicite, indirette, che hanno la tendenza a presentarsi come obiettive, indiscutibili, necessarie. Tali discorsi costituiscono quello che può definirsi una sorta di pensiero del potere, o del dominante (Foucault, 1967; 1971), che permette la riproduzione delle scienze che ne forgiano i dispositivi e ispirano le pratiche dei poteri e dei loro agenti (Palidda, 2010). Si tratta, in poche parole, dell’insieme di rappresentazioni e forme ideologico-discorsive attraverso cui le istituzioni di potere dei gruppi dominanti descrivono e giustificano la realtà sociale dei gruppi dominati.

Sayad (2002), a tal proposito, parla di “pensiero di Stato”, ovvero di quel meccanismo per cui le strutture mentali dei cittadini tenderebbero a riflettere quelle dello Stato e verrebbero perciò incorporate dagli attori sociali e naturalizzate fino a diventare ovvie, nascondendo la loro natura sociale e politica. Secondo Sayad, infatti, le categorie attraverso le quali pensiamo il mondo e la società riflettono quelle nazionali e sono alla base del nostro stesso modo di concepire la realtà. Siamo cioè in presenza di «prodotti socialmente e storicamente determinati, e allo stesso tempo strutturanti, nel senso che predeterminano e organizzano tutta la nostra rappresentazione del mondo e, di conseguenza, questo stesso mondo» [ibid.]. In tal modo, in base alla stessa logica, si può dire che le nostre categorie di pensiero esercitano un’influenza anche sulle modalità attraverso le quali percepiamo e interpretiamo i fenomeni migratori e, quindi, i concetti stessi di “straniero”, “immigrato”, “rifugiato”. Un’attenta analisi dei fenomeni legati alle migrazioni, quindi, deve preventivamente partire da un approccio “decostruzionista”, da una prospettiva cioè che tenda a decostruire le logiche e le retoriche che sottendono la produzione di forme discorsive atte appunto a rappresentare e legittimare la realtà sociale dei migranti.

A ben vedere, è proprio quando i “moderni” Stati europei iniziano a farsi pienamente nazionali e quando lo “straniero”, in quanto migrante e profugo, diventa oggetto privilegiato delle politiche governative, che il concetto di straniero subisce una trasformazione radicale, diventando paradigma “dell’esclusione” politica, parallelamente alla ridefinizione dei codici “dell’inclusione” e della cittadinanza su basi appunto nazionali (Sassen, 1996). Non a caso, nell’analisi dei discorsi relativi ai fenomeni migratori trovano spazio sia quelli destinati alla selezione e all’inquadramento, ovvero alla governabilità come insieme di pratiche, non solo statali ma anche intellettuali e tecniche, sia i discorsi che giustificano e orientano le pratiche dell’esclusione, del rigetto, dell’ostilità, della persecuzione e della guerra contro quello che può essere considerato il nemico di turno (Palidda, 2010). Vediamo nello specifico le caratteristiche di tali discorsi.

Isbarcati-migranti-lampedusan primo luogo, all’interno del dibattito pubblico e politico contemporaneo che ruota attorno alle tematiche migratorie si possono riscontrare tutta una serie di discorsi, pratiche e rappresentazioni che fanno capo a quella che può essere definita «ragione umanitaria», che Fassin (2018) suggerisce di considerare nel quadro più ampio di una geografia mondiale di governabilità degli esseri viventi. Tale nuova “razionalità di governo”, secondo l’antropologo francese, sarebbe il prodotto della progressiva affermazione nella sfera pubblica occidentale di una soggettività politica collettiva fondata sul «dispiegamento di sentimenti morali», e farebbe parte di uno sviluppo intrinseco alla tradizione filosofica occidentale, di ispirazione soprattutto cristiana e liberale, che avrebbe fagocitato il discorso politico sino a cristallizzarsi in quello che si può considerare un vero e proprio “governo umanitario”.

Ciò vuol dire, in pratica, che i sentimenti morali e il richiamo a una comune umanità diventano la sostanza stessa della politica, assurgono a strumenti fondamentali per rispondere a particolari questioni del mondo. A partire dagli anni Novanta, infatti, il termine “umanitario”, dapprima circoscritto alle operazioni di emergenza e usato da un ristretto gruppo di Organizzazioni Non Governative, si estende anche ai contesti dello sviluppo, delle politiche sociali, sino addirittura agli interventi militari, diventando la parola d’ordine adoperata dalle grandi agenzie internazionali e dagli apparati statali per descrivere e giustificare una serie diversa di eventi, dall’assistenza ai soggetti svantaggiati al sistema degli aiuti internazionali, dal soccorso alle vittime di catastrofi al riconoscimento dello status di rifugiato o alla regolarizzazione degli stranieri senza permesso di soggiorno. Il governo umanitario, pertanto, si presenta come un nuovo dispositivo di potere in grado di agire in contesti sociali diversi e che contiene in sé anche le motivazioni profonde, di tipo morale, dal quale prende avvio gran parte dell’agire politico contemporaneo, a partire dalle istituzioni statali agli organismi internazionali, dalle Organizzazioni Non Governative alle associazioni del Terzo settore, passando per i singoli individui riuniti in forme associative o di attivismo.

“L’umanitarismo” è oggi ben riscontrabile nei luoghi della precarietà, nei ricoveri per i poveri, nei campi profughi, nei centri di accoglienza per immigrati o per sfollati. Esso si concentra sui soggetti che hanno a che fare con situazioni di povertà, disastri naturali, carestie, epidemie, guerre, mostrandosi attraverso le immagini di sofferenza che vengono spiattellate ovunque dai media e che sembrano ormai appartenere alla nostra quotidianità, così come ne fanno parte gli interventi di aiuto e di assistenza. Siamo in effetti continuamente pervasi dalla spettacolarizzazione della sofferenza e dall’esposizione globale del soccorso [1]. Ciò avviene perché la logica umanitaria necessita da una parte di mostrare la presenza di soggetti sofferenti, nello specifico di “corpi sofferenti” (ibid.), facendo appello a un immaginario caritatevole, e dall’altra parte di spostare l’attenzione dalla “struttura” a un soggetto, costruito in termini morali, nel quale possiamo facilmente riconoscerci proprio perché appartenenti a una medesima comunità umana. La forza ideologica della ragione umanitaria come nuova forma egemonica di governo, allora, sta proprio nell’aver sostituito il vecchio lessico della politica, incentrato intorno a espressioni come lotta, sfruttamento, diritti, giustizia sociale, con una nuova retorica che fa largamente uso di nozioni di tipo morale come “sofferenza”, “compassione”, “solidarietà”, e a ciò che Fassin definisce “ethos compassionevole” di stampo paternalistico (2006a). In questo senso, la logica umanitaria, spogliando i fatti di qualsiasi specificità storica e politica, in un susseguirsi senza differenze di eventi drammatici, non farebbe altro che riprodurre le condizioni strutturali di diseguaglianza entro cui si inscrive [2]. Il discorso umanitario, in effetti, a prescindere dalla buone intenzioni soggettive, presuppone un rapporto sociale fondamentalmente di tipo gerarchico e diseguale, nel quale soggetti in posizione dominante rappresentano e descrivono la condizione di soggetti subalterni. L’Altro, sia esso il povero, il migrante, il profugo o lo sfollato, può essere riconosciuto e accettato, e quindi esistere, solo attraverso la figura della vittima, di un soggetto passivo, questuante e sofferente (Mesnard, 2004), corpo biologico da salvare, curare e assistere.

