il commento al vangelo della festa di tutti i santi

Alessandro Cortesi 

Commento Festa di tutti i santi – anno B

festa di tutti i santi – anno B – 2018
Ap 7,2-4.9-14; Sal 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a

Nella grande visione dell’autore dell’Apocalisse Gesù Cristo è presentato nell’immagine dell’agnello ferito, ma in piedi. Nel simbolo dell’agnello e della ferita è da leggere il riferimento alla passione e alla morte: condotto come agnello al macello ha reagito con la nonviolenza all’ingiustizia e alla menzogna che l’hanno condotto al supplizio. La ferita mostra il sangue versato. Ma è in piedi. Ferito e vulnerabile è passato attraverso la morte ma questa non ha avuto potere su di lui: l’agnello inerme è così immagine del risorto che ha vinto la morte. La sua comunità, sa di dover vivere la prova e la sofferenza ma sa anche che Gesù Cristo è colui che può sciogliere i nodi che legano il libro della vita e della storia. Questo incontro ha i tratti di una grande liturgia che coinvolge il lettore. E’ così ‘vista’ una “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare…”. E’ la moltitudine di tutti coloro che hanno vissuto la loro testimonianza – tengono la palma, simbolo del martirio tra le mani – ed hanno percorso con fedeltà la strada di Gesù agnello inerme e indifeso.

Nella festa di tutti i santi i simboli dell’apocalisse invitano a leggere la vita della comunità che segue Gesù: è composta di tanti volti e tanti nomi che hanno testimoniato la via di Gesù seguendolo sulla sua strada. Sono innumerevoli e la loro testimonianza è quella di chi non ha avuto clamore, visibilità ma è stato fedele nel quotidiano, nella semplicità della vita ordinaria. E al centro sta la presenza di Dio.

La prima lettera di Giovanni richiama il cammino della fede, tra un ‘già’ che viviamo nel presente, ed un ‘non ancora’ da attendere e da affrettare. “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è.”

Ancora non è rivelato il nostro volto più profondo: sin d’ora siamo ‘figli’, partecipi di una relazione che è dono e che precede. Figlio e figlia, sono nomi di legame, di dipendenza da un dono di vita ricevuto che conduce a scorgere come la vita provenga da altri e da altrove. Siamo chiamati con il nome unico che Dio ha pronunciato per ciascuna e ciascuno. Ma questo nome è anche un seme che richiede cura, luce e spazio, per poter crescere. C’è nell’esistenza una chiamata che si sviluppa nelle varie tappe e circostanze della vita: diventare simili al volto di Gesù che ha fatto della sua vita un dono per il Padre e per gli altri. Nell’incontro con lui si compie così il nostro nome. La vita dei cristiani si colloca anche in una attesa che non è vuota: talvolta è piena di dolore ma soprattutto è piena di responsabilità. Lo vedremo così come egli è: questo incontro è già iniziato in quel vedere che è lo sguardo del credere, che si lascia trasformare nell’affidamento.

“Beati i miti perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati”. Gesù propone una parola di felicità quale orizzonte dell’esistenza. I poveri in spirito, quelli che sono nel pianto, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per causa della giustizia, tutti voi quando vi insulteranno… sono chiamati a rallegrarsi. Quale è il motivo per rallegrarsi? Gesù non vuole per i suoi la povertà, la persecuzione, l’ingiustizia. Piuttosto annuncia che Dio sta dalla parte di tutti coloro che vivono in queste situazioni, e si rende vicino, per liberarli. Prende le loro parti. Gesù annuncia con la sua vita che Dio ‘ha guardato alla condizione umile dei suoi servi’, di tutti coloro che si affidano a lui e non hanno potenza e ricchezza e strumenti di affermazione umani. Questa è ragione del rallegrarsi: chi vive in questo orientamento è nella strada di Gesù. Nella pagina delle beatitudini in fondo si parla di Gesù che s’identifica con le vittime e i poveri: è lui il vero povero, mite, puro di cuore. Chi si appoggia in lui trovando in lui il senso della propria esistenza può aprirsi ad una vita bella, ad una gioia profonda, ad una felicità che non è assenza di problemi o spensieratezza, ma esistenza segnata dall’accogliere la presenza di Dio vicino e liberatore che a cuore la felicità delle sue figlie dei suoi figli e li rende strumenti di liberazione per altri.

