i lefebvriani tacciano papa Francesco di modernismo e relativismo

i lefebvriani stroncano il papa:

“amoris laetitia fa piangere”

 

 

un documento  in certi punti segnato “dal soggettivismo e dal relativismo morale”, in cui “la regola oggettiva è sostituita, alla maniera protestante, dalla coscienza personale”.  Invece di elevare “ciò che è al livello di ciò che deve essere, si abbassa ciò che deve essere a ciò che è, alla morale permissiva dei modernisti e dei progressisti”. Insomma, davanti alla recente esortazione apostolica sulla famiglia di papa Francesco, “c’è di che piangere”

Scelgono uno stile ruvido e diretto i lefebvriani per liquidare l’Amoris laetitia, il documento con cui Bergoglio ha tirato le fila del doppio Sinodo sulla famiglia, privilegiando le vie della misericordia e del discernimento per le situazioni di crisi. La nota della fraternità sacerdotale ultraconservatrice, in rotta con Roma dal 1988 dopo l’ordinazione di alcuni preti senza il placet vaticano, deplora la valorizzazione della coscienza, la legge della gradualità nella morale, l’inversione dei fini del matrimonio – con il primato dell’amore sulla procreazione – fino ad accusare il Pontefice di “rimettere in discussione” la dottrina sulla fedeltà nelle nozze. “I fedeli sono disorientati, tutta la Chiesa soffre per questa frattura – si legge -. Rimettere in discussione l’obbligo di osservare in ogni caso i comandamenti di Dio, in particolare quello della fedeltà coniugale, significa capitolare davanti ai diktat dei fatti e dello spirito del tempo”.

Nella conclusione del comunicato la Fraternità San Pio X non cede di un millimetro sulla sua valutazione dei documenti del Concilio ecumenico Vaticano II che, a detta degli scismatici, vanno superati, se non nella loro interezza, almeno nei passaggi più controversi. “Noi – è l’appello a Francesco – imploriamo il Santo Padre umilmente, ma risolutamente, di riprendere in esame l’esortazione Amoris laetitia e specialmente il capitolo 8. Come nei testi del Vaticano II, ciò che è ambiguo deve essere interpretato in modo chiaro e ciò che è in contraddizione con la dottrina e la pratica costante della Chiesa deve essere ritirato, per la gloria di Dio, per il bene di tutta la Chiesa, per la salvezza delle anime, specialmente di quelle che sono in pericolo di lasciarsi ingannare dall’apparenza di una falsa misericordia”.

La nota dei lefebvriani rappresenta l’ennesima battuta d’arresto nel dialogo con Roma. A inizio aprile papa Francesco ha ricevuto in udienza monsignor Bernard Fellay, superiore generale della Fraternità che conta 60o sacerdoti, dei quali 150 in Francia. L’incontro, “privato e informale” lo definì la Sala stampa vaticana, è durato “40 minuti e si è svolto in un clima cordiale. Dopo è stato deciso che gli scambi in corso continueranno”.  In precedenza, a settembre, Bergoglio aveva deciso di rendere valida a tutti gli effetti, per la durata del Giubileo straordinario della misericordia, la confessione impartita ai fedeli dai preti della Fraternità. Una mossa accolta positivamente dagli scismatici  che denota l’intenzione del Pontefice di rinsaldare in tempi rapidi la frattura, come auspicava Benedetto XVI, lo stesso che nel 2009 revocò la scomunica alla comunità. “D’altronde – sorride un cardinale di Curia, non certo ascrivibile tra le fila dei conservatori – sono molto di più i cattolici, che dicono messa con rito tridentino, dei lefebvriani in quanto tali”.

Come soluzione  canonica per un ritorno alla piena comunione con la Chiesa, dal 2009 la Santa Sede propone alla Fraternità la costituzione di una prelatura personale internazionale. Una via, già sperimentata con l’Opus Dei, che consentirebbe agli ultraconservatori di mantenere un’ampia autonomia sia in campo liturgico, sia sul piano organizzativo. In cambio, però, Roma chiede la sottoscrizione di un documento dottrinario in cui si riconosce agli atti  del Vaticano II il rango di testi del magistero. Ed è su questo punto che le posizioni restano distanti, come dimostra l’ultima reprimenda sull’esortazione postsinodale.

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sono più i vecchi a volere i muri …

cresce voglia di confini, ma non tra i giovani

 

 

diventiamo sempre più vecchi, sempre più soli e impauriti. E vorremmo chiuderci in casa. Alzare muri e confini dovunque. Ma una terra attraversata da frontiere e muri non coincide con il sogno di Spinelli, Schuman e Monnet. Evoca, semmai, un incubo

di: Ilvo Diamanti

Papa Francesco, come sempre, è stato molto chiaro. Questa volta, semmai, anche più di altre. Perché si rivolgeva a una platea di re, ambasciatori, leader politici ed economici. Fra gli altri: Schulz, Tusk, Juncker, Merkel, Renzi, il re di Spagna Felipe VI. E Draghi. Tutti presenti, alcuni giorni fa, alla consegna del Premio internazionale Carlo Magno al Santo Padre. “Per l’impegno a favore della pace, della comprensione e della misericordia in una società europea di valori”. Nell’occasione, però, il Papa ha rammentato quanto l’Europa, oggi, sia in difficoltà nell’affermare i valori a cui si ispiravano i padri fondatori. Tanto più, nell’affrontare il futuro. Perché l’Europa, oggi è una “nonna, vecchia e sterile”. Senza più ricordi.

Ieri, non per caso, Francesco ha ricevuto in udienza gli uomini e le donne del Cuamm. L’associazione dei Medici con l’Africa, che ha sede a Padova. Animata per oltre cinquant’anni da don Luigi Mazzucato. Un viandante generoso, che ci ha lasciati circa sei mesi fa. Il Cuamm è divenuto un crocevia della solidarietà fra l’Italia e l’Africa. Dove ha inviato oltre 1000 medici volontari, negli ospedali dell’area subsahariana. Fra le più colpite da malattia, miseria, povertà. Le origini principali delle grandi ondate migratorie che, da tempo, si dirigono in Europa. Attraversano il Mediterraneo, spinte dalla disperazione. Sfruttate da mercanti di dolore. Migliaia e migliaia di “persone” – perché di tali si tratta, anche se si tende a dimenticarlo – che, dopo lo sbarco, se ci riescono, proseguono nel loro esodo difficile e talora penoso. Partono dall’Italia, dalla Grecia. Dalla Turchia, dai Balcani. Dalla Spagna (di cui si parla meno). E si dirigono a Nord. Verso i Paesi dove lo sviluppo e il sistema del welfare offrono maggiori prospettive. E dove li hanno preceduti altre persone, della loro rete familiare, del loro Paese.

Insieme ai migranti, sono cresciute le inquietudini. E i muri. Comunque: i controlli. Lungo i percorsi dell’esodo. Da Sud verso Nord. E fra un Paese e l’altro. L’Austria sta accentuando la sorveglianza in diverse direzioni. Non solo sul Brennero, in questi giorni al centro di polemiche e di scontri. Ma anche ai confini con l’Ungheria, la Slovenia – e, implicitamente, la Croazia e la Serbia. Un esempio seguito, in parte anticipato, dall’Ungheria. Ma le “frontiere” stanno diventando “barriere” anche altrove. In Macedonia, in Bulgaria. Inoltre, al confine tra Paesi che hanno tradizioni civili e democratiche solide. Nel Centro-Nord dell’Europa. Fra Gran Bretagna e Francia, a Calais. E, nei momenti di grande flusso, anche tra Francia e Italia. Mentre la Danimarca e i Paesi scandinavi difendono il loro welfare. Dagli “altri” che vorrebbero accedervi. Il risultato di questo gioco di movimenti e chiusure è il ri-sorgere delle frontiere. Meglio: delle “barriere”.

