i clochard morti per strada non sono un problema di decoro pubblico – è in gioco una questione di umanità

i clochard morti nell’indifferenza


A Torino e Modena senza dimora uccisi dal freddo, in Sardegna aggrediti e derisi dai minori sui social Caritas: ostilità crescente. Nosiglia: le risposte non sono i dormitori di massa

Siamo di fronte a un problema di decoro pubblico o è in gioco una questione di umanità? Con il freddo e le nuove restrizioni imposte da Comuni, si riaccende una grande emergenza sociale

Siamo di fronte a un problema di decoro pubblico o è in gioco una questione di umanità? Con il freddo e le nuove restrizioni imposte da Comuni, si riaccende una grande emergenza sociale 

di Andrea Zaghi 

Mostafa è morto a Torino poche ore fa, Filippo è morto qualche giorno prima di Natale ad Arzachena in Sardegna, stessa sorte per un ghanese trovato domenica scorsa a Formigine, nel Modenese. Scarti. Abbandonati a loro stessi, alle prese con il freddo dell’inverno, spesso derisi, maltrattati, picchiati e dati a fuoco. Un problema per tutti, anche per chi vorrebbe aiutarli. Nell’Italia alle prese con la pandemia e con la crisi politica, accade anche questo. E non è la prima volta. Mostafa Hait Bella, di origini marocchine, vende fiori in uno dei mercati del centro di Torino. Poi perde il lavoro e la casa, vive in auto e poi perde anche quella. Allora vive per strada. S’arrangia, molti nel quartiere lo conoscono. Dorme nel dehors di un bar: ogni mattina a svegliarlo sono proprio i gestori del locale.

E sono loro a trovarlo morto ieri mattina alle 7.30. Cause naturali, pare. Aveva 59 anni. Adesso nella rete circola una foto di lui, con i capelli crespi e grigi e una chitarra gialla in mano. La morte di Mostafa arriva in una città che discute da giorni proprio sul destino dei senzatetto in strada. Un problema di decoro pubblico e di sicurezza, ma anche una questione di umanità resa più assillante dalla pandemia e dalla crisi. Una questione sulla quale Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, è più volte intervenuto e che sarà tema di due incontri previsti in settimana con le istituzioni locali. «Spesso si fa un discorso teorico, senza avere mai visto in faccia queste persone – spiega l’arcivescovo –. Non servono solo a dormitori di massa».

Dura la reazione della Comunità di Sant’Egidio di Torino che dice: «Resta la cruda realtà di una morte evitabile, che chiede di non essere classificata come fatalità o, persino, come libera scelta, ma chiama alla responsabilità di tutti, a partire dalle istituzioni». Mostafa «era una persona conosciuta da tempo» viene spiegato dai servizi sociali comunali che lo descrivono come «molto gentile, cordiale ed educato », ma che aveva rifiutato «di trascorrere la notte in una casa di accoglienza ». L’ultimo incontro con il personale del servizio itinerante notturno, è avvenuto proprio sabato scorso. Più incerta, per adesso, la storia di un uomo di 60 anni, originario del Ghana irregolare e senza fissa dimora, che è stato trovato morto domenica pomeriggio in un casale abbandonato di Formigine, nel Modenese.

A dare l’allarme è stato un connazionale che è stato il primo a trovarlo nel rifugio. L’uomo era adagiato nel proprio letto. Pare fosse malato e che vivesse lì da alcuni mesi per ripararsi dal freddo, in una stanza spoglia, due pentole sul vecchio pavimento di cotto, sacchi di plastica piene di vestiti. Un’ombra svanita. Non un’ombra ma concreto bersaglio di angherie era invece Abdellah Beqeawi, di 54 anni, per tutti Filippo, clochard anche lui marocchino che viveva da decenni ad Arzachena, in Gallura, morto ufficialmente per infarto la sera del 22 dicembre scorso, nel parcheggio sotterraneo di un supermercato. La realtà che sta emergendo è però un’altra.

La Procura di Tempio Pausania ha aperto un’inchiesta, sono indagati sei ragazzini, di cui cinque minorenni (tra i 14 e i 16 anni di età), per le percosse subite da Filippo. Secondo quanto si vede in alcuni video, che da tempo girano sui social, nei giorni precedenti la morte del clochard. Si vede Filippo aggredito dai ragazzini più volte. In un video un ragazzo lo colpisce con un calcio alla schiena; in un altro, un ragazzo fa finta di offrirgli una sigaretta, per poi spegnergli la cicca sul palmo della mano, prima di colpirlo alla pancia con un calcio. Anche Filippo aveva scelto di vivere in strada nonostante la Caritas e il Comune gli avessero offerto un alloggio. «C’è un sentimento che sta crescendo fatto da una sorta di ostilità rispetto a coloro che sono in qualche modo diversi rispetto alla nostra ordinarietà», dice Pierluigi Dovis da vent’anni alla guida della Caritas diocesana di Torino che aggiunge: «È necessario ridefinire un modello di welfare locale che in molte parti d’Italia si è iniziato a costruire ma che non è concluso. Ma dobbiamo accelerare la capacità di intervento intorno alla persona». E poi ancora: «Servono investimenti che non possono essere delegati al solo volontariato oppure solo alla Chiesa. Si tratta di una situazione complessa che non può essere risolta con soluzioni facili».

la criminalizzazione della solidarietà spia della disumanizzazione

un’umanità dis-umanizzata

dalla narrazione delle migrazioni alla criminalizzazione della solidarietà

da Comitato di Redazione

copertina

di Francesco David

In principio fu il caso del respingimento della nave Aquarius, fino a quelli più recenti della Sea Watch 3 e dell’Open Arms, imbarcazioni delle Organizzazioni Non Governative impegnate in operazioni di Search and Rescue nel Mar Mediterraneo dopo la fine delle missioni europee di pattugliamento e salvataggio di migranti in quella che è ormai divenuta la frontiera più pericolosa del mondo. Senza dimenticare i numerosissimi altri episodi avvenuti in tutta Europa, in particolare ai confini tra i vari Stati, in cui la solidarietà, l’assistenza e il salvataggio di vite umane sono diventati il bersaglio principale di politiche, slogan e retoriche xenofobe e regressive da parte di governi e partiti di destra, o comunque di ispirazione nazionalista e populista, e non solo. Ma come si è giunti a tutto questo? Come si è potuti arrivare a mettere in discussione, e persino criminalizzare, il salvataggio di vite umane?

