l’incontro di papa Francesco con i frati cappuccini

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 il papa ha ricevuto i partecipanti all’85.mo Capitolo generale dei Frati Minori Cappuccini. Nel discorso a braccio li ha esortati a continuare ad essere uomini di riconciliazione e di preghiera

Debora Donnini, Benedetta Capelli – Città del Vaticano

“Siete i frati del popolo”, uomini di riconciliazione e di preghiera: conservate questa vicinanza e l’apostolato del perdono. E’ l’esortazione che il Papa ha rivolto, nel discorso a braccio, ai partecipanti al Capitolo generale dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, ricevuti stamani in udienza in Vaticano. Il Capitolo Generale, riunito dal 27 agosto al 16 settembre a Roma, ha tra l’altro eletto il nuovo Ministro generale, cinquasettenne italiano fra Roberto Genuin da Falcade. Il discorso preparato è stato invece consegnato ai partecipanti. (Ascolta il servizio con la voce del Papa)

Vicinanza al popolo

Caratteristica dei Cappuccini – ricorda il Papa –  è proprio la vicinanza alla gente; una vicinanza che è una sorta di abbraccio ai più indifesi.

La vicinanza alla gente. Essere vicini al popolo di Dio, vicini. Vicinanza a tutti, ma soprattutto ai più piccoli, ai più scartati, ai più disperati. E anche a quelli che si sono più allontanati.

Francesco cita in proposito la figura di fra Cristoforo nei Promessi Sposi di Manzoni, emblema di vicinanza: “una parola – afferma – che vorrei rimanesse in voi come un programma”. Poi ricorda il rispetto che si porta sempre all’abito francescano e quanto diceva l’allora cardinale di Buenos Aires, Antonio Quarracino. “A volte – sottolineava – qualche mangiaprete dice una parolaccia a un prete ma mai un abito francescano è stato insultato”.

“Sei figlio di Dio”

Il Pontefice ricorda, poi, di essersi commosso quando, nel recente viaggio apostolico in Irlanda, ha toccato con mano il lavoro dei Cappuccini. Sottolinea di essere rimasto colpito dalle parole del Superiore di quella Casa: “Noi, qui, non domandiamo da dove vieni, chi sei: sei figlio di Dio”.

Capire bene, a “fiuto”, le persone, senza condizioni. Tu entra, poi vediamo. E’ un vostro carisma, la vicinanza, conservatelo.

Uomini di riconciliazione

Essere “uomini di riconciliazione”, capaci di risolvere i conflitti, di fare la pace nelle coscienze, è un atteggiamento testimoniato anche da quel “qui non si domanda, qui si ascolta”, detto sempre dal quel cappuccino irlandese. Francesco ricorda infatti che a Buenos Aires nella chiesa dei Cappuccini andava tanta gente a confessarsi perché “ti ascoltano, ti sorridono, non ti domandano cose e ti perdonano”.

E questo non è “manica larga”, no, no: questa è saggezza di riconciliazione. Conservate l’apostolato delle confessioni, del perdono: questa è una delle cose più belle che voi avete, riconciliare la gente. Sia nel sacramento, sia nelle famiglie: riconciliare, riconciliare. E ci vuole pazienza per questo, perché non parole, poche parole, ma vicinanza e pazienza.

Semplicità nella preghiera

Infine il Papa chiede loro di conservare la semplicità della preghiera. La Chiesa – conclude – vuole che conserviate questo essere uomini di pace, di riconciliazione, con quella libertà e semplicità propria del “vostro carisma” e quindi di continuare così, “alla cappuccina”.

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esiste anche una Lucca ospitale

a Lucca sempre più famiglie ospitano migranti a cena

grande successo per il progetto ‘Aggiungi un posto a tavola’. Rispetto all’edizione della scorsa estate, quest’anno il numero dei partecipanti è raddoppiato

aggiungi un posto a tavola

Sempre più famiglie ospitano un migrante in famiglia. Lo dimostra il successo ottenuto dalla seconda edizione di “Aggiungi un posto a tavola”, il progetto nato per favorire l’integrazione dei migranti, ideato dalla Cooperativa sociale Odissea (gruppo Co&So) insieme all’Osservatorio per la Pace del Comune di Capannori, alla Caritas della Diocesi di Lucca e alla Cooperazione Missionaria Diocesi di Lucca. In due mesi, sono state 26 le famiglie che hanno chiesto di partecipare invitando a cena un richiedente asilo ospitato nelle strutture di accoglienza gestite da Odissea a Lucca e a Capannori.

