la Dachau di oggi

Emergenza Migranti

Idomeni

dentro la Dachau dei vivi

 

12mila persone di cui il 40 percento bambini sono bloccati da oltre due mesi al confine tra la Grecia e la Macedonia, un viaggio nella più grave crisi umanitaria che l’Europa si sia trovata ad affrontare dalle guerre nei Balcani ad oggi

Brillano sotto il sole di fine aprile le migliaia di tende da campeggio, ormai frustrate dalla pioggia e dal vento dei mesi scorsi. I fili tirati tra un accampamento e l’altro, per cercare di asciugare i vestiti bagnati dall’ultimo temporale, creano una specie di gimkana, complicata e fittissima. “Hello my friend!”, è il ritornello gridato dai ragazzi che ti incrociano per i sentieri sterrati e dai bambini che ti prendono per mano e ti trascinano a giocare con loro.

Idomeni non è come te lo aspetti. A vederlo dall’alto, in una bella giornata, sembrerebbe una distesa di coriandoli su un prato verdissimo.

Quelli che fino a tre mesi fa erano campi arati come molti altri, a pochi passi dalla ferrovia e dal filo spinato che delinea il confine proibito con la Macedonia, sono stati trasformati dalla chiusura della frontiera, lo scorso 21 febbraio, nel campo profughi che il ministro degli interni greco ha definito la Dachau dei vivi.

12mila persone, di cui il 40% bambini, da oltre due mesi sono bloccate qui, costrette a dormire sotto la pioggia, il vento e il sole, già cocente, di aprile.

Altre migliaia di famiglie, si sono fermate nelle due stazioni di servizio vicino a Polycastro, il Paese di 12mila abitanti a venti minuti di macchina da Idomeni. Per la paura dei controlli infatti, molti autobus privati, lasciavano le persone all’entrata del Paese, dicendo che la frontiera si trovava dietro l’angolo, mentre in realtà è a 25 km di distanza. Oltre al campo di Idomeni, accampati sull’asfalto, vicino ai distributori di benzina, oggi ci sono circa altre 3500 persone, principalmente famiglie con bambini piccoli e persone malate.

 

Mappa Idomeni Web

le organizzazioni umanitarie presenti nel campo

«Questo era solo un punto di transito da cui passavano circa mille persone al giorno, dirette verso il nord Europa». Racconta Emmanuel Massart, coordinatore di Medici senza Frontiere (MSF), che qui a Idomeni è presente dallo scorso novembre. “Con la chiusura della frontiera, il numero è schizzato a 12mila in pochi giorni, fino ad arrivare ad un picco di 15mila, 2 settimane fa.” L’80% delle persone bloccate qui, provengono da Syria e Iraq.

Ma a Idomeni i numeri si rincorrono. Secondo l’UNHCR adesso le persone sono 10mila, secondo uno dei volontari, un po’ meno, Medici senza Frontiere però è convinto della propria cifra. Con uno staff di 200 persone e altri 90 operatori, a cui è stata appaltata la pulizia, MSF è la presenza umanitaria più importante sul campo. «Abbiamo 20 medici e 20 infermieri e due ambulatori, aperti 24 ore su 24. Uno dei due è dedicato solo alle donne, moltissime hanno bisogno di assistenza postnatale, molte altre invece hanno subito violenze durante il viaggio. Spesso succede che gli stupratori siano proprio i trafficanti», continua Massart, «dobbiamo fare un conteggio preciso per calcolare le risorse da impiegare, per questo siamo sicuri della nostra stima». 12mila persone.

Una marea di esseri umani, con appena 250 bagni chimici e 70 docce. «Abbiamo gestito le trattative con l’amministrazione locale e i proprietari terrieri, per prendere in affitto i campi e installare questi servizi», continua Massart. «Non tutti i contadini però hanno accettato di dare in affitto i propri campi. Questo è il motivo per cui non possiamo mettere altre toilet. Anche se molte persone hanno piantato la propria tenda su quei terreni, noi non abbiamo il permesso per mettere altre infrastrutture».

Sono passate appena 2 settimane da quando un gruppo di profughi aveva cercato di varcare il confine e la polizia macedone aveva risposto con lacrimogeni e pallottole di gomma. Un inferno, nell’inferno. La situazione è ancora considerata critica dal punto di vista della sicurezza: «La tensione è alta e le persone iniziano ad essere stanche di avere gli obiettivi puntati addosso». Dicono da Save the Children.

Eppure, nonostante la macchina fotografica appesa al collo, le persone ricambiano il mio saluto con un sorriso e molti si fermano a parlare, perché chiunque venga da fuori, forse può portare qualche notizia.