Alessandro Cortesi

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un nuovo modello di uomo

nuovo paradigma

da uomini borghesi a uomini solidali

da Altranarrazione

Dovremmo abbandonare, come suggerisce Paolo agli Efesini(*), l’uomo vecchio, cioè borghese “che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli”, e rivestire l’uomo nuovo, cioè solidale.

Le strutture capitalistico-borghesi hanno infettato non solo le relazioni economiche ma anche quelle sociali.

Accettiamo di identificarci con la nostra attività lavorativa: “Mi chiamo Mario, sono un medico/insegnante/operaio/manager”. Sono un medico? Forse fai il medico. Ragionaci bene Mario.

Accettiamo la logica dello scambio, abbiamo amicizie utili, siamo competitivi pure con la persona che “amiamo”.

Accettiamo la separazione in categorie: giovani-anziani, cittadini-stranieri. Anche se quella più assurda è tra lavoratori. Dovremmo cancellare tutte queste divisioni eccetto quella tra oppressi e oppressori. Siamo orgogliosi di appartenere ad una “Patria” che esiste solo sulle carte geografiche. I confini sono un tratto di penna. Viviamo in un mondo, non in un recinto, tra persone non tra passaporti. Ci dovremmo riconoscere dal volto non dai documenti.

(*)Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri, ma voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità. (Efesini 4, 17-24)

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contro il paradigma antievangelico adottato dal sistema occidentale capitalistico

parusia?

da Altranarrazione

Se si dovesse giudicare dal viso di tanti devoti cristiani e dalla loro non-preoccupazione si potrebbe pensare che la parusia sia già avvenuta. Sono rimasti solo i poveri in fila davanti alle mense, i migranti in fila davanti ai barconi, i disoccupati in fila davanti ai c.d. centri dell’impiego, i precari in fila davanti alle c.d. agenzie per il lavoro (o meglio per i lavoretti) a non essersi accorti del ritorno definitivo del Salvatore e dell’instaurazione del suo Regno di amore, pace e quindi di giustizia.

«Vi sembra questo il tempo di abitare tranquilli nelle vostre case ben coperte, mentre questa casa è ancora in rovina?» (Aggeo 1,4)

Tanti (direi troppi) devoti cristiani sembrano vivere praticamente già nell’eternità, distaccati, al di fuori del tempo e dello spazio. Da consumati professionisti dell’esicasmo rimangono impassibili davanti alla sottrazione di dignità che  tanti fratelli e sorelle subiscono. Allo stesso tempo da consumati professionisti del tifo sportivo perdono il controllo davanti ad una partita di pallone. Scambiano il sonno della coscienza, effetto dell’adorazione degli idoli, con la pace interiore, dono dello Spirito. Confondono il benessere materiale e le rendite di posizione, con la benedizione di Dio e la provvidenza.

«Le mie viscere, le mie viscere! Sono straziato» (Geremia 4,19)

Tanti (ri-direi troppi) devoti cristiani non manifestano nessun disagio nei confronti del paradigma antievangelico adottato dal sistema occidentale. Anzi lo giustificano e si offendono se si critica: lo considerano un parente stretto. Eppure si tratta di un sistema che assicura un riconoscimento sociale in cambio della disponibilità a partecipare all’oppressione, a giustificarla, a difenderla. Un sistema che assorbe, contamina, deforma e che di conseguenza si merita un netto e sereno rifiuto. D’altronde sarebbe sufficiente declinare l’opzione evangelica «o Dio o Mammona» così: o la condivisione o l’accumulo, o la solidarietà o la selezione, o la gratuità o la mercificazione, o la libertà o la schiavitù, per comprendere che questo può essere il paese dei balocchi ma non è certamente il Regno di Dio.