In questo articolo, partendo dall’analisi dei “discorsi” relativi alla questione dei fenomeni migratori, ovvero di quella che può essere definita “narrazione delle migrazioni”, proverò ad esaminare il processo socio-culturale che ha condotto alla cosiddetta «criminalizzazione della solidarietà».

Il fenomeno delle migrazioni può essere considerato a tutti gli effetti un «fatto sociale totale» (Mauss, 2002; Sayad, 2002), ovvero rientra in quell’insieme di elementi capaci di coinvolgere nel loro accadere la pluralità complessiva dei vari livelli sociali e delle dinamiche delle comunità umane. Allo stesso modo, rientrando tra i principali aspetti all’origine della formazione e dei cambiamenti della società, le migrazioni possono essere pensate come “fatto politico totale”, cioè come parte integrante della vita umana in quanto tale e, quindi, possono essere interpretate e analizzate nel quadro delle caratteristiche salienti dell’organizzazione politica della società (Palidda, 2008). Ciò vuol dire, in sostanza, che non si possono comprendere le migrazioni, o meglio, le «mobilità umane» [ibid.], senza capire il processo di cambiamento della società che, ovviamente, riguarda gli aspetti economici, sociali, culturali e le conseguenze che ne derivano sulle caratteristiche della società stessa. In questo senso, «le mobilità si situano nei giochi delle molteplici interazioni di questo processo conducendo a conflitti e a mediazioni. Sono quindi rivelatrici delle caratteristiche salienti della società di partenza, di quella d’arrivo e delle relazioni tra questi due poli» (Palidda, 2010: 7). Da ciò deriva la cosiddetta “funzione specchio” (Sayad, 2002) delle migrazioni, ovvero il fatto che queste spesso costituiscano un riflesso della società di immigrazione nel suo complesso. Tale effetto specchio delle società di immigrazione e delle loro istituzioni ne rivela le profonde e problematiche sfumature, predisponendo così l’antropologia in generale, e l’antropologia delle migrazioni in particolare, a farsi critica culturale (Marcus, Fisher, 1994).

Tale critica, innanzitutto, non può prescindere dal presupposto e dalla consapevolezza che i fenomeni migratori rientrano anch’essi nell’ambito di quell’insieme di “discorsi” che vanno a costituire ciò che si potrebbe definire una vera e propria “narrazione delle migrazioni”. In questo senso, parlare di discorso nell’accezione foucaultiana del termine significa fare riferimento alle strutture di senso implicite, indirette, che hanno la tendenza a presentarsi come obiettive, indiscutibili, necessarie. Tali discorsi costituiscono quello che può definirsi una sorta di pensiero del potere, o del dominante (Foucault, 1967; 1971), che permette la riproduzione delle scienze che ne forgiano i dispositivi e ispirano le pratiche dei poteri e dei loro agenti (Palidda, 2010). Si tratta, in poche parole, dell’insieme di rappresentazioni e forme ideologico-discorsive attraverso cui le istituzioni di potere dei gruppi dominanti descrivono e giustificano la realtà sociale dei gruppi dominati.

Sayad (2002), a tal proposito, parla di “pensiero di Stato”, ovvero di quel meccanismo per cui le strutture mentali dei cittadini tenderebbero a riflettere quelle dello Stato e verrebbero perciò incorporate dagli attori sociali e naturalizzate fino a diventare ovvie, nascondendo la loro natura sociale e politica. Secondo Sayad, infatti, le categorie attraverso le quali pensiamo il mondo e la società riflettono quelle nazionali e sono alla base del nostro stesso modo di concepire la realtà. Siamo cioè in presenza di «prodotti socialmente e storicamente determinati, e allo stesso tempo strutturanti, nel senso che predeterminano e organizzano tutta la nostra rappresentazione del mondo e, di conseguenza, questo stesso mondo» [ibid.]. In tal modo, in base alla stessa logica, si può dire che le nostre categorie di pensiero esercitano un’influenza anche sulle modalità attraverso le quali percepiamo e interpretiamo i fenomeni migratori e, quindi, i concetti stessi di “straniero”, “immigrato”, “rifugiato”. Un’attenta analisi dei fenomeni legati alle migrazioni, quindi, deve preventivamente partire da un approccio “decostruzionista”, da una prospettiva cioè che tenda a decostruire le logiche e le retoriche che sottendono la produzione di forme discorsive atte appunto a rappresentare e legittimare la realtà sociale dei migranti.

A ben vedere, è proprio quando i “moderni” Stati europei iniziano a farsi pienamente nazionali e quando lo “straniero”, in quanto migrante e profugo, diventa oggetto privilegiato delle politiche governative, che il concetto di straniero subisce una trasformazione radicale, diventando paradigma “dell’esclusione” politica, parallelamente alla ridefinizione dei codici “dell’inclusione” e della cittadinanza su basi appunto nazionali (Sassen, 1996). Non a caso, nell’analisi dei discorsi relativi ai fenomeni migratori trovano spazio sia quelli destinati alla selezione e all’inquadramento, ovvero alla governabilità come insieme di pratiche, non solo statali ma anche intellettuali e tecniche, sia i discorsi che giustificano e orientano le pratiche dell’esclusione, del rigetto, dell’ostilità, della persecuzione e della guerra contro quello che può essere considerato il nemico di turno (Palidda, 2010). Vediamo nello specifico le caratteristiche di tali discorsi.