«Cosa si dice fuori? Qui non ci dicono niente», mi chiede Ibrahim, un uomo siriano sulla cinquantina, sedendosi su una brandina, all’ombra di un telo scuro appeso sopra un accampamento di cinque tende. La sua è la sistemazione più vicina al filo spinato che separa quest’ultimo appezzamento di terra greca dal confine macedone. Mi invita ad entrare nel suo piccolo accampamento e accomodarmi, dopo aver sgridato Ahmed il più piccolo dei suoi cinque figli, che voleva a tutti i costi prendere possesso della mia macchina fotografica. «Siamo qui da due mesi e due settimane». Mi racconta, calcando col tono della voce quel “due settimane”, perché qui ogni giorno che passa pesa di più. Uno dei suoi figli, di appena 17 anni, era riuscito a partire alcuni mesi prima del resto della famiglia e ora è in Germania. È là che tutti sono diretti. Abdul, il figlio più grande è stato colpito in testa da uno dei proiettili della polizia macedone, fortunatamente la ferita si sta rimarginando. «Non possiamo fare altro che aspettare». Continua Ibrahim. Come molte altre persone qui, è arrivato con la sua famiglia da Deir el-Zor, città sotto assedio dai miliziani dell’Isis dall’estate scorsa, l’ultimo massacro di civili appena lo scorso gennaio. «L’Isis ci ha preso tutto. La nostra casa non c’è più. Non abbiamo più niente». Mentre parliamo Mohammed, tira la maglia del padre e gli grida qualcosa: «Vuole un cane! Mi chiede se tu ne hai uno?». Gli rispondo che anche io vorrei un cane, ma vivo in un appartamento troppo piccolo e non saprei dove metterlo. Ibrahim traduce la mia risposta e Mohammed replica, nel modo più naturale del mondo, con qualcosa che deve essere davvero divertente, perchè suo padre scoppia a ridere: «Dice che invece noi sapremmo dove metterlo! Fuori dalla tenda…c’è un sacco di spazio!». Rimane in silenzio per un attimo e scuote la testa. «Se non avessi investito tutto nel viaggio per venire in Europa, tornerei in Syria. Sarebbe meglio che restare qui e non sapere niente».

Una frase che sento ripetere spesso nel campo, perché, nonostante le condizioni invivibili, il “non sapere”, è la mancanza più grave di tutte. Su questo tutti sono d’accordo.

 

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«L’UNHCR dovrebbe andare di tenda in tenda e spiegare a queste persone quali sono i propri diritti, quali sono le alternative e creare le condizioni per avere accesso ai procedimenti di richieste d’asilo», afferma Rose Lee, volontaria indipendente arrivata a Idomeni da un mese. «È vedere le vite di tutte queste persone sospese così. Spesso mi chiedono quando penso che riaprirà la frontiera, la cosa più straziante è non poter rispondere. La speranza è l’unica cosa che rimane a chi è qui, come faccio a dire che non aprirà più?». Dal canto suo l’UNHCR conferma di avere in programma un piano per la registrazione di massa, ma non ci sono ancora tempistiche precise e qui le tempistiche sono tutto. La pioggia e il fango presto lasceranno lo spazio al caldo insopportabile.

 

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Sulla carta chi si trova a Idomeni ha tre opzioni: tutti possono fare domanda per la richiesta di asilo in Grecia, chi ha già un parente all’estero, può fare richiesta per il ricongiungimento famigliare, mentre i siriani e gli iracheni possono invece richiedere la “relocation”, ovvero il trasferimento in un altro Paese dell’Unione Europea. Per iniziare queste procedure però è necessario prendere un appuntamento via Skype con l’ufficio di Salonicco per fissare un colloquio. «È un procedimento online. Chiunque lo può fare in qualsiasi posto si trovi». Afferma Marco Bono, responsabile regionale dell’UNHCR. Facile a dirsi, ma praticamente impossibile a farsi: «A Idomeni in moltissimi non hanno nemmeno la possibilità di accedere ad internet. Nel campo ci sono appena due reti wi-fi, per 12mila persone!», spiega Massart. Una delle due reti wi-fi tra l’altro, è fornita e gestita esclusivamente da un gruppo di volontari e, a rendere la situazione ancora più difficile, il fatto che dall’ufficio di Salonicco, nessuno risponda alle chiamate Skype. Yamine, 24 anni, volontario italo-algerino, è arrivato a Idomeni da Padova con la campagna Over the Fortress. Insieme ad un gruppo di ragazzi da tutta Europa gestisce il flusso di persone che si alternano davanti ai due computer di una tenda affollatissima, per provare ad effettuare le chiamate Skype e riuscire ad ottenere un appuntamento.

Per via dell’emergenza, con Medici Senza Frontiere abbiamo fatto molte cose che di solito non sono di nostra competenza, all’inizio abbiamo anche distribuito i pasti. Ma non riusciamo a coprire anche la parte relativa alle informazioni e francamente questo non spetterebbe a noi!

Emanuel Massart

«Ci sono solo alcuni giorni e orari prestabiliti in cui si possono effettuare le chiamate», racconta Yamine. «Il problema è che, molto spesso nessuno dall’altra parte risponde. Siamo qui da stamattina e oggi, ad esempio, nessuno ha risposto. La vita di queste persone è letteralmente appesa ad una chiamata». La scorsa settimana Rania Ali, 20 anni, studentessa siriana di economia, bloccata a Idomeni ha lanciato una petizione su Change.org per chiedere di sostituire Skype con un sistema alternativo, dopo che per 20 giorni ha provato a fissare un appuntamento via skype con l’ufficio di Salonicco, senza successo. La petizione ha superato le 80mila firme, ma ne mancano ancora oltre 68mila per raggiungere l’obiettivo di 150mila e cercare di modificare questo sistema assurdo. E Skype non è l’unico ostacolo. L’iter di richiesta asilo è lunghissimo. Per avere un appuntamento ci vogliono almeno 2 mesi e, per andare a Salonicco, le persone si devono organizzare con i propri mezzi, ma moltissimi ormai hanno speso tutto e non possono nemmeno più permettersi il viaggio fino agli uffici. Infine, per ottenere una risposta bisogna aspettare tra i 6 e i 9 mesi. Tempistiche lunghissime, impensabile pensare di sopravvivere tutto questo tempo a Idomeni.