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don Ciotti e la perdita di umanità verso la barbarie

barbarie

Luigi Ciotti
Ci sono frangenti della storia in cui il silenzio e l’inerzia diventano complici del male. Questo è uno di quelli. Le conseguenze della crisi economica si stanno manifestando come crisi di civiltà. Sulla paura e il disorientamento della gente soffia il vento della propaganda. Demagoghi scaltri e senza scrupoli si ergono a paladini del «popolo» e della «nazione» e acquistano di giorno in giorno consenso, additando nemici di comodo: erano le democrazie e gli ebrei al tempo del fascismo, oggi sono l’Europa e i migranti.
Il sistema economico dominante – quello che Papa Francesco definisce senza mezzi termini «ingiusto alla radice», responsabile di una «economia di rapina» – ha certo enormi colpe, a cominciare da un’immigrazione forzata, di fatto una deportazione indotta dalle disuguaglianze. Ma la denuncia dei suoi mali e l’impegno per eliminarli non giustifica il ritorno a società chiuse, guardinghe, attraversate dal rancore e dalla paura, avvinghiate a un’idea equivoca di sovranità, perché in un mondo interconnesso non si tratta di isolarsi – posto che sia possibile – ma di imparare a convivere e a condividere con maggiore giustizia, realizzando i principi della Costituzione, della Dichiarazione universale dei diritti umani, della Convenzione di Ginevra e di tutti i documenti scritti per archiviare una stagione di violenza e di barbarie.
Ecco allora l’importanza di uscire e di muoversi, di denunciare la perdita di umanità ma anche di capacità e onestà politica, perché un fenomeno come l’immigrazione non si può reprimere o respingere con i muri e le espulsioni, si deve governare con lungimiranza, pragmatismo e, certo, umanità. Senza smettere di chiederci come vorremmo essere trattati se al posto dei migranti ci fossimo noi.
Mettersi nei panni degli altri è la chiave dell’etica evangelica, ma lo è anche di una società consapevole che la vita non ha confini, così come non hanno confini i bisogni, le speranze, i diritti delle persone.
Facciamo sentire la voce di un’Italia che per quei diritti non smette di lottare.
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la chiesa ‘inquieta’ e ‘in uscita’ di papa Francesco

papa Francesco

la chiesa inquieta

da Altranarrazione

Sogniamo una chiesa che faccia aspettare i c.d. capi di Stato quando alla porta suona una vittima delle loro politiche.
Sogniamo una chiesa che celebri Eucaristia di Solidarietà: ad esempio fuori l’Ilva di Taranto, davanti ai poligoni militari come quello di Salto di Quirra, davanti alle basi militari statunitensi presenti in Italia.
Sogniamo una chiesa che rivendichi la verità sulla strategia della tensione.
Sogniamo una chiesa che sia vicina alle vittime di tutte le tragedie, ed in particolare di quelle evitabili.
Sogniamo una chiesa che diventi megafono della sofferenza dei cittadini dell’Aquila, di Amatrice e di tutti quelli colpiti dal terremoto.
Sogniamo una Chiesa che ricordi ad ogni omelia i soldi che il nostro governo spende in armamenti, il numero di disoccupati e di precari.
Sogniamo una chiesa presente negli ospedali non solo per dare l’estrema unzione ma anche per rivendicare il buon funzionamento della sanità pubblica.
Sogniamo una chiesa coinvolta nei sit-in contro i licenziamenti dei lavoratori.
Sogniamo una chiesa che si sdegni di fronte alle ingiustizie sociali.
Sogniamo una chiesa che mantenga la schiena dritta davanti la potere e soprattutto che non cerchi contraccambi.
Sogniamo una chiesa che riconosca come martiri della verità ad esempio testimoni come Ilaria Alpi, Paolo Borsellino, Giovanni Falcone.
Sogniamo una chiesa che si preoccupi per la vita del magistrato Nino Di Matteo.
Sogniamo una chiesa che chieda di entrare nei CIE per verificare le condizioni dei migranti.

Per adesso sogniamo.

Ma un giorno siamo sicuri che diventerà realtà.

testo di papa Francesco:

“Mi piace una Chiesa inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta con il volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà”.

(Papa Francesco, Discorso all’incontro con i rappresentanti del V Convegno nazionale della Chiesa italiana, 10/11/2015, Firenze).

