“gli ultimi saranno i primi … ” le preferenze del Dio di Gesù

il messia degli ultimi e dei lontani

“lungo l’arco della Bibbia, la manifestazione del divino è sempre in funzione della liberazione degli oppressi”

(V. Elizondo)

 

Gesù entra nella sinagoga di Nazareth. Doveva essere il giorno dell’incoronazione e dell’esaltazione, diventa, invece, il giorno del ripudio. Gesù rivela la preferenza di Dio: non per gli interessi nazionali o di bottega ma per i rifiutati e i dimenticati, per quelli che la storia cataloga come inutili. La preferenza di Dio, quindi, non è per i presenti e per i vicini. E la preferenza di Dio non è nemmeno per i devoti e per i giusti, nonostante tutti gli sforzi ostentati. La Buona Notizia contraddice le gerarchie degli uomini. Come può essere accolto quel messaggio? Come può permettersi il figlio di Giuseppe una insolenza del genere? Quella preferenza, infatti, è una denuncia radicale dell’ordine costituito fondato su strutture politico-sociali elitarie. La divisione in classi: ricchi-benedetti contro poveri-maledetti e devoti-benedetti contro lontani-maledetti viene annullata, peggio ribaltata. La maledizione si sposta sui ricchi che non si ravvedono e sui devoti ipocriti. Gesù parla di un Dio che non viene per assegnare premi ma per riscattare proprio quelli che l’istituzione politica e quella religiosa disprezzano. È un Dio che ragiona al contrario, che sconfessa le condanne dell’uomo, che libera gli oppressi e cerca i lontani. Gesù parla di un Dio che rompe steccati, apre porte, scavalca muri. Gesù testimonia un Dio diverso da quello sedimentato nei racconti e nelle aspettative istituzionali, un Dio che, in definitiva, può essere accolto solo da chi rinasce dall’alto, da acqua e da Spirito (1). Gesù annuncia che la prassi di Dio smentisce le teologie elaborate sul suo conto e che si richiede disponibilità nella sequela e un linguaggio nuovo. Siamo di fronte ad un Dio inedito e inaudito. La risposta dei nazareni è la stessa dell’uomo di oggi: espulsione e (quando possibile) morte.

(1) Cfr. Vangelo di Giovanni 3, 1-21

vangelo di Luca 4, 14-30

«Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e tutti ne facevano grandi lodi. Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore. Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”. Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: “Non è il figlio di Giuseppe?”. Ma egli rispose: “Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria!”. Poi aggiunse: “Nessun profeta è bene accetto in patria. Vi dico anche: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro”. All’udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò».

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i poveri non sono bambini, né ‘de-menti’ né colpevoli della loro situazione

i costi del vangelo

 

“Sulla via maestra del conformismo non si casca mai, mentre sul filo teso dello sporgersi verso i lontani l’equilibrio è un’arte che tutta la vita non ci basterà per apprendere bene”

(Don Lorenzo Milani)

stare dalla parte dei poveri è difficile

starci veramente intendo.

Se vuoi aiutarli senza colpevolizzarli per la loro situazione, ma difendendoli in quanto vittime di un Sistema profondamente ingiusto, subisci il peso dell’incomprensione di chi dice che hanno sbagliato, dunque sono solo delinquenti, ubriaconi, parassiti, depravati.

Ma ora siamo stanchi di questo peso: la colpa è nostra, della nostra indifferenza, della nostra profonda separazione tra valore della giustizia proclamato a parole e giustizia da vivere fino in fondo, smentita dai fatti.

Se vuoi aiutarli senza aver organizzato nessun progetto, con nessuna istituzione, ma semplicemente stando in relazione con loro per dirgli che esistono, subisci il peso dell’incomprensione di chi dice che quello che fai è totalmente inutile.

Ma ora siamo stanchi di questo peso: i poveri non devono essere trattati come utenti di un servizio. Non sono numeri, ma nomi. La freddezza dell’assistenzialismo non restituirà mai loro l’umanità che gli è stata violentemente strappata.

Se vuoi aiutarli senza imporre loro delle regole, ma dando spazio alle loro esigenze, subisci il peso dell’incomprensione di chi dice che vanno responsabilizzati, altrimenti non cambieranno mai la loro situazione.

Ma ora siamo stanchi di questo peso: le regole non responsabilizzano. Non l’hanno mai fatto. La gratuità sì. Sapere di poter accedere serenamente a ciò di cui hanno bisogno e non solo a ciò che è loro concesso responsabilizza. Inoltre va detto anche che non c’è niente da responsabilizzare: i poveri non sono bambini, né de-menti. Se li vediamo chiedere sempre qualcosa in più rispetto a quanto possiamo dare loro è perché nessuno è mai stato realmente solidale.