 

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Esraa, 25 anni, studentessa di architettura di Damasco, è a Idomeni con i genitori e il gatto. «L’ho nascosto in un marsupio per portare i bambini! È dimagrido cinque chili da quando siamo arrivati…stiamo tutti male qui. Mia madre ha un’ernia e dormire per terra la fa stare malissimo». Continua. «La nostra tenda poi è stata squarciata dal vento della scorsa notte. Quando ne ho chiesta una nuova al container dell’UNHCR mi è stato risposto che mi sarei dovuta spostare in uno dei campi del governo». Nel nord della Grecia, il governo infatti ha aperto 10 nuovi campi istituzionali, gestiti in collaborazione con l’UNHCR tra questi quello di Neakavala, a pochi km da Idomeni che abbiamo provato a visitare invano: «Non si può entrare, bisogna avere un permesso da Atene». Mi dice il soldato all’ingresso. Anche i video e le fotografie sono proibiti.

Gran parte di questi nuovi centri non rispettano gli standard igienico-sanitari minimi.

Emanuel Massart
 

«Gran parte di questi nuovi centri non rispettano gli standard igienico-sanitari minimi». Spiega Emanuel Massart. «Diverse persone sono tornate qui, perchè non avevano nemmeno garantito l’accesso all’acqua». Tra queste Marek, 37 anni, un’insegnante di Homs, è qui con il marito, due figli, la cognata e tre nipoti. La incontro mentre cammino per il piccolo villaggio di Idomeni, un gruppetto di case, dove, fino a tre mesi fa, vivevano appena un centinaio di persone. «Nella sfortuna, siamo stati fortunati», racconta. «Una signora anziana ci ha messo a disposizione il garage. Non parla inglese e non capisco niente di quello che dice, ma ci sta aiutando moltissimo. I greci sono brava gente», continua, «Sono i governi che ci trattano come le bestie. Io e la mia famiglia eravamo tra quelli che aiutavano i poveri e adesso…Non so neanche cosa dare da mangiare a mio figlio…Di notte non dorme, non riesce più a mangiare il cibo del campo…la frutta e la verdura per noi costano tantissimo e io non posso cucinare». «Non so come faremo col Ramadam. Non riesco neanche a pregare e pregare mi fa sentire meglio, ma per farlo dobbiamo pulirci bene e qui non abbiamo l’acqua». D’istinto, da laica e non musulmana, mi viene da dirle, «prega lo stesso, se ti fa sentire meglio, Allah capirà». Poi mi viene in mente il dialogo tra lo scrittore Jonathan Safran Foer e sua nonna, sopravvissuta all’Olocausto, che, subito dopo essere stata liberata, pur rischiando di morire di fame, rifiutò un pezzo di carne di maiale, perché non era Koescher, spiegando di aver preso quella decisione così dura perchè, “Se niente importa, allora non c’è niente da salvare”. «Abbiamo fatto cinque anni di guerra, abbiamo perso tutte le nostre cose in mare, durante il viaggio e adesso siamo qui». Le chiedo se si sente di raccontarmi la sua storia in video, ma rifiuta. «Se vuoi, appena riesco a connettermi ti mando un messaggio Whatsapp», interviene Ala, la nipote sedicenne di Marek. «Dopotutto ho tanto di quel tempo qui…». Accetto ma capisco quanto possa essere difficile avere accesso alla rete qui, eppure qualche giorno dopo, quando sono già in Italia ricevo un messaggio audio.

È uno shock collettivo quello provato da migliaia di persone davanti alla chiusura della frontiera: «Guarda, tre mesi fa ero qui!», mi dice Mohammed, 25 anni infermiere siriano, facendomi vedere una foto in cui sorride in un ristorante, insieme alla sua famiglia. «Guarda com’ero tutto bello, pulito, elegante, e adesso sono qui, in questo schifo…». Insieme ad altri nove volontari del campo, gestisce Solidaritea, un’iniziativa lanciata da un gruppo di ragazzi tedeschi che, nel campo, distribuisce circa 3mila litri di tè al giorno. «Dare una mano mi aiuta letteralmente a non impazzire. Servendo tè ho conosciuto amici da tutta Europa, l’unica cosa triste è che, prima o poi, tutti se ne vanno, mentre io rimango qui».

Negli ultimi giorni il numero delle persone presenti nel campo è calato. Circa 2mila profughi sono state trasferite nei campi del governo ma, secondo alcuni volontari, in molti stanno cercando di fare l’ultimo disperato tentativo. «Non sapere niente rende le persone ancora più vulnerabili alle promesse di trafficanti e approfittatori». Racconta Imad Aoun, responsabile regionale di Save the Children. «Mi viene da pensare che se non ci sono informazioni, forse non c’è un piano preciso. Dopotutto questi sono i rifugiati dimenticati, quelli che si sono trovati bloccati nei paesi della rotta balcanica, subito prima dell’accordo UE/Turchia». Rania, 22 anni, è qui insieme ai genitori. Parla bene inglese e mi invita nella sua tenda. Mi racconta del fatto che a Damasco studiasse economia e che è diretta in Svezia, per raggiungere il fratello minore. Idomeni ha interrotto il suo viaggio e la sua vita. «Non ce l’aspettavamo proprio che la frontiera avrebbe chiuso». Ci fermiamo a parlare per parecchio tempo e salutandola, le dico che sarei passata a trovarla il giorno successivo, scuote la testa e mi risponde che non sarebbe più stata lì. «Ce ne andiamo». Rania e la sua famiglia sono tra le persone a cui è rimasto ancora qualcosa da investire e non hanno nessuna intenzione di rimanere ad aspettare. Chiederle di fermarsi a pensare al pericolo dei trafficanti, alla violenza della polizia macedone è inutile, persino crudele, perchè l’alternativa rimane un limbo infernale, fatto di fango, caldo insopportabile e condizioni disumane. A confermarlo, le parole con cui mi saluta: «Meglio morire dall’altra parte, che continuare a morire lentamente qui».