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il commento al vangelo della domenica

 “La tua fede ti ha salvato” 
il commento di E. Bianchi al vangelo della trentesima domenica (28 ottobre 2018) del tempo ordinario:


Mc 10,46-52

In quel tempo 46 Gesù e i suoi discepoli giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

Con il brano che leggiamo in questa domenica il vangelo secondo Marco conclude il racconto della salita di Gesù a Gerusalemme, ossia l’itinerario del discepolato durante il quale Gesù ha dato insegnamenti, ha formato quanti lo seguivano, nella consapevolezza che giunti a Gerusalemme sarebbe avvenuta “la fine del profeta”, mediante la sua condanna a morte. Subito dopo Gesù entrerà nella città santa, scortato festosamente e acclamato figlio di David, cioè Messia (cf. Mc 11,7-11), evento in qualche modo anticipato nella nostra pagina.

Siamo a Gerico, la porta della Giudea a oriente. Mentre non solo i discepoli ma molti altri seguono Gesù, un cieco che porta il nome di Bar-Timeo (figlio di Timeo), un uomo marginale, ridotto a mendicare sulla strada, uno “scarto” di cui nessuno si prende cura, sente dire che sta per passare Gesù di Nazaret. Essendo cieco, non l’aveva ovviamente mai visto, né l’aveva incontrato, ma la fama di questo rabbi galileo l’aveva raggiunto. Nel suo cuore era certamente presente almeno il desiderio di vedere, la speranza di avere la vista, per poter uscire dalla notte. Udito che Gesù sta passando, inizia dunque a gridare: “Figlio di David, Gesù, abbi pietà di me!”. In questo grido vi è una grande spontaneità, vi è la sua fede giudaica nel Messia veniente, vi è l’attesa di una guarigione, della salvezza, vi è la forza di gridare e di farsi sentire, nella personale convinzione che quel rabbi può fare qualcosa per lui, dunque è un maestro capace di cura e di amore verso chi incontra. Bartimeo ripete con altre parole quanto aveva affermato Pietro: “Tu sei il Cristo” (Mc 8,29). In quel caso però Pietro era stato immediatamente rimproverato da Gesù per la sua incapacità di comprendere la sua vera messianicità (cf. Mc 8,30-34). Il figlio di Timeo sta invece di fronte al figlio di David, animato dalla fiducia che il Messia avrebbe aperto gli occhi ai ciechi, compiendo anche in questo le sante Scritture (cf. Is 35,5; 42,7).

Ma allora come adesso, tra Gesù e chi lo cerca ci sono altri: qui è la folla, in altri casi sono i discepoli stessi, cioè la sua comunità, a diventare ostacolo, barriera tra Gesù e chi desidera incontrarlo. Attenzione, ciò accade anche per ragioni “sante”: paura di disturbare il maestro, volontà di proteggerlo dagli assalti della gente… Bartimeo, però, non desiste, si mette a gridare più forte, e così la sua invocazione raggiunge Gesù. Questi si ferma e lo manda a chiamare. Ciò avviene puntualmente, con le parole che tante volte i discepoli di Gesù avevano udito durante i suoi incontri con chi si trovava nella sofferenza o nel peccato: “Coraggio, alzati!”. Nell’invito espresso con “Coraggio!” (cf. Mt 9,2-22; 14,27; Mc 6,50) c’è il cuore di Gesù, che dice innanzitutto: “Coraggio, non temere, abbi fiducia!”. Questo il primo atteggiamento necessario all’incontro con Gesù: occorre uscire dal timore, dalla sfiducia, dalla mancanza di attesa, dalla visione di se stessi come non degni di essere da lui amati. A quel punto si tratta di alzarsi – verbo egheíro, che esprime anche il risorgere (cf. Mc 5,41; 6,14.16; 12,26; 14,28; 16,6)! – dal giaciglio alla postura dell’uomo che ha speranza (homo spe erectus). Una volta in piedi, si può ascoltare e comprendere che il Signore chiama ciascuno in modo personalissimo e pieno di affetto (“Chiama te”).