Le cene realizzate per il momento sono state 22 (altre saranno organizzate a breve), per un totale di 25 migranti, tra i 17 e i 30 anni. Rispetto all’edizione della scorsa estate, quest’anno il numero dei partecipanti è raddoppiato, e il coinvolgimento ha fatto un decisivo salto di qualità. «Il progetto ha raggiunto anche famiglie che non gravitavano intorno alla nostra cooperativa e che sono venute a sapere dell’opportunità attraverso i social e i volantini che avevamo distribuito. Abbiamo avuto richieste non solo da Capannori, ma anche da Lucca, da Pisa e dalla Versilia» racconta Patricia Barsi di Odissea, che ha curato la parte organizzativa di “Aggiungi un posto a tavola”.

«Tanti i nuclei con figli adolescenti, che grazie al nostro progetto hanno potuto incontrare coetanei con storie molto diverse dalle loro. Inoltre, siamo stati contattati anche da alcune associazioni del territorio che desideravano fare questa esperienza insieme ai loro soci. Inoltre, ci ha fatto piacere scoprire che molte famiglie hanno continuato a coinvolgere i migranti nelle loro attività, a dimostrazione che l’integrazione è possibile e passa attraverso la conoscenza».

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il commento al vangelo della domenica

Chi sono io per te? Gesù non cerca parole ma persone

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventiquattresima domenica (16 settembre 2018) del tempo ordinario:

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In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (….).

Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. Silenzio, solitudine, preghiera: è un momento carico della più grande intimità per questo piccolo gruppo di uomini. E i discepoli erano con lui… Intimità tra loro e con Dio. È una di quelle ore speciali in cui l’amore si fa come tangibile, lo senti sopra, sotto, intorno a te, come un manto luminoso; momenti in cui ti senti «docile fibra dell’universo» (Ungaretti).
In quest’ora importante, Gesù pone una domanda decisiva, qualcosa da cui poi dipenderà tutto: fede, scelte, vita… ma voi, chi dite che io sia? Gesù usa il metodo delle domande per far crescere i suoi amici. Le sue domande sono scintille che accendono qualcosa, che mettono in moto cammini e crescite. Gesù vuole i suoi poeti e pensatori della vita. «La differenza profonda tra gli uomini non è tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti» (Carlo Maria Martini)
La domanda inizia con un “ma”, ma voi, una avversativa, quasi in opposizione a ciò che dice la gente. Non accontentatevi di una fede “per sentito dire”, per tradizione. Ma voi, voi con le barche abbandonate, voi che avete camminato con me per tre anni, voi miei amici, che ho scelto a uno a uno, chi sono io per voi? E lo chiede lì, dentro il grembo caldo dell’amicizia, sotto la cupola d’oro della preghiera.
Una domanda che è il cuore pulsante della fede: chi sono io per te?
Non cerca parole, Gesù, cerca persone; non definizioni di sé ma coinvolgimenti con sé: che cosa ti è successo quando mi hai incontrato? Assomiglia alle domande che si fanno gli innamorati: – quanto posto ho nella tua vita, quanto conto per te?
E l’altro risponde: tu sei la mia vita. Sei la mia donna, il mio uomo, il mio amore.
Gesù non ha bisogno della opinione di Pietro per avere informazioni, per sapere se è più bravo dei profeti di prima, ma per sapere se Pietro è innamorato, se gli ha aperto il cuore. Cristo è vivo, solo se è vivo dentro di noi. Il nostro cuore può essere la culla o la tomba di Dio. Può fare grande o piccolo l’Immenso. Perché l’Infinito è grande o piccolo nella misura in cui tu gli fai spazio in te, gli dai tempo e cuore. Cristo non è ciò che dico di Lui ma ciò che vivo di Lui. Cristo non è le mie parole, ma ciò che di Lui arde in me. La verità è ciò che arde (Ch. Bobin). Mani e parole e cuore che ardono.
In ogni caso, la risposta a quella domanda di Gesù deve contenere, almeno implicitamente, l’aggettivo possessivo “mio”, come Tommaso a Pasqua: Mio Signore e mio Dio. Un “mio” che non indichi possesso, ma passione; non appropriazione ma appartenenza: mio Signore.
Mio, come lo è il respiro e, senza, non vivrei. Mio, come lo è il cuore e, senza, non sarei.

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tutto è destinato a passare – ciò che resta è la carità (1 Cor. 13,13)

pietra su pietra


da AltraNarrazione

«La preghiera è tanto più viva quanto più prendiamo coscienza che il luogo dei cristiani è soprattutto tra i poveri, gli oppressi, coloro che subiscono l’ingiustizia o soffrono per amore della giustizia»

Frei Betto, lettera dalla prigione, 12 maggio 1970

 

«Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta» (1).