Isbarcati-migranti-lampedusan primo luogo, all’interno del dibattito pubblico e politico contemporaneo che ruota attorno alle tematiche migratorie si possono riscontrare tutta una serie di discorsi, pratiche e rappresentazioni che fanno capo a quella che può essere definita «ragione umanitaria», che Fassin (2018) suggerisce di considerare nel quadro più ampio di una geografia mondiale di governabilità degli esseri viventi. Tale nuova “razionalità di governo”, secondo l’antropologo francese, sarebbe il prodotto della progressiva affermazione nella sfera pubblica occidentale di una soggettività politica collettiva fondata sul «dispiegamento di sentimenti morali», e farebbe parte di uno sviluppo intrinseco alla tradizione filosofica occidentale, di ispirazione soprattutto cristiana e liberale, che avrebbe fagocitato il discorso politico sino a cristallizzarsi in quello che si può considerare un vero e proprio “governo umanitario”.

Ciò vuol dire, in pratica, che i sentimenti morali e il richiamo a una comune umanità diventano la sostanza stessa della politica, assurgono a strumenti fondamentali per rispondere a particolari questioni del mondo. A partire dagli anni Novanta, infatti, il termine “umanitario”, dapprima circoscritto alle operazioni di emergenza e usato da un ristretto gruppo di Organizzazioni Non Governative, si estende anche ai contesti dello sviluppo, delle politiche sociali, sino addirittura agli interventi militari, diventando la parola d’ordine adoperata dalle grandi agenzie internazionali e dagli apparati statali per descrivere e giustificare una serie diversa di eventi, dall’assistenza ai soggetti svantaggiati al sistema degli aiuti internazionali, dal soccorso alle vittime di catastrofi al riconoscimento dello status di rifugiato o alla regolarizzazione degli stranieri senza permesso di soggiorno. Il governo umanitario, pertanto, si presenta come un nuovo dispositivo di potere in grado di agire in contesti sociali diversi e che contiene in sé anche le motivazioni profonde, di tipo morale, dal quale prende avvio gran parte dell’agire politico contemporaneo, a partire dalle istituzioni statali agli organismi internazionali, dalle Organizzazioni Non Governative alle associazioni del Terzo settore, passando per i singoli individui riuniti in forme associative o di attivismo.

“L’umanitarismo” è oggi ben riscontrabile nei luoghi della precarietà, nei ricoveri per i poveri, nei campi profughi, nei centri di accoglienza per immigrati o per sfollati. Esso si concentra sui soggetti che hanno a che fare con situazioni di povertà, disastri naturali, carestie, epidemie, guerre, mostrandosi attraverso le immagini di sofferenza che vengono spiattellate ovunque dai media e che sembrano ormai appartenere alla nostra quotidianità, così come ne fanno parte gli interventi di aiuto e di assistenza. Siamo in effetti continuamente pervasi dalla spettacolarizzazione della sofferenza e dall’esposizione globale del soccorso [1]. Ciò avviene perché la logica umanitaria necessita da una parte di mostrare la presenza di soggetti sofferenti, nello specifico di “corpi sofferenti” (ibid.), facendo appello a un immaginario caritatevole, e dall’altra parte di spostare l’attenzione dalla “struttura” a un soggetto, costruito in termini morali, nel quale possiamo facilmente riconoscerci proprio perché appartenenti a una medesima comunità umana. La forza ideologica della ragione umanitaria come nuova forma egemonica di governo, allora, sta proprio nell’aver sostituito il vecchio lessico della politica, incentrato intorno a espressioni come lotta, sfruttamento, diritti, giustizia sociale, con una nuova retorica che fa largamente uso di nozioni di tipo morale come “sofferenza”, “compassione”, “solidarietà”, e a ciò che Fassin definisce “ethos compassionevole” di stampo paternalistico (2006a). In questo senso, la logica umanitaria, spogliando i fatti di qualsiasi specificità storica e politica, in un susseguirsi senza differenze di eventi drammatici, non farebbe altro che riprodurre le condizioni strutturali di diseguaglianza entro cui si inscrive [2]. Il discorso umanitario, in effetti, a prescindere dalla buone intenzioni soggettive, presuppone un rapporto sociale fondamentalmente di tipo gerarchico e diseguale, nel quale soggetti in posizione dominante rappresentano e descrivono la condizione di soggetti subalterni. L’Altro, sia esso il povero, il migrante, il profugo o lo sfollato, può essere riconosciuto e accettato, e quindi esistere, solo attraverso la figura della vittima, di un soggetto passivo, questuante e sofferente (Mesnard, 2004), corpo biologico da salvare, curare e assistere.

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Il discorso migratorio, a ben vedere, viene ampiamente inglobato da quello umanitario e il migrante è costitutivamente figura vulnerabile, fragile, bisognosa di essere aiutata e salvata, riconosciuto solo in quanto vittima, suffering body intorno al quale l’azione umanitaria disegna i contorni di una nuova “economia morale” (Fassin, 2009), attraverso «un diritto che salva, cura, protegge, difende solo corpi umani» [Pandolfi, 2005]. Il tipo di potere che agisce sui migranti, in questo caso, non è altro che un “biopotere”, cioè potere sulla vita intesa sempre più spesso come mera esistenza fisica e naturale, “nuda vita” (Agamben, 1995) spodestata delle sue valenze storiche, sociali e soprattutto etiche. Tale è la “biopolitica” (Foucault, 2005), una forma di potere che si afferma e si riproduce proprio attraverso il corpo e che si traduce in un regime di controllo e di sorveglianza dei corpi degli individui che si può definire “panoptico”, ovvero di estensione capillare ed estensiva della visibilità dei soggetti da parte delle istituzioni (Foucault, 1976). Una forma di potere, in sostanza, che «rinvia all’emergere della vita stessa tanto come oggetto, quanto come soggetto del potere» (Quaranta, 2006).

