mondo ingiusto in mano a pochi straricchi

 

otto ricconi possiedono mezzo mondo

di Antonio Sciotto
in “il manifesto” del 117 gennaio 2017

viviamo in un mondo dove crescono impetuosamente le disuguaglianze, dove si fa sempre più ampia la faglia tra i pochi che hanno e i tantissimi depredati. Il mondo del turbocapitalismo non è solo un mondo sempre più ingiusto, squilibrato. È anche un mondo sempre più ingovernabile

 

le disuguaglianze anche in Italia sono feroci, e la sproporzione non si nota solo rispetto ai più poveri, ma anche rispetto al ceto medio. Il patrimonio dell’1% più ricco degli italiani (in possesso oggi del 25% della ricchezza nazionale netta) è oltre 30 volte quello del 30% più povero dei nostri connazionali e 415 volte quello detenuto dal 20% più povero

Otto super miliardari detengono la stessa ricchezza netta (426 miliardi di dollari) di metà della popolazione più povera del mondo, vale a dire 3,6 miliardi di persone. Il dato, tragico, viene dall’ultimo rapporto dell’Oxfam – «Un’economia per il 99%» – diffuso alla vigilia del Forum economico mondiale di Davos. La forbice tra ricchi e poveri aumenta ogni anno anziché venire corretta al ribasso, e il fenomeno è sempre più preoccupante visto che una grossa fetta della popolazione mondiale (circa un decimo) soffre la fame ed è costretta a sopravvivere con meno di 2 dollari al giorno. Ma dall’altro lato ci sono gli stra-ricchi, gli sfacciatamente ricchi, e nei prossimi 25 anni potremo sperimentare il brivido di conoscere addirittura un trillionaire («trilionario»): possiederà cioè più di 1000 miliardi di dollari (oggi i primi otto paperoni sono tutti sotto i 100 miliardi). Per avere un’idea del significato – spiega Oxfam – bisogna pensare che per consumare un trilione di dollari è necessario spendere 1 milione di dollari al giorno per 2.738 anni.
Le identità degli uomini più ricchi del mondo (tutti e otto maschi, tra l’altro) sono ovviamente già note: guida la classifica Bill Gates, fondatore di Microsoft, con 75 miliardi di dollari di patrimonio personale. Al secondo posto troviamo lo spagnolo Amancio Ortega, fondatore e proprietario della catena Zara (67 miliardi). Seguono il finanziere Usa Warren Buffett (60,8 miliardi), Carlos Slim (industriale messicano delle telecomunicazioni) con 50 miliardi, Jeff Bezos (fondatore di Amazon) con 45,2 miliardi, Mark Zuckerberg di Facebook con 44,6 miliardi. In fondo alla graduatoria (in fondo si fa per dire) troviamo Larry Ellison (Oracle) con 43,6 miliardi e Michael Bloomberg (magnate dei media) con 40 miliardi di dollari.