Se vuoi aiutarli senza stare dall’altra parte di un vetro, ma sedendoti sulla strada con loro, subisci il peso dell’incomprensione di chi dice che i poveri devono diventare come te (borghesi) e non tu come loro (figli prediletti di Dio).

Ma ora siamo stanchi di questo peso: siamo noi a doverci convertire, a dover smettere di giocare al borghese con l’hobby della solidarietà perché così non avremo vissuto il Vangelo, ma anzi, avremo aderito perfettamente alle logiche mondane. Gesù era sempre pieno di polvere e sedeva a tavola con i peccatori, non ha salvato l’umanità facendo lo scriba.

Se vuoi aiutarli senza contribuire all’ingiustizia di questo Sistema che li opprime, ma condividendo quel poco che (non) hai, subisci il peso dell’incomprensione di chi dice che guadagnando soldi l’aiuto è maggiore.

Ma ora siamo stanchi di questo peso: la povertà non si sconfigge calando dall’alto la nostra ricca bisaccia piena di denaro corrotto, ingiusto, non dignitoso, che ci ha messo in ginocchio davanti al (miserabile) padrone di turno. Piccola radicalità è sempre da preferire a larga ipocrisia. Meglio condividere pochi ridicoli spiccioli, che dare loro il prezzo pagato al Sistema affinché continuasse ad opprimerli per garantire la nostra opulenza.

Signore, aiutaci a non soccombere sotto questo peso. E’ veramente faticoso sopportarlo. Sappiamo che è lo stesso peso che hai portato tu, e ci hai promesso che il tuo invece è leggero, e che il tuo giogo è dolce*. E’ vero. E’ dolce e leggero: non certo perché il mondo ci comprende, ma perché nonostante ci facciano passare per falliti, incompetenti, strani, eccessivi, perdenti – per non dire di peggio – sentiamo nel profondo della nostra anima di essere sempre più aderenti a te, alla Buona Notizia che sei venuto ad annunciare ai nostri fratelli poveri. Mentre le assillanti voci del mondo ci sbraitano in faccia la nostra inettitudine, la sottile voce della nostra coscienza ci conferma di essere sulla strada giusta e ci dice si stare tranquilli, perché il Padre che vede nel segreto ci ricompenserà.  Non sappiamo quando, forse non in questa vita – neanche tu Signore sei stato ricompensato qui – ma ci basta credere che un giorno saremo consolati e pienamente accolti, insieme a tutti gli scartati di questo mondo.

*Vangelo Matteo 11,30

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il vangelo chiede più coerenza …

 

schizofrenia

«Se fosse più evangelicamente ‘radicale’, probabilmente la chiesa non avrebbe alcun bisogno di essere tanto ‘rigorosa’ sul piano della legge»

(JB Metz)

 

Ascolto il Vangelo, mi dice “Beati i poveri”(1), ma intorno a me vedo lusso, chiese immense, oro, paramenti pregiati.

Ascolto il Vangelo, mi dice “Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri”(2), ma intorno a me vedo accumulo di ricchezze e ricerca di finanziamenti per continuare a sostenere un certo tenore di vita.

Ascolto il Vangelo, mi dice “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”(3), ma intorno a me vedo indifferenza anche verso i senzanome sulla porta della chiesa.

Ascolto il Vangelo, mi dice “Misericordia io voglio e non sacrificio”(4), ma intorno a me sento la pesantezza di tante regole imposte dall’alto che frustrano la mia umanità ma mi illudono di guadagnarmi il paradiso.

Ascolto il Vangelo, mi dice “Quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi”(5), ma intorno a me vedo prevalere la ricerca di legami con persone socialmente rilevanti, che garantiscono prestigio e privilegi.

Ascolto il Vangelo, mi dice “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura”(6), ma intorno a me vedo solo molti convegni sull’evangelizzazione ma pochi cristiani che effettivamente escono dalla sacrestia.

Ascolto il Vangelo, mi dice “Voi non siete del mondo”(7), ma intorno a me vedo il triste tentativo di uniformarsi alle logiche di questo Sistema, scimmiottandolo nella speranza di ricevere qualcosa in cambio.