Fassin, a proposito della biopolitica che incontra i corpi dei migranti, corpi “altri”, stranieri, irregolari e clandestini, luoghi di inscrizione e di incarnazione delle politiche immigratorie, parla non a caso di “biopolitica dell’alterità” (Fassin, 2006b), ovvero di quel potere che, agendo direttamente sulla nuda vita degli immigrati, investe tanto le dinamiche riguardanti i flussi migratori quanto le politiche dell’accoglienza e dell’esclusione degli stranieri, così come anche le norme per il riconoscimento del loro status giuridico e legale. Pensare e ragionare esclusivamente in termini di umanità, compassione e pietà, ha portato in definitiva a considerare il “diritto alla vita” come unico diritto riconosciuto, spostando decisamente in secondo piano quelli che sono i diritti sociali, civili e politici dei migranti. Non solo. La logica umanitaria finisce paradossalmente col produrre una sorta di “dis-umanizzazione” del migrante, una sua mutilazione alla stregua di una “persona a metà”, come se la sua vita dipendesse unicamente dal suo non “essere (più) nel mondo” (Agier, 2005), accolto ed accettato non come soggetto avente una propria storia e dignità, ma solo come il prototipo di una figura socialmente accettabile, quella appunto della vittima da salvare e assistere.

Un secondo tipo di narrazione che investe le dinamiche migratorie è sicuramente quello derivante dall’insorgenza del cosiddetto «discorso securitario» (Wacquant, 2006), strettamente connesso al concetto di «securitarizzazione» [3]. Tale termine indica quel processo di costruzione sociale che spinge un settore ordinario della politica nella sfera delle questioni relative alla sicurezza attraverso una retorica e atti linguistici che inquadrano un tema pubblico in termini di “minaccia”, creando così un frame che giustifica l’adozione di misure e azioni che eccedono rispetto ai normali confini dei provvedimenti politici (Waever, 1995). In quest’ottica, la securitarizzazione di una determinata questione pubblica è effetto di una pratica discorsiva che ne fa una questione di sicurezza del tutto indipendentemente dalla sua natura obiettiva o dalla rilevanza concreta della supposta minaccia. Anche il fenomeno migratorio, negli ultimi decenni, è stato affrontato sotto il profilo della securitarizzazione, non soltanto dal punto di vista del paradigma classico centrato sulla sicurezza nazionale e l’ordine pubblico, ma anche in base ad altri princìpi interpretativi che hanno affollato il dibattito pubblico contemporaneo, andando a rafforzare ulteriormente il legame tra migrazioni e sicurezza (Campesi, 2012).

open-arms-spagnaSecondo il paradigma tradizionale, come detto, le migrazioni costituirebbero un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato-nazione per via di un modello teorico interpretativo che finisce per associare le mobilità umane con tutta una serie di fenomeni criminali e di minacce strategiche, in base a una logica che Dal Lago (1999a) definisce «tautologia della paura». In linea generale, il legame tra migrazioni e aumento dell’insicurezza è supportato da alcune linee argomentative che fanno riferimento da una parte all’aumento del disordine urbano e di episodi di criminalità comune e, dall’altra, a minacce di ordine transnazionale come ad esempio quelle dovute al crimine organizzato e al terrorismo internazionale. Un altro paradigma fondamentale è quello che considera le migrazioni come una minaccia dal punto di vista prevalentemente politico-identitario. In questo senso, viene supposto che i movimenti degli esseri umani metterebbero in serio pericolo l’integrità politica e la presunta identità etnica e culturale delle società di destinazione.

Tale visione delle migrazioni ha avuto un potente effetto di securitarizzazione, attivando la mobilitazione nel dibattito pubblico e politico di retoriche securitarie volte a legittimare un approccio poliziesco alla questione. Non a caso, questa logica non ha fatto altro che rafforzare forme di “fondamentalismo culturale” (Stolcke, 2000) e, di conseguenza, del cosiddetto nuovo “razzismo differenzialista”, ovvero la reificazione delle differenze, culturali e religiose, presentate come a-storiche, immutabili e assolute, per giustificare l’ostilità e il rifiuto degli altri, o peggio, per legittimare pratiche discriminatorie (Gallini, 1996). Il razzismo differenzialista, in effetti, sostiene la difesa delle differenze culturali dai processi di omogeneizzazione tipici del mondo globalizzato per negare ogni forma di multiculturalismo e di interculturalismo, una sorta di celebrazione delle differenze per legittimare le disuguaglianze (Rivera, 2003). Infine, un ultimo paradigma su cui si basa il discorso securitario è quello che considera le migrazioni come una minaccia di natura socio-economica. Da questo punto di vista, gli immigrati vengono spesso descritti come concorrenti illegittimi e sleali sul mercato del lavoro e come profittatori dei benefici assistenziali offerti dai sistemi di welfare State dei Paesi occidentali, secondo una logica che indirizza nei confronti di veri e propri nemici di comodo tutte le insicurezze e le incertezze generate dal processo di deindustrializzazione e dalla crisi del modello politico economico dello Stato sociale (Castel, 2004). L’uso di immagini evocative e di retoriche che rimandano di sovente a una presunta “invasione” di potenziali richiedenti asilo o immigrati economici è funzionale e, allo stesso tempo, contribuisce a costruire la minaccia rappresentata dalle migrazioni per la tenuta del sistema socio-economico dei Paesi di accoglienza.

