l’invisibilità e la demoralizzante lentezza della realizzazione del regno di Dio

sonniferi

«La sofferenza storica è una sofferenza radicalmente ingiusta. Questa sofferenza non è naturale -malattia,  terremoti, carestie-, ma è storica – causata dall’umanità»

R. Chopp

Molte volte sembra che abbiano ragione quelli che dicono che Tu non esisti e che sei semplicemente una proiezione dell’uomo*. Il dilagare del male si presenta come una prova inconfutabile insieme ai trascurabili risultati ottenuti da quelli che lottano per la tua istanza principale: il ripristino della giustizia nei confronti dei diseredati. Appaiono abbandonati a se stessi, insieme a quelli che vorrebbero sostenere, impelagati in una lotta personale che non gode di alcuna assistenza dall’alto. Perlomeno visibile. Alla fine schierarsi con i poveri sembra portare esclusivamente a subire la medesima sorte non a modificarla. Eppure la mancanza di solidarietà, e di semplice comprensione nei confronti del dolore altrui, giustificata con le esigenze dell’affermazione personale, deforma la nostra umanità aprendo spazi sempre più ampi all’insoddisfazione e all’infelicità. L’oppressione sembra imbattibile, almeno su questa terra, nel tempo storico. Il rinvio della riparazione e del riscatto nell’altra vita non appare convincente anche in virtù delle promesse per l’immediato contenute nella Sacra Scrittura. Ma chi accantona i valori del Vangelo seguendo le indicazioni dettate dalle logiche di morte del mondo ottiene risultati e riesce a conservare il consenso. Sono piccole voci quelle contrarie, spesso solitarie e facilmente accusate di follia. Rimbalzano sull’impenetrabile muro di gomma del pensiero della maggioranza convintamente a servizio dell’Impero. E non producono effetti, nemmeno collaterali, rispetto ai principali sonniferi e allucinogeni sociali (intrattenimento, informazione di regime, sport) a cui la popolazione ha agevolmente accesso.

* “Dicono: «Il Signore non vede, il Dio di Giacobbe non se ne cura»” (Salmo 94,7)

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gli zingari un popolo perseguitato

storia di un popolo

gli zingari, perseguitati da cinquecento anni in tutta Europa


Alessandro Marzo Magno
fuggiti dagli ottomani, si diffondono in tutto il continente suscitando simpatie 
poi vengono accusati di furti e rapine e cacciati da ogni governo

Una bambina gioca tra i rifiuti in un campo rom a Giugliano (Napoli), nella Terra dei Fuochi

una bambina gioca tra i rifiuti in un campo rom a Giugliano (Napoli), nella Terra dei Fuochi

Il primo a volerli cacciare è stato Ludovico il Moro: nel 1473 stabilisce che gli zingari vengano allontanati dal territorio del ducato di Milano, pena la morte. Da lì comincia una lunga serie di editti – “grida”, come ci ha insegnato Alessandro Manzoni – contro i gitani che termineranno soltanto ai tempi di Maria Teresa. Anche con lei, però, non avranno piena cittadinanza, semplicemente si passerà dalla persecuzione all’assimilazione.
Un po’ in tutta Italia, e pure nel resto d’Europa, dal Cinquecento in poi gli zingari diventano oggetto di bandi e persecuzioni, ma da nessuna parte accade con tanta ossessività come a Milano. Con gli spagnoli si arriverà a una sessantina di grida sul tema. Il che, in un paio di secoli, fa una media di una legge ogni poco più di tre anni, con un crescendo di pene talmente esagerato da rivelarne l’assoluta inefficacia.
E pensare che all’inizio gli zingari vengono accolti con simpatia: sono costretti a lasciare i Balcani dopo le conquiste ottomane del XV secolo e sciamano un po’ in tutta Europa. Quando già a Milano li si perseguitava, a Venezia attorno al 1505 Giorgione dipinge un quadro, La Tempesta, destinato a cambiare la storia dell’arte: è il primo dove il paesaggio diventa protagonista. Viene descritto come “paesetto in tela cum la tempesta, cum la cingana et sodato” e se una zingara aveva un tale posto di prestigio all’interno dell’opera di uno degli artisti più celebri dell’epoca, significa che non era ancora stata colpita dalla riprovazione sociale. Mancava poco. «È finito quel brevissimo lasso di tempo in cui lo zingaro, esotico e misterioso, incuriosiva la gente e commuoveva con la sua triste storia di pellegrino: inizia ora la caccia allo zingaro ladro, pigro e imbroglione», scrive Giorgio Viaggio nel suo Storia degli zingari in Italia.
La Serenissima non vede l’ora di prendere gli zingari e incatenarli ai remi delle proprie galee. Il decreto papale del 1557 stabilisce che «gli zingari debbino uscire di Roma e suo territorio» e concede tre giorni di tempo, pena la galera per gli uomini e la frusta per le donne. Nel 1570 a Cremona un gruppo di ventidue zingari viene assalito dalla popolazione cittadina che ne brucia la casa provocando la morte degli occupanti. Nel 1572 trecento zingari nella provincia di Parma vengono attaccati e sterminati dai soldati del duca, accompagnati da una folla inferocita.
A Milano dopo la fine della dinastia Sforza (1498) i francesi ribadiscono le norme anti gitani che vengono riprese e rafforzate dagli spagnoli. Col duca di Terra Nova (1568) e Carlo d’Aragona (1587) inizia la repressione vera e propria, con la condanna a cinque anni di remo per gli uomini e alla «pubblica frusta» per le donne; nel decreto del 1587 si parla di «cingheri, gente pessima, infame, data solo alle rapine, ai furti e ogni sorte di mali». Una grida del 1605 comanda invece che «niuna persona, ancora privilegiata o feudataria, ardisca alloggiare, dare ricetto, aiuto o favorire in alcun modo a detti cingari».