LE TABELLE

Perché le frontiere servono. Definiscono confini in base a cui confrontarsi e dialogare. Ma quando diventano blocchi, luoghi di controllo e sorveglianza, allora, diventano ostacoli all’integrazione. Non solo degli “altri”. Anzitutto, “fra noi”. Perché frenano l’integrazione e la costruzione europea. D’altronde, i muri e le frontiere, oggi, hanno un significato eminentemente simbolico. Vengono utilizzati a fini perlopiù politici. Servono, cioè, ad assecondare le paure e ad alimentare i populismi. Popoli alla ricerca di nemici. Figurarsi se – come ha osservato Lucio Caracciolo – la frontiera del Brennero potrebbe scoraggiare il passaggio dei migranti che intendono attraversare l’Austria (per andare altrove, peraltro).

Tuttavia, in Europa, cresce dovunque la domanda di sorvegliare i confini. Basta vedere i dati del sondaggio di Pragma (febbraio 2016) per l’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos per la Fondazione Unipolis. Nei Paesi europei dov’è stata condotta l’indagine, coloro che “insistono” a rivendicare frontiere aperte, in Europa, costituiscono una minoranza limitata. Talora, molto limitata. Mentre la maggioranza dei cittadini vorrebbe reintrodurre i controlli. Sempre. Non in circostanze particolari. In Italia lo sostiene oltre metà delle persone (intervistate). La domanda di chiusura, peraltro, risulta più elevata fra le persone anziane. Dovunque. Parallelamente, la fiducia nell’Ue è più alta presso i più giovani.

In Italia, il sentimento verso gli “altri”, gli immigrati che giungono da lontano, si traduce in paura. Fra tutti, ad esclusione dei più giovani (indagine Demos, aprile 2016). E produce distacco, sfiducia nelle istituzioni, richiesta di nuove e maggiori divisioni. Forse perché siamo il Paese più vecchio d’Europa. Insieme alla Germania. Che, tuttavia, per questo, mostra un atteggiamento verso gli immigrati ben diverso. Ispirato, cioè, all’apertura “selettiva”. A favore di componenti demografiche (giovani) e “professionali” particolarmente utili al mercato del lavoro. In Italia, invece, di recente si assiste a un declino demografico inquietante. Nel 2015, ad esempio, la popolazione è calata di circa 100 mila persone. Come non avveniva dal 1917-18. Cioè, dalla Grande Guerra. Perché in Italia fanno meno figli perfino gli immigrati (come spiega l’Istat). Mentre i giovani sono una “razza” in declino. E quando possono se ne vanno. A studiare, lavorare e, infine, a vivere: altrove. Nel 2013, infatti, dal nostro Paese sono partiti quasi 95mila italiani (più degli stranieri arrivati nello stesso periodo). Soprattutto giovani in possesso di titolo di studio elevato.

Così, diventiamo sempre più vecchi, sempre più soli. Sempre più impauriti. E vorremmo chiuderci in casa. Alzare muri e confini dovunque. Intorno a noi. Metafora dell’Europa delineata da Papa Francesco. Ma ridursi a una terra attraversata da frontiere e da muri non coincide con il sogno di Altiero Spinelli, Robert Schuman e Jean Monnet. Evoca, semmai, un incubo. Noi italiani, noi europei: chiusi in casa, in attesa dell’invasione, fra anziani in mezzo ad altri anziani, monitorati da sistemi di allarme sofisticati, sorvegliati da cani mostruosi, osservati da telecamere a ogni passo e a ogni movimento. Ma come possiamo illuderci di essere felici?

fonte: repubblica.it

ILVO DIAMANTI 

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c’è anche il ‘sacro’ che crea ‘liberazione’ …

il cristianesimo non è religione del sacro, ma fede in quel Dio che ha deciso di condividere la condizione umana, non sul trono dei cesari, ma sul terribile supplicium (Cicerone) dei reietti. Considera tentazione satanica il potere, sceglie di essere il messia della croce. Inchiodato su quel legno, reso in-potente, dice il suo amore per ogni uomo e ci lasca liberi di accettare o rifiutare, persino di insultarlo
c’è un sacro come apertura all’infinito che esprime il mistero dell’essere, materia informe e matrice di tutte le utopie. Nella sua totalità assume i lineamenti del volto di Dio, non come feticcio manipolabile dalle caste sacerdotali in funzione del potere, ma come il Totalmente Altro di fronte a tutti i nostri tentativi di definirlo, che sempre ti invita a uscir fuori dalla schiavitù d’Egitto e da ogni altra schiavitù

D'Arcais

Paolo Flores d’Arcais nel suo libro La Guerra del Sacro (Raffaello Cortina Editore, Milano 2016), partendo dagli avvenimenti parigini del 7 gennaio 2015 interpreta il terrorismo jihadista come la punta di diamante di tutto il fondamentalismo islamico, anche quando si dice contrario. In fin dei conti l’aspirazione è la stessa: la realizzazione della umma nella sua vocazione universale, l’intero mondo governato dalla sharia che esprime la volontà di Dio, Signore del cielo e della terra. Non combatte le altre religioni per occupare il loro spazio, ma la modernità che ha affermato il primato dell’homo sapiens nella sua autonomia, in antitesi ad ogni nomos-eteros dell’Altro e dall’Alto. Il fondamentalismo islamico esprime, nonostante le apparenti differenze, l’essenza di ogni monoteismo, ossia il primato di Dio sull’uomo e la vittoria dell’eteronomia sull’autonomia. Nella città non c’è posto per due sovranità: o quella di Dio, o quella del cittadino che costruisce il proprio futuro etsi Deus non daretur.

Mi permetto due osservazioni. Il fenomeno del jihadismo attuale ha come fondamento non solo la fede religiosa, ma anche un’aspirazione identitaria. Sino all’inizio dell’era moderna l’islam era più forte militarmente, più colto e più civile, tanto da poter guardare con superiorità il rozzo e arretrato Occidente. La posizione si è rovesciata quando l’Occidente ha fatto un balzo in avanti con la rivoluzione scientifica e la rivoluzione politica. Il mondo arabo nella sua staticità è stato sottomesso dal colonialismo degli Stati occidentali: umiliazione inaccettabile e quindi volontà di riscatto, ma non c’è una bandiera nazionale per coagulare la rivincita della propria identità. L’unico punto in comune è la religione che però scade in ideologia e fondamentalismo.