Delle strutture che militarizzano, degli orari che escludono, dei programmi pastorali che inaridiscono, non resterà nulla.

Delle carriere ecclesiastiche, dei dibattiti lontani dalla prassi, della liturgia senza condivisione e fraternità,  non resterà nulla.

Della dottrina elaborata dagli uomini, degli adempimenti degli ipocriti, della rigidità scambiata per fedeltà,  non resterà nulla.

Dei privilegi legati al ruolo, degli ossequi dei sottoposti, della predicazione calata dall’alto, non resterà nulla.

Dei paramenti sacri ricamati, dei marmi lucidati, dei calici d’oro, non resterà nulla.

Della esegesi senza Misericordia, della teologia senza Profezia, delle opere senza affidamento alla Grazia, non resterà nulla.

Mentre ogni parola pregata in confidenza, ogni speranza dell’oppresso nella liberazione di Cristo, ogni carità ai poveri rimarrà. In eterno.

«Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!» (1Corinzi 13, 13)

(1) Vangelo di Luca 21, 6

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la croce di papa Francesco

lettera aperta a papa Francesco

 

carissimo Francesco,

nel settembre 2015, intervistato da una radio portoghese, ti chiedevi come sarebbe stata la tua croce. Eccola, o almeno eccone una. Dopo le prime avvisaglie dei mesi scorsi, hai ricevuto la risposta che desideravi. È la croce più bella, la più gloriosa. È quella dei profeti, la stessa del Salvatore: il discredito operato dalla gerarchia dei dossier, il sinedrio che si riprende la rivincita sulla benevolenza dimostrata dal popolo. La burocrazia che rimette sotto sequestro il carisma, confermando l’impossibilità (con l’azione di un singolo -anche se Papa- e dall’alto) di riuscire a sanare la corruzione morale diventata struttura e sistema. Ci vorrebbe una rivolta della base, ma la base è abituata ad obbedire nel senso di adulare, e non di ascoltare. Quindi si farà stordire, rimarrà alla finestra e dopo ti abbandonerà. Sbadigliante e balbettante, come sempre. Incapace di analizzare oggettivamente e restia a schierarsi, per non perdere le piccole sicurezze.  E noi, invece, gioiamo per te, perché in questa solitudine (anche se apparentemente amara) l’Amore di Dio si manifesterà ancora più potentemente nella tua vita, ormai purificata da applausi, selfie, e pubblici riconoscimenti. Potrai lasciare ogni tentennamento, ogni concessione al poco evangelico “politicamente corretto” ed essere radicale, come desideri e come lo Spirito ti suggerisce. Potrai girare la piramide secondo le disposizioni del Concilio Vaticano II. Potrai riportare la Chiesa nelle strade a farsi salvare dagli oppressi e a denunciare l’iniquità sociale. Potrai seguire l’esempio del Santo di Assisi e liberare la Chiesa dal demone della ricchezza e dei privilegi. Potrai spingerci ad entrare, finalmente, nel Nuovo Testamento, quello dei due comandamenti dell’Amore, del volto autentico di Dio: Misericordia e Compassione. Potrai contribuire a guarire la Chiesa dal maschilismo coinvolgendo e responsabilizzando davvero le donne e a guarirla dal clericalismo coinvolgendo e responsabilizzando davvero i c.d. laici.

Coraggio Francesco!

Scruta i segni dei tempi ed interpretali alla luce del Vangelo (GS,4) e non del diritto canonico. È questo il tempo opportuno: il Signore invita i testimoni a subentrare ai funzionari.

Ti ringraziamo perché hai restituito la cittadinanza nella Chiesa a quelli come noi che fanno dell’opzione preferenziale per i poveri l’unica ragione di vita.

E ringraziamo Dio perché i nostri occhi hanno potuto vedere l’Evangelii Gaudium, la Laudato Si’, e i venerdì della misericordia. E sappiamo che molte persone, in passato, avrebbero voluto vedere e ascoltare queste cose e non le hanno potute vedere ed ascoltare (Mt 13, 16-17).

Anche per questo, affidandoti a Maria e a Santa Teresa di Gesù Bambino, chiediamo al Signore di benedirti.

Un abbraccio
da Altranarrazione
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colpevole a tutti i costi – questa, papa Francesco, la tua colpa!

 

grazie per essere stato incolpato della bellezza della Chiesa sognata da Gesù

Caro papa Francesco:
In realtà, sei colpevole!
Sei colpevole di essere un uomo e non essere un angelo!
Sei colpevole perché hai l’umiltà di accettare che hai torto e chiedi perdono. Chiedi perdono per te e per noi. E questo per molti è inaccettabile.
Sei colpevole perché …
Sei colpevole perché volevano che fossi un giudice e un canonista e sei un esempio e un testimone di misericordia.
Sei colpevole perché hai abbandonato la tradizione di vivere nei palazzi per scegliere di vivere come le persone.
Colpevole perché hai lasciato la sontuosità di San Giovanni in Laterano e scelto la povertà delle prigioni, degli orfanotrofi, dei manicomi e delle case di recupero.