Il discorso securitario, a ben vedere, non fa altro che produrre “retoriche dell’esclusione” (Stolcke, ibid.), che oggi abbondano nell’arena pubblica dei vari Stati nazionali e nelle relative politiche di chiusura delle frontiere, di trattenimento coercitivo e di restrizioni normative e giuridiche attive tanto a livello nazionale quanto europeo, rafforzando le discriminazioni quotidiane nei confronti dei migranti. Particolarmente decisiva per la securitarizzazione delle migrazioni e per aver impresso un giudizio di valore negativo nei confronti degli stranieri è stata ovviamente la categoria dell’immigrazione “irregolare”. Tuttavia, la condizione di irregolarità, o “clandestinità” come viene ormai più comunemente definita, non è altro che il prodotto stesso di politiche sempre più restrittive in materia di ingresso e permanenza nel territorio di uno Stato e, di fatto, quella che dovrebbe rientrare nell’ordine di un’infrazione amministrativa finisce per assumere i caratteri di un reato criminoso, di una vera e propria minaccia alla sicurezza nazionale. La costruzione di discorsi diversificati e spesso contraddittori sulla nozione di illegalità all’interno dei sistemi normativi nazionali dovrebbe essere di per sé sintomatica dei processi politici, culturali e burocratici di produzione “legale” della “illegalità” dei migranti (De Genova, 2005). Anzi, si potrebbe addirittura sostenere che «un essere umano è persona solo se la legge glielo consente, indipendentemente dal suo essere persona di fatto» [Palidda, 2008: 158], e ciò è ancor più vero nel caso degli immigrati.

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Ed è proprio attraverso tali modalità che si giunge alla “criminalizzazione” dello straniero, dell’estraneo, del diverso, un processo che si nutre della paura e delle insicurezze di cui tale individuo è ritenuto responsabile per giustificare pratiche di potere che mescolano protezionismo, autoritarismo e proibizionismi di ogni sorta (Palidda, 2009). Il migrante finisce così per essere riconosciuto in quanto criminale, come soggetto pericoloso e da stigmatizzare non tanto per la sua condotta quanto per la sua stessa esistenza. Egli diviene la rappresentazione emblematica del nemico di turno, un ruolo alimentato da retoriche e discorsi che attraversano tanto i media quanto i luoghi del potere, fino a diventare senso comune e capro espiatorio della maggioranza. Tale processo di criminalizzazione si inscrive oggi in un assetto politico liberista/neoconservatore fondato sull’asimmetria di potere e di ricchezza fra gli attori forti e i deboli senza diritti della società globalizzata. Non a caso, se si toglie il reato di immigrazione irregolare e gli altri connessi a questa condizione, conseguenza di una legge proibizionista che di fatto rende impossibile l’immigrazione regolare e il mantenimento della regolarità, gli altri reati attribuiti agli immigrati «sono quasi sempre i tipici reati dei poveri» (Mucchielli, Nevanen, 2009). Ed è noto ormai come le leggi xenofobe anti-migrante attive nel nord del mondo risultino più efficaci nell’indebolire tutti gli stranieri piuttosto che nel frenare l’immigrazione, dato che la forza che li spinge ad emigrare è decisamente più forte di ogni mezzo impiegato per respingerli (Staid, 2011).

Il migrante, quindi, assume le caratteristiche di una figura particolarmente critica, perennemente nella condizione di escluso, il quale in ogni momento deve scontrarsi con il suo “non dover esserci” e con la sua necessaria “invisibilità” (ibid.). Ciò avviene perché le politiche repressive contro gli stranieri non sono fini a se stesse ma sono intenzionalmente e funzionalmente atte alla creazione di una massa di individui estremamente vulnerabili e ricattabili, di una classe di lavoratori a basso costo e senza diritti, di esseri umani ridotti allo stato di “non persone” (Dal Lago, 1999b) e costretti ad esistere in condizioni di marginalità e precarietà. Il migrante, in sostanza, sia straniero, clandestino, rifugiato, richiedente asilo, si ritrova ad essere definito come “atopos” (Sayad, 2002), ovvero come fuori posto e non classificabile. Sottoposto a una sorta di processo di spersonalizzazione e di negazione, egli viene privato della propria identità a causa della sua “doppia assenza” (ibid.) sia dal luogo di provenienza che da quello in cui risiede. Egli risulta essere, in definitiva, un individuo privo di un proprio spazio all’interno di una data società, escluso da ogni ordine politico, né cittadino né straniero, destinato ad una perenne “non-appartenenza” e “non-esistenza”, a quella che anche in questo caso si può definire una condizione di “dis-umanizzazione”.

Come si è avuto modo di vedere da questa breve analisi in merito ai principali discorsi che ruotano attorno ai processi migratori e facendo riferimento a ciò che sta accadendo negli ultimi anni in Europa, e in Italia in particolare, sembra che il dibattito pubblico e politico contemporaneo sia incentrato quasi unicamente sulla contrapposizione tra narrazione “umanitaria” e narrazione “securitaria”, sul riconoscimento del migrante o come “vittima” o come “criminale”, come corpo biologico da assistere e salvare o da respingere, detenere e criminalizzare. Fassin (2018), pur ammettendo che la storia non si presta bene a rigide periodizzazioni, fa notare come l’era dell’umanitarismo si sia dispiegata in particolar modo negli ultimi decenni del XX secolo, mentre a partire dal XXI secolo, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, si è assistito a un’accelerazione delle spinte securitarie. Non che siano mancati fermenti culturali provenienti dall’uno o dall’altro discorso in altri periodi storici. Ma se si possono identificare elementi che dominano il linguaggio di un’epoca, allora è possibile rintracciare dei “momenti” in cui si cristallizzano delle reti semantiche, ovvero serie di nozioni e rappresentazioni che insieme assumono un senso. Tali reti semantiche costituiscono una certa visione del mondo e forniscono punti di riferimento per rispondere a particolari questioni, in poche parole ciò che in questo articolo si è tentato di analizzare appunto con concetti quali “discorso” o “narrazione”. Non è possibile ovviamente sostenere che oggi il discorso umanitario sia scomparso, ma è innegabile che quello securitario sia diventato preponderante, dominante, soprattutto quando i due tipi di narrazione entrano in concorrenza nell’interpretazione delle situazioni e nella scelta delle risposte più adeguate. E questo è soprattutto il caso dei fenomeni migratori.