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Il discorso migratorio, a ben vedere, viene ampiamente inglobato da quello umanitario e il migrante è costitutivamente figura vulnerabile, fragile, bisognosa di essere aiutata e salvata, riconosciuto solo in quanto vittima, suffering body intorno al quale l’azione umanitaria disegna i contorni di una nuova “economia morale” (Fassin, 2009), attraverso «un diritto che salva, cura, protegge, difende solo corpi umani» [Pandolfi, 2005]. Il tipo di potere che agisce sui migranti, in questo caso, non è altro che un “biopotere”, cioè potere sulla vita intesa sempre più spesso come mera esistenza fisica e naturale, “nuda vita” (Agamben, 1995) spodestata delle sue valenze storiche, sociali e soprattutto etiche. Tale è la “biopolitica” (Foucault, 2005), una forma di potere che si afferma e si riproduce proprio attraverso il corpo e che si traduce in un regime di controllo e di sorveglianza dei corpi degli individui che si può definire “panoptico”, ovvero di estensione capillare ed estensiva della visibilità dei soggetti da parte delle istituzioni (Foucault, 1976). Una forma di potere, in sostanza, che «rinvia all’emergere della vita stessa tanto come oggetto, quanto come soggetto del potere» (Quaranta, 2006).

Fassin, a proposito della biopolitica che incontra i corpi dei migranti, corpi “altri”, stranieri, irregolari e clandestini, luoghi di inscrizione e di incarnazione delle politiche immigratorie, parla non a caso di “biopolitica dell’alterità” (Fassin, 2006b), ovvero di quel potere che, agendo direttamente sulla nuda vita degli immigrati, investe tanto le dinamiche riguardanti i flussi migratori quanto le politiche dell’accoglienza e dell’esclusione degli stranieri, così come anche le norme per il riconoscimento del loro status giuridico e legale. Pensare e ragionare esclusivamente in termini di umanità, compassione e pietà, ha portato in definitiva a considerare il “diritto alla vita” come unico diritto riconosciuto, spostando decisamente in secondo piano quelli che sono i diritti sociali, civili e politici dei migranti. Non solo. La logica umanitaria finisce paradossalmente col produrre una sorta di “dis-umanizzazione” del migrante, una sua mutilazione alla stregua di una “persona a metà”, come se la sua vita dipendesse unicamente dal suo non “essere (più) nel mondo” (Agier, 2005), accolto ed accettato non come soggetto avente una propria storia e dignità, ma solo come il prototipo di una figura socialmente accettabile, quella appunto della vittima da salvare e assistere.

Un secondo tipo di narrazione che investe le dinamiche migratorie è sicuramente quello derivante dall’insorgenza del cosiddetto «discorso securitario» (Wacquant, 2006), strettamente connesso al concetto di «securitarizzazione» [3]. Tale termine indica quel processo di costruzione sociale che spinge un settore ordinario della politica nella sfera delle questioni relative alla sicurezza attraverso una retorica e atti linguistici che inquadrano un tema pubblico in termini di “minaccia”, creando così un frame che giustifica l’adozione di misure e azioni che eccedono rispetto ai normali confini dei provvedimenti politici (Waever, 1995). In quest’ottica, la securitarizzazione di una determinata questione pubblica è effetto di una pratica discorsiva che ne fa una questione di sicurezza del tutto indipendentemente dalla sua natura obiettiva o dalla rilevanza concreta della supposta minaccia. Anche il fenomeno migratorio, negli ultimi decenni, è stato affrontato sotto il profilo della securitarizzazione, non soltanto dal punto di vista del paradigma classico centrato sulla sicurezza nazionale e l’ordine pubblico, ma anche in base ad altri princìpi interpretativi che hanno affollato il dibattito pubblico contemporaneo, andando a rafforzare ulteriormente il legame tra migrazioni e sicurezza (Campesi, 2012).

open-arms-spagnaSecondo il paradigma tradizionale, come detto, le migrazioni costituirebbero un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato-nazione per via di un modello teorico interpretativo che finisce per associare le mobilità umane con tutta una serie di fenomeni criminali e di minacce strategiche, in base a una logica che Dal Lago (1999a) definisce «tautologia della paura». In linea generale, il legame tra migrazioni e aumento dell’insicurezza è supportato da alcune linee argomentative che fanno riferimento da una parte all’aumento del disordine urbano e di episodi di criminalità comune e, dall’altra, a minacce di ordine transnazionale come ad esempio quelle dovute al crimine organizzato e al terrorismo internazionale. Un altro paradigma fondamentale è quello che considera le migrazioni come una minaccia dal punto di vista prevalentemente politico-identitario. In questo senso, viene supposto che i movimenti degli esseri umani metterebbero in serio pericolo l’integrità politica e la presunta identità etnica e culturale delle società di destinazione.

Tale visione delle migrazioni ha avuto un potente effetto di securitarizzazione, attivando la mobilitazione nel dibattito pubblico e politico di retoriche securitarie volte a legittimare un approccio poliziesco alla questione. Non a caso, questa logica non ha fatto altro che rafforzare forme di “fondamentalismo culturale” (Stolcke, 2000) e, di conseguenza, del cosiddetto nuovo “razzismo differenzialista”, ovvero la reificazione delle differenze, culturali e religiose, presentate come a-storiche, immutabili e assolute, per giustificare l’ostilità e il rifiuto degli altri, o peggio, per legittimare pratiche discriminatorie (Gallini, 1996). Il razzismo differenzialista, in effetti, sostiene la difesa delle differenze culturali dai processi di omogeneizzazione tipici del mondo globalizzato per negare ogni forma di multiculturalismo e di interculturalismo, una sorta di celebrazione delle differenze per legittimare le disuguaglianze (Rivera, 2003). Infine, un ultimo paradigma su cui si basa il discorso securitario è quello che considera le migrazioni come una minaccia di natura socio-economica. Da questo punto di vista, gli immigrati vengono spesso descritti come concorrenti illegittimi e sleali sul mercato del lavoro e come profittatori dei benefici assistenziali offerti dai sistemi di welfare State dei Paesi occidentali, secondo una logica che indirizza nei confronti di veri e propri nemici di comodo tutte le insicurezze e le incertezze generate dal processo di deindustrializzazione e dalla crisi del modello politico economico dello Stato sociale (Castel, 2004). L’uso di immagini evocative e di retoriche che rimandano di sovente a una presunta “invasione” di potenziali richiedenti asilo o immigrati economici è funzionale e, allo stesso tempo, contribuisce a costruire la minaccia rappresentata dalle migrazioni per la tenuta del sistema socio-economico dei Paesi di accoglienza.

Il discorso securitario, a ben vedere, non fa altro che produrre “retoriche dell’esclusione” (Stolcke, ibid.), che oggi abbondano nell’arena pubblica dei vari Stati nazionali e nelle relative politiche di chiusura delle frontiere, di trattenimento coercitivo e di restrizioni normative e giuridiche attive tanto a livello nazionale quanto europeo, rafforzando le discriminazioni quotidiane nei confronti dei migranti. Particolarmente decisiva per la securitarizzazione delle migrazioni e per aver impresso un giudizio di valore negativo nei confronti degli stranieri è stata ovviamente la categoria dell’immigrazione “irregolare”. Tuttavia, la condizione di irregolarità, o “clandestinità” come viene ormai più comunemente definita, non è altro che il prodotto stesso di politiche sempre più restrittive in materia di ingresso e permanenza nel territorio di uno Stato e, di fatto, quella che dovrebbe rientrare nell’ordine di un’infrazione amministrativa finisce per assumere i caratteri di un reato criminoso, di una vera e propria minaccia alla sicurezza nazionale. La costruzione di discorsi diversificati e spesso contraddittori sulla nozione di illegalità all’interno dei sistemi normativi nazionali dovrebbe essere di per sé sintomatica dei processi politici, culturali e burocratici di produzione “legale” della “illegalità” dei migranti (De Genova, 2005). Anzi, si potrebbe addirittura sostenere che «un essere umano è persona solo se la legge glielo consente, indipendentemente dal suo essere persona di fatto» [Palidda, 2008: 158], e ciò è ancor più vero nel caso degli immigrati.