Reportage, foto e video di
Ottavia Spaggiari

Grafica a cura di
Redazione VITA

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i volti del divino e il divino dei volti

il divino e i volti

di Angelo Casati

in “Esodo” n. 4 del dicembre 2015

Casati

Il divino e i volti. Ringrazio per il congiungimento – per la “e” del congiungimento tra il divino e i volti -. Ho sofferto a lungo, troppo a lungo, per la schizofrenia di un divino che mi veniva raccontato come prendere distanza dall’umano, e la sete del volto di Dio raccontata come purificazione dalla sete del volto delle donne e degli uomini del mio tempo, e questo nei giorni in cui mi andavo sempre più innamorando. Innamorando dei volti.

Veniva sera e scrivevo: I volti degli amici sono come Terra Promessa: pochi metri di zolla nera e feconda che conosco palmo a palmo, come il ramificarsi delle vene su una mano. I volti dei miei amici sono come lo specchio del tempo. Li interrogo in silenzio la sera: negli occhi s’è fissata e ancora vive, tutta, l’avventura di un giorno: ancora inseguono scomode immagini, come mozziconi che nessuno osa spegnere in ceneri di indifferenza. Dilaga nella piega degli occhi la lotta dei disperati, l’amore dei folli, questo nostro sperare contro ogni speranza. Sui volti dei miei amici ripercorro ogni giorno il sentiero inquieto delle nostre domande senza risposta. Unica certezza – tra sabbie e deserti di scelte provvisorie – il Cristo Presenza e Assenza, vicino come la carne di uno sposo, e atteso nella notte con fiaccole che faticano al vento quasi fossero sul punto di morire. E noi, amici? Noi chiamati a rischiare la notte, a decidere al buio – quando fioca è la luce – per un cammino o per l’altro. Perché non parli, o Signore? Nostra nuova condizione è non sapere e sperare contro ogni speranza. Volti dei miei amici volti senza presunzione, immagine della speranza dei folli. Volti dei miei amici, la terra del domani. La frequentazione della Paola creava congiungimento di divino e di volti. Mi affascinava e mi intrigava l’immagine di un Dio che si lasciava prendere da stupore per ciò che gli era uscito dalle mani: “E vide che era cosa buona, bella”. Lui al culmine dello stupore, quando gli riuscì di creare un uomo e una donna: “E vide che era cosa molto buona, molto bella”. Parte di lui abitava quel volto di donna, quel volto di uomo, li aveva creati a sua immagine, secondo la sua somiglianza. E la parola immagine, nella lingua antica, non racconta una fotografia, ma una custodia di presenza, della presenza del divino nel volto. A volte l’affresco parlava nei suoi colori. A volte purtroppo – e furono secoli! – l’affresco veniva dimenticato o appesantito di sovraccarico. Ci furono giorni in cui scordammo l’affresco delle origini, che parlava di volti abitati. Nuovi maestri, cosiddetti dello spirito, mi parlavano di un Dio di cui innamorarmi, da contemplare, e di donne e uomini da relativizzare, dai quali distogliere gli occhi. Ci furono anche giorni in cui in Seminario – e rabbrividivo – mi portavano come esempio di virtù S. Luigi Gonzaga, per il fatto che non guardasse in volto, perché donna, sua madre. A me sembrava pura schizofrenia. Come se amare la vita, fosse togliere qualcosa a Dio. Un disamoramento chiamato virtù. Pensavo all’incarnazione. Non era il superamento della schizofrenia, tra Dio e uomo? Dio si è fatto uomo. Dio lo trovi dove? Dove è andato a nascondersi? Nella carne, nella storia degli umani. Non è contro la vita, è nella vita. Oggi, alla domanda dov’è andato a nascondersi Dio, mi si accende nel cuore l’indicazione di una preferenza che urge come una segnalazione. Da non scordare. Pena il perdere l’appuntamento. Risuona già insistente nel primo Testamento dove Dio in pagine e pagine viene evocato come il difensore dell’orfano, della vedova, dello straniero, di coloro che portano scritta nella pelle un’ assenza che grida, assenza di difesa, di affetti, di terra. Dio congiunto a loro. Dove si è nascosto Dio? Al cuore mi ritorna un racconto, quello biblico del roveto che narra di Mosè che nei pressi di un monte, al di là del deserto, vide un roveto ardere e non consumarsi. Mosè si avvicinò, ma Dio gli parlò dal roveto chiedendogli di sostare: “Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo, sul quale tu stai, è suolo santo!”. Ci dovrebbe dunque condurre il sospetto che il luogo che calpestiamo sia sacro, mescola di umano e divino. Dove si è nascosto Dio? Un midrasch della tradizione rabbinica cerca di spiegare l’immagine del roveto che arde e non si consuma. Ecco come la interpreta: “Il Santo, benedetto sia, disse a Mosè: ‘Non senti che io sono nel dolore proprio come Israele è nel dolore? Guarda da che luogo ti parlo: dalle spine! Se così si potesse dire, io condivido il dolore di Israele’. Perciò si legge anche (Is 63,9): ‘In tutte le loro angustie Egli fu afflitto’” (Esodo Rabbà 2,5). Dov’è il divino, dove si è nascosto Dio? Fedele alla sua tradizione, con la sua vita ancor prima che con le sue parole, Gesù ha insegnato dove Dio oggi si nasconde, dove lui stesso oggi è presente: “Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,34-40). Sembra di capire il perché della preferenza di Dio e, di conseguenza, il perché della scelta preferenziale per i poveri – per i poveri di ogni categoria – a cui siamo chiamati urgentemente dalla Parola di Dio. Una scelta cui spesso ci chiama papa Francesco. Perché la preferenza? Non certo perché Dio faccia preferenza di persone, ma perché di questi suoi figli vede i volti violati, sconsacrati, depauperati della sua immagine divina. Altri hanno mezzi e stratagemmi con cui difendersi, hanno accoliti e solidali che li difendono, questi no. Li difende Dio, li difendono i veri credenti in Dio. E quando succede che a difenderli siano gli atei, Dio si sente difeso dagli atei. E quando succede che non li difendano i credenti, Dio si sente abbandonato e sconfessato dai credenti. Paradossi della storia! C’è una conversione da operare. Una conversione di sguardi e di cuore. A chi normalmente vanno i nostri sguardi? Chi ha un posto – e dovrebbe essere posto di preferenza – nei nostri sguardi? E nelle nostre assemblee pastorali? E nei nostri programmi pastorali? Alcuni di noi forse ricordano con commozione come la Didascalia degli apostoli (III secolo) prescrivesse al cap. 12 che, ad accogliere nell’assemblea i poveri, uomini o donne che fossero, doveva essere il vescovo stesso e non i diaconi, e che doveva essere ancora il vescovo a procurare loro un posto e che, se questo non si fosse trovato, doveva cedere il suo e sedere a terra ai loro piedi. “È questo un sogno? – si chiedeva anni fa il teologo don Pino Ruggieri -, o sono piuttosto un tradimento dell’eucaristia quelle celebrazioni che ripropongono, nella disposizione dei partecipanti e nello stile della partecipazione, le gerarchie mondane, ma anche soltanto l’educato stare ognuno per conto suo?”