In secondo luogo non mi sembra accettabile l’equiparazione del jihadismo alla religione in generale sia per la rivendicazione della supremazia di Dio, che per la volontà di affermare l’etica dell’eteronomia. Così si esprime Flores d’Arcais: «Il fondamentalismo islamico non costituisce l’aberrazione del sacro, bensì la rivendicazione della verità essenziale del monoteismo, la sovranità di Dio. L’essenza della religione è la religione sovrana che sottomette alla legge ogni fibra dell’esistenza» (p. 19). «Strutturalmente e ontologicamente è la guerra santa dell’eteros-nomos contro l’autos-nomos… contro l’empio orgoglio dell’homo sapiens di decidere da sé nella vita collettiva e individuale» (p. 18). Risuona qui l’eco delle parole di Nietzsche in La Gaia Scienza (aforisma 343). Noi filosofi e spiriti liberi alla notizia che il vecchio dio è morto ci sentiamo illuminati da una nuova aurora, finalmente l’orizzonte ci appare di nuovo libero, finalmente i nostri vascelli possono riprendere il mare aperto dove ogni audacia è consentita a chi vuol conoscere.

Se non si vuol fare confusione è opportuno tener conto di una distinzione nel concetto di sacro.

C’è un sacro come apertura all’infinito che esprime il mistero dell’essere, materia informe e matrice di tutte le utopie. Nella sua totalità assume i lineamenti del volto di Dio, non come feticcio manipolabile dalle caste sacerdotali in funzione del potere, ma come il Totalmente Altro di fronte a tutti i nostri tentativi di definirlo, che sempre ti invita a uscir fuori dalla schiavitù d’Egitto e da ogni altra schiavitù. Questa è l’essenza dell’uomo che si caratterizza come libertà, continuo ex-sistere, freccia del desiderio. Ogni cosa che sbarra il sentiero all’uomo e presume sottometterlo, in rapporto a questo orizzonte viene ricondotta alla sua finitezza e superata. Senza questa apertura all’infinito non avrebbe senso l’evocazione della parola poetica, né il sacrificio eroico per un ideale e per la persona amata. Nella contrapposizione tra la finitezza del dato e il suo fugace tramonto e dall’altra parte il desiderio di infinito, nasce l’inquietante coscienza della morte e si formula il problema del senso della propria identità e del vivere.

Ma il sacro può essere anche una realtà sensibile sottratta all’uso umano e deputata a rappresentare la divinità: il tempio, l’idolo, la persona, la formula… Quest’oggetto impone dei divieti e degli obblighi, genera il profano, ossia il territorio che sta fuori del tempio, ma non lo può accettare nella sua autonomia, lo deve sottomettere a nome di Dio, sovrano dominatore di tutte le cose. Proprio perché rappresenta la divinità non può essere messo in discussione, impone l’imperativo categorico della sottomissione. Alle estreme conseguenze è la sacralità della pantofola del papa. Galilei dalla prigione scrive a Urbano VIII «umilmente prostrato al bacio della sacra pantofola, oso presentare la mia supplica…». Alla chiusura, precipitosa per l’arrivo dei bersaglieri, del Concilio Vaticano I che ha proclamato l’infallibilità del papa, tutti i vescovi si sono congedati con il bacio della sacra pantofola. Venuto il turno del patriarca orientale che non accetta il dogma dell’infallibilità, Pio IX l’ha sottratta al bacio e l’ha posta sopra la testa, dicendo: «Quando capirete?». Qui che c’entra Dio, ho la sfrontatezza di suggerire il mio libro Ma liberaci dal… sacro (Di Giacomo Editore, Trapani 2012).

Il cristianesimo non è religione del sacro, ma fede in quel Dio che ha deciso di condividere la condizione umana, non sul trono dei cesari, ma sul terribile supplicium (Cicerone) dei reietti. Considera tentazione satanica il potere, sceglie di essere il messia della croce. Inchiodato su quel legno, reso in-potente, dice il suo amore per ogni uomo e ci lasca liberi di accettare o rifiutare, persino di insultarlo. Non alzi il dito! Conosco gli infiniti tradimenti, ho insegnato storia con il coraggio della verità, posso spiegare, mai giustificare… ma Cristo è un’altra cosa e in suo nome continuo a ribellarmi.

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i cristiani omosessuali attendono risposte dalla chiesa

le domande dei cristiani omosessuali

 da l’Avvenire

«la pastorale della Chiesa è chiamata ad innescare processi di cambiamento, conversione, promozione, liberazione. Questo significa optare per la formazione della coscienza che sappia scorgere la volontà di Dio nel quotidiano, qui ed ora, piuttosto che una generica e spersonalizzante affermazione di principi astratti »

Si chiamano cristiani lgbt. Pregano, riflettono sulla propria condizione e mandano ai vescovi documenti con proposte pastorali. Sono anche riuniti in un Forum che, una volta l’anno, chiama a raccolta chi, ritrovandosi in questa complessa “frontiera esistenziale”, non intende rinunciare a cercare la propria posizione nella comunità ecclesiale.

Se pensiamo a carnevalate di dubbio gusto, con ostentazioni plateali e rivendicazioni espresse in modo sgangherato tipo Gay Pride, siamo decisamente fuori strada. Il Forum dei cristiani lgbt, che si è riunito nei giorni scorsi ad Albano laziale, ha discusso di legge naturale e di formazione delle coscienze, di accompagnamento spirituale e di progetti pastorali. Tra le decine di partecipanti, oltre a sacerdoti e religiose, anche non pochi genitori con figli omosessuali. I partecipanti del Forum di Albano hanno avuto l’opportunità di incontrare il vescovo diocesano, Marcello Semeraro, che è anche segretario del C9 (Il Consiglio dei cardinali). Parlando alla mamma di un figlio omosessuale che chiedeva fino a che punto una persona lgbt si possono considerare “dentro” la Chiesa, Semeraro ha ricordato che non è evangelico, in riferimento all’appartenenza alla comunità ecclesiale, usare termini come “dentro” o “fuori”. Si tratta piuttosto di accompagnare e integrare tutte le persone, a partire dalla condizione di ciascuno. Semeraro ha fatto riferimento all’Amoris laetitia, dove il Papa ribadisce che «ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto». Mentre per quanto riguarda le famiglie «si tratta di assicurare un rispettoso accompagnamento, affinché coloro che manifestano la tendenza omosessuale possano avere gli aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita» ( Al 250).

Ma come tradurre concretamente queste indicazioni in prassi pastorale? Come mostrare il volto di una Chiesa chiamata ad accogliere, accompagnare, integrare tutti coloro che bussano alla sua porta? Ne ha parlato padre Pino Piva, coordinatore nazionale dell’apostolato degli esercizi spirituali ignaziani: «La pastorale per persone omosessuali cristiane, che desiderano essere parte della vita della Chiesa a partire dalla loro identità, ha soprattutto il dovere di aiutare queste persone a conservare la speranza in Dio, nella Chiesa, nella comunità». Secondo il gesuita, anche per le persone omosessuali, «la pastorale della Chiesa è chiamata ad innescare processi di cambiamento, conversione, promozione, liberazione. Questo significa optare per la formazione della coscienza che sappia scorgere la volontà di Dio nel quotidiano, qui ed ora, piuttosto che una generica e spersonalizzante affermazione di principi astratti ». Padre Piva, che segue abitualmente gruppi di preghiera con la presenza di cristiani lgbt, si è detto convinto che la pastorale per le persone omosessuali «non possa più essere considerata “straordinaria” o “di frontiera”, per evitare sofferenze inutili, provocate da ignoranza del Vangelo e da una falsa concezione di verità senza misericordia».