Sei colpevole!
Hai smesso di baciare i piedi “profumati” delle eminenze e baci i piedi “sporchi” di detenuti, donne, pazienti, altre confessioni religiose, “diversi”!
Sei condannato perché hai aperto le porte ai “risposati” e perché di fronte a temi dolorosi e in sospeso rispondi semplicemente, “chi sono io per giudicare
Sei condannato perché assumi la tua fragilità, chiedendo a noi di pregare per te, quando molti ti chiedono di essere dogmatico, intollerante e rubricista.

Papa Francesco è colpevole di tanti e tanti cosiddetti “infedeli”, “scomunicati” e “impuri” che hanno riscoperto il bel volto di Cristo, tenerezza e misericordia.
Sei colpevole perché “chiami le cose per nome” e non dimentichi di ricordare ai vescovi che non sono pastori sull’aereo, ma persone con “odore di pecora”.
Colpevole perché hai strappato le pagine di intolleranza, la morale spietata e ci ha offerto la bellezza della compassione, della tenerezza e della schiettezza.
Sei colpevole perché non siamo così orgogliosi negli occhi, nell’intelligenza e nella ragione, ma soprattutto nel cuore.
Sei colpevole di voler portare la croce della Chiesa invece di guardare altrove, essendo indifferente al dolore e alle lacrime degli uomini del nostro tempo.
Sei colpevole perché non puoi sopportare gli efferati delitti fatti nel nome di Dio e quelli che parlano di Dio ma vivono contro di lui.
Colpevole perché cerchi la verità e la giustizia, abbracciate dalla misericordia, invece di mettere a tacere, nascondere, minimizzare o ignorare.
Sei colpevole perché hai smesso di volere una Chiesa di privilegi, di glorie di tutto il mondo e ci insegni la forza del servizio, la ricchezza di lavare i piedi e la grandezza della semplicità.

Papa Francesco lascia che ti incolpino di questi “crimini”. tu sai che al tuo fianco ci sono innumerevoli uomini e donne che, come te, non sono angeli, sono fragili, peccatori, aspettando che Cristo si prenda cura di loro e di noi.
Tu sai che con te c’è un’enorme “processione” di cuori che per te prega ogni momento, perché daresti la tua vita per loro, e ti seguono come pecore che si fidano del pastore.
È stato Cristo a metterti al timone di questo “Barca” che è la Chiesa.
È Cristo che ti darà la forza per perseguire questo sentiero di “colpa” che ha fatto così bene al mondo e alla Chiesa.
Caro papa Francesco, grazie per essere stato incolpato della bellezza della Chiesa sognata da Gesù.

p. António Teixeira

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il commento al vangelo della domenica

«Effatà»

commento di p. E. Bianchi al vangelo della ventitreesima domenica (9 agosto 2018) del tempo ordinario: 

 

Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.  Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

 

Gesù lascia la regione di Tiro e, passando attraverso il territorio di Sidone, va oltre il lago di Tiberiade, nel territorio della Decapoli. Il suo viaggiare fuori della Galilea, della terra santa, in regioni abitate da pagani, ha un preciso significato: Gesù non fa il missionario in mezzo ai pagani, perché secondo la volontà del Padre la sua missione è rivolta al popolo di Israele, il popolo delle alleanze e delle benedizioni; ma con questo lambire o attraversare velocemente terre impure, vuole quasi profetizzare ciò che avverrà dopo la sua morte, quando i suoi discepoli si rivolgeranno alle genti.

Attorniato da dodici uomini e da alcune donne, Gesù fa strada insegnando ai discepoli e vivendo un essere in disparte rispetto alle folle della Galilea, il che permette a lui e al suo gruppo una certa vita raccolta, intima, più adatta alla formazione e a una più efficace trasmissione della parola di Dio. In questa terra pagana Gesù aveva già guarito la figlia di una donna siro-fenicia, cioè realmente e pienamente pagana, dopo aver opposto un iniziale rifiuto che però non aveva placato l’insistenza della donna: sua figlia era stata liberata dal male che la attanagliava, dietro al quale stava una forza demoniaca (cf. Mc 7,24-30). Ora gli viene presentato un sordo balbuziente, con la preghiera che egli compia il gesto che comunica la benedizione, le energie salutari di Dio: l’imposizione delle mani. Quest’uomo sperimenta una menomazione fisica che è anche simbolica, vera immagine della condizione dei pagani: è sordo alla parola di Dio, che non può ascoltare perché a lui non è rivolta, ed è balbuziente perché tenta di lodare, di confessare Dio, ma non ci riesce pienamente. Ma è soprattutto un uomo menomato nelle facoltà della comunicazione: non può parlare chiaramente a un altro né può ascoltarlo.