. Non è forse vero che riconsacriamo il pane del Signore ogni volta che ci lasciamo trascinare dal gesto, l’ultimo che il Signore ci ha lasciato come comando, in quella sua ultima cena, il gesto del servo che si china a lavare i piedi stanchi? E dunque ricondotti anche noi ai piedi, impolverati di fatiche, delle donne e degli uomini con cui camminiamo, nel desiderio di sollevarli dalle stanchezze e di rialzarli a dignità? Uno sguardo di preferenza ai loro volti. Uno sguardo segnato dalla tenerezza. Perché non basta vedere. Anche il sacerdote e il levita della parabola videro, ma passarono oltre. A differenza del samaritano che vide e sentì rivoluzionarsi dentro le viscere per la compassione. C’è modo e modo di vedere le sofferenze dell’umanità, e c’è modo e modo di parlarne, nelle nostre omelie e nei nostri incontri. Posso vedere e posso parlare senza “toccare”, senza “lasciarmi toccare” da ciò che vedo, da ciò di cui si sta parlando. Posso guardare e parlare a occhi asciutti. O mi si possono inumidire gli occhi. C’è un modo distaccato, professionale, asettico di guardare e di parlare. Si può guardarlo come un caso da risolvere, come un caso che, se gli dai attenzione, ti ruba tempo, un caso che in qualche modo ti crea disagio o ti contagia. Ci sono anche oggi categorie che noi sospettiamo di contagio, sbrigativamente li chiamiamo “irregolari”, portano ferite devastanti nell’anima, esclusioni che sono morti civili. Forse il sacerdote e il levita avevano una purezza da salvaguardare, chissà, in vista di quali celebrazioni nel tempio! Avevano una sacra giustificazione per “girarsi dall’altra parte”. Quante volte non ci si ferma, invocando una non opportunità. Una non opportunità secondo le convenzioni codificate. Ma un’opportunità secondo il vangelo. Il 10 luglio di quest’anno a Santa Cruz della Sierra, in Bolivia, parlando di volti ai movimenti popolari, Francesco, il vescovo di Roma, diceva: “Quando guardiamo il volto di quelli che soffrono, il volto del contadino minacciato, del lavoratore escluso, dell’indigeno oppresso, della famiglia senza casa, del migrante perseguitato, del giovane disoccupato, del bambino sfruttato, della madre che ha perso il figlio in una sparatoria perché il quartiere è stato preso dal traffico di droga, del padre che ha perso la figlia perché è stata sottoposta alla schiavitù; quando ricordiamo quei “volti e nomi” ci si stringono le viscere di fronte a tanto dolore e ci commuoviamo… Perché “abbiamo visto e udito” non la fredda statistica, ma le ferite dell’umanità sofferente, le nostre ferite, la nostra carne. Questo è molto diverso dalla teorizzazione astratta o dall’indignazione elegante. Questo ci tocca, ci commuove e cerchiamo l’altro per muoverci insieme. Questa emozione fatta azione comunitaria non si comprende unicamente con la ragione: ha un “più” di senso che solo la gente capisce e che dà la propria particolare mistica ai veri movimenti popolari”. Scoprire il divino nei volti significa in qualche misura anche perdersi. Perdersi a contemplare – sia pure attraverso un’esile fessura –. Perdersi a contemplare l’oltre che abita i volti . Qualcosa che eccede, qualcosa che fa la dignità di quel volto, che a volte è stato piegato in un nome, in un genere, in un’età, in una categoria, in una professione, in una cultura, in una religione. Se ti perdi con gli occhi nell’aldilà che lo abita, sfiori il divino. Un oltre che diventa per te nutrimento. Spesso mi fermo a pensare e anche a ringraziare per i volti. Sono stati la mia ricchezza, il mio nutrimento. Quello che io sono in gran parte lo devo a loro, all’oltre che li ha abitati. Se ti perdi nei loro volti, i crocifissi della storia, che nel migliore dei casi vengono considerati come oggetto di cui prendersi cura, vengono strappati alle loro periferie per ritrovare dignità: da oggetto diventano soggetto, protagonisti, portatori di dignità e di ricchezza, creature che possono dare, possono ospitare, possono insegnare. Come non ricordare la donna del vangelo che Gesù, alla fine della sua vita pubblica, invita a guardare? Quasi ci dicesse: “Guardate lei, imparate da lei”. Intrigante pensare che, alla fine del vangelo, Gesù lasci in eredità un volto. Di una donna, vedova e povera. Nella sua povertà ha lasciato scivolare due monetine nel tesoro del tempio, era quanto aveva per vivere. E Gesù la mette in cattedra, mentre spodesta altri dalle loro solenni, altezzose cattedre; ha appena finito di dire: “Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa” (Mc 12,38- 40). Dal vangelo viene una consegna, quella di ricondurre dalla terra di esilio in cui sono stati deportati, dalle periferie della società in cui sono stati emarginati, dai silenzi in cui sono stati zittiti, gli ultimi della terra. Gli ultimi che per il vangelo sono i primi: qui sta la rivoluzione del vangelo, negata o incompiuta. Gli ultimi che Gesù difese a costo di morte, restituendo loro quella dignità di cui spesso vengono illegalmente espropriati. Gli ultimi, i dimenticati, inghiottiti nelle nebbie della nostra dilagante indifferenza, nelle nostre agghiaccianti leggi di esclusione, esclusione illegale in umanità. Gli ultimi, una categoria dell’umanità, che dovrebbe aver un posto di privilegio, terra sacra, nella vita di ogni vero discepolo del vangelo. Potremmo azzardare domande: attingiamo alla sapienza degli ultimi? Li mettiamo in cattedra nei nostri consigli pastorali, nelle nostre assemblee ecclesiali? A chi diamo la voce nei nostri grandi convegni, nelle imponenti faraoniche manifestazioni ecclesiali? Troviamo presenti i loro volti? Ci prende timore che in assenza dei loro volti, in una misura non indifferente, si nasconda anche Dio? Una rivoluzione? Incompiuta o nemmeno iniziata? Se ne intravedono inizi – e nemmeno tanto timidi, in alto, che più alto non si può – quasi un segnale per tutta la chiesa e non solo per la chiesa. Forse queste mie parole – le mie troppe parole – possono efficacemente essere racchiuse in una sola immagine, quella dei centocinquanta clochard in visita ai Musei vaticani e alla Cappella Sistina il 26 marzo scorso, su invito di papa Francesco. Passi offrire la cena! Ma offrire una visita ai musei e alla cappella Sistina, con guida di esperti? È gesto che rivendica dignità di occhi e di intelligenza per coloro che noi chiamiamo “barboni”. Dignità, intelligenza, capacità di godere della bellezza, un volto! A sorpresa il papa si affacciò nel mezzo della loro visita, strinse le mani a ciascuno, disse loro: “Benvenuti. Questa è la casa di tutti, è casa vostra. Le porte sono sempre aperte per tutti”. I suoi occhi! I suoi occhi mentre li guarda. Li vedi come perduti in un’icona, quasi stessero sulla soglia. Sulla soglia del divino. Invito a una sosta.