(1) Mt 5,3

(2) Mc 10,21

(3) Mt 25,40

(4) Mt 12,7

(5) Lc 14,13

(6) Mc 16,15

(7) Gv 15,19

da ‘altranarrazione’

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il commento al vangelo della domenica

 

 


📖 il dono di tutta la vita di Gesù 
3 giugno 2018 
Santissimo Corpo e Sangue di Cristo 
Commento al Vangelo 
di ENZO BIANCHI 


Mc 14,12-16.22-26

12 In quel tempo il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». 13Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. 14Là dove entrerà, dite al padrone di casa: «Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?». 15Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». 16I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. 22E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». 23Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. 25In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». 26Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

Questa festa dell’Eucaristia, o del Corpo del Signore (Messale di Pio V), o solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Messale di Paolo VI), come la solennità della Triunità di Dio celebrata domenica scorsa è tardiva. Infatti, è stata istituita nel XIII secolo, e nel secolo seguente ha faticato a imporsi in occidente, restando invece sempre sconosciuta nella tradizione ortodossa. L’intenzione della chiesa è quella di proporre, fuori del santissimo triduo pasquale, la contemplazione, l’adorazione e la celebrazione del mistero eucaristico del quale viene fatto memoria il giovedì santo, in coena Domini. Quanto al brano evangelico scelto, il messale italiano in questa annata B propone la lettura del racconto dell’ultima cena nel vangelo secondo Marco, che ora cerchiamo di accogliere come parola del Signore.

Prima del suo arresto e della sua morte in croce, Gesù ha voluto celebrare la Pasqua con i suoi discepoli, e proprio per questo durante il suo ultimo soggiorno a Gerusalemme, nel primo giorno della festa dei pani azzimi, invia due suoi discepoli affinché preparino l’occorrente per la cena pasquale. Gesù sa di essere braccato, di non potersi fidare neppure di tutti i suoi discepoli, perché uno l’ha ormai tradito (cf. Mc 14,10-11), dunque predispone ogni cosa perché quella cena pasquale possa avvenire, ma agisce con molta circospezione, come se non volesse che si sappia dove la celebrerà.

Per questo i due discepoli da lui inviati devono incontrare un uomo che porta una brocca d’acqua (cosa insolita, perché erano le donne a svolgere tale operazione, ma questo è il segno convenuto), devono seguirlo fino a una casa, dove costui indicherà loro la “camera alta”, la sala al piano superiore già arredata e pronta, in cui predisporre tutto per la cena pasquale. Occorre infatti preparare il pane, il vino, l’agnello, le erbe amare, per ricordare in un pasto – come prevedeva la Legge (cf. Es 12) – l’uscita di Israele dall’Egitto, la liberazione dalla schiavitù, la nascita del popolo appartenente al Signore. E così, in obbedienza all’ordine dato da Gesù con autorità e gravità ai due discepoli inviati, tutto è preparato per quella celebrazione pasquale, per quell’ora solenne, per quell’ora ultima di Gesù con i suoi discepoli, per quell’ora nella quale la Pasqua dell’agnello diventerà la Pasqua di Gesù.

E quando Gesù siede a tavola per la cena, compie dei gesti e dice alcune parole sul pane e sul vino, dando origine alla celebrazione della nuova alleanza con la sua comunità. Di questa scena abbiamo quattro racconti, tre nei vangeli sinottici (cf. Mc 14,22-25; Mt 26,26-29; Lc 22,18-20) e uno, il più antico, nella Prima lettera ai Corinzi (cf. 1Cor 11,23-25): racconti che riportano parole tra loro un po’ diverse, a testimonianza di come non si tratti di formule magiche da ripetersi tali e quali, ma di parole che manifestano l’intenzione di Gesù e spiegano i suoi gesti. Le prime comunità cristiane, dunque, volendo restare fedeli all’intenzione di Gesù, hanno ridetto le sue parole, hanno ripreso i suoi gesti, e da allora la cena del Signore è sempre e dovunque celebrata nelle chiese.

Innanzitutto Gesù compie un’azione rituale: prende il pane azzimo che è sulla tavola del seder pasquale, pronuncia la benedizione a Dio per quel dono, quindi lo spezza e lo porge ai discepoli. Prendere il pane, spezzarlo e darlo è un gesto quotidiano fatto da chi presiede la tavola, ma Gesù lo compie con un’intensità e con una forza che lo rendono carico di significato, ne fanno un gesto che si imprime nella mente e nel cuore dei commensali di quella cena pasquale. Gesù assume l’atteggiamento e la parola della Sapienza di Dio che parla e invita al banchetto (cf. Pr 9,1-6), fa sue le parole del profeta che chiama al pasto dell’alleanza eterna (cf. Is 55,1-3), e offre come cibo la sua vita, il suo corpo, se stesso! Vi è in questo gesto e in queste parole di Gesù il suo donarsi fino all’estremo, perché egli ha amato e ama fino al dono della sua vita (cf. Gv 13,1). Di fronte a questa azione i discepoli furono certamente scossi e solo dopo la morte e resurrezione di Gesù compresero ciò che non avevano potuto dimenticare.