Gesù incontra dunque anche quest’uomo. Volendo liberarlo dal male, lo porta in disparte, lontano dalla folla, e con le sue mani agisce su quel corpo altro dal suo, il corpo di un uomo malato. Gli pone le dita negli orecchi, quasi per aprirli, per circonciderli e renderli capaci di ascolto, sicché quest’uomo è reso come il servo del Signore descritto da Isaia: un uomo al quale Dio apre gli orecchi ogni mattina, in modo che possa ascoltare senza ostacoli la sua parola (cf. Is 50,4-5). Poi Gesù prende con le dita un po’ della propria saliva e gli tocca la lingua: è un gesto audace, equivalente a un bacio, dove la saliva dell’uno si mescola con quella dell’altro. C’è qualcosa di straordinario in questo “fare di Gesù”: Gesù tocca gli orecchi e apre la bocca dell’altro per mettervi la sua saliva, compie gesti di grande confidenza, quasi per forzare il sordo balbuziente a sentire le sue mani, il suo lavoro, carne contro carne, corpo a corpo…

L’azione di Gesù è accompagnata da un’invocazione rivolta a Dio: egli guarda verso il cielo ed emette un sospiro, che indica contemporaneamente il suo sdegno per la malattia, l’invocazione della salvezza, la fatica nel guarire. Gesù sta gemendo insieme e tutta la creazione, a tutte le creature imbrigliate nella sofferenza, nella malattia, nella morte (cf. Rm 8,22-23). Qui viene mostrata la capacità di solidarietà di Gesù, che con-soffre con il sofferente, entra in empatia con chi è malato e si pone dalla sua parte per invocare la liberazione. Tutto ciò è accompagnato da una parola emessa da Gesù con forza: “Effatà, apriti!”, che è molto di più di un comando agli orecchi e alla lingua, ma è rivolto a tutta la persona. Aprirsi all’altro, agli altri, a Dio, non è un’operazione che va da sé, occorre impararla, occorre esercitarsi in essa, e solo così si percorrono vie umane terapeutiche, che sono sempre anche vie di salvezza spirituale. Gesù ci insegna che tutta la nostra persona, il nostro corpo deve essere impegnato nel servizio dell’altro: non bastano sublimi pensieri spirituali, non bastano parole, fossero pure le più sante; occorre l’incontro delle carni, dei corpi, degli organi malati, per poter intravedere la guarigione che va sempre oltre quella meramente fisica. Ed ecco che quel sordo balbuziente è guarito, parla correttamente e ascolta senza ostacoli! Gesù però lo rimanda a casa e gli chiede di tacere, così come comanda a quanti avevano visto di non divulgare l’accaduto. Ma i pagani, che non sono giudei e non attendono né il Messia né il profeta escatologico, sono costretti ad ammettere: “Tutto ciò che Gesù fa è ammirabile: fa ascoltare i sordi e fa parlare i muti!”.

Oggi questo compito spetterebbe ai cristiani, alla chiesa: non tanto guarire i malati nell’udito o nella mente, dove stanno gli impedimenti alla parola… Ma cosa sarebbe una chiesa che sa dare l’ascolto a quelli che ne sono privi, che sa parlare a coloro ai quali nessuno parla? Cosa sarebbe una chiesa che sa dare la parola, che autorizza a prendere la parola il semplice fedele, a volte non istruito e incapace di prendere la parola in assemblea? Perché noi cristiani noi diventiamo capaci di “logoterapia”, della quale vi è tanto bisogno nelle nostre comunità sovente mute, incapaci di esprimere un’opinione pubblica e, ancor più, incapaci di dare eloquenza alla loro fede, di annunciare la buona notizia che è nel cuore dei credenti? Sono troppi oggi i sordi balbuzienti che non sanno ascoltare gli altri e parlare loro, comunicando e instaurando una relazione. Nella comunità cristiana occorrerebbe pensare a questo elementare servizio di carità, prima di inventarsene altri (e sono molti nella chiesa!) che Gesù non si è mai sognato di comandarci…

E tu, lettore, esercitati a dire con il tuo cuore: “Effatà, apriti!”, a esprimerlo con il tuo atteggiamento, con il tuo volto capace di dare fiducia all’altro. Ripeti con convinzione: “Effatà, apriti!”, non restare chiuso, entra nella vita, entra nella danza, apriti a ciò che ogni giorno come novità spunta e fiorisce!