Quel cieco, allora, “getta via il suo mantello, balza in piedi e viene da Gesù”. È un povero che non ha nulla, se non il mantello, segno della sua identità di escluso, unica sua inalienabile proprietà (cf. Dt 24,13). Al contrario dell’uomo ricco che non aveva saputo liberarsi della zavorra dei suoi beni, e dunque se ne era andato triste (cf. Mc 10,21-22), Bartimeo si spoglia di ogni pur minima sicurezza, del suo passato, della sua stessa vita, e balzando in piedi si mette in movimento a tentoni e viene da Gesù. Grande è l’ardire di quest’uomo, che nasce dalla sua libertà: nella sua nuda povertà e nella sua cecità sta di fronte a Gesù, attendendo tutto da lui… Quest’ultimo non presume il bisogno di chi lo ha invocato, non si rivolge a lui in modo meccanico e anonimo, ma proprio per conoscere dalle sue parole il bisogno che lo abita gli domanda: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. E Bartimeo risponde, con un tono di confidenza umile e audace: “Rabbunì, mio maestro, che io veda di nuovo!”. La preghiera è desiderio espresso davanti a Gesù, e Bartimeo desidera vedere, ben oltre la semplice visione con gli occhi: vuole vedere anche con il cuore, vuole vedere nella fede, vuole essere nella luce e non nella tenebra…

Gesù, sempre attento a ogni singolo uomo o donna che incontra, sempre capace di comunicare “in situazione”, si accorge di ciò che Bartimeo sta vivendo. Per questo si rivolge a lui con un’affermazione straordinaria: “Va’, la tua fede ti ha salvato”, parole che egli ha ripetuto spesso di fronte a chi gli chiedeva salvezza (cf. Mc 5,34 e par.; Lc 7,50; 17,19; 18,42). Innanzitutto gli dice: “Va’”, lo invita cioè a mettersi in cammino, senza chiedergli nulla. Alla libertà di chi entra in relazione con lui, Gesù risponde potenziando questa stessa libertà, invitando il suo interlocutore a esercitare la libertà. E questa prassi di liberazione si radica in un atteggiamento che contraddistingue Gesù, al punto che possiamo intenderlo come il suo tratto specifico, peculiare: la sua capacità di cogliere e di far emergere nelle persone la fede-fiducia che le anima. Ecco come Gesù fa emergere la fede già presente nell’altro: attraverso la sua presenza di uomo affidabile e ospitale, che non dice di essere lui a guarire e a salvare, ma la fede di chi a lui si rivolge. Fede-fiducia nella vita, negli altri, prima ancora che in Dio: non è infatti possibile, per parafrasare la Prima lettera di Giovanni, “credere in Dio che non si vede, se non sappiamo credere all’altro, al fratello che si vede” (cf. 1Gv 4,20)…

Guarigione non solo fisica quella di Bartimeo, ma salvezza che lo investe interamente: infatti, “subito si mette a seguire Gesù lungo la strada”. La salvezza viene sperimentata dal credente non tanto come condizione in cui installarsi, ma come cammino perseverante dietro a Gesù, come relazione quotidiana con lui. Bartimeo si pone alla sequela di Gesù, come i discepoli che sempre lo seguono (cf. Mc 1,18; 2,14.15; 5,37, 6,1; 8,34; 10,21.28.32; 11,9; 14,51.54; 15,41), vanno dietro a lui (cf. Mc 1,17.20; 8,33.34). Colui che era cieco, ai bordi della strada, mendicante, dopo l’incontro con Gesù è capace di seguirlo come un discepolo, verso Gerusalemme. Di più, il suo grido rivolto a Gesù – “Figlio di David!” – subito dopo viene ripreso dalla folla, durante l’ingresso di Gesù nella città santa: “Benedetto il Regno veniente di David nostro padre!” (Mc 11,10). Si potrebbe dire che è questo cieco ad aver intonato per primo le grida di gloria nei confronti di Gesù…