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Ed è proprio attraverso tali modalità che si giunge alla “criminalizzazione” dello straniero, dell’estraneo, del diverso, un processo che si nutre della paura e delle insicurezze di cui tale individuo è ritenuto responsabile per giustificare pratiche di potere che mescolano protezionismo, autoritarismo e proibizionismi di ogni sorta (Palidda, 2009). Il migrante finisce così per essere riconosciuto in quanto criminale, come soggetto pericoloso e da stigmatizzare non tanto per la sua condotta quanto per la sua stessa esistenza. Egli diviene la rappresentazione emblematica del nemico di turno, un ruolo alimentato da retoriche e discorsi che attraversano tanto i media quanto i luoghi del potere, fino a diventare senso comune e capro espiatorio della maggioranza. Tale processo di criminalizzazione si inscrive oggi in un assetto politico liberista/neoconservatore fondato sull’asimmetria di potere e di ricchezza fra gli attori forti e i deboli senza diritti della società globalizzata. Non a caso, se si toglie il reato di immigrazione irregolare e gli altri connessi a questa condizione, conseguenza di una legge proibizionista che di fatto rende impossibile l’immigrazione regolare e il mantenimento della regolarità, gli altri reati attribuiti agli immigrati «sono quasi sempre i tipici reati dei poveri» (Mucchielli, Nevanen, 2009). Ed è noto ormai come le leggi xenofobe anti-migrante attive nel nord del mondo risultino più efficaci nell’indebolire tutti gli stranieri piuttosto che nel frenare l’immigrazione, dato che la forza che li spinge ad emigrare è decisamente più forte di ogni mezzo impiegato per respingerli (Staid, 2011).

Il migrante, quindi, assume le caratteristiche di una figura particolarmente critica, perennemente nella condizione di escluso, il quale in ogni momento deve scontrarsi con il suo “non dover esserci” e con la sua necessaria “invisibilità” (ibid.). Ciò avviene perché le politiche repressive contro gli stranieri non sono fini a se stesse ma sono intenzionalmente e funzionalmente atte alla creazione di una massa di individui estremamente vulnerabili e ricattabili, di una classe di lavoratori a basso costo e senza diritti, di esseri umani ridotti allo stato di “non persone” (Dal Lago, 1999b) e costretti ad esistere in condizioni di marginalità e precarietà. Il migrante, in sostanza, sia straniero, clandestino, rifugiato, richiedente asilo, si ritrova ad essere definito come “atopos” (Sayad, 2002), ovvero come fuori posto e non classificabile. Sottoposto a una sorta di processo di spersonalizzazione e di negazione, egli viene privato della propria identità a causa della sua “doppia assenza” (ibid.) sia dal luogo di provenienza che da quello in cui risiede. Egli risulta essere, in definitiva, un individuo privo di un proprio spazio all’interno di una data società, escluso da ogni ordine politico, né cittadino né straniero, destinato ad una perenne “non-appartenenza” e “non-esistenza”, a quella che anche in questo caso si può definire una condizione di “dis-umanizzazione”.

Come si è avuto modo di vedere da questa breve analisi in merito ai principali discorsi che ruotano attorno ai processi migratori e facendo riferimento a ciò che sta accadendo negli ultimi anni in Europa, e in Italia in particolare, sembra che il dibattito pubblico e politico contemporaneo sia incentrato quasi unicamente sulla contrapposizione tra narrazione “umanitaria” e narrazione “securitaria”, sul riconoscimento del migrante o come “vittima” o come “criminale”, come corpo biologico da assistere e salvare o da respingere, detenere e criminalizzare. Fassin (2018), pur ammettendo che la storia non si presta bene a rigide periodizzazioni, fa notare come l’era dell’umanitarismo si sia dispiegata in particolar modo negli ultimi decenni del XX secolo, mentre a partire dal XXI secolo, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, si è assistito a un’accelerazione delle spinte securitarie. Non che siano mancati fermenti culturali provenienti dall’uno o dall’altro discorso in altri periodi storici. Ma se si possono identificare elementi che dominano il linguaggio di un’epoca, allora è possibile rintracciare dei “momenti” in cui si cristallizzano delle reti semantiche, ovvero serie di nozioni e rappresentazioni che insieme assumono un senso. Tali reti semantiche costituiscono una certa visione del mondo e forniscono punti di riferimento per rispondere a particolari questioni, in poche parole ciò che in questo articolo si è tentato di analizzare appunto con concetti quali “discorso” o “narrazione”. Non è possibile ovviamente sostenere che oggi il discorso umanitario sia scomparso, ma è innegabile che quello securitario sia diventato preponderante, dominante, soprattutto quando i due tipi di narrazione entrano in concorrenza nell’interpretazione delle situazioni e nella scelta delle risposte più adeguate. E questo è soprattutto il caso dei fenomeni migratori.

migranti-il-parroco-di-lampedusa-aprite-i-porti-e-gli-aeroporti-alle-persone_articleimageIn effetti, invece di essere pensate e affrontate sulla base del diritto internazionale e dell’asilo, le migrazioni sono diventate una questione di regolazione dei flussi e di repressione nei confronti di quanti fuggono da persecuzioni, guerre e povertà. La risposta all’accoglienza di un numero di persone che corrisponde solamente all’1-2% della popolazione complessiva europea si è concretizzata in muri, fili spinati, campi di detenzione, violenza delle forze dell’ordine, manifestazioni di ostilità da parte dei locali, discorsi esplicitamente xenofobi di partiti e governanti populisti che accomunano i migranti a potenziali terroristi, criminali e usurpatori delle risorse della parte ricca del mondo. Eccezion fatta per gli sforzi fatti da alcuni Stati e per le iniziative locali portate avanti da soggetti, associazioni e collettività per accogliere e integrare i migranti provenienti da alcune zone dell’Africa, del Medio Oriente e dall’Asia, si deve ammettere che la logica securitaria è prevalsa quasi ovunque su quella umanitaria. Al punto che in nome della prima si è giunti persino a criminalizzare, reprimere, per soffocarla, la seconda (ibid.). E in questo modo le persone che assistono i migranti e i rifugiati, soccorrendoli, aiutandoli, portandogli da mangiare e offrendogli un riparo, come è spesso accaduto nelle valli alpine al confine tra Italia e Francia, vengono accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Oppure come è il caso più famoso delle Organizzazioni Non Governative che operano nel Mediterraneo per salvare la vita di persone in viaggio su imbarcazioni alla deriva, che vengono continuamente imputate di complicità con il traffico di esseri umani e poste sotto l’attacco mediatico e politico dell’ultimo Governo italiano Lega-5Stelle, in particolare dellex Ministro degli Interni Matteo Salvini, il quale senza remore alcuna le ha assunte come vero e proprio “feticcio politico”.