Fonte:MONASTERO DI BOSE

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un bel libro per superare la crisi del clero


 
Michael Davide Semeraro
 
Preti senza battesimo?
Una provocazione, non un giudizio
San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2018, pp. 156

recensione di Augusto Fontana
Fratel MichaelDavide Semeraro, monaco benedettino, Dottore in teologia, provoca, con un titolo ad effetto, la curiosità dei possibili lettori del suo breve saggio Preti senza battesimo? Una provocazione, non un giudizio, uscito recentemente dalle edizioni San Paolo.
Tesi centrale dell’autore: Cristo fu un “laico”, non appartenente alla casta e all’ordine di successione sacerdotale di Aronne. Lo possiamo credere e chiamare “sacerdote”, come scrive la Lettera agli ebrei (7,11), unicamente «secondo l’ordine di Melchisedek». Melchisedek diventa così icona simbolica e teologica attorno a cui si costruisce tutto il tessuto dell’argomentazione di Semeraro che non esita ad avvalersi di pubblicazioni e citazioni di autori vari tra cui Eugen Drewermann: «Oggi l’intero stato dei chierici potrà recuperare una certa credibilità» solo a patto che riesca a riposizionarsi sulle orme di Gesù «che non era né monaco né sacerdote; piuttosto era profeta, poeta, vagabondo, visionario, medico e persona degna di fiducia, predicatore ambulante e trovatore, arlecchino e incantatore dell’eterna e inesauribile misericordia di Dio».
Un’eccessiva sovra-estimazione della vocazione sacerdotale a discapito di quella battesimale rischia di imbalsamare il presbitero nel sarcofago del ruolo: «quando manca una personalità autentica formata alla scuola del Vangelo, è del tutto naturale che il ruolo diventi la maschera della propria fragilità non accolta e della propria incapacità a far fronte alle sfide più ordinarie e normali della vita».
Destinatari del saggio non sono solo i preti: la questione della qualità e quantità dei preti coinvolge tutto il popolo di Dio, i battezzati. Crisi di preti? Preti in crisi? Domande ricorrenti, nel testo, implicite o esplicite, come di fronte a un diluvio annunciato da decenni di tuoni e lampi. I tempi di Noè a volte ritornano: «E come avvenne ai tempi di Noè, così sarà nei giorni del Figlio dell’ uomo: si mangiava, si beveva, si prendeva moglie e si prendeva marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’ arca. Poi venne il diluvio e li spazzò via tutti» (Luca 17).
MichaelDavide non vuole certo fare il profeta di sventura o il menagramo. Offre, invece, un contributo ragionato e documentato a fronte di uno dei fenomeni ecclesiali di cui il popolo dei battezzati, e neppure i chierici, ne stanno cogliendo la portata potenzialmente riformatrice o rivoluzionaria.
I lettori sono avvertiti: «nel percorso di queste pagine non si può trovare nessuna soluzione, ma solo qualche provocazione che non vuole giudicare né, tantomeno destabilizzare… Siamo solo agli inizi di un cammino, che però non possiamo più rimandare e in cui dobbiamo appassionatamente coinvolgerci non semplicemente per limitare i danni, ma per ampliare le opportunità di crescita e di testimonianza».
La Prefazione del Vescovo emerito Luigi Bettazzi anticipa ed esplicita i problemi ecclesiali del rapporto tra clero e laici battezzati: «L’Ordinazione presbiterale non può essere qualcosa di prevalente, ma deve essere al servizio del battesimo, cioè dell’essere cristiano». È come se Bettazzi e più ancora il monaco Semeraro invitassero i preti, alla fine della loro giornata, a non a chiedersi se sono stati bravi preti, ma primariamente se sono stati bravi battezzati.
La prima e la terza parte dello scritto affrontano alcune fragilità presbiterali: pedofilia e omosessualità. La salvaguardia del ruolo, il “salvare la faccia” del clero non bastano: «la conversione non riguarda solo la morale a livello personale, ma tocca necessariamente l’impianto istituzionale». Ovviamente sia nel processo di formazione del clero che in quello di accompagnamento comunitario.
La seconda parte dello scritto raccoglie e sviluppa meglio la provocazione del titolo Preti senza battesimo? verso la proposta di una urgente conversione. Interiore e istituzionale. «Come Melchisedek, i presbiteri del Nuovo Testamento sono chiamati a diventare sacerdoti delle umane battaglie, disposti ad andare incontro ai difficili cammini dei propri fratelli senza aspettarli al varco sulle soglie dei templi – nuovi e antichi – che rischiano spesso di trasformarsi in mausolei di autoidolatria». In questa logica «il sacerdozio comune di cui siamo resi partecipi nel battesimo sta a fondamento del ministero presbiterale e non viceversa».
Alla fine resta una domanda; quella che giustifica la destinazione del libro di Semeraro non solo ai preti ma anche a tutta la comunità dei battezzati: «Mancano i preti per le comunità o, in realtà, mancano le comunità capaci di generare fino a indicare, sostenere e correggere i propri pastori?».
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una chiesa nella bufera che riconosce la sua colpevolezza

pedofilia

il papa: la chiesa è colpevole

di Luca Kocci
in “il manifesto” 