Più impegnative, non solo dal punto di vista teorico, le considerazioni offerte al Forum dal filosofo Damiano Migliorini, autore tra l’altro con Beatrice Brogliato, di un monumentale saggio, quasi 500 pagine, sull’amore omosessuale (vedi box qui accanto). Secondo l’esperto la questione omosessuale e la nuova questione gender «sono nel loro insieme un vero e proprio test per la teologia cattolica » perché implicano la necessità di «andare alle radici più profonde dei propri dispositivi, in morale come in ecclesiologia, in sacramentaria come in teologia dogmatica». Se è vero che Amoris laetitia apre prospettive nuove, tutte però da mettere a fuoco, si tratta – ha spiegato Migliorini – di porsi una serie di domande e di riflettere sulle possibili conseguenze. Eccone alcune: «Davvero la dottrina della legge morale naturale applicata alle questioni di morale sessuale non permette un’integrazione delle istanze provenienti dalle minoranze sessuali? Nella ragionevolezza della dottrina morale quale posto si può rovare per l’amore omosessuale?». Per arrivare alla questione forse più drammatica: «Fino a che punto possiamo spingerci nel valutare la presenza di omosessuali, transessuali, bisessuali nel piano di Dio?». Domande che dal Forum dei cristiani lgbt tornano adesso nelle associazioni, nei gruppi di preghiera già impegnati in percorsi di ascolto. Una rete più vasta di quanto ci si possa immaginare. A dimostrazione che questa realtà esiste, bussa alle porte delle nostre comunità e chiede spazio, ascolto, accoglienza non discriminante. Tanto che anche l’Ufficio nazionale Cei per la pastorale della famiglia ha avviato un sondaggio per censire le proposte di accompagnamento rivolte alle persone omosessuali presenti nelle comunità e per valutare iniziative future. «La condizione omosessuale – ha concluso padre Piva – non è un problema per la fede, semmai una opportunità di progressiva comprensione dell’essenziale».

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il telegiornale dei rom

 

 

 

 

con l’edizione n. 1 – 7 maggio 2016 inizia il telegiornale dei rom

come  ogni neonato arricchisce la vita di tutti

come ogni neonato fa tenerezza

 come ad ogni neonato si fa spontaneamente gli auguri che cresca al meglio e dia il meglio di sé

AUGURISSIMI!

 

Edizione n. 1 – 7 Maggio 2016

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papa Francesco durissimo contro la viltà europea

il papa sferza la viltà della ‘Fortezza Europa’

farisei

 papa Francesco riceve in Vaticano il premio Carlo Magno dalle mani dei leader europei e gli fa la predica:

«Sogno che nella patria dei diritti umani essere un migrante non sia un delitto»

«sogno un’Europa in cui essere migrante non è un delitto», invece quella che si vede oggi è un’Europa che costruisce attorno a sé «recinti» e «trincee»

Papa Francesco ha salutato con queste parole i leader europei che ieri sono accorsi in Vaticano per presenziare al conferimento al pontefice del premio internazionale «Carlo Magno», il riconoscimento che ogni anno la città di Aquisgrana – dove venivano incoronati gli imperatori del Sacro romano impero e nella cui cattedrale sono tumulati i resti di Carlo Magno, il primo imperatore «europeo» – assegna a personalità che si siano contraddistinte per il loro ruolo in favore dei valori europei. La scelta di premiare Bergoglio, recitano le motivazioni del premio, è legata al suo «straordinario impegno a favore della pace, della comprensione e della misericordia in una società europea di valori»».farisei 1

Una «Europa nonna», «stanca e invecchiata», ha detto Francesco, rilanciando l’espressione che già aveva usato durante la sua visita al Parlamento di Strasburgo, nel novembre 2014. Un’Europa che ha smarrito i «grandi ideali» dei fondatori – ha citato Schuman e De Gasperi, ma non Altiero Spinelli -, «un’Europa tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione», «che si va “trincerando” invece di privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società».

In prima fila c’erano tutti i leader della «fortezza Europa»: il presidente del Parlamento europeo Schulz, il presidente della Commissione europea Juncker, il presidente del Consiglio europeo Tusk, l’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Mogherini, poi la cancelliera tedesca Merkel, Filippo VI di Spagna, Renzi, Draghi. Soprattutto a loro il papa ha fatto notare che questa Europa «sembra sentire meno proprie le mura della casa comune», allontanandosi «dall’illuminato progetto architettato dai padri» e cedendo invece agli «egoismi, guardando al proprio utile e pensando di costruire recinti particolari».

«L’Europa è la patria dei diritti umani, e chiunque metta piede in terra europea dovrebbe poterlo sperimentare», aveva detto Francesco il mese scorso, all’isola di Lesbo. Ieri lo ha ripetuto, in forma di domanda, senza risposta: «Cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?».

nonna cattiva

Per capirlo servirebbe una «trasfusione di memoria», quella auspicata da Elie Wiesel, sopravvissuto ai lager nazisti. «La memoria – ha spiegato il papa – non solo ci permetterà di non commettere gli stessi errori del passato, ma ci darà accesso a quelle acquisizioni che hanno aiutato i nostri popoli ad attraversare positivamente gli incroci storici che andavano incontrando» e ad «aggiornare l’idea di Europa», lungo tre direttrici: la capacità di «integrare», «dialogare» e «generare». Integrare popoli e persone perché, ha ricordato Francesco, «l’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale», mentre «i riduzionismi e tutti gli intenti uniformanti, lungi dal generare valore, condannano i nostri popoli a una crudele povertà: quella dell’esclusione. Che lungi dall’apportare grandezza, ricchezza e bellezza, provoca viltà, ristrettezza e brutalità. Lungi dal dare nobiltà allo spirito, gli apporta meschinità».

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Europa sorda

Poi il «dialogo»: il compito dell’Europa non è realizzare «coalizioni militari o economiche, ma culturali, educative, filosofiche, religiose», le quali «mettano in evidenza che, dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di gruppi economici». E la «capacità di generare», con lo sguardo rivolto ai giovani. «Come possiamo fare partecipi i nostri giovani di questa costruzione quando li priviamo di lavoro» e «gli indici di disoccupazione e sottoccupazione sono in aumento?», ha chiesto Bergoglio. «La giusta distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è mera filantropia, è un dovere morale».

«Sogno un’Europa – ha concluso Francesco – che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia».
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i sogni ‘ad occhi aperti’ di papa Francesco

papa Francesco

“sogno un’Europa in cui essere migrante non sia delitto”

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il discorso di Francesco alla cerimonia di conferimento del premio Carlo Magno: «L’identità europea è sempre stata dinamica e multiculturale»

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di A.Tornielli

«Sogno un’Europa dove essere migrante non sia delitto» e dove sposarsi e avere figli sia «una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile»

Francesco riceve in Vaticano il premio Carlo Magno. Un’eccezione per Bergoglio, che in vita sua ha sempre rifiutato questo tipo di riconoscimenti. Un’eccezione che gli permette di trasformare la circostanza in un’occasione per chiedere «uno slancio nuovo e coraggioso per questo amato Continente». Alla presenza del cancelliere tedesco Angela Merkel, del presidente del Parlamento Europeo Martin Schultz, del presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, del presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, del re di Spagna Filippo VI, del presidente del Consiglio dei Ministri italiano Matteo Renzi e dell’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza Federica Mogherini, è stato consegnato al Pontefice il riconoscimento attribuito ogni anno dalla città di Aquisgrana a personalità che si siano contraddistinte per il loro ruolo in favore dei valori europei. La motivazione è legata all’impegno di Francesco nel costruire un’Europa di pace, fondata su valori comuni e aperta ad altri popoli e continenti. Bergoglio ha dedicato «il prestigioso Premio» all’Europa, che, ricorda ha sempre avuto un’identità multiculturale e «la creatività, l’ingegno, la capacità di rialzarsi e di uscire dai propri limiti».