Angelo Casati

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i bagagli sono pesanti, soprattutto per la chiesa

papa Francesco

“il profeta sa andare in periferia libero da bagagli”

Udienza ai padri Mercedari nell’ottocentesimo della loro fondazione:

non sia ricordo del passato glorioso ma anche occasione per esaminare difficoltà, vacillamenti ed errori

un inviato di Dio sa avvicinarsi alle periferie esistenziali «libero da bagagli»: lo ha detto papa Francesco alla delegazione dei padri Mercedari ricevuta in udienza in Vaticano in occasione del capitolo generale dell’Ordine per gli ottocento anni di vita. L’anniversario, ha detto, non sia solo il ricordo del passato glorioso ma anche occasione per esaminare difficoltà, vacillamenti ed errori.

 

«Certo, c’è molto da ricordare e ci fa bene ricordare», ha detto il Papa nel discorso pronunciato in spagnolo ai membri di quest’Ordine di frati che nel medioevo si sostituivano in riscatto a schiavi e prigionieri. «Ma questa memoria non dovrebbe limitarsi a un’esposizione del passato, bensì deve essere un atto sereno e consapevole che ci permetta di valutare i nostri successi senza dimenticare i nostri limiti e, soprattutto, affrontare le sfide che l’umanità pone. Questo capitolo può essere una occasione privilegiata per un dialogo sincero e proficuo che non si accontenta di un passato glorioso, ma esamina le difficoltà incontrate in questo cammino, i vacillamenti e anche gli errori. La vera vita dell’Ordine va ricercata nel continuo sforzo di adeguarsi e rinnovarsi, al fine di dare una risposta generosa alle reali esigenze del mondo e della Chiesa, restando fedeli al patrimonio perenne di cui siete depositari». 

«Con questo spirito – ha proseguito il Papa – possiamo realmente parlare di profezia, altrimenti non possiamo. Perché essere profeta è prestare la nostra voce umana alla Parola eterna, dimenticarci di noi stessi affinché sia Dio che manifesta la sua onnipotenza nella nostra debolezza. Il profeta è un inviato, un unto, ha ricevuto un dono dello Spirito per il servizio del santo popolo fedele di Dio. Anche voi avete ricevuto un dono e siete stati consacrati per una missione che è un’opera di misericordia: seguire Cristo che porta la buona notizia del Vangelo ai poveri e la liberazione ai prigionieri. Cari fratelli, la nostra professione religiosa è un dono e una grande responsabilità, perché la portiamo in vasi di creta. Non ci fidiamo della nostra propria forza ma affidandoci sempre alla misericordia di Dio. Vigilanza, perseveranza nella preghiera, nel coltivare la vita interiore sono i pilastri che ci sostengono. Se Dio è presente nella vostra vita, la gioia di portare il Vangelo sarà la vostra forza e la vostra gioia. Dio ci ha chiamato a servirlo nella Chiesa e nella comunità. Sostenetevi in questo percorso comune, che la comunione fraterna e la concordia in buone azioni testimoniano, prima delle parole, il messaggio di Gesù e il suo amore per la Chiesa». 