Proprio commentando il rapporto, il Papa ha affermato che “benché si possa dire che la maggior parte dei casi riguarda il passato, tuttavia, col passare del tempo abbiamo conosciuto il dolore di molte delle vittime e constatiamo che le ferite non spariscono mai e ci obbligano a condannare con forza queste atrocità, come pure a concentrare gli sforzi per sradicare questa cultura di morte; le ferite ‘non vanno mai prescritte'”

«Le autorità ecclesiastiche non sempre hanno saputo affrontare in maniera adeguata i crimini e gli abusi commessi da membri della Chiesa». Papa Francesco, nell’udienza del mercoledì in piazza San Pietro, parla del suo viaggio a Dublino per l’Incontro mondiale delle famiglie appena concluso, ma torna anche sulla pedofilia, la questione che in questi giorni, con le rivelazioni di mons. Viganò, è sotto i riflettori. «La mia visita in Irlanda, oltre alla grande gioia, doveva anche farsi carico del dolore e dell’amarezza per le sofferenze causate in quel Paese da membri della Chiesa», ha detto il papa. «Un segno profondo ha lasciato l’incontro con otto sopravvissuti, ho chiesto perdono al Signore per questi peccati», incoraggiando i vescovi a «rimediare ai fallimenti del passato con onestà e coraggio». Non una parola, da parte del papa, sul dossier Viganò, che lo accusa di aver ignorato le informazioni sugli abusi sessuali su minori e seminaristi compiuti dall’ex arcivescovo di Washington, McCarrick, a cui lo scorso 27 luglio Francesco ha tolto la berretta cardinalizia. Rispondere nel merito significherebbe riconoscere un qualche coinvolgimento nella vicenda, che Bergoglio vuole evitare. Ma non è detto che questa sia la condotta più efficace per allontanare le ombre. Dal Vaticano trapela solo che il papa non pensa affatto alle dimissioni, come gli chiede Viganò. Da parte sua Viganò, in un’intervista ad Aldo Maria Valli (istituzionale vaticanista del Tg1, che però nel suo blog non nasconde critiche alla linea riformista di Francesco), conferma il proprio racconto, spiega di aver parlato «perché ormai la corruzione è arrivata ai vertici della Chiesa», respinge le accuse di chi insinua che abbia parlato per rivalsa, dopo che la sua carriera in Vaticano – su cui indubbiamente puntava – è stata stroncata, soprattutto dal card. Bertone, in parte da Francesco («rancore e vendetta sono sentimenti che non mi appartengono»). Frattanto la genesi, l’elaborazione e il lancio del dossier di Viganò assumono contorni più definiti. A cominciare dal fatto che si tratta di un documento redatto a quattro mani: i contenuti li ha forniti il prelato, la forma l’ha confezionata Marco Tosatti, vaticanista della Stampa in pensione e ora una delle punte dell’opposizione conservatrice a Francesco dal suo blog Stilum Curiae. «Abbiamo scritto l’articolo insieme», ha spiegato Tosatti al Corriere, e all’Associated Press ha detto di aver lavorato sul materiale di Viganò per renderlo «giornalisticamente utilizzabile». Che sia stata un’operazione studiata a tavolino emerge dal racconto di Valli, il quale ha ricevuto il dossier direttamente da Viganò perché lo pubblicasse, insieme ad altri media conservatori statunitensi e spagnoli e al quotidiano di Maurizio Belpietro La Verità: «Concordiamo il giorno e l’ora della pubblicazione – racconta Valli -. Nello stesso giorno e alla stessa ora pubblicheranno anche gli altri. Domenica 26 agosto perché il papa, di ritorno da Dublino, avrà modo di replicare rispondendo alle domande dei giornalisti in aereo». L’esistenza di una regia ovviamente non toglie valore alle affermazioni di Viganò, che tuttavia presentano qualche falla. Per esempio quando racconta che nel 2010 papa Ratzinger avrebbe disposto delle misure restrittive nei confronti di McCarrick (non risiedere più in seminario, divieto di celebrare e apparire in pubblico) che però rimasero riservate e inapplicate. E resta l’enorme ritardo con cui lo stesso Viganò – a conoscenza delle malefatte di McCarrick dal 2000 – ha denunciato il caso. Al di là dei dettagli, due nodi evidenzia il rapporto Viganò, prendendo per autentiche le sue parole. Che la pedofilia è un macigno nella vita della Chiesa cattolica – sono coinvolti gli ultimi tre pontefici (Wojtyla, Ratzinger, Bergoglio) e i rispettivi segretari di Stato (Sodano, Bertone, Parolin) – evidentemente figlio di un sistema malato, che riguarda seminari, formazione del clero, ruolo del prete. E che la Curia romana costituisce un centro di potere dove è in corso una perenne guerra per bande, a colpi di dossier, spesso tirando in ballo pedofilia ed inclinazioni sessuali, che sono chiaramente nervi scoperti. Insomma non problemi contingenti, ma di sistema.