La “criminalizzazione della solidarietà”, in conclusione, seppur non inedita, dà la misura della trasformazione dell’economia morale nei confronti delle migrazioni (ibid.) del mondo neoliberista globalizzato. Una trasformazione che non solo vede il superamento della retorica umanitaria a favore di quella securitaria, ma che sembra oggi andare ben oltre a causa dell’assunzione di discorsi che stanno tornando ad assumere toni di stampo razzista e propagandistico da parte di politici, governanti, esponenti pubblici e mediatici, e dalla loro accettazione da parte delle masse popolari. Un livello discorsivo e comunicativo costituito per lo più dal moltiplicarsi di fake news e da una interpretazione dei fatti che pare piuttosto voler esprimere una narrazione capovolta della realtà e delle migrazioni. Si può allora arrivare addirittura a sostenere che la “comune umanità” che contraddistingue il discorso umanitario, nel quale ci si sente al riparo dal senso di colpa cristiano per le disuguaglianze del mondo e tra gli uomini e che conduce comunque a una disumanizzazione del migrante pensato solo in termini di corpo biologico e naturale, non solo sia stata sostituita dalla disumanizzazione dello straniero di carattere securitaria attraverso il quale è possibile dar sfogo a tutte le paure e all’arroganza dell’etnocentrismo culturale occidentale, ma che stia lentamente lasciando il passo a una “comune dis-umanità” che sembra in definitiva accomunare tanto il soggetto quanto l’oggetto dell’attuale narrazione e visione del mondo.

Una “disumanizzazione” generale, cioè, in grado di coinvolgere e assimilare, in maniera quasi sintomatica e contraddittoria, tanto l’uomo bianco, moderno, europeo e occidentale, quanto l’alterità migrante, straniera, diversa, che si vorrebbe al contrario allontanare, respingere e rifiutare. Abbiamo, in sostanza, disumanizzato talmente tanto la figura del migrante che l’unica strada che ci è rimasta è quella di disumanizzare a nostra volta noi stessi. Allora, mai come in questi tempi, per i tanti che si rispecchiano in una narrazione securitaria e criminalizzante delle migrazioni e della solidarietà, può ritenersi lontana la massima tratta dal Talmud e ripresa anche nel celebre film di Steven Spielberg Shindler’s list che recita: «Chi salva una vita salva il mondo intero». Perché un’umanità dis-umanizzata, in fondo, non ha bisogno né di salvatori né di salvati.

Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
Note
 [1] http://www.lavoroculturale.org/didier-fassin-ragione-umanitaria/
[2] http://www.decoknow.net/trappola-umanitaria-accumulazione-neoliberale/
[3] Termine introdotto da alcuni studiosi di relazioni internazionali raccolti in quella che è identificata come la “Scuola di Copenaghen”.
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Francesco David, laureato in Antropologia Culturale ed Etnologia, svolgendo ricerche sul campo in Basilicata, dove ha analizzato i processi storici e culturali di una festa patronale locale, e nel C.I.E. di Bologna, dove ha avuto modo di indagare i meccanismi di gestione biopolitica della sofferenza delle donne immigrate, ha conseguito un Master di II livello in Peace Studies – Cooperazione Internazionale allo Sviluppo, Diritti Umani e Politiche dell’Unione Europea, occupandosi del rapporto tra antropologia e Cooperazione allo sviluppo umano sostenibile. Si è impegnato nel settore migratorio come insegnante di lingua italiana per stranieri e in iniziative per la promozione dei diritti umani con Amnesty. È membro dell’Associazione Amici della Fondazione Città della Pace per i Bambini Basilicata con la quale ha collaborato come Tutor per il primo Summer Camp “MigrAction – Immagine innovative tools for Breaking Stereotypes and Building Dialogue”. Lavora come Freelance Writer e scrive per alcune riviste scientifiche.

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solidarietà a papa Francesco con le parole di Pax Christi

“anche noi eretici come te”

di: Pax Christi Verona, Centro Studi di Pax Christi Italia

Caro papa Francesco,

lo sai bene visto che ci chiedi sempre di pregare per te. C’è chi vuole screditarti. Chi vuole zittirti. Chi vuole eliminarti. Chi ti vuole morto. Il problema non è criticarti, visto che chiedi un linguaggio libero, anche a te contrario.

 Una bella eresia.  Il problema non è la critica ma lo scatenarsi di una nuova inquisizione incalzante e cattiva. E’ l’attacco ossessivo. La polemica compulsiva. La condanna predeterminata.  Gli ecclesiastici ora ipercritici (un tempo ossequienti ad ogni parola del papa) vogliono insegnarti la vera dottrina. Nel 2017 alcuni preti e studiosi ti hanno accusato di 7 eresie. Il 30 aprile scorso altri ecclesiastici hanno proposto di processarti per il “delitto canonico di eresia”. Da tempo alcuni prelati “dubitanti” hanno preparato il terreno. Ce l’hanno con quello che dici e che fai. Con i viaggi, gli incontri, i gesti. Ce l’hanno con Amoris laetitia o con Evangelii gaudium, Misericordiae vultus, Laudato si’ e con altri interventi che contengono indicazioni di sconvolgente e scomoda attuazione. Per noi di grande bellezza, perché profumano di Vangelo. Tu testimoni con gesti concreti la presenza di Dio padre dall’infinito amore, di Gesù Cristo morto e risorto, dello Spirito Santo che vola fuori da ogni gabbia. Se questa è eresia, noi siamo con te. Vogliamo farne parte.

Un movimento anticonciliare. Il vero bersaglio dei nuovi inquisitori è il concilio Vaticano II. Sembrano cristiani senza Cristo. A disagio davanti alla carne e al sangue di Gesù Cristo (presente dentro e oltre ogni cultura). Ritengono pericoloso il dialogo ecumenico e interreligioso. Li hai definiti «testardi che vogliono addomesticare lo Spirito, stolti e lenti di cuore» oppure «restaurazionisti ideologici». Vorrebbero esaltare la tradizione senza coglierne il valore dinamico (Dei Verbum 8, Gaudium et spes 44). Rifiutano una visione alta di tradizione: quella evangelica e apostolica, quella dei santi e dei martiri che hai ricordato nella Gaudete et exultate.

Una triste compagnia. Quelli che ti attaccano non saranno tantissimi ma sono aggressivi e organizzati. Il loro assalto è avvolgente. Proviene da fronti diversi: quello tradizionalista ecclesiastico; quello nazionalista etno-religioso; quello reazionario di matrice neofascista; quello progressista o iperliberista legato alla religione della prosperità e alla cultura dello scarto. Alcuni si sentono “disorientati” forse perché preferiscono strutture imbalsamate, magari rosari sventolati sulla folla o crocifissi branditi come armi politiche. Altri sono nostalgici della cristianità basata sull’alleanza tra trono e altare. Ci sono anche i distratti, i tiepidi, i muti, i grigi o i furbi. Ci sono senz’altro quelli che hai chiamato pianificatori del terrore, organizzatori dello scontro, affaristi della guerra, mercanti di armi e di morte, imprenditori della paura, promotori dello scarto, poteri della finanza speculativa, povera gente criminale. Ci sono i siti e le agenzie d’assalto (maestre in fake news). Ci sono i negazionisti climatici e i primatisti bianchi. Stanno anche trasformando un’abbazia laziale in scuola per sovranisti guerrieri.