Il profeta, ha detto ancora il Papa, «sa andare alle periferie, alle quali si avvicina libero da bagagli. Lo Spirito è un vento leggero che ci spinge in avanti. Evocare ciò che mosse i vostri Padri e dove li diresse, ci impegna a seguire i loro passi. Loro furono in grado di restare come ostaggio accanto ai poveri, agli emarginati, agli esclusi della società, per consolarli, soffrire con loro, completando con la propria carne ciò che manca alla passione di Cristo. E questo un giorno dopo l’altro, nella perseveranza e nel silenzio di una vita libera e generosamente donata. Seguire questi predecessori, è comprendere che, per riscattare, dobbiamo farci piccoli, unirci al prigioniero, nella certezza che così non solo soddisfaremo il nostro scopo di redimere, ma troviamo anche noi stessi la vera libertà, perché nel povero e nel prigioniero riconosciamo presente il nostro Redentore». Per questo, nell’ottocentesimo anniversario dell’ordine, è opportuno «proclamare l’anno della grazia del Signore» a tutti coloro ai quali li ha inviati: «I perseguitati a causa della fede e i prigionieri, le vittime di tratta e i giovani nelle scuole, chi attende alle opere di misericordia, i fedeli delle parrocchie e delle missioni che sono state affidate loro dalla Chiesa».

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il diario della piccola rom

 

Il diario di Sunita, scolara rom a Pisa diventa un libro – Repubblica.it

esce per Rizzoli la storia di una ragazzina che ha potuto studiare

la racconta Luca Randazzo, insegnante e scrittore

è una ribelle docile Sunita: «Questo diario è una cretinata. E’ un’idea della mia maestra per farmi scrivere. Ma io non scrivo niente ». Affida ai fogli di un quaderno il racconto delle sue giornate: «Me l’ero dimenticata la scuola, a furia di non andarci. Cioè, non dico il posto. Quello è sempre uguale, ma le materie

Sunita

Per esempio la matematica». Scanzonata, irriverente. Il suo campo è una baracca, fra i rom della Bigattiera, in mezzo alla pineta a Marina di Pisa: «Mia sorella Teodora non ha più vestiti. L’ho detto a Luca quando è venuto a prendermi. Praticamente fa troppo freddo e la mia mamma non può lavare». Perché al campo non c’è corrente elettrica e nemmeno una lavatrice da quando quel pezzo di terra è diventato un accampamento irregolare: «La mia mamma ha preso due pentoloni e li ha riempiti d’acqua. Meno male che ne usciva abbastanza dal tubo… Ha scaldato l’acqua sulla stufa… C’erano così tanti panni stesi che pareva un labirinto».

Sunita ha dieci anni quando comincia a scrivere il suo diario e quando Luca e Clelia la accolgono nella loro casa come affidatari. “La scuola è una pizza ma io ci vado lo stesso” è il sottotitolo del libro “Diario di Sunita” (pp. 251, euro 18) appena pubblicato da Rizzoli e firmato da Luca Randazzo. Maestro in una primaria di Pisa, nato a Milano, Randazzo abita a Pisa, città nella quale si è laureato in Fisica. «Sunita è una ragazzina che esiste per davvero e che ho incontrato nella scuola dove insegno, la Don Milani» racconta. Un giorno comincia a scrivere il suo diario: «Sì, è stato nell’anno in cui ha vissuto in casa nostra – riprende Randazzo che ha già pubblicato altri libri per ragazzi, “Le città parallele” (Salani 2008) e “L’estate di Giacomo” (Rizzoli 2014) – .

Sunita era in famiglia con mia moglie e le nostre figlie e nel fine settimana la riportavamo dalla sua vera famiglia». Il diario della ragazzina è ispirato a un quaderno pieno di note realmente esistito e custodito dal maestro. L’idea di Randazzo parte da lì ma la storia viene rielaborata: «Nella realtà Sunita è umbra, ma la sua famiglia è rom di origine macedone. Lei non è mai stata in Macedonia eppure appartiene a quella nazionalità». Il diario ripercorre la fatica di chi non ha diritti, di chi è invisibile, di un’infanzia cresciuta ai margini di tutto. Lo fa con un tono lieve e a tratti ironico. Lo sguardo di Sunita non è mai cupo: ma capace di stupirsi per una lezione di calcio, per aver imparato a scrivere in corsivo, per poter decidere di non mangiare i broccoli nella casa dei “gadze” come i rom chiamano gli altri, i “non rom”.

«I proventi del libro andranno tutti all’associazione Articolo 34 di Pisa » spiega l’autore impegnato a lavorare nel volontariato e nell’integrazione. Uno dei momenti più divertenti e amari al tempo stesso delle pagine di questo diario è quando la bambina viene portata dalla dentista e lei fa il confronto con la sua mamma (vera) che ha mille carie e dal dentista non ci è mai stata: «A casa dei gadze si lavano tutti i denti. Perfino Bianca che non ne ha ancora perso uno. (…) A me lavarmi i denti mi piace, anche se mi sembra strano. A casa mia non lo fa nessuno. A parte che non abbiamo lo spazzolino ». Un altro momento di ironia è quando fa il confronto tra la sua seconda famiglia dove tutti stanno a tavola per cena e la prima dove non c’è nemmeno una tavola: «Ieri mi sono messa sotto le coperte con tutta la testa. Non ho fatto nemmeno in tempo a coprirmi che Clelia aveva già tolto la coperta e si era seduta accanto a me.

