papa Francesco decisamente dalla parte dei poveri

 

 la prossima giornata mondiale della pace

“dalla parte dei poveri”

poveri assoluti

lo slogan della ‘giornata mondiale della pace’ dell’anno scorso era Periferie cuore della missione, quest’anno è Dalla parte dei poveri; in entrambi i casi si avverte l’influenza del magistero di papa Francesco, il quale non perde occasione per ricordare a tutti i fedeli che la Chiesa è in cammino e sta andando incontro ai poveri nelle periferie più lontane

di Mario Bandera

Alcune assonanze con questi concetti il papa le ha espresse durante il suo recente viaggio negli Stati Uniti, dove ha ricordato, nella nazione simbolo del capitalismo, come un cristiano non può rimanere indifferente di fronte ai gravi problemi sociali derivanti dalla povertà. Di riflesso, possiamo dire anche noi che schierarci dalla parte dei poveri è mettere a nudo la nostra fede, il nostro modo di essere comunità cristiana, il nostro stile di essere Chiesa.

povertà

Cosa vuol dire schierarsi dalla parte dei poveri? Sappiamo che c’è un pericolo, quando si parla di queste cose negli ambienti ecclesiali: presentare la povertà come qualcosa di romantico, una condizione di vita che, poeticizzata e mostrata sotto una forma edulcorata, diventa quasi una scenografia per una bella favola da raccontare. Vale la pena riaffermare ancora una volta che la povertà è ingiusta, la povertà, per le tante situazioni estreme e difficili che costringono tante persone a vivere perennemente in emergenza, è causa di conflitti nelle famiglie, nei gruppi e nelle comunità.

I poveri non sono migliori degli altri, anzi, il vero povero è povero in tutto: è povero di cultura, ha una condizione sociale miserevole, vive in ambienti fatiscenti, spesso e volentieri manda i bambini a elemosinare.

Eppure Gesù dice «Beati i poveri», e non solo quelli in spirito, ma poveri in tutto; essi sono i preferiti da Dio non perché essi sono più buoni degli altri, bensì perché Dio è buono e Dio dona gratuitamente il suo amore soprattutto a chi è negata una vita degna di essere vissuta.

BuonSamaritano

La dottrina sociale della Chiesa, fin dagli albori della rivoluzione industriale, ricorda che ci sono due peccati gravi che gridano vendetta al Cielo: l’oppressione dei poveri e la frode sul salario degli operai. Avere presente oggi la condizione di tanti esseri umani che vivono in situazioni di miseria perché un mercato scellerato a livello mondiale ha impoverito i loro paesi con la complicità di classi dirigenti mantenute al potere grazie a sistemi dittatoriali che si perpetuano con la frode, l’inganno e la violenza, ci aiuta a capire da che parte dobbiamo schierarci.

Se, in molti paesi del così detto terzo mondo, i lavoratori sono pagati con stipendi da fame, e vivono in condizioni disumane, possiamo capire come molti di loro, non accettando questa situazione, preferiscono vendere tutto e mettersi nelle mani degli scafisti per approdare in Europa alla ricerca di una vita più serena e di un futuro più tranquillo per loro e per i loro figli.

Essere cristiani vuol dire schierarsi dalla loro parte, imparare a leggere la realtà con i loro occhi, guardare al futuro con la speranza che essi portano in cuore. Solo così si riuscirà a comprendere la realtà con occhi diversi e non solo a vedere il povero come uno straniero, un pericolo per la società o, quello che è peggio, uno da cui difendersi.

Nella migliore tradizione cattolica, finora si è andati verso i poveri con le braccia cariche di doni. Ma avere le braccia occupate rendeva impossibile abbracciarli. Ciò che essi aspettano da noi è di venire considerati per quello che sono: uomini e donne bisognosi di aiuto, fratelli con cui condividere la stessa mensa.