Papa coraggio.  Fin dai primi mesi sei stato accusato di essere populista, pauperista, comunista, demagogo, musulmano, relativista, quindi pericoloso, traditore, incolto, abusivo. Negli Stati Uniti qualcuno ti ha definito «l’uomo più pericoloso per il mondo». Osi parlare di un sistema economico che scarta e uccide. Parli di pace, di giustizia e di cura del creato. Inviti al dialogo e all’incontro, alla misericordia e alla tenerezza. Insisti sulla riforma della Chiesa “in uscita”, sulla Chiesa povera e dei poveri, sulla Chiesa inquieta e gioiosa, aperta ai giovani. Nel dicembre 2014 hai elencato 15 grandi patologie curiali (tra esse il clericalismo, il carrierismo, la vanagloria, il denaro, l’arroganza, la tristezza). Hai poi affrontato con coraggio il tema degli “abusi di coscienza, di potere e sessuali”. Ci sembrano ipocriti coloro che, forse per coprire le loro complicità, ti accusano di essere debole proprio dove stai introducendo una forte innovazione dando sostegno alle vittime.

Periferie e frontiere. In Italia hai visitato le tombe di Primo Mazzolari, Lorenzo Milani, Tonino Bello, Zeno Saltini, Pino Puglisi e altri, indicandoli come «preti non clericali», «luminosi e scomodi», «dono e profezia» da accogliere e imitare. Solo un papa giunto dalla periferia della terra poteva comprendere la bontà delle periferie di casa nostra. Te ne siamo grati.

 Amici e corresponsabili. Ricordiamo tutto questo per amore di verità e impulso di vicinanza anche se quanto ti sta capitando non ci sorprende, considerando cosa è accaduto a Gesù e alla Chiesa primitiva o contemplando le beatitudini dei poveri, dei miti, dei perseguitati, dei misericordiosi, degli affamati di giustizia e di pace.

Vogliamo semplicemente dirti che siamo con te (anche in caso di opinioni diverse su alcune questioni). Che vogliamo aiutarti con la preghiera, la parola e l’azione. Che intendiamo accompagnarti. Che ci sentiamo corresponsabili della stagione ecclesiale che stiamo vivendo. Speriamo e preghiamo che non ti capiti qualcosa di male. Sei per noi una meraviglia coinvolgente. Testimone credibile del Signore. Profeta di nuova umanità. Ci fai respirare aria fresca. In noi non c’è alcuna mitizzazione. C’è una profonda spirituale amicizia. C’è il nostro affetto. C’è il desiderio di un impegno conviviale. C’è la realistica consapevolezza di un mondo violento bisognoso di ospedali da campo, di buone relazioni, di radicali riforme e di quotidiana profezia.

Con tutti i nostri limiti (e assieme a tanti altri) intendiamo sviluppare con te

  • il tema del dialogo interreligioso, alla luce del Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019
  • il tema della pace nonviolenta, nel contesto del movimento per il disarmo, con ipotesi di intervento educativo nei luoghi di formazione, negli itinerari catechistici, nelle scuole
  • il tema della riforma della Chiesa proposto dalla Evangelii gaudium e dalla Lettera al popolo di Dio mettendo a fuoco il contributo decisivo delle donne
  • il tema della cura del creato rilanciando con i giovani in lotta la tua splendida Laudato si’.

Un grande abbraccio, un’intensa preghiera, un augurio di buon cammino (comune).

15 maggio 2019

Boff: viviamo una stridente mancanza di solidarietà

solidarietà’

percorsi dimenticati

 

C’è una stridente mancanza di solidarietà nel momento attuale della nostra storia. Ci informano che in questo esatto istante 20 milioni di persone sono minacciate di morire letteralmente di fame: nello Yemen, in Somalia, nel Sudan del Sud e in Nigeria. Il grido degli affamati si dirige al cielo e in tutte le direzioni. Ma chi lo ascolta? In piccola parte l’Onu e soltanto alcune coraggiose agenzie umanitarie.

Nel nostro paese a causa i ritocchi promossi dagli attuali governanti che hanno fatto un golpe parlamentare, con l’intenzione di imporre la loro agenda neoliberale, ci sono almeno 500 mila famiglie che hanno perso la “Bolsa fami’lia”. I poveri stanno piombando nella miseria da cui erano usciti e i miserabili stanno diventando straccioni. Non sono pochi coloro che vengono alla nostra ONG a Petropolis (centro per la difesa dei diritti umani), che esiste da 40 anni, chiedendo da mangiare. E’ possibile negare il pane a una mano distesa e ai suoi occhi supplichevoli senza essere disumano e senza pietà?

E’ urgente riscattare il significato antropologico fondamentale della solidarietà. Essa è antisistemica, perché il sistema imperante capitalista e individualista si regge sulla concorrenza e non sulla solidarietà e cooperazione. Questo va contro il senso della natura.

Ci dicono gli etno-antropologi che è stata la solidarietà a farci passare dall’ordine dei Primati all’ordine degli umani. Quando i nostri antenati antropoidi uscivano in cerca di alimenti, non li mangiavano ognuno per conto suo. Li portavano al gruppo per mangiarli insieme. Vivevano la commensalità, propria degli umani. Pertanto la solidarietà sta alla radice della nostra ominazione.

Il filosofo francese Pierre Leroux a metà del secolo XIX quando nascevano le prime associazioni di lavoratori contro la primitività del mercato, riscatto’ politicamente questa teoria della solidarietà. Era cristiano ma disse: “dobbiamo intendere la carità cristiana oggi come solidarietà mutua tra esseri umani” (Cf. Jean-Louis Laville, L’ économie solidaire: une perspective internationale, 1994, 25 ss ).

La solidarietà implica reciprocità fra tutti come un fatto sociale elementare. E’ qui che è nata l’economia del dono mutuo, tanto bene analizzata da Marcel Mauss.

Se guardiamo bene, la natura non ha creato un essere per se stesso, ma tutti gli esseri uno per l’altro. Ha stabilito tra loro lacci di mutualità e reti di relazioni solidarie. La solidarietà originaria ci fa tutti fratelli e sorelle dentro alla nostra specie

La solidarietà pertanto è indissociabile dalla natura umana, in quanto umana. Se non ci fosse solidarietà, non avremmo condizioni di sopravvivere. Non possediamo nessun organo specializzato (Mangelwesen de A. Gehlen) che garantisce la nostra sussistenza. Per sopravvivere dipendiamo dalle attenzioni e dalla solidarietà degli altri. Essa è un fatto innegabile per il passato e anche al giorno d’oggi.

Ma dobbiamo essere realisti ci avverte E. Morin. Siamo simultaneamente sapiens e demens, non come decadenza dalla realtà ma come espressione della nostra condizione umana. Possiamo essere sapienti e solidali e creare lacci di umanizzazione. Ma possiamo anche essere dementi e distruggere la solidarietà, e possiamo essere tagliagola come fanno i militanti dell’esercito islamico o bruciandole sotto una montagna di pneumatici come fa la mafia con la droga.

A causa di questo nostro momento demente che Hobbes e Rousseau intravidero la necessità di un contratto sociale che ci permettesse di convivere e di evitare di divorarsi a vicenda.

Il contratto sociale non ci dispensa dall’avere da riscattare in continuazione la solidarietà che ci umanizza e senza la quale il lato demente prevarrebbe su quello sapiente.