E in Italia?  Non sfiguriamo di certo in quanto ad ampiezza della forbice tra ricchi e poveri: nel 2016 il patrimonio dei primi sette dei 151 miliardari italiani della lista Forbes equivaleva alla ricchezza netta detenuta dal 30% più povero della popolazione (ovvero 80 miliardi di euro). In sette hanno cioè una ricchezza equivalente a quella in mano ai 20 milioni di italiani più poveri. I sette nomi di nostri concittadini che leggiamo nella lista della rivista Forbes sono: Rosa Anna Magno Garavoglia (recentemente scomparsa) del gruppo Campari; lo stilista Giorgio Armani; Gianfelice Rocca; Silvio Berlusconi; Giuseppe De Longhi; Augusto e Giorgio Perfetti. Una situazione che, come abbiamo già detto, non è stazionaria, né in miglioramento, ma che al contrario si aggrava ogni anno: sette persone su dieci, infatti, vivono in paesi dove la disuguaglianza è cresciuta negli ultimi 30 anni. Tra il 1988 e il 2011 il reddito medio del 10% più povero è aumentato di 65 dollari, meno di 3 dollari l’anno, mentre quello dell’1% più ricco di 11.800 dollari, vale a dire 182 volte tanto. Le disuguaglianze anche in Italia sono feroci, e la sproporzione non si nota solo rispetto ai più poveri, ma anche rispetto al ceto medio. Il patrimonio dell’1% più ricco degli italiani (in possesso oggi del 25% della ricchezza nazionale netta) è oltre 30 volte quello del 30% più povero dei nostri connazionali e 415 volte quello detenuto dal 20% più povero. Nel 2016 la distribuzione della ricchezza nazionale netta (il cui ammontare complessivo si è attestato, in valori nominali, a 9.973 miliardi di dollari) vedeva il 20% più ricco degli italiani detenere poco più del 69% della ricchezza nazionale, il successivo 20% (quarto quintile) controllare il 17,6% della ricchezza, lasciando al 60% più povero dei nostri concittadini appena il 13,3% di ricchezza nazionale. Il top-10% della popolazione italiana possiede oggi oltre 7 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione.
Ma come fanno le multinazionali – e i loro proprietari e dirigenti – ad arricchirsi, allargando peraltro la forbice con i cittadini più poveri? La ricetta, spiega Oxfam, è un mix di elusione fiscale, riduzione dei salari dei lavoratori e dei prezzi pagati ai produttori: il tutto, condito con la finanziarizzazione, disinvestendo nell’industria. L’organizzazione ha raccolto testimonianze di donne impiegate in fabbriche di abbigliamento che lavorano 12 ore al giorno per 6 giorni a settimana e lottano per vivere con una paga di 1 dollaro l’ora. Producono abiti per alcune delle più grandi marche della moda, i cui amministratori delegati sono tra i più pagati al mondo.
E non èmun caso se spesso le fasce di reddito più deboli le troviamo affollate di donne: la disuguaglianza colpisce soprattutto loro, e secondo l’Oxfam di questo passo ci vorranno 170 anni perché una donna raggiunga gli stessi livelli retributivi di un uomo. «Rabbia e scontento per una così grande disuguaglianza fanno già registrare contraccolpi – conclude l’organizzazione non governativa – Da più parti analisti e commentatori rilevano che una delle cause della vittoria di Trump negli Usa, o della Brexit, sia proprio il crescente divario tra ricchi e poveri».
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dieci anni fa moriva l’abbé Pierre