La tentazione dell’egoismo

Nel suo ampio discorso, Francesco ricorda i padri fondatori del progetto europeo che dopo la Seconda Guerra mondiale «gettarono le fondamenta di un baluardo di pace, di un edificio» costruito da Stati uniti non «per imposizione, ma per la libera scelta del bene comune». Una «famiglia di popoli» diventata «più ampia», che però «in tempi recenti sembra sentire meno proprie le mura della casa comune, talvolta innalzate scostandosi dall’illuminato progetto architettato dai padri». «Siamo tentati – osserva il Pontefice – di cedere ai nostri egoismi, guardando al proprio utile e pensando di costruire recinti particolari». È un’Europa «che si va “trincerando”». «Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà?», domanda Francesco.

Trasfusione di memoria

Il Papa chiede di non dimenticare. Cita lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, il quale diceva che oggi è di capitale importanza realizzare una «trasfusione di memoria». È ciò che «ci libera da quella tendenza attuale spesso più attraente di fabbricare in fretta sulle sabbie mobili dei risultati immediati che potrebbero produrre una rendita politica facile, rapida ed effimera». I padri fondatori dell’Europa, spiega il Papa «osarono cercare soluzioni multilaterali ai problemi che poco a poco diventavano comuni».

Ritornare alla solidarietà

cosa ti è successo

Francesco ricorda le parole di Robert Schuman, l’Europa «si farà attraverso realizzazioni concrete». E osserva che «in questo nostro mondo dilaniato e ferito, occorre ritornare a quella solidarietà di fatto, alla stessa generosità concreta che seguì il secondo conflitto mondiale». I progetti dei padri fondatori «ispirano, oggi più che mai, a costruire ponti e abbattere muri» e invitano «a non accontentarsi di ritocchi cosmetici o di compromessi tortuosi per correggere qualche trattato, ma a porre coraggiosamente basi nuove, fortemente radicate». Un «lavoro costruttivo che esige tutti i nostri sforzi di paziente e lunga cooperazione», come diceva Alcide De Gasperi.

Per l’integrazione

Francesco sottolinea tre caratteristiche dell’Europa: la capacità di integrare, di dialogare e di generare. Le radici dei popoli europei, spiega, «si andarono consolidando nel corso della sua storia imparando a integrare in sintesi sempre nuove le culture più diverse e senza apparente legame tra loro. L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale». Per il Papa la politica «sa di avere tra le mani» un compito «fondamentale e non rinviabile», quello di «promuovere un’integrazione che trova nella solidarietà il modo in cui fare le cose, il modo in cui costruire la storia». Una solidarietà che «non può mai essere confusa con l’elemosina, ma come generazione di opportunità» perché tutti «possano sviluppare la loro vita con dignità». Così la comunità dei popoli europei «potrà vincere la tentazione di ripiegarsi su paradigmi unilaterali e di avventurarsi in “colonizzazioni ideologiche”». Il volto dell’Europa «non si distingue nel contrapporsi ad altri, ma nel portare impressi i tratti di varie culture e la bellezza di vincere le chiusure». Francesco cita queste parole di Konrad Adenauer: il futuro dell’Occidente è minacciato «dal pericolo della massificazione, della uniformità del pensiero e del sentimento; in breve, da tutto il sistema di vita, dalla fuga dalla responsabilità, con l’unica preoccupazione per il proprio io».

La cultura del dialogo

Il Papa invita «a promuovere una cultura del dialogo». Una cultura che «implica un autentico apprendistato» per riconoscere l’altro come «un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato». La pace «sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione». La cultura del dialogo «dovrebbe essere inserita in tutti i curricula scolastici», per «inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui li stiamo abituando. Oggi ci urge poter realizzare “coalizioni” non più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose». Per mettere in evidenza che, «dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di gruppi economici» e «difendere il popolo dall’essere utilizzato per fini impropri. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro».

Capacità di generare

Bisogna offrire ai giovani «una reale partecipazione» nel cambiamento. E come «pretendiamo di riconoscere ad essi il valore di protagonisti, quando gli indici di disoccupazione e sottoccupazione di milioni di giovani europei è in aumento?», si chiede il Papa. La «giusta distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è mera filantropia. È un dovere morale». Servono «nuovi modelli economici più inclusivi ed equi, non orientati al servizio di pochi, ma al beneficio della gente e della società. E questo ci chiede il passaggio da un’economia liquida a un’economia sociale», spiega Francesco, citando «l’economia sociale di mercato». Se vogliamo «un futuro di pace per le nostre società, potremo raggiungerlo solamente puntando sulla vera inclusione: quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale».

I sogni di Francesco per l’Europa

«Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede – conclude Bergoglio, nato in una famiglia di emigranti italiani – sogno un nuovo umanesimo europeo».

Il Papa sogna «un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo». Un’Europa che «ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto». Un’Europa «in cui essere migrante non sia delitto bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano». Un’Europa «dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo» e «dove sposarsi e avere figli» sia «una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile». Infine, il Papa sogna «un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni». «Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stata la sua ultima utopia».
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il commento al vangelo della domenica

ASCENSIONE DEL SIGNORE

 8 maggio 2016

MENTRE LI BENEDICEVA VENIVA PORTATO VERSO IL CIELO

 commento al vangelo della domenica dell’Ascensione (8 maggio 2016) di p. Alberto Maggi:

p. MaggiLc 24,46-53

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

Per comprendere la festa liturgica dell’Ascensione bisogna rifarsi alla cultura dell’epoca, alla cosmologia, com’era concepito il rapporto tra il cielo e la terra. Dio era lontano dagli uomini e stava in cielo, e gli uomini naturalmente erano sulla terra. Pertanto tutto ciò che proveniva da Dio scendeva dall’alto, scendeva dal cielo, mentre tutto quel che andava verso Dio saliva verso il cielo. Questo è importante per comprendere questo brano, nel quale l’evangelista, con l’Ascensione di Gesù, non vuole indicarci una separazione di Gesù dagli uomini, ma un’unione ancora più intensa. Con l’Ascensione Gesù non si allontana dal mondo, ma si avvicina; la sua non è un’assenza, ma una presenza ancora più intensa. Ma vediamo il brano che la chiesa ha scelto per questa festa. E’ il brano finale del vangelo di Luca, capitolo 24, versetti 46-53, ma partiamo dal 45 perché è importante. E’ la premessa che l’evangelista ci dà e ci indica per comprendere quello che scrive. Infatti Luca scrive: Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture. Per comprendere le scritture non basta leggerle, bisogna che venga aperta la mente, cioè aprirsi verso il nuovo. Chi si rifà a schemi, modelli e formule del passato e non apre la mente per comprendere il nuovo può leggere le scritture, ma non le può comprendere.  E Gesù disse loro: “Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno”. Gesù conferma che il messia, l’inviato da Dio, avrebbe patito e sarebbe risorto per sempre – il numero tre sappiamo che nella cultura ebraica indica quello che è definitivo. Ed ecco il mandato che Gesù dà ai suoi discepoli e ai credenti di tutti i tempi. “E nel suo nome”, nel nome di questo Gesù salvatore, “saranno predicati a tutti i popoli”, il termine adoperato dall’evangelista indica tutte le nazioni pagane, quindi il messaggio di Gesù non è riservato a un popolo, ma è rivolto a tutta l’umanità perché è la realizzazione del disegno d’amore di Dio per la sua creazione. “Saranno predicati a tutti i popoli la conversione”, cioè un cambiamento di mente che comporta un cambio nel comportamento. La conversione nel vangelo ha questo significato: se fino ad ora hai vissuto per te, adesso orienta la tua vita per il bene degli altri. “La conversione per il perdono dei peccati”. Il cambio radicale nel proprio comportamento, dove l’uomo non pensa più a sé, ma pensa agli altri, non pensa ai propri bisogni, ma alle necessità degli altri, questo comporta la cancellazione del peso dei peccati che gravavano sulle sue spalle. E Gesù aggiunge: “Cominciando da Gerusalemme”. Quello che Gesù sta affermando è clamoroso, perché era a Gerusalemme, nel tempio, attraverso sacrifici, offerte e riti, che si concedeva il perdono dei peccati. Con Gesù il ruolo del tempio è concluso, è finito. Il perdono dei peccati non si ha più in un rito, ma nella vita, non attraverso sacrifici o offerte, ma orientando la propria vita per il bene degli altri. E Gesù dice “questo cominciate a farlo proprio da Gerusalemme”, la sede dell’istituzione religiosa dove nel tempio si concedeva il perdono dei peccati in nome di Dio. Ecco la novità, l’apertura che Gesù proclama e che i suoi discepoli devono far conoscere al mondo intero. E poi Gesù annunzia: “Io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso, ma voi restate in città finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”. Gesù annunzia la venuta dello Spirito Santo, e questo spirito Luca lo fa coincidere proprio con il giorno in cui la comunità giudaica festeggiava il dono della legge data da Dio a Mosè sul monte Sinai, nel giorno di Pentecoste. Nel mondo in cui la comunità giudaica celebrava e ringraziava per la legge, sulla comunità scende lo spirito, l’amore di Dio. E’ il nuovo orientamento della comunità, la relazione con Dio ora sarà diversa. Il credente, con Gesù, non sarà più colui che obbedisce a Dio osservando la sua legge, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo, quindi non più la legge, ma un rapporto d’amore. Poi li condusse … il verbo è lo stesso dell’esodo, quindi deve cominciare questa liberazione da questa istituzione, verso Betania, e alzate le mani, li benediceva, questo particolare è importante perché si rifà al libro dell’Esodo, all’episodio di una guerra, quando Mosè alzava le mani, gli Israeliti vincevano, quindi è un segno di vittoria, quindi non è una sconfitta, ma un segno di vittoria. Si staccò da loro e veniva portato su in cielo. Come abbiamo detto all’inizio l’evangelista adopera il linguaggio culturale della sua epoca, in cui Dio era in alto, per cui tutto ciò che va verso Dio va in alto. L’evangelista vuole dire che in Gesù si manifesta la pienezza della condizione divina. Quell’uomo che le  autorità religiose avevano condannato come bestemmiatore e al quale avevano inflitto la pena riservata ai maledetti da Dio, in realtà era Dio. Chi bestemmiava non era Gesù, ma l’istituzione religiosa che, per il proprio interesse, lo ha assassinato. La conclusione del vangelo di Luca è molto deludente. Infatti scrive: Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e – sorpresa finale -stavano sempre nel tempio lodando Dio. L’evangelista vuole dire che non avevano capito assolutamente niente. Il tempio, il luogo che per Gesù era quello di massimo pericolo, il luogo che Gesù aveva detto essere un covo di ladri e che sarebbe stato distrutto, per i discepoli è il luogo di massima sicurezza. Ci vorrà la discesa dello Spirito Santo, la potenza di Dio, per farli uscire dal tempio e andare verso l’umanità, verso tutti i popoli pagani, come Gesù aveva loro richiesto.

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un premio ‘per la pace’ alla ministra che ‘organizza la guerra’

 un premio che offende i morti

vergogna!

zanotelli

Raffaele Nogaro, Sergio Tanzarella, Alex Zanotelli, Francesco de Notaris, Francesco La Saponara (www.ildialogo.org) contro il premio ‘Napoli città di pace’ al ministro della difesa Pinotti da parte dell’Unione Cattolica Stampa Italiana

 dobbiamo con profondo rammarico denunciare che la capacità mimetica della guerra e la giustificazione della violenza si accrescono in modo inatteso nella generale indifferenza con un uso e un abuso della parola pace. Ne è stata dolorosa prova l’attribuzione il 13 aprile 2016 del premio Napoli Città di Pace all’attuale ministra della Difesa Roberta Pinotti da parte dell’Unione Cattolica Stampa Italiana

Le motivazioni del premio a lei dato costituiscono una offesa all’intelligenza e sono un monumento alla mistificazione:
 «I notevoli primati del suo ruolo strategico e riformatore in materia di difesa nazionale e internazionale, declinati al femminile in piena coerenza con un impegno al servizio della politica come forma più alta d’amore, che, mette sempre al centro a tutela e la dignità della vita umana».
 Ci chiediamo da quando i ministri della Difesa si occupano della tutela e della dignità umana e non invece dell’organizzazione e realizzazione della guerra sebbene sotto la denominazione edulcorata e rassicurante di missione di pace e operazione di polizia internazionale? Le guerre in Iraq, i bombardamenti della Serbia e della Libia, la guerra in Afghanistan sono le azioni scellerate che i governi italiani e i ministri della Difesa hanno promosso riuscendo sia ad aggirare l’articolo 11 della Costituzione, sia a fare ulteriormente ingrassare i fabbricanti di armi complici dei Parlamenti fatti da maggioranze di alza paletta che rinnovano esorbitanti finanziamenti per sistemi d’arma, bombe, missili, aerei e navi da guerra tanto da non avere più denaro per curare i malati, istruire i giovani, sconfiggere le marginalità sociali.Nogaro

La stessa ministra Pinotti, sempre pronta a mettere a disposizione soldati italiani per tutte le guerre del pianeta, ha intuito il paradosso della concessione del premio e, prevedendo critiche ha affermato: «Potrebbe sembrare paradossale premiare un ministro che si occupa di Difesa e Forze armate con un premio per la pace, ma si è capito che non è affatto paradossale perché le nostre Forze armate operano proprio per garantire la sicurezza dei cittadini, la stabilità delle Istituzioni e lavorano quotidianamente per riportare la pace».

Sarebbe istruttivo per tutti che a queste affermazioni potessero replicare i civili uccisi dalle bombe italiane, i morti iracheni uccisi a causa della fantomatica arma letale per cui venne combattuta – anche da parte degli italiani – quella guerra. E soprattutto dovrebbero parlare le centinaia di militari italiani morti e le migliaia di ammalati di cancro a causa dell’uranio impoverito alle cui polveri furono esposti senza alcuna protezione. Gli orfani e le vedove di quei militari, cui sono negate anche forme di assistenza, meriterebbero di non essere offese da questo premio.