E’ quello che stiamo vivendo a livello mondiale o anche nazionale, dato che pochissimi controllano le finanze e l’accesso ai beni e servizi naturali, lasciando metà dell’umanità nell’indigenza. Bene diceva il Papa Francesco: il sistema imperante è assassino e antivita.

Tra noi gli attuali politici di ritocchi fiscali stanno pesando specialmente sui poveri e beneficiando quelli che controllano i flussi finanziari. Lo Stato indebolito dalla corruzione non riesce a frenare la voracità dell’accumulazione illimitata delle oligarchie.

C’è stato Qualcuno che è stato solidale con noi. Non volle servirsi della sua condizione divina. Anzi per solidarietà si è presentato come semplice uomo (Flp 2,7) e morì crocifisso. Questa solidarietà ci ha ridato l’umanità (ci ha salvati) e continua a farci coraggio e a coltivare gli stessi sentimenti che ebbe Lui (Flp 2,5).

E’ urgente rispettare il paradigma di base della nostra umanità, tanto dimenticato, la solidarietà essenziale. Fuori di questa svuoteremmo la nostra umanità e quella degli altri.

*Leonardo Boff, columnist del JB on line, teologo, filosofo, scrittore

traduzione di Romano Baraglia e Lidia Arato

assurdo criminalizzare la solidarietà

 

Se la solidarietà è un crimine
se la solidarietà è un crimine
 
da Adista Segni Nuovi n° 27 del 22/07/2017

Numero di sbarchi in Italia nel 2017: 22.339 al 28 giugno, secondo dati ufficiali del Ministero dell’Interno. 181.436 in tutto il 2016. Sono questi i numeri dell’“invasione” in nome dei quali il nostro Paese e l’Europa stanno abdicando ai fondamenti stessi della concezione illuminista dei diritti umani, un tempo, almeno a livello teorico, specificità dell’Occidente. La mera evidenza delle cifre svela la natura strumentale della campagna martellante che da mesi alimenta la sindrome emergenziale e fa crescere intolleranza e paura. Una paura “liquida, mobile”, diffusa, che ormai permea la società e che, con le parole di Baumann, «è un ottimo capitale per tutti coloro che la vogliono utilizzare per motivi politici o economici» perché «produce uno stato mentale politicamente esplosivo», contro il quale nulla possono le analisi razionali o i richiami umanitari. Uno stato mentale che spiega la passività, anzi il drammatico consenso a misure un tempo considerate degne dell’orrore dei regimi totalitari. Un esempio per tutti: «Obbligo per le navi umanitarie di tenere le luci spente di notte», in un mare dove sicuramente ci sono centinaia di persone che rischiano di annegare. Qualcosa di irrazionale deve aver colto gli stessi vertici istituzionali, della UE e dei singoli Paesi: un incomprensibile panico “identitario” sembra attraversare il continente, che non pensa altro che a blindare tutti i suoi confini, con tutti i mezzi possibili. Se i treni piombati per migranti del governo dichiaratamente razzista di Orban un paio di anni fa ancora suscitavano scandalo, oggi a regimi sanguinari come quelli libico e turco si affida ufficialmente, attraverso corposi finanziamenti, il compito – sporco – di bloccare comunque i migranti a est e a sud. Nessuno può far finta di non sapere cosa accade nei centri di detenzione di quei Paesi. La storia condannerà senza appello l’Europa per questo, sarà come per la Shoah… Il mondo solidale cerca disperatamente di risvegliare le coscienze, ma per adesso la linea resta chiara. Le ultime decisioni disegnano un piano organico, che ha un solo scopo: fermarli, a qualunque costo. L’aumento dei morti non è una preoccupazione. E viene il dubbio che sia un obiettivo.

Inascoltati gli appelli ad aprire vie sicure che consentano ai migranti di arrivare in condizioni dignitose, difficoltà a far partire un piano ampio di accoglienza solidale e al tempo stesso razionale, orientata a un inserimento positivo e autonomo a breve/medio termine: in questo quadro l’Italia accetta – nonostante alcune apparenti divergenze – le attuali linee guida della UE, ribadite da Juncker anche dopo l’ultimo vertice – «enormi progressi», «serio impulso» alle politiche sull’immigrazione –. L’obiettivo finale è il «ricollocamento», oltre che nella stessa Libia, in Egitto, Niger, Etiopia e Sudan, Paesi ad hoc promossi “sicuri”! Ad essi e agli altri Paesi del Maghreb si affida inoltre il compito di maggiori controlli alle frontiere e si chiede di collaborare per i rimpatri dei “migranti economici”. «Aiutiamoli a casa loro», insomma. Semplicemente: non devono venire. Non possiamo accoglierli tutti. Aumentare i rischi del viaggio come deterrente.

Per la rotta del Mediterraneo, la Libia si conferma al centro della strategia di contenimento – ancora 46 milioni di Euro dalla UE e larga parte dei 35 milioni di Euro assegnati all’Italia per l’emergenza –: deve trattenere chi vuole partire o intercettare in mare e riportare indietro chi si è imbarcato. Con questi fondi, e i milioni di Euro – diverse centinaia – promessi o già dati a Erdogan si sarebbe potuta organizzare un’accoglienza degna e economicamente vantaggiosa anche per i Paesi europei. Ma non è questo che si vuole, evidentemente. Come in tutti i settori del sociale oggi, bisogna innanzi tutto affermare forte che non è vero che non ci sono fondi.

C’è un punto critico in questo disegno: le navi umanitarie delle Ong. Fanno due cose intollerabili: salvano vite (migliaia e migliaia) e soprattutto sono testimoni del comportamento delle motovedette – tra cui quelle regalate dall’Italia – della Guardia costiera libica. Scrive Amnesty International: «Gli intercettamenti della Guardia costiera libica mettono spesso a rischio le vite dei migranti e dei rifugiati. Le procedure impiegate non corrispondono agli standard minimi e possono causare attacchi di panico e capovolgimenti delle imbarcazioni con conseguenze catastrofiche. Vi sono inoltre gravi denunce di collusione tra membri della Guardia costiera libica e trafficanti nonché di maltrattamenti nei confronti dei migranti. Le motovedette libiche aprono il fuoco contro altre imbarcazioni e, secondo le Nazioni Unite, sono state “direttamente coinvolte, con l’impiego di armi da fuoco, nell’affondamento di imbarcazioni con migranti a bordo”». La campagna diffamatoria contro le Ong impegnate nei salvataggi – sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana – ha preparato la strada a una serie di misure concrete volte a paralizzarle: arretramento dei limiti entro cui possono agire, ostacoli burocratici di ogni tipo per gli sbarchi, fino all’idea di chiudere loro i porti. Misura che violerebbe tutte le Convenzioni del mare. Del resto, la criminalizzazione della solidarietà è un tassello importante del quadro: da Lesbo a Ventimiglia, gli attivisti che danno da mangiare, aiutano ai confini, forniscono tende sono costantemente a rischio di denuncia. In Italia il Decreto Minniti offre molti strumenti anche in questa direzione. Un capitolo a parte, il più tragico: i minori non accompagnati. Soggetti fragili per eccellenza, avrebbero diritto a protezione e sostegno. Ormai è normale respingerli alle frontiere, tenerli di fatto in stato di detenzione o semplicemente abbandonarli a rischi e abusi. Solo in Italia ne “spariscono” in media una trentina al giorno.

Una deriva davvero pericolosa, che solo la solidarietà dal basso e un tenace lavoro culturale e di informazione possono tentare di contrastare.