migranti-il-parroco-di-lampedusa-aprite-i-porti-e-gli-aeroporti-alle-persone_articleimageIn effetti, invece di essere pensate e affrontate sulla base del diritto internazionale e dell’asilo, le migrazioni sono diventate una questione di regolazione dei flussi e di repressione nei confronti di quanti fuggono da persecuzioni, guerre e povertà. La risposta all’accoglienza di un numero di persone che corrisponde solamente all’1-2% della popolazione complessiva europea si è concretizzata in muri, fili spinati, campi di detenzione, violenza delle forze dell’ordine, manifestazioni di ostilità da parte dei locali, discorsi esplicitamente xenofobi di partiti e governanti populisti che accomunano i migranti a potenziali terroristi, criminali e usurpatori delle risorse della parte ricca del mondo. Eccezion fatta per gli sforzi fatti da alcuni Stati e per le iniziative locali portate avanti da soggetti, associazioni e collettività per accogliere e integrare i migranti provenienti da alcune zone dell’Africa, del Medio Oriente e dall’Asia, si deve ammettere che la logica securitaria è prevalsa quasi ovunque su quella umanitaria. Al punto che in nome della prima si è giunti persino a criminalizzare, reprimere, per soffocarla, la seconda (ibid.). E in questo modo le persone che assistono i migranti e i rifugiati, soccorrendoli, aiutandoli, portandogli da mangiare e offrendogli un riparo, come è spesso accaduto nelle valli alpine al confine tra Italia e Francia, vengono accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Oppure come è il caso più famoso delle Organizzazioni Non Governative che operano nel Mediterraneo per salvare la vita di persone in viaggio su imbarcazioni alla deriva, che vengono continuamente imputate di complicità con il traffico di esseri umani e poste sotto l’attacco mediatico e politico dell’ultimo Governo italiano Lega-5Stelle, in particolare dellex Ministro degli Interni Matteo Salvini, il quale senza remore alcuna le ha assunte come vero e proprio “feticcio politico”.

La “criminalizzazione della solidarietà”, in conclusione, seppur non inedita, dà la misura della trasformazione dell’economia morale nei confronti delle migrazioni (ibid.) del mondo neoliberista globalizzato. Una trasformazione che non solo vede il superamento della retorica umanitaria a favore di quella securitaria, ma che sembra oggi andare ben oltre a causa dell’assunzione di discorsi che stanno tornando ad assumere toni di stampo razzista e propagandistico da parte di politici, governanti, esponenti pubblici e mediatici, e dalla loro accettazione da parte delle masse popolari. Un livello discorsivo e comunicativo costituito per lo più dal moltiplicarsi di fake news e da una interpretazione dei fatti che pare piuttosto voler esprimere una narrazione capovolta della realtà e delle migrazioni. Si può allora arrivare addirittura a sostenere che la “comune umanità” che contraddistingue il discorso umanitario, nel quale ci si sente al riparo dal senso di colpa cristiano per le disuguaglianze del mondo e tra gli uomini e che conduce comunque a una disumanizzazione del migrante pensato solo in termini di corpo biologico e naturale, non solo sia stata sostituita dalla disumanizzazione dello straniero di carattere securitaria attraverso il quale è possibile dar sfogo a tutte le paure e all’arroganza dell’etnocentrismo culturale occidentale, ma che stia lentamente lasciando il passo a una “comune dis-umanità” che sembra in definitiva accomunare tanto il soggetto quanto l’oggetto dell’attuale narrazione e visione del mondo.

Una “disumanizzazione” generale, cioè, in grado di coinvolgere e assimilare, in maniera quasi sintomatica e contraddittoria, tanto l’uomo bianco, moderno, europeo e occidentale, quanto l’alterità migrante, straniera, diversa, che si vorrebbe al contrario allontanare, respingere e rifiutare. Abbiamo, in sostanza, disumanizzato talmente tanto la figura del migrante che l’unica strada che ci è rimasta è quella di disumanizzare a nostra volta noi stessi. Allora, mai come in questi tempi, per i tanti che si rispecchiano in una narrazione securitaria e criminalizzante delle migrazioni e della solidarietà, può ritenersi lontana la massima tratta dal Talmud e ripresa anche nel celebre film di Steven Spielberg Shindler’s list che recita: «Chi salva una vita salva il mondo intero». Perché un’umanità dis-umanizzata, in fondo, non ha bisogno né di salvatori né di salvati.

Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
Note
 [1] http://www.lavoroculturale.org/didier-fassin-ragione-umanitaria/
[2] http://www.decoknow.net/trappola-umanitaria-accumulazione-neoliberale/
[3] Termine introdotto da alcuni studiosi di relazioni internazionali raccolti in quella che è identificata come la “Scuola di Copenaghen”.
Riferimenti bibliografici
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Francesco David, laureato in Antropologia Culturale ed Etnologia, svolgendo ricerche sul campo in Basilicata, dove ha analizzato i processi storici e culturali di una festa patronale locale, e nel C.I.E. di Bologna, dove ha avuto modo di indagare i meccanismi di gestione biopolitica della sofferenza delle donne immigrate, ha conseguito un Master di II livello in Peace Studies – Cooperazione Internazionale allo Sviluppo, Diritti Umani e Politiche dell’Unione Europea, occupandosi del rapporto tra antropologia e Cooperazione allo sviluppo umano sostenibile. Si è impegnato nel settore migratorio come insegnante di lingua italiana per stranieri e in iniziative per la promozione dei diritti umani con Amnesty. È membro dell’Associazione Amici della Fondazione Città della Pace per i Bambini Basilicata con la quale ha collaborato come Tutor per il primo Summer Camp “MigrAction – Immagine innovative tools for Breaking Stereotypes and Building Dialogue”. Lavora come Freelance Writer e scrive per alcune riviste scientifiche.