È certo molto inquietante e moralmente grave che il premio sia stato promosso e attribuito dall’Unione Cattolica Stampa Italiana Campania nella persona del suo presidente regionale Giuseppe Blasi e della vicepresidente nazionale Donatella Trotta con la partecipazione dell’assistete spirituale dell’Unione il salesiano Tonino Palmese. L’Unione Cattolica Stampa Italiana ha commesso un grave errore che noi qui denunciamo. A chi il prossimo premio per la pace? A Finmeccanica? È evidente che l’Unione non presta attenzione alle parole che papa Francesco ha pronunciato, ripetutamente in questi tre anni, contro i fabbricanti di armi e i loro mediatori e clienti. Armi che sono realizzate con il solo scopo di uccidere, per essere utilizzate in questa terza guerra mondiale a puntante nella quale i ministri della Difesa italiani hanno avuto e hanno un ruolo non di comparse, ma di protagonisti premiati in nome della “pace”. Ma questo non è un paradosso, è soltanto vergognoso.

Raffaele Nogaro, vescovo emerito di Caserta
Sergio Tanzarella, storico della Chiesa
Alex Zanotelli, missionario comboniano
Francesco de Notaris, ex senatore e attivista per la pace
Francesco La Saponara, ex deputato e docente universitario
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i ‘preti in tenda’ decidono di continuare …

siamo don Emanuele, don Andrea, don Alessandro e don Gianluca:

conclusa la Pasqua abbiamo deciso di continuare a vivere nella tenda

lettera dal titolo “la tenda, ancora” nella quale raccontiamo il perché

e  anche qualcosa di quello che abbiamo capito in questi mesi

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La tenda. Tempo primo

Quando abbiamo cominciato a vivere nella tenda avevamo più sentimenti che idee, eravamo più protesta che proposta. Vivendo in tenda abbiamo assistito sorpresi al fiorire di significati come mai avremmo immaginato. A propiziare tutto quanto è stata la sua collocazione, sul limitare del sagrato, ma anche la lettera-denuncia che ne ha accompagnato l’apparizione e il rimbalzo della sua immagine su qualche social network e giornale. Motivo di vaniloquio, occasione di dibattito, luogo di ascolto: la tenda è stato tutto questo e promette di diventare anche altro. Intanto su di noi ha agito come una levatrice: ci ha aiutato a partorire sguardi nuovi sul mondo, sulla chiesa, su noi stessi. Ripensando con riconoscenza agli incontri vissuti ci rendiamo conto ora che essi attendevano da tempo di poter accadere. Serviva soltanto che ci spostassimo un po’.

Non è stato facile. Siamo preti, eredi di una cultura cristiana che ha occupato una posizione di assoluta centralità. La tenda ha fatto del suo meglio per aiutarci a guardare le cose dal punto di vista di chi vive in periferia. E qualche risultato l’ha ottenuto se diverse persone che soffrono ai margini del mondo hanno sentito qui un p  di vicinanza spirituale. Persone che vivono ai margini della vita ecclesiale per ragioni etiche, politiche o religiose; persone che vivono al centro della vita parrocchiale ma soffrono l’immobilità delle sue pratiche pastorali; persone che condividono la vita con i poveri e combattono per il loro riscatto; persone che continuano a credere nella politica come arte della convivenza; adolescenti e giovani in ricerca: molti di loro hanno trovato nella tenda motivo di conforto, un’àncora simbolica alla loro condizione. Non ultimi i nostri amici richiedenti asilo. Nella lettera lasciata in occasione della loro visita abbiamo trovato queste parole: “l’esperienza che state vivendo in tenda ci fa pensare a come potremmo trovarci a vivere se fossimo costretti alla clandestinità…”. Grazie ai sensi molteplici e perfino ai controsensi che di volta in volta le persone hanno voluto trovarvi, la tenda è cresciuta divenendo ai nostri occhi come un simbolo, capace di  mettere insieme e di dividere. L’abbiamo abitata in quattro, ma molti l’hanno edificata come molti l’hanno demolita. A tutti dobbiamo un grazie perché nel tempo di Quaresima è stata ci  che è stata.

Qualche visitatore ci ha ringraziato perché vivevamo insieme in condizione di debolezza e provvisorietà. D’un colpo abbiamo rotto due cliché radicati nell’immaginario, quello del parroco che vive da solo e che vive in una canonica. E’ bastata l’esile struttura della tenda con noi quattro dentro a disarmare i nostri visitatori e a favorire il clima libero, non giudicante e confidenziale dello scambio. Vivere insieme in un ambiente indifeso è stato la risposta più efficace e persuasiva che ha raggiunto i nostri visitatori prima ancora che aprissimo bocca, l’argomento più solido di qualsiasi considerazione sul divario tra ricchi e poveri. Con la complicità di un ambiente povero, a qualche parrocchiano e visitatore è parso del tutto naturale inserirsi in questa fraternità offrendo un dono, un pasto, un servizio, una lettera, una telefonata. Ovviamente a qualcun altro è parso del tutto inappropriato che dei parroci vivessero così. Nel frattempo la tenda è riuscita a mettere insieme noi preti molto più di quanto non siano riuscite a fare le nostre case parrocchiali. Mai come in queste settimane abbiamo percepito il bisogno gli uni degli altri. Non il bisogno di una mano pastorale ma il bisogno di stare vicini, di sostenerci a vicenda nel rendere ragione della nostra scelta. Una sensazione del tutto nuova, favorita dalla vulnerabilità e confinante con l’amicizia. Vivere insieme ha naturalmente reso evidenti somiglianze e differenze: ma perché ci sia amicizia servono entrambe. Così, pur nella diversità dello stile e del ritmo abitativo, abbiamo sentito che la nostra fraternità c’era, che poteva essere generativa per altri, che poteva favorire lo sviluppo di alleanze e parole vere per il nostro tempo.

Trovato posto per le nostre distanze, è stato possibile trovarne uno per quelle alimentate da  osservatori esterni: le critiche di amici e nemici ci hanno rafforzato, costringendoci a verifiche continue. Uno degli effetti salutari imposti dalle obiezioni degli altri è stato dubitare seriamente di noi stessi. Già quando si era trattato di scendere in tenda all’inizio della Quaresima, qualche esitazione si era fatta sentire. Ma col passare dei giorni e con il polarizzarsi dei commenti, a favore o contro, i dubbi hanno cominciato a pesare.

Dubbi sull’opportunità di un gesto così apertamente provocatorio in un clima sociale già teso: non sarebbe stato meglio un invito forte alla conciliazione visto il nostro ruolo di parroci in paesi prevedibilmente divisi su questioni così gravi? Non sarebbe stato meglio promuovere azioni solidali invece che azioni di rottura?

Dubbi sui possibili effetti controproducenti: non avrebbe la tenda favorito paradossalmente sentimenti pregiudiziali verso i poveri?

Dubbi sulla credibilità della nostra causa: i poveri non sono forse sempre esistiti? Perché svegliarsi ora e con questa veemenza? E perché questa insistenza sui poveri che giungono da fuori? Non sarebbe stato meglio occuparsi delle mille povertà che affliggono i nostri paesi ed evitare di sporgere una denuncia così unilaterale  contro le colpe dell’Occidente?