* Foto di Irish Defence Forces tratta da Wikipedia Commons, immagine originale e licenza

 

brutto messaggio criminalizzare la solidarietà

Ventimiglia e non solo

la criminalizzazione della solidarietà

di Livio Pipino
in “il manifesto” del 29 marzo 2017

 

Ci sono fatti illuminanti su quello che sarà il nostro futuro se non si contrastano prassi e culture che si stanno diffondendo in modo preoccupante.

Il primo fatto è accaduto a Ventimiglia, confine ligure con la Francia e, per questo, luogo di «stazionamento» di molti migranti in attesa di varcare il confine. Ventimiglia e la zona dei «Balzi rossi» sono stati nell’estate scorsa sotto i riflettori per le proteste contro il blocco della frontiera francese poste in essere da migranti, dapprima accampati sulla spiaggia e successivamente ripiegati in città dove, peraltro, le strutture di accoglienza erano e sono insufficienti. Così molti dormono in strada e vengono sfamati dalla Caritas o da una mensa parrocchiale. Ma anche queste non bastano. Perciò ogni sera volontari francesi provenienti dalla Val Roja distribuiscono a chi ne ha bisogno panini, acqua e the. Ma a Ventimiglia vige una ordinanza, emessa dal sindaco l’11 agosto 2016, che vieta la distribuzione di cibo ai migranti e così – incredibile ma vero – nei giorni scorsi tre volontari sono stati denunciati per il reato di «inosservanza dei provvedimenti dell’autorità» previsto all’art. 650 del codice penale.

All’altro capo dell’Italia, nel mare che divide la Sicilia dalle coste africane e in acque internazionali, si muovono da qualche tempo alcune navi di organizzazioni non governative che vigilano su eventuali naufragi e, nel caso, soccorrono i naufraghi o recuperano i corpi di chi non ce l’ha fatta. Anche qui è accaduto che la Procura della Repubblica di Catania abbia aperto una «indagine conoscitiva» sulle organizzazioni interessate sospettate di favorire l’immigrazione clandestina se non addirittura – come sostengono alcuni commentatori – di agevolare gli scafisti.

Questa criminalizzazione della solidarietà che, paradossalmente (o forse no), colpisce chi cerca di sopperire alle lacune delle istituzioni ha dei riferimenti precisi. Essa, infatti, è ormai regola negli Stati Uniti, dove il diritto penale sempre più persegue non solo i poveri ma anche chi vuole esercitare il diritto (o il dovere morale) di aiutarli.

Il fenomeno è descritto in termini analitici, e con ampia esemplificazione, in un recente e lucido libro di Elisabetta Grande

Guai ai poveri. La faccia triste dell’America, Edizioni Gruppo Abele, 2017

da cui si apprende, tra l’altro, che in molti Stati il divieto di camping penalmente sanzionato colpisce non solo l’homeless che vi fa ricorso, ma addirittura il proprietario che consenta al senza tetto di dormire in tenda sul proprio terreno per più di cinque giorni consecutivi, o che analogo divieto si estende all’autorizzazione a parcheggiare nel proprio spazio privato l’auto utilizzata da un homeless come abitazione. Quanto alla somministrazione di cibo ai poveri, poi, si è assistito finanche all’arresto di un novantenne, fondatore di un’organizzazione benefica, colpevole di servire pasti caldi agli homeless su una spiaggia e, come lui, di altri attivisti dalla Florida al Texas o alla richiesta di cifre altissime, come tassa per l’occupazione di suolo pubblico richiesta, in California e in South Carolina, alle organizzazioni che distribuiscono cibo nei parchi. Il meccanismo della criminalizzazione è lo stesso adottato dal sindaco di Ventimiglia: l’adozione di ordinanze contenenti proibizioni dettate da motivazioni per lo più speciose, come quella di garantire la sicurezza dei consociati, messa in pericolo dall’assembramento dei bisognosi che si recano a mangiare, o addirittura quella di proteggere la sicurezza alimentare o la dignità degli homeless, che meriterebbero un cibo controllato e un luogo coperto in cui consumare il pasto (tacendo che cibi e luoghi siffatti in realtà non esistono).
La cosa più inquietante è che quelle ordinanze, comparse la prima volta alla fine degli anni Novanta, hanno visto di recente una notevole intensificazione, con un aumento del 47% nel solo periodo tra il 2010 e il 2014, parallelamente al crescere della povertà e del numero di soggetti esclusi anche dai buoni alimentari assistenziali.

Ci fu, nella storia, un tempo (nell’Alto Medioevo) in cui la povertà divenne fonte di diritti, tanto da far assurgere il patrimonio della Chiesa a «proprietà dei poveri», destinata a chi non era in grado di mantenersi con il proprio lavoro e non alienabile neppure dai vescovi. Ma fu eccezione: quando il diritto si è occupato dei poveri lo ha fatto, per lo più, in chiave di punizione e di difesa della società. Ciò è stato messo in discussione, nel nostro Paese, dalla Costituzione repubblicana, che pone a tutti un dovere di solidarietà e indica l’uguaglianza sociale come obiettivo delle istituzioni. Sarebbe bene non dimenticarlo, anche da parte dei sindaci e dei procuratori della Repubblica.

libertà fa rima con solidarietà

i molti volti della libertà

di Sergio Rostagno*
in “Confronti” del febbraio 2017

non c’è libertà nemmeno per me se il mio prossimo non è libero insieme con me

libertà non prescinde da solidarietà

oggi più che mai appare necessario riflettere sul loro nesso

L’origine della parola libertà è sconosciuta. La radice greca “lib” si riferisce all’acqua corrente. Da lì sembra che venga la nostra parola libertà. Più interessante il termine inglese freedom, free, che ricorda il latino frater, ma si ritrova anche in Friede (pace in tedesco) e nell’inglese friend (l’amico).

Vedi anche: Franco; Francia. I greci avevano almeno 3 parole: eleuteria, exousia, parrhesia. Sono stati i greci a istituire la prima festa della libertà. La si celebrava ogni cinque anni ricordando di aver respinto l’invasione persiana e conservato la propria identità e la propria storia. In origine l’essere umano intende libertà come appartenenza (al clan, alla stirpe, alla famiglia) che ti protegge e dentro la quale sei libero: se ne esci diventi schiavo di qualcuno. Ciò spiega la parentela tra libertà, identità e fraternità nelle culture primitive. I popoli desiderano essere padroni sul loro territorio: questa è la libertà. La coesione interna e l’appartenenza ne sono un aspetto necessario. Il culto consacra e sottolinea l’appartenenza. Molto presto l’essere umano si accorge di poter vivere soltanto nel rapporto con altri (Lévi-Strauss).