dieci anni dopo, che cosa resta della lotta dell’abbé Pierre?

di René Poujol
in “www.renepoujol.fr” del 19 gennaio 2017

A coloro che sono desolati per il fatto che la voce dell’abbé Pierre si sia spenta con lui, io dico: ascoltate papa Francesco!

Certo che la sua voce ci manca! La voce di un “imprecatore”, solo indebolita verso la fine della vita, per la vecchiaia e la malattia. Ingiungeva ai potenti di “servire per primo il più sofferente” e a ciascuno di noi di “non rassegnarci mai ad essere felici senza gli altri”. Il 22 gennaio 2007, l’abbé Pierre ci lasciava per delle “lunghe vacanze” a cui aspirava fin dalla più tenera infanzia. Sono già passati dieci anni! Il fatto che sia caduta nell’oblio la memoria di colui che fu, per anni, la personalità preferita dai francesi, non ha nulla di sorprendente e di scandaloso in sé. Il che non dispensa dal porsi la domanda: dieci anni dopo, che cosa resta dell’abbé Pierre?

Emmaüs, innanzitutto. E ciò che questo movimento, volutamente non confessionale, ha di profetico. Perché le comunità di Emmaüs sono state precursori dell’economia equa e solidale. I “compagnons” dell’abbé Pierre sono quegli uomini tentati di percepirsi, con un effetto specchio, come i rifiuti della società, e che fondano la loro dignità sul lavoro, più precisamente sul riciclaggio degli scarti della società dei consumi. Un modo di denunciare lo scandalo, e al contempo di mettere a disposizione dei più poveri dei beni che non avrebbero potuto permettersi. Con quella suprema provocazione di prendere dal loro salario ciò che serve a sostenere, solidalmente, i più sfortunati di loro!
È una comunità che, in una società liberale in cui quotidianamente viene ricordato a ciascuno che nessuno è insostituibile, afferma al contrario che nessuno è di troppo. Che ognuno è unico e ha diritto al proprio spazio. L’abbé Pierre voleva che le comunità avessero sempre un letto libero. In modo da poter dire a chiunque si presentasse: “Entra, ti aspettavamo”.
In una società del dopoguerra ancora fortemente caratterizzata dal cristianesimo – per quanto secolarizzato – e da una forma di assistentato caritatevole, l’abbé Pierre fa dei poveri, a cui dà la parola tramite la sua voce, i protagonisti della propria emancipazione. Un modo per smentire Roland Barthes che scriveva, nel 1957, in Mithologies (Seuil): “Arrivo a chiedermi se la bella e toccante iconografia dell’abbé Pierre non sia l’alibi che buona parte della nazione fa propria per sostituire impunemente i segni della carità alla realtà della giustizia”.
Si devono alla sua lotta, l’indomani della “insurrezione della bontà” dell’inverno 1954, le prime leggi che proibiscono l’espulsione dei locatari in inverno… Ne seguiranno altre, frutto della sua instancabile lotta: la legge Besson sull’edilizia popolare, la legge Solidarietà e rinnovamento urbano (SRU), poi la legge sul Diritto ad un alloggio dignitoso (DALO) votata poche settimane dopo la sua morte.
E, naturalmente, rafforzata dal carisma di padre Joseph Wresinski, la trasformazione definitiva da movimento caritativo esplicitamente o implicitamente cattolico in una lotta solidale “con i poveri”, oggi diventata la linea di condotta adottata da molti. Pensiamo alla Fondation abbé Pierre pour la Logement, a ATD Quart Monde, al Secours catholique o a CCFD…in cui militano, senza complessi, molti cristiani… Cosa che non li dispensa dall’avere quel “di più di anima” che consiste nel vivere la lotta per la giustizia con carità. Come invita a fare l’apostolo Paolo: “Anche se distribuissi tutti i miei beni ai poveri…. se non avessi l’amore,  non mi servirebbe a nulla”.


L’abbé Pierre, in un dolce eufemismo, dichiarava di sollevare un “entusiasmo ineguale” tra i vescovi francesi che lo consideravano “incontrollabile”. E a giusto titolo! Le sue lettere ai papi successivi, di cui la stampa si faceva eco con grande piacere, avevano il dono di irritare un ambiente ecclesiastico abituato a maggiore deferenza. Una delle ultime è datata 19 giugno 1995, indirizzata a papa Giovanni Paolo II. Il fondatore di Emmaüs gli chiedeva nientemeno di applicare a se stesso – e la richiesta vale per i suoi successori – di dare le dimissioni a 75 anni. Chiedeva maggiore trasparenza nelle finanze del Vaticano, meno spese eccessive in viaggi pontifici che non permettono al capo della Chiesa cattolica di incontrare davvero il popolo, meno ossessione sulle questioni di morale sessuale, maggiore apertura sull’ordinazione di uomini sposati o sull’accesso ai sacramenti per i divorziati risposati. Dieci anni dopo la sua morte, l’evoluzione recente dell’istituzione cattolica sembra dargli ragione.
Adesso possiamo chiederci chi incarna oggi la voce dell’abbé Pierre, cioè quella dei profeti che, in nome di Dio, non fanno che unirsi alla semplice saggezza umana di un imperatore Adriano a cui Marguerite Yourcenar fa dire: “Tutti i popoli sono periti fino ad ora per mancanza di generosità…”.
È indecoroso affermare che quella voce è ormai quella di papa Francesco? Come non vedere vicine le due sensibilità spirituali maturate nell’ascolto del Poverello d’Assisi che fa loro desiderare “Una Chiesa povera per i poveri”? Come non percepire la vicinanza nel pensiero e nell’azione tra il fondatore di Emmaüs e l’autore di Evangelii Gaudium o di Laudato si’? Come non fare il parallelo tra la scelta di papa Francesco di stabilirsi in un modesto appartamento a Santa Marta, e la scelta dell’abbé Pierre di arredare il suo alloggio (da Neuilly-Plaisance a Charenton-le-Pont, Esteville, Saint-Wandrille, Alfortville) in “stile Luigi cassa”?
Appello alla sobrietà felice da parte di beati della sobrietà!

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