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come aiutare efficacemente i migranti senza perdere umanità e pietà

noi e i migranti, due alibi da sfatare

aiutiamoli, a iniziare da casa nostra


Francesco Gesualdi

Ci sono due modi di affrontare la questione immigrati: o ponendoci l’obiettivo di toglierceli dai piedi o volendoli aiutare a vivere meglio. In un caso pensiamo solo per noi. Nell’altro ci preoccupiamo di loro. Ad oggi sembra prevalere l’egocentrismo. Ma, sotto sotto, non ci sentiamo a posto e ci siamo fabbricati degli alibi per mettere a tacere la nostra coscienza. La prima giustificazione che ci siamo creati è che l’obbligo di accoglienza vale solo per i rifugiati politici, mentre abbiamo il diritto di respingere i migranti economici, coloro, cioè, che sono in cerca di migliori condizioni di vita.

L’assurdo è che noi stessi siamo terra di emigranti e se questa regola venisse applicata nei nostri confronti dovremmo aspettarci l’espulsione di ben quattro milioni di connazionali sparsi per il mondo. Da sempre abbiamo considerato la libertà di movimento un diritto inalienabile e se volessimo negarlo proprio oggi che abbiamo messo merci e capitali in totale libertà, dimostreremmo di tenere in maggior considerazione le cose delle persone. Ma forse il punto è proprio il sovvertimento dei valori: la ricchezza ci ha accecato a tal punto da avere inaridito la nostra umanità. L’attenzione tutta rivolta alla roba, abbiamo perso il senso del rispetto e della giustizia, la capacità di compassione, perfino di pietà.

E non ci rendiamo conto che più sbarriamo le porte, più inneschiamo situazioni perverse che ci sfuggono di mano. Diciamocelo: i migranti che scelgono la via del deserto non sono né masochisti, né amanti dell’illegalità. Sono dei forzati alla clandestinità perché le vie di ingresso ufficiali sono precluse. Se potessero arrivare in aereo con regolare passaporto, sarebbero ben felici di farlo. E se in Italia non trovassero lavoro, non ci rimarrebbero. Se ne andrebbero dove il lavoro c’è, perché la loro vocazione non è né quella dell’accattonaggio, né del brigantaggio. Sono persone in cerca di un lavoro per mantenere le famiglie rimaste a casa. Che le cose stiano così lo sappiamo molto bene anche noi, tant’è che il secondo alibi che ci siamo creati è che dobbiamo aiutarli a casa loro. E se lo diciamo è perché abbiamo ben chiaro che nessuno di loro affronta un viaggio così pericoloso per fare una passeggiata, ma per sfuggire a un destino crudele ora dovuto alle guerre, ora alla repressione politica, ora alla mancanza di prospettiva di vita.

Ciò che non diciamo è che questa situazione l’abbiamo creata noi attraverso 500 anni di invasioni, massacri, ruberie. La storia, alla fine presenta sempre il suo conto. L’emigrazione africana non è figlia di una sciagura transitoria, ma di un sistema di saccheggio di cui siamo stati e siamo ancora parte attiva, addirittura i suoi artefici. Per risolverla, dunque, è da qui che dobbiamo partire: dal nostro assetto produttivo e di consumo, dai nostri obiettivi economici, dai nostri rapporti commerciali, dal nostro assetto finanziario, dal nostro sostegno ai sistemi corruttivi e di rapina. Lo slogan giusto è «cambiamo le cose qui affinché cambino là». Per partire dovremmo porre uno stop serio alla vendita di armi e subito dopo dovremmo avviare nuovi rapporti economici.

Dovremmo stipulare accordi commerciali che garantiscono prezzi equi e stabili ai produttori, dovremmo imporre stabili divieti alla finanza speculativa sulle materie prime, dovremmo smetterla con accordi che autorizzano le nostre imprese a razziare i loro mari e a prendersi le loro terre, dovremmo punire le nostre imprese che non garantiscono salari dignitosi nelle loro filiere globali, dovremmo smetterla di imporre accordi commerciali che favoriscono i nostri prodotti e distruggono le loro economie, dovremmo vigilare da vicino gli investimenti esteri delle nostre imprese per impedire comportamenti corruttivi a vantaggio di pochi capi locali che accumulano fortune nei paradisi fiscali. Delle 181mila persone disperate sbarcate sulle nostre coste nel 2016, il 21% erano nigeriani.

Eppure, grazie al petrolio, la Nigeria è una delle più grandi economie africane. Ma anche una delle più corrotte. Secondo Lamido Sanusi, già governatore della Banca centrale nigeriana, nei soli anni 2012-13 sono stati sottratti alle casse pubbliche 20 miliardi di dollari provenienti dalla vendita di petrolio alle compagnie internazionali, Eni compresa. Quei soldi sottratti ai nigeriani sono finiti sui conti cifrati aperti da personalità di governo in Svizzera, a Londra e in vari paradisi fiscali. Con la complicità di grandi banche internazionali. E non solo. Anche di Stati e Governi poco vigilanti, e l’Italia non è affatto esclusa. È proprio il caso di dire «aiutiamoli cominciando a cambiare a casa nostra».

punire la solidarietà è negare l’umanità

migranti

dal cibo ai salvataggi in mare

quando la solidarietà è sotto accusa

tre attivisti francesi denunciati per aver dato panini ai profughi, contravvenendo all’ordinanza del sindaco di Ventimiglia. Antigone: “Punire chi aiuta non può avere giustificazioni”. Asgi: “Gestione penale di tutto ciò che è connesso al fenomeno migratorio”. Caritas: “Stiamo toccando il fondo: si criminalizzano le associazioni in assenza di politiche serie”