Ma poco per volta il concetto si universalizza e diventa più ideale e più astratto. Intorno al I secolo filosofie e religioni assumono una concezione più universale dell’umano. Ne sentono il richiamo anche l’ebraismo e il cristianesimo. La religione stessa trova la sua più autentica espressione nella libertà e si svincola dall’idea di popolo trasformato (per catacresi) in «popolo di Dio». Gli scritti cristiani sottolineano la figura di Gesù come figura della libertà. Esempi di tale libertà sono gli episodi di superamento del legalismo e la norma come “nuova” legge. La legge lega, certo, ma siamo nello stesso tempo liberi. Il senso dell’identità è dato dall’agape, il legame reciproco, dove l’alterità  diventa una nuova variabile prima sconosciuta. La nozione di agape viene a riempire e interpretare quella di legge, legandosi così intimamente alla nozione di libertà e di persona intimamente nuova. La libertà come problema appare nelle chiese paoline. Da un lato i Galati non comprendono la libertà, ne hanno quasi paura; dall’altro i Corinzi vi si immergono con impeto individuale soggettivo, senza accorgersi del suo nesso intersoggettivo (agape). Tale problematica ha trovato nell’idea moderna di “emancipazione” una applicazione a diversi contesti (il popolo, la donna, lo schiavo). La filosofia moderna coltiva il concetto radicale di libertà. L’essere umano è libero come tale. Non si può risalire a niente di più originario che la libertà (Kant). Ma l’idea di libertà così raffinata finisce nell’arbitrio o nell’egoismo. Peggio se equivale a «volontà di Dio». Va quindi ripensata e temperata. Fuori della solidarietà il diritto diventa astrazione, egoismo. Su tutto sovrasta ancora il fatto irrisolto dell’alterità. Forse solo oggi ci accorgiamo di quanto fosse forte in teoria e labile in pratica il rapporto tra diritto e solidarietà. Non c’è diritto personale che tenga alla lunga se non è compensato dal diritto altrui. Non c’è libertà nemmeno per me se il mio prossimo non è libero insieme con me. Libertà non prescinde da solidarietà: oggi più che mai appare necessario riflettere sul loro nesso. Ci sfuggono realtà che fino a ieri sembravano raggiunte, conquiste che sembravano stabili. Siamo giustamente preoccupati dalla difficoltà di poter mantenere per tutti i vantaggi del welfare e della scuola pubblica. Ma se questo discorso riguarda i popoli europei, ancor più riguarda il rapporto con i nostri simili di ogni provenienza e cultura. Coltivare e salvaguardare la propria identità è una cosa, isolarsi e credersi migliori è un’altra. L’idea che l’identità viva nel rapporto, nell’accoglienza, nella reciprocità non deve illanguidire sotto il peso dei problemi complessi che abbiamo. Dobbiamo farne invece una bandiera vivace anche oggi.
*teologo e professore emerito alla Facoltà valdese di teologia di Roma

 

il mondo migliora non con la competizione ma con la solidarietà

Bauman:

«cari top manager, siate più solidali

esce in questi giorni da Città nuova il libro Il destino della modernità con testi del sociologi Zygmunt Bauman, Chiara Giaccardi e Mauro Magatti a partire dalla domanda «Quale società dopo la crisi economica?» (pagine 100, euro 12).

alcuni brani firmati da Zygmunt Bauman
L’anelito di libertà ha attraversato tutta la storia dell’umanità, dando vita a movimenti politici, ordinamenti giuridici e sistemi economici. Oggi la società occidentale è autenticamente libera? Partendo da tale interrogativo, Zygmunt Bauman, il teorico della società liquida, e i sociologi Mauro Magatti e Chiara Giaccardi indagano sull’esito paradossale del poderoso sviluppo economico degli ultimi 40 anni. Il progresso ha aumentato le potenzialità di scelta dell’uomo, ma lo ha ingabbiato in una concezione radicalmente individualista dell’esistenza umana, prigioniero del consumismo, degli apparati tecno-economici e della volontà di affermare se stesso.

Ritengo che la questione centrale che investe la libertà nel mondo contemporaneo sia rappresentata dall’alternativa tra il concetto di competizione e quello di solidarietà.

La competizione è, di fatto, una concorrenza che spinge ogni essere umano a portare avanti la propria posizione e che porta a sostenere: «Io voglio che le cose siano come io le desidero». La solidarietà, invece, presuppone l’idea che tutti gli uomini e le donne possano vivere insieme in modo collaborativo e possano cercare di diventare, tutti, più felici.

Nella società odierna, mi sembra di poter rilevare che ci sono alcuni elementi della libertà umana che sono quanto meno in discussione se non addirittura in pericolo. Le capacità di scelta che sono nella disponibilità degli uomini si stanno, infatti, progressivamente restringendo; la responsabilità decisionale, inoltre, viene negata a molte persone; e la speranza, infine, per molti giovani, di poter realizzare e mettere in pratica ciò che è stato insegnato loro dalla scuola, dalla famiglia e dalla società sembra venir meno. Una percentuale molto alta di questi giovani, infatti, dopo aver completato la loro istruzione – anche solo quella superiore – è molto felice della formazione che ha ricevuto e dell’impegno che ha profuso per raggiungere determinate competenze. Tuttavia, una volta concluso il ciclo scolastico, essi si trovano a entrare in un mercato del lavoro estremamente difficile, dove è molto complicato trovare un’occupazione. Molto spesso non riescono a trovare il tipo di lavoro per cui si sono preparati, per cui hanno investito il loro tempo, che rispecchi i loro desideri e che dia un senso alla propria vita, rendendo la propria esistenza più gratificante possibile.

La società attuale, infatti, sta lentamente e costantemente diventando una società oligarchica in cui la classe politica – sempre più autoreferenziale – invece di farsi carico dei problemi della società e di interessarsi di coloro che hanno più bisogno di aiuto e di assistenza, continua a garantire la possibilità che la ricchezza si accumuli nelle mani di poche persone. E questo non solo è da condannare a livello morale ed etico, ma è anche pericoloso per i valori della democrazia e della meritocrazia.

Cosa significa meritocrazia? I principi della meritocrazia sono stati definiti già nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, il cui primo articolo afferma che «le distinzioni socia- li non possono fondarsi che sull’utilità comune». Cioè su quanto una singola persona può dare allo sviluppo del benessere di tutta la società. Oggi, però, sta accadendo esattamente il contrario. Thomas Piketty, a questo proposito, ha messo bene in evidenza come l’aumento delle disuguaglianze rifletta ampiamente una esplosione ‘senza precedenti’ dei più alti redditi da lavoro e la separazione sociale che esiste, di fatto, tra la vita dei top manager delle grandi aziende e il resto della popolazione. I più importanti dirigenti aziendali, infatti, avendo il potere di stabilire i propri compensi, si sono attribuiti delle retribuzioni che in moltissimi casi – e ‘senza alcun contegno’, scrive sempre l’economista francese – non hanno un evidente rapporto con la loro ‘produttività individuale’.

Se siamo d’accordo con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, ovvero che la distinzione sociale può essere basata soltanto sull’utilità alla comunità, allora dovremmo declinare il criterio di utilità con quello di solidarietà: ovvero con il proposito di condividere il miglioramento della vita umana con tutti gli altri membri della comunità.

dopo il porrajmos come ricostruire la solidarietà

Luca Bravi, storico, interviene al convegno:

 

“Razzismo e xenofobia in Europa, ieri e oggi: come ricostruire la solidarietà?”

per capire il ‪#‎razzismo‬ oggi è fondamentale conoscere la storia, solo così possiamo avere gli strumenti per smascherare e combattere le discriminazioni

 

«L’AMACA» del 31 maggio 2013 (Michele Serra)

la più bella

molte sono le parole belle che usiamo nella nostra quotidianità: non basta usarle, è importante guardarci dentro e analizzare bene l’accezione precisa che le diamo e l’uso che ne facciamo; è perfino possibile usarle in modo così equivoco da imbarbarire di fatto il linguaggio e immettere nella realtà profili e dimensioni di vita che sono l’opposto di ciò che ‘a parole’ affermiamo. Una di queste ‘parole’ è il termine ‘solidarietà’: leggere la bella riflessione di M. Serra nel link seguente

L’AMACA» del 31 maggio 2013 (Michele Serra).

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