Dice che in quella casa si mangia tutti insieme, che è un momento in cui ci si raccontano le cose (…). Ma che cretinata è dico io? Se non voglio mangiare cosa ci sto a fare a tavola?». E poi «che schifo la cucina di Luca » con i broccoli, Sunita li detesta, mentre ama quello che trova al campo «dove ognuno mangia quando vuole e ci sono sempre patatine e Coca-Cola». E adesso dov’è

 

Sunita e tutta la sua famiglia? “A casa mia – risponde lo scrittore – li ospito per qualche giorno fino a che non trovano una casa in affitto”. Ha un appartamento grande? “Centometri quadri, un solo bagno. Siamo in dodici”. Questione di generosità e di sentire addosso come un comandamento le parole di uno striscione in una delle tante proteste dopo lo sgombero del campo diventato abusivo a  Pisa, c’era scritto: “siamo umani”.

 
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vescovo antiislamico che vuole convincere anche papa Francesco

l’articolo che segue ha un titolo che non ha nessun senso se non quello del tutto strumentale e contorto datogli dal sito ultratradizionalista che lo pubblica, che già dall’autodenominazione (‘Riscatto Nazionale’ – ‘riprendiamoci la nostra Patria’) la dice lunga sulla sua deformazione nella lettura della realtà e del vangelo; il vescovo di fatto non sbugiarda affatto papa Francesco, esprime però, questo sì, qualcosa di estremamente preoccupante: un vero e proprio antiislamismo di cui si vuole convincere anche il papa … non c’è limite alla stoltezza clericale!

 

Ungheria, vescovo sbugiarda Bergoglio: “Lo scopo della migrazione è islamizzare l’Europa”

 “In Europa momentaneamente tutti credono ciò che vogliono, ma generalmente nessuno crede niente. Questo è un terreno ideale da conquistare per l’islam”

Chiunque lo neghi, mente o si sbaglia. L’Europa mentalmente vuota è adatta alla conquista da parte delle folle musulmane che si ritengono superiori: così ha detto S.E. Gyula Márfi, arcivescovo di Veszprém, ad una conferenza che si è svolta lo scorso venerdì 22. L’arcivescovo, alla conferenza tenuta nel Collegio Salesiano di Veszprém ed intitolata “Problemi demografici nel Mediterraneo nel 19° e 20° secolo” ha espresso con la sua abituale sincerità ciò che pensa dell’islamizzazione europea.

“Penso che la migrazione prevalentemente non abbia cause, ma scopi specifici. Chi parla solo di cause mente o si sbaglia. La sovrappopolazione, la povertà o la guerra hanno solo un ruolo di secondo o di terzo grado nella migrazione.”
“Presso le famiglie musulmane nascono 8-10 bambini prevalentemente non per amore ma perché loro si ritengono esseri superiori e il Jihad gli impone di conquistare in qualche modo tutto il mondo.”

“Nella Shari’ah (sistema di diritto islamico) possiamo leggere che il mondo è costituito dal Dar al-Islam (che viene governato secondo la Shari’ah) e dal Dar al-Harb, cioè territorio di guerra che in qualche modo va occupato. Questo è scritto, i musulmani devono solo impararlo a memoria. Discuterne è vietato, loro eseguono solo ciò che devono fare”…“Momentaneamente lo scopo è quello di occupare l’Europa”. A questo ha attribuito anche il fatto che in Europa si è formato uno spazio mentale e sociologico vuoto e non esiste una forte ideologia.

“In Europa momentaneamente tutti credono ciò che vogliono, ma generalmente nessuno crede niente. Questo è un terreno ideale da conquistare per l’islam” – ha aggiunto Gyula Márfi, secondo cui nessun continente può sopravvivere a lungo senza un’ideologia forte.Ha spiegato che bisognerebbe accorgersene e prendere seriamente in considerazione il fatto che la migrazione ha come scopo finale l’islamizzazione dell’Europa.

L’arcivescovo ha ricordato un significativo episodio: “Bianka Speidl, un’esperta di islam, recentemente ha riferito che ad una conferenza tenuta sull’islam a Londra un professore musulmano americano ha chiesto scusa per gli atti terroristici con cui mettono in cattiva luce l’islam. Gli universitari musulmani presenti in grande numero gli hanno fischiato come risposta. Bisogna meditarci e considerarlo”.

L’islam non è solo una religione, ma è un sistema totalitario completo politico ed ideologico, che è impregnato con una parte religiosa. Mentre i nazisti si ritenevano superiori come razza, i comunisti come classe, i musulmani si ritengono superiori come religione. Classificano le persone in base a questo e noi che non siamo musulmani, ma siamo Kafir (infedeli), siamo considerati inferiori rispetto a loro. I musulmani secondo le loro dottrine hanno questa dualità nel comportamento. Si comportano in un certo modo se sono in minoranza e in un altro modo se sono in maggioranza. Per questo si comportano in modo diverso in circostanze diverse con i Kafir.

“Se l’Europa diventa Dar al-Islam, allora la cosiddetta Europa cessa di esistere. Questo lo dobbiamo considerare. Allora possiamo dimenticare la libertà e anche l’uguaglianza”.
S.E. l’arcivescovo Gyula Márfi dice che questo è il suo parere e non vuole suscitare un’atmosfera anti-musulmana, ma ritiene che vale la pena di richiamare l’attenzione delle persone. Inoltre sta valutando di formulare questi suoi pensieri anche al Papa Francesco.

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