Questo episodio è molto di più di un semplice racconto di miracolo, come il lettore di Marco può ormai capire. Gesù sta per entrare nella città santa per la sua passione e morte, ma i suoi Dodici discepoli lungo tutto quel cammino sono rimasti ciechi. Ascoltavano le sue parole ma non capivano, mostrando di essere ben lontani dal vedere gli eventi come li vedeva Gesù: prima Pietro (cf. Mc 8,32), poi tutti e Dodici (cf. Mc 9,34), infine Giacomo e Giovanni (cf. Mc 10,35-37) sono sembrati ciechi di fronte a ogni rivelazione fatta loro da Gesù. Ma ora ogni lettore può identificarsi con questo cieco di Gerico; deve solo prendere coscienza della propria cecità, gridare al Signore: “Abbi pietà di me!” e avere fede che egli può strapparlo dalla tenebra e fargli vedere ciò che i suoi occhi non riescono a vedere. Sì, in quel mettersi in cammino dietro a Gesù, Bartimeo è per noi più esemplare dei Dodici. Dunque? Ognuno di noi si metta davanti al Signore Gesù e, guardando a lui con fede e attesa, si scoprirà non vedente. Abbia allora la forza e il coraggio di gridargli solo: “Signore, abbi pietà di me”, “Kýrie eleison”, questa invocazione brevissima eppure così completa rivolta a lui, con piena fiducia che egli può salvarci.

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la marcia dei poveri espressione della collera dei poveri

la collera dei poveri
 Tonio Dell’Olio
Non so se è il simbolo della rivolta di popoli o il semplice sussulto di una coscienza popolare che sente di essere titolare del diritto alla vita per sé e per i propri figli, ma la marcia che, partita con poche centinaia di persone da San Pedro Sula in Honduras strada facendo è diventata un fiume in piena con migliaia di uomini, donne e bambini provenienti anche da El Salvador e dal Guatemala, è copertina eloquente per raccontare i nostri giorni.
Perché è specchio di disuguaglianze macroscopiche che, prima o poi, qualcuno dovrà urlarci contro.
Perché lentamente diventa consapevolezza che quella folla immensa non è il frutto amaro di un destino ingrato o dell’imperscrutabile volere degli dei. Semmai è il risultato di un neocolonialismo violento e cinico che abbiamo occultato abilmente per anni e anni. Da qui la reazione stizzita del presidente Usa che, anche personalmente, ha fondato le sue fortune economiche su quel sistema.
Quella che impropriamente chiamano “carovana di migranti” e che sarebbe più corretto definire “marcia dei poveri” sembra richiamare come un’eco le parole della Populorum Progressio di Paolo VI (1967) in cui si metteva in guardia dall’ostinata avarizia dei ricchi che non potrà che suscitare «il giudizio di Dio e la collera dei poveri, con conseguenze imprevedibili» (n.49).
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Dio non è distante dalla storia dell’uomo

trasformare la società

un cristiano si riconosce da questo non si adegua alle situazioni di oppressione

«Dare da mangiare o da bere è ,al giorno d’oggi, un atto politico: significa la trasformazione di una società strutturata a beneficio di pochi che si appropriano il plusvalore del lavoro dei più»

Gustavo Gutierrez

Ci hanno convinto dell’immodificabilità della realtà e di conseguenza della distanza di Dio dalla storia dell’uomo. Se cerchiamo la semplice sopravvivenza materiale conviene certamente prendere atto dell’esistente e adeguarsi. Si tratterà di scegliersi il posto migliore a discapito di un nostro simile trasformato in nemico. Dovremo, è vero, sopportare la fatica di difenderlo ma la legge e le armi di solito vengono in soccorso di chi sceglie il compromesso con il regime dell’iniquità. Si diventa come loro, infatti il potere ha la capacità di convincere l’uomo che il cinismo sia necessario per proteggere la propria vita e quella dei familiari. Diventiamo dei cani rabbiosi e accettiamo un criminale come padrone che ci tiene al guinzaglio in cambio di qualcosa nella ciotola. Il Vangelo predica invece che l’uomo non si realizza nella sopravvivenza, nel lasciare le cose come stanno, ma nella trasformazione della realtà*. L’attuale assetto sociale è il frutto di logiche economico-finanziarie che rappresentano tutto il male possibile per l’uomo. Il Vangelo vive in esilio, ai margini, nelle minoranze, nei luoghi dove abitano le vittime di quelle scelte e di quei compromessi, fuori dagli spazi istituzionali, convenzionali ed ufficiali. Il Vangelo attende qualcuno che sia disposto a perdere la vita ossia la reputazione, l’approvazione di quelli che contano, l’immagine di plastica, per esistere, al contrario, secondo l’immagine autentica che Dio non impone ma che costruisce insieme a noi. Una società che si muove agli ordini del Capitale non può considerarsi cristiana anche se abitata da milioni di persone che si definiscono cristiane. Non basta una definizione per determinare la realtà che parla di oppressione e ingiustizia piuttosto che di compassione e di comunità. Di conseguenza occorrerebbe modificare la terminologia scegliendo tra: capitalisti, competitivi, selettivi, emarginatori, speculatori, indifferenti etc. Altrimenti la parola cristiano risulta o comica o ipocrita.