Nel 1624 in una legge contro le delinquenza comune gli zingari vengono definiti i più pericolosi tra i malfattori e si dichiara lecito derubarli delle loro cose, senza tener conto di permessi e licenze da essi posseduti (spesso avevano autorizzazioni all’accattonaggio e al girovagare emesse in Germania). Inoltre si intima il divieto di frequentarli. Evidentemente le autorità del ducato di Milano non riescono a fare nulla di concreto contro i nomadi, visto che autorizzano la giustizia fai da te: nel 1657 si concede alle popolazioni di riunirsi al suono della campane a martello «e perseguitare detti cingari prenderli e consignarli prigioni».
Non si riesce a farli star buoni? E allora che non entrino nemmeno: il 15 marzo 1663 una nuova grida vieta l’accesso agli zingari nel ducato, pena sette anni di galera agli uomini e alle donne di essere pubblicamente frustate e mutilate di un orecchio (la pena della galera non significa andare in prigione, ma diventare “forzati da remo” a bordo delle unità militari: Milano “affittava” vogatori forzati a Venezia). Trent’anni dopo, nell’agosto 1693, è prevista l’impiccagione immediata per gli zingari che fossero trovati nel territorio milanese. Di più: qualunque cittadino ha diritto di «ammazzarli impune» e poi di «levar loro ogni sorta di robbe, bestiami denari che gli trovasse», in regime di esenzione fiscale, «senza che s’habbia a interessare il regio fisco». Si ha diritto di ammazzare e di far bottino come se si fosse in guerra, ma il nemico, in questo caso, non sono i soldati stranieri, bensì gli zingari.

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ascoltare il grido dei poveri per non perdere la nostra umanità

i poveri gridano

chi li ascolterà?

In un tempo in cui ci si china maggiormente su di sé, in cui si avvita la spirale della globalizzazione dell’indifferenza, in cui cresce il fastidio per la povertà e per i poveri, papa Francesco non si stanca di mettere proprio gli scartati al centro della riflessione che propone alla Chiesa universale. C’è una caparbietà mite nel discorso bergogliano sulla necessità di una “Chiesa povera e per i poveri” che finora non è stata scalfita dallo spirito dei tempi e che testimonia la forza interiore del successore di Pietro.
Il pontefice ha appena pubblicato il testo del Messaggio per la II Giornata Mondiale dei Poveri, che si celebrerà domenica 18 novembre 2018, e che avrà per tema “Questo povero grida e il Signore lo ascolta”. Sì, in una stagione in cui quel grido sembra più inascoltato che in passato, esso continua comunque ad ispirare la Chiesa, a suscitare la risposta dei credenti. 
Francesco parte da un verso del salmo 34: “Questo povero grida e il Signore lo ascolta”, e ne sottolinea i tre verbi che lo strutturano. Anzitutto: “Gridare. […] Possiamo chiederci: come mai questo grido, che sale fino al cospetto di Dio, non riesce ad arrivare alle nostre orecchie e ci lascia indifferenti e impassibili?”. E poi: “Rispondere. […] La risposta di Dio è anche un appello affinché chiunque crede in Lui possa fare altrettanto nei limiti dell’umano. La Giornata Mondiale dei Poveri intende essere una piccola risposta che dalla Chiesa intera, sparsa per tutto il mondo, si rivolge ai poveri di ogni tipo e di ogni terra perché non pensino che il loro grido sia caduto nel vuoto. Probabilmente, è come una goccia d’acqua nel deserto della povertà; e tuttavia può essere un segno di condivisione per quanti sono nel bisogno”. E infine: “Liberare”. […] Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società […]. Quanti poveri sono oggi al bordo della strada e cercano un senso alla loro condizione! Quanti si interrogano sul perché sono arrivati in fondo a questo abisso e su come ne possono uscire!”.
E qui il pontefice si interroga sul vento che spira sul nostro mondo: “Purtroppo si verifica spesso che, al contrario, le voci che si sentono sono quelle del rimprovero e dell’invito a tacere e a subire. Sono voci stonate, spesso determinate da una fobia per i poveri, considerati non solo come persone indigenti, ma anche come gente portatrice di insicurezza, instabilità, disorientamento dalle abitudini quotidiane e, pertanto, da respingere e tenere lontani. Si tende a creare distanza tra sé e loro e non ci si rende conto che in questo modo ci si rende distanti dal Signore Gesù”. Bergoglio vorrebbe che “questa Giornata fosse celebrata all’insegna della gioia per la ritrovata capacità di stare insieme. Pregare insieme in comunità e condividere il pasto nel giorno della domenica. Un’esperienza che ci riporta alla prima comunità cristiana”.
Non ci sono frontiere se si guarda a chi ha bisogno. Nemmeno tra credenti e non credenti: “Spesso la collaborazione con altre realtà, che sono mosse non dalla fede ma dalla solidarietà umana, riesce a portare un aiuto che da soli non potremmo realizzare”. Tutti insieme, singoli e comunità, possono scoprire un orizzonte nuovo, in cui l’incontro con i poveri, lungi dall’essere una sventura, si rivela invece per quello che è, un’“opportunità di grazia”. 
Francesco De Palma
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