Infine dubbi sulla credibilità della nostra scelta: i poveri sono ben lontani dalle condizioni socio-economiche di cui abbiamo continuato a godere noi, malgrado la nostra precaria abitazione. Sicché: la tenda sarà anche povera; ma i quattro che la abitano?

Onore dunque ai dubbi; ma restiamo convinti che neppure essi siano al di sopra di ogni sospetto, che anch’essi siano una forma del rapporto che l’uomo istituisce con la verità delle cose e siano specchio del suo cuore. E che vadano sempre distinti dal sarcasmo stizzoso e dal pregiudizio. Per questo motivo tra i dubbi che meno ci hanno convinto c’è quello di aver trasgredito le buone maniere, il politicamente corretto e l’ecclesialmente corretto; aver lasciato trasparire la passione con i suoi eccessi, le sue parzialità, aver vestito i panni arrabbiati dei migranti invece che quelli equilibrati degli osservatori. Più che figlie del dubbio queste reazioni ci sono sembrate irritazioni un poco borghesi. Non c’è da rimanere meravigliati: decidendo di uscire dal tracciato delle pratiche pastorali ammesse, era da prevedere qualche rischio, qualche perplessità e ironia tra i cristiani e i confratelli alle prese con le stesse problematiche pastorali.

La tenda. Tempo secondo

Con la Pasqua le visite sono sostanzialmente terminate. E con esse il flusso gratuito e inarrestabile di senso profuso dalle parole e dalle attese degli altri. La palla è tornata nuovamente a noi. Che fare della protesta con cui abbiamo iniziato? Che fare dei significati nuovi avuti in regalo? E come rispondere alle attese emerse dagli incontri? Ci troviamo di fronte non a un difetto di senso ma alla sua sovrabbondanza. Gli sviluppi possibili sono molteplici e coinvolgono l’intera nostra esistenza. Abbiamo bisogno di tempo per capire e rispondere. Ecco una ragione per cui la tenda è ancora qui e noi siamo ancora dentro: per ora ci pare il luogo migliore per ascoltare le periferie, per custodire le intuizioni nate, per dare corpo alla nostra fraternità, per dare vita a nuovi segni di protesta e azioni di proposta in favore degli indifesi del mondo.

Mentre scriviamo, l’Austria e i paesi del nord Europa minacciano di sospendere Schengen per altri due anni, il Burundi sta precipitando nel rischio di un nuovo genocidio, l’intervento armato in Libia è sempre sul punto di esplodere, la guerra in Siria continua a mietere vittime innocenti, l’Inghilterra ha detto no a tremila bambini siriani fuggiti da quell’inferno. L’elenco delle aberrazioni etiche e giuridiche è infinito. Proprio in questi giorni i siti web hanno aggiornato la cifra dei morti annegati nel penultimo affondamento nel mediterraneo: non quattrocento ma cinquecento. Quanti sono ormai a giacere là in fondo? Tanti, troppi perché il nostro sistema emotivo possa reggere senza dolore. Questo è il punto. Si diventa remissivi per soffrire di meno. Se la morte del piccolo Aylan sulle coste della Grecia fu una tragedia, 500 migranti che affogano diventano facilmente un dato statistico. Ci si abitua, ci si adatta. Ma a noi non sta bene. Noi non vogliamo abituarci né adattarci. Come tutti ci sentiamo impotenti. E l’impotenza acuisce il dolore. Ma noi crediamo che questo dolore sia il ponte che ci tiene collegati alla realtà e alla nostra comune umanità. Per questo non vogliamo disfarcene. E per questo restiamo nella tenda. Abbiamo bisogno di pungolare continuamente la nostra carne e la nostra mente per restare svegli, per riuscire a piangere, per non assopirci e lasciarci inoculare qualcuno degli anestetici di cui la nostra cultura abbonda. Beninteso, è del tutto inutile restare in una tenda ai fini del miglioramento della condizione degli oppressi. Ma anche abitare una casa lo è. La differenza è che in una tenda piantata tra le case è più difficile abituarsi. In un tenda devi dare spiegazioni a te stesso e agli altri. In una tenda è più facile immaginare ci  che i poveri vivono. E sentirlo. E sentire ogni giorno l’urgenza di alzare la voce in loro favore denunciando l’illegalità e la complicità delle istituzioni democratiche occidentali, quelle dei regimi dittatoriali loro alleati o nemici, l’indifferenza della società civile, il silenzio dei media, la lucida crudeltà della finanza mondiale e del commercio di armi.

Non è la nostra tenda a costituire un’eccezione. Per limitarci al diritto negato di un luogo dove vivere in dignità, è risaputo che ci sono milioni di esseri umani baraccati nelle immense bidonville latino-americane e africane, dimenticati da decine di anni nei campi profughi mediorientali,  espropriati delle case, della terra e di ogni altro diritto in Palestina, sistemati in tendoni maleodoranti ai confini dell’Europa in fuga da guerra e miseria. Se spostiamo lo sguardo nei nostri paesi scopriremo che gli sfratti per morosità sono in aumento, che la crescita dei senza fissa dimora non conosce sosta e che le case vuote sono molte ma sono indisponibili per chi ne ha un disperato bisogno. Non si tratta di una situazione transitoria: la verità è che sempre più persone faticano a trovare un posto dove vivere e un modo per vivere. E vengono trattate come fuori legge se protestano. Sempre più persone sono costrette ad accontentarsi delle briciole che cadono dalla mensa dei ricchi, relegate alle periferie del mondo, lontane dai centri che contano, condannate a non avere voce né storia. No davvero, non è la nostra tenda a fare eccezione. Siamo in molti qui.

Ci  che è stato fatto alle vittime è imperdonabile ma non pu  essere cambiato. L’orologio indietro non torna. L’unica cosa che possiamo e dobbiamo fare è implorare che accada l’impossibile: il perdono. Qualcuno ha detto che c’è perdono solo dove c’è l’imperdonabile. Se accadrà saremo salvi. Intanto è nostro dovere domandarlo con forza e domandarlo sempre. Non c’è altra speranza di salvare l’umanità che abbiamo perduto. E’ questa un’altra ragione per cui continuiamo ad abitare la tenda. E’ un modo di fare penitenza e dire ad alta voce che ci vergogniamo di quanto abbiamo fatto e di quanto stiamo facendo. Il perdono delle vittime è l’unica cosa che vorremo aver implorato quando si tratterà di entrare nel Regno dei cieli.

Domandare perdono sarebbe d’altra parte un insulto ulteriore alle vittime se fosse disgiunto dalla volontà ferma di dare un nome ai crimini commessi in passato e denunciare quelli in corso. Mentre imploriamo il perdono dunque, dobbiamo deciderci a scucire la bocca, a rompere l’autocensura che ci imponiamo nel timore di suscitare incomprensioni o divisioni. Noi crediamo che la Chiesa così come il suo Signore è stata inviata “a portare un lieto messaggio ai poveri e la liberazione ai prigionieri”. Dobbiamo stare all’erta per cogliere da quale direzione giungono le voci delle vittime  perché da quella parte giunge anche la voce di Gesù: Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verr  da lui, cener  con lui ed egli con me. (Ap 3,20).

I sacerdoti delle comunità di

Ambivere, Mapello e Valtrighe

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