Non si dimentichi inoltre che il gesto dello spezzare il pane già nei profeti indicava il condividere il pane con i poveri, i bisognosi e gli affamati (cf. Is 58,7), esprimendo in tal modo una condivisione di ciò che fa vivere, che manifesta la comunione tra tutti quelli che mangiano lo stesso pane. Ecco perché il primo nome dato all’Eucaristia dai discepoli e dai cristiani delle origini è “frazione del pane” (cf. Lc 24,35; At 2,42; 20,7; Didaché 9,3). Quanto alle parole che accompagnano il gesto – “Prendete, questo è il mio corpo” –, esse vogliono significare che Gesù consegna e dona la sua intera vita ai discepoli i quali, mangiando quel pane, si fanno partecipi della sua vita spesa e consegnata per amore, “fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). In questo modo Gesù spiega in anticipo e in piena libertà, con gesti e parole, ciò che accadrà di lì a poco: la sua morte dovrà essere percepita come dono della sua vita agli uomini, vita offerta in sacrificio a Dio.

Poi Gesù prende anche il calice tra le sue mani, rende grazie a Dio per il frutto della vite e con solennità dichiara: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, che è sparso per le moltitudini”. Come ha dato il suo corpo porgendo il pane, così dà il suo sangue porgendo il calice del vino da bere ai discepoli; ovvero, Gesù dona la sua vita, significata nella cultura semitica dal sangue. L’evangelista sottolinea che a questo calice “bevvero tutti”, perché il dono di Gesù è per tutti, nessuno escluso. C’è un contrasto tra questo “tutti”, che indica tutti i discepoli, e le parole dette in precedenza: “Uno di voi mi tradirà” (Mc 14,18). Ma ciò mette ancor più in risalto il fatto che tutti sono associati al bere al calice offerto, anche Giuda il traditore. A tutti, nessuno escluso, Gesù offre la sua vita e il suo amore gratuito, che non deve mai essere meritato.
Ma qui si deve cogliere anche il compimento a cui Gesù vuole portare le parole che sigillavano l’alleanza tra Dio e Israele al monte Sinai, quando, con il sangue delle vittime del sacrificio Mosè asperse l’altare, trono di Dio, e il popolo riunito in assemblea, dicendo: “Questo è il sangue dell’alleanza” (cf. Es 24,6-8). Al Sinai, in quella celebrazione dell’alleanza, il sangue, la vita univa Dio e il suo popolo in un patto di appartenenza reciproca, in una comunione fedele nella quale Dio si mostrava come “il Signore misericordioso e compassionevole, lento all’ira, grande nell’amore e nella fedeltà” (Es 34,6). Ma l’alleanza che Gesù stipula con il dono della sua vita non è più ristretta al popolo di Israele, bensì è un’alleanza universale, aperta a tutte le genti, un’alleanza nel suo sangue sparso “per le moltitudini” (rabbim, polloí: cf. Is 53,11-12): non “per molti” dunque, ma “per tutti” (cf. Concilio Vaticano II, Ad gentes 3).

L’Apostolo Paolo, proprio per affermare questa destinazione universale del dono del sangue di Cristo, scrive nella Lettera ai Romani: “La prova che Dio ci ama tutti è che il Cristo è morto per noi, mentre noi eravamo peccatori” (cf. Rm 5,7-8). È morto per tutti, anche per Giuda, come per tutti noi che siamo nella malvagità e nell’inimicizia con Dio. Qui dovremmo cogliere come il dono dell’Eucaristia non è un premio, un privilegio per i giusti, ma un farmaco per i malati, un viatico per i peccatori. L’Eucaristia altro non è che narrazione in parole e gesti dell’amore di Dio, è la sintesi di tutta la vita del Figlio Gesù Cristo, la sintesi di tutta la storia di salvezza.

Ricordiamo infine che quell’anticipazione della morte di Gesù, nel rito del ringraziamento sul pane spezzato e nel rito del calice condiviso, è un’anticipazione anche del Regno che viene, dove la morte sarà vinta per sempre. Per questo Gesù dice: “Amen, io vi dico che non berrò più del frutto della vite, fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio”. Il pasto eucaristico prelude dunque al banchetto del Regno, dove Gesù, il Kýrios risorto, mangerà con noi e berrà con noi il calice della vita futura, al banchetto nuziale, dove il vino sarà nuovo, cioè altro, ultimo e definitivo, vino della stessa vita divina, la sua vita che è agápe, amore: e noi berremo quel vino nuovo vivendo in lui e con lui per sempre.

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