Tre cittadini francesi sono stati indagati per “aver somministrato cibo ai migranti contravvenendo a un’ordinanza del sindaco di Ventimiglia” Enrico Ioculano. Così è scritto, nero su bianco, sulla denuncia ai danni di tre attivisti, rei di aver preparato dei panini e un po’di the per i profughi fermi alla frontiera tra Italia e Francia. L’episodio è avvenuto il 20 marzo scorso. Secondo le ricostruzioni i tre ragazzi sarebbero arrivati a Ventimiglia con una macchina carica di generi alimentari e avrebbero iniziati a distribuirli ai migranti presenti al confine. Dopo pochi minuti la polizia li avrebbe interrotti e condotti in caserma per identificarli, schedarli e denunciarli. Almeno uno di loro non avrebbe firmato la denuncia poiché nessuno era in grado di tradurre il documento e i contenuti dello stesso in francese. Il caso è l’ultimo di una lunga serie di episodi e ha riacceso il dibattito sui cosiddetti “reati di solidarietà”, cioè i provvedimenti che mirano a punire l’accoglienza dal basso. Spesso si tratta di ordinanze dei sindaci, proprio come quella di Ventimiglia, o di Calais, ultima frontiera nord della Francia. Altre volte si manifestano sottoforma di fogli di via emanati dai questori (come successo a Como) per intimare agli attivisti di lasciare il territorio. Di certo si stanno moltiplicando, e non solo nel nostro paese.Antigone:

Punire la solidarietà non può avere giustificazione. “Siamo di fronte al capovolgimento di ogni logica. Utilizzare il diritto per colpire e punire episodi di solidarietà non può avere e trovare alcuna giustificazione” sottolinea il presidente di Antigone e della Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili, Patrizio Gonnella. Sulla stessa scia anche Francesco Di Pietro, avvocato di Asgi (Associazione studi giuridici per l’immigrazione). “Si stanno ripristinando dei provvedimenti che avvenivano in un passato remoto, ma di fatto si tratta di una gestione penale di tutto ciò che è connesso al fenomeno migratorio – afferma -. Essere pietosi degli altri, scriveva il poeta di Zante, è l’istinto naturale alla giustizia di cui parla Tommaso d’Aquino. È questo che induce l’uomo ad aiutare l’altro uomo. Cosa che hanno fatto i tre cittadini francesi il 20 marzo, contravvenendo all’ordine del sindaco di Ventimiglia. Nuovi Antigone contro una norma scritta”. L’avvocato ricorda che l’ordinanza del sindaco ligure è stata emessa il 25 agosto scorso e le ragioni di urgenza erano legate essenzialmente a un possibile rischio sanitario: somministrare pasti in strada, sotto il sole torrido, avrebbe potuto creare problemi di salute. Ma oggi a distanza di mesi, quell’ordinanza ha ancora valore? “Poteva essere impugnata davanti al Tar, ma nessuno ha presentato ricorso e i termini sono scaduti – spiega ancora Di Pietro -. Ma un giudice penale potrebbe sindacare la legittimità amministrativa dell’atto. Un sindaco può fare ordinanze urgenti ma limitate nel tempo”.

Anche il sindacato di polizia Siap si è espresso duramente contro le scelte del sindaco Ioculano: “In questi giorni dei poliziotti colleghi– attacca Roberto Traverso, segretario provinciale del sindacato di polizia Siap di Genova – hanno dovuto ottemperare ad un’ordinanza che prevede il divieto di dare da mangiare ai migranti che si trovano nella città frontaliera. A prescindere dalle postume giustificazioni politiche, si tratta di una situazione a dir poco imbarazzante ed inaccettabile per la nostra categoria che, ancora una volta, viene gratuitamente esposta a causa della scelta di un sindaco che invece di cercare di stemperare gli animi sta alimentando una situazione d’intolleranza dovuta all’incapacità dell’Europa di gestire il delicatissimo fenomeno dei flussi migratori in pieno allarme terroristico. I poliziotti che, ai sensi dell’articolo 650 del codice penale, hanno denunciato a piede libero coloro che danno da mangiare ai migranti hanno dovuto applicare la legge, ma l’aspetto preoccupante di questa paradossale vicenda sta nella pericolosità delle ricadute delle scelte del sindaco sull’immagine della Polizia di Stato. Nemmeno agli zoo vengono sanzionate le persone che danno da mangiare agli animali ed è inaccettabile che lavoratrici e lavoratori, che adempiono alle funzioni di agenti e ufficiali di polizia giudiziaria, possano essere distolti da servizi molto delicati per attività mediatiche di di questo tipo”.

Caritas: Stiamo toccando il fondo, si vuole criminalizzare chi aiuta. Per Oliviero Forti, responsabile immigrazione di Caritas italiana “con questa ultima vicenda stiamo davvero toccando il fondo: si sta legittimando il reato di solidarietà, e quindi criminalizzando chiunque aiuti le persone in difficoltà. Si denuncia chi fa quello che le  istituzioni non sono in grado di fare”. Al tempo stesso – aggiunge – si sta “criminalizzando la povertà” e questo non dovrebbe far parte della cultura europea: “è paradossale che la denuncia sia avvenuta proprio mentre si rinnovavano i principi dei Trattati di Roma e della cultura su cui è fondata l’Unione europea. Purtroppo queste ordinanze dei sindaci non riguardano solo l’Italia ma anche altri territori di frontiera, è questo è un segnale molto brutto”. In questi giorni è finita nel mirino di parlamentari e delle procure anche l’attività delle ong che si occupano del salvataggio in mare dei migranti. “Oggi sono ospite del Moas a Malta, una delle ong al centro delle polemiche, e nelle mattinata abbiamo parlato proprio di questo – continua Forti -. In assenza di politiche serie e credibili in Europa per la gestione dei flussi si tende ad attaccare il lavoro di tante organizzazioni umanitarie: lo abbiamo visto con l’accoglienza e la bufala sui 35 euro, lo vediamo a Ventimiglia, ma che ora si arrivi a dire che chi salva vite umane in mare lo fa solo per interesse mi sembra davvero una follia. Io credo che si stia cercando un capro espiatorio: non a caso in questi giorni è arrivata la bocciatura del Trattato tra Italia e Libia. E come estrema ratio si dà la colpa a queste ong che fanno solo un’attività legittima di aiuto”. (ec)

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