* “L’evangelizzazione deve calare profondamente nel cuore dell’uomo e dei popoli; perciò la sua dinamica tende alla conversione personale e alla trasformazione sociale”.

documento di Puebla, 362

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andare all’essenziale perché solo questo resterà

pietra su pietra

«Fratelli, non sono le grandi moltitudini ciò che ci deve entusiasmare, bensì l’autenticità, la qualità dei cristiani, la sincerità della nostra ricerca di Cristo»

Oscar Romero

da Altranarrazione

«Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta» (1).

Delle strutture che militarizzano, degli orari che escludono, dei programmi pastorali che inaridiscono, non resterà nulla.

Delle carriere ecclesiastiche, dei dibattiti lontani dalla prassi, della liturgia senza condivisione e fraternità,  non resterà nulla.

Della dottrina elaborata dagli uomini, degli adempimenti degli ipocriti, della rigidità scambiata per fedeltà,  non resterà nulla.

Dei privilegi legati al ruolo, degli ossequi dei sottoposti, della predicazione calata dall’alto, non resterà nulla.

Dei paramenti sacri ricamati, dei marmi lucidati, dei calici d’oro, non resterà nulla.

Della esegesi senza Misericordia, della teologia senza Profezia, delle opere senza affidamento alla Grazia, non resterà nulla.

Mentre ogni parola pregata in confidenza, ogni speranza dell’oppresso nella liberazione di Cristo, ogni carità ai poveri rimarrà. In eterno.

«Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!» 1Corinzi 13, 13

(1) Vangelo di Luca 21, 6

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la spiritualità della liberazione non è sopportazione né rassegnazione

storia di salvezza

da Altranarrazione

«Strappa l’oppresso dal potere dell’oppressore, non esser pusillanime quando giudichi» (1).

I dominatori del mondo, nella bulimica smania di conquista, non si appropriano solo della terra e della vita degli oppressi, ma anche del loro Dio. Così, promuovono la squallida manipolazione della Scrittura, che trasforma la spiritualità della liberazione in psicologia della sopportazione (tendente alla rassegnazione) e convincono, spesso, la Chiesa, in cambio di qualche triste privilegio, a mettersi al loro servizio, oppure a mantenersi equidistante, cioè pusillanime nel giudizio. Agiscono pure sugli oppressi facendo apparire conveniente la collaborazione con la catena di sfruttamento, che prevede qualche eccezione, a cui possono aspirare. Dio, invece, agisce in modo opposto, salvando l’ultimo. Su questo non abbiamo alcun dubbio, ma occorre riflettere sulle modalità. Sicuramente non adopera mezzi magici o spettacolari, e neanche procede dall’alto, sfoggiando poteri o prerogative. Dio scende, assume la condizione dell’oppresso, ed incarnandosi dimostra fattivamente da che parte si pone. Entra nella storia degli oppressi, la scrive camminando nelle profondità degli abissi (2) insieme a loro, e la legge da quella prospettiva. Dio cammina con i calpestati verso il Regno, ma non prescindendo da loro. Si tratta di una causa che richiede partecipazione e coinvolgimento. Si tratta, al tempo stesso, di vocazione e di missione, di un dono da ricevere e di un impegno da portare avanti. C’è la schiavitù che si può decidere di accettare e la libertà che si può, ancora, conquistare. In mezzo si trova il deserto, il nulla, l’incertezza. L’oppresso deve scegliere di attraversarlo, rompendo ogni indugio, rinunciando ad ogni calcolo, senza attendere autorizzazioni o aspettarsi applausi. Come unica certezza la Parola eterna che Dio ha pronunciato:

«Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso» (3).

(1) Siracide 4,9

(2) Cfr. Siracide 24,5

(3) Esodo 3,7-8

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