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il vangelo è una cosa seria e ‘pericolosa’

le rimozioni dal vangelo

«Con una chiesa universalmente ritenuta ricca, insomma, come dovremmo poter mai incarnare in modo persuasivo ed efficace quella resistenza che il messaggio di Gesù oppone alla nostra stessa mentalità di integrati nella società del benessere?»

JB Metz

 

Il Vangelo evidentemente soffre di rimozioni forzate ad opera dei predicatori abilitati e di quelli che si autoconsegnano la patente di interpreti autentici. Ad esempio: perché è così difficile affermare che la ricchezza è un male in sé in quanto appropriazione indebita del non-necessario? Infatti la sottrazione è ineludibilmente l’altra faccia della medaglia dell’accumulo.
«Le cose tolte ai poveri sono nelle vostre case.

Quale diritto avete di schiacciare il mio popolo, di pestare la faccia ai poveri» (1).
È così difficile affermare che la ricchezza è antievangelica, l’ostacolo concreto alla diffusione dell’utopia liberante del Regno? Noi affermiamo il diritto per tutti ad una vita dignitosa resa possibile dalla pratica della compassione e della solidarietà. Il diritto al lusso non è espressione né del Vangelo né dell’umanesimo conseguente.

Guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione.

Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame.

Guai a voi, che ora ridete,

perché sarete nel dolore  e piangerete (2).

Questo, certo, non significa che i ricchi non possano salvarsi ma si devono convertire redistribuendo o meglio restituendo. Gesù è andato a casa del capo degli oppressori per indurlo a cambiare vita, non per legittimarlo come avviene troppo spesso nei ricevimenti della c.d. autorità in Vaticano. Infatti Zaccheo risponde: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto»(3) mentre gli altri, dopo la foto di rito con il Papa, rispondono continuando a bombardare, a negare i diritti fondamentali, a destabilizzare altri Paesi per interessi economici.

Un’altra forma di rimozione forzata riguarda la persona e la prassi di Gesù a vantaggio di una dottrina elaborata da uomini. Il Vangelo che siamo chiamati a vivere non consiste propriamente nella memorizzazione di un libro, né tantomeno di un codice, ma è una relazione con la Persona di Gesù, l’imitazione delle sue scelte concrete e l’adozione del suo paradigma non come imposizione ma come presupposto per realizzare pienamente la nostra libertà e dignità.

«Guai a voi, dottori della Legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!»(4)

Il Concilio Vaticano II ha ribaltato la prospettiva (5) mettendo effettivamente al centro la Persona di Cristo rispetto alle conoscenze dogmatiche ma, a distanza di circa cinquanta anni, l’atteggiamento legalista, cattedratico della gerarchia è mutato più nella forma che nella sostanza. Pur riscontrando nei documenti e nella predicazione una maggiore consapevolezza dei disagi esistenziali e sociali del popolo di Dio rimane lo scandalo ancora non rimosso della distanza dalle sofferenze reali. La mera enunciazione, senza le opere concrete, dell’opzione preferenziale per i poveri e gli oppressi è il macigno che pesa sulla coscienza della Chiesa-Istituzione e ne mina la credibilità.

(1) Isaia 3, 14-15

(2) Vangelo di Luca 6, 24-25

(3) Vangelo di Luca 19, 8

(4) Vangelo di Luca 11,46

(5) Dei Verbum, 4;Cfr Teresa di Lisieux, LT 165 «Custodire la parola di Gesù, ecco l’unica condizione della nostra felicità, la prova del nostro amore per lui. Ma che cos’è questa parola? Mi sembra che la parola di Gesù sia lui stesso» in Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, Opere complete. Scritti e ultime parole, Editrice Vaticana-OCD, Città del Vaticano-Roma 1997, p. 484

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