 

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frasi vuote …

lettera a quelli che dicono:“meglio lasciarli affogare”

migranti

di Ilaria Roccuzzo Reuscher
in “il Fatto Quotidiano” del 10 agosto 2015

 ci sono persone che non capiscono o non vogliono capire e dicono frasi vuote: “dovremmo rimandarli tutti a casa”, oppure “dovremmo chiudere le frontiere”, che poi si traduce “lasciamoli affogare nel Mar Mediterraneo”

 

Vorrei mettervi tutti qui, su questo molo del porto di Palermo, a osservare quello che succede. E succede questo: arriva un’enorme nave della Guardia Costiera, da lontano sembra quasi vuota, poi man mano si avvicina e attracca e allora li vedi. Alcuni si affacciano, altri sono seduti sul ponte superiore, altri ancora sono seduti o sdraiati accanto alle scialuppe di salvataggio. Guardano a riva come se non sapessero dove sono e da dove vengono. Come se quella umanità che li attende, fra Croce Rossa, Caritas, locali aziende di sanità, Protezione Civile, Polizia, fosse costituita da alieni.

SONO CENTINAIA e fra di loro ci sono anche morti, fra cui bambini e donne incinte. Iniziano a scendere, quelli nelle condizioni peggiori per primi, indossando larghe divise bianche, la maggior parte è scalza. Si mettono in fila, attendendo di passare il primo controllo medico, per capire chi è malato di cosa ed essere inviato nel giusto padiglione medico, non prima di prendere distrattamente la busta con bibite e cibo che gli porgi e andare a sedersi per mangiare. C’è la mamma con la bambina in braccio che stringe un pelouche, c’è il ragazzo con la maglietta della Juventus e quello con la maglietta del Manchester United, c’è lo spazio dove vengono fatti sedere i minorenni. E loro fanno paura; sono ragazzi, sono me e i miei amici quattro o cinque anni fa, ma a loro l’hanno rubata la spensieratezza e la gioia di essere giovani. E se si inorridisce a vedere gli sguardi vuoti di certi adulti, vedere quelli di questi ragazzi ti fa venire voglia di piangere. Non per i piedi nudi, la puzza, i tagli addosso ma per i loro sguardi. È da lì che capisci.

ALCUNI TI SORRIDONO quando gli porgi la busta, e ti dicono “thank you” o “merci beaucoup”. Loro sono stati fortunati , la loro speranza è stata più forte della disperazione, sanno che il peggio è passato e che loro sono vivi e i loro volti e i loro occhi non possono non ridere. Alcuni aiutano persino a tradurre qualche frase, fanno anche delle battute. Poi ci sono quelli che non sorridono. Sono quelli che in mezzo a quel mare hanno lasciato una grande parte di sé stessi e della propria anima. C’è un ragazzo con la camicia blu elettrico, 25 forse 30 anni, che ha visto i suoi due fratelli affogare davanti ai propri occhi. Non prende da mangiare né da bere e chiede soltanto un telefono. Quando riesce a recuperarne uno, chiama a casa, sua mamma, che è rimasta là, e le dice che è arrivato ma che i suoi due fratelli non ci sono riusciti. Poi chiude e si siede su una panca, a guardare per terra, mentre tutti gli altri passano e se ne vanno, verso gli ultimi controlli e poi verso i pullman. Non mangia, non beve, ogni tanto scende qualche lacrima, ma lui resta impassibile. Vorrei dire un’ultima cosa a quelle persone che parlano senza riflettere: immaginate che una terribile guerra cominci a distruggere l’Europa, e che voi siate costretti a partire, lasciando tutto, inclusa una parte della vostra famiglia, e che dobbiate attraversare tutto il continente a piedi, arrivando al mare, forse non riuscendo nemmeno a salire su una barca e restando uccisi sul molo, o che riuscendoci passiate giorni e giorni ammassati gli uni sugli altri, bestiame, con gente che vi caga, vi piscia e vi vomita sopra, rinunciando a qualsiasi straccio di dignità umana. Lotta per la sopravvivenza, si chiama. Arrivate finalmente a destinazione e siete vivi. E chi c’è ad attendervi? Fra le altre, anche delle persone che dicono che non c’è posto per voi e che dovete tornarvene a casa. Quale casa poi non si sa, visto che la vostra non esiste più. Rifletto sulle parole di un giovane somalo che ha detto che questa gente ha solo avuto la sfortuna di nascere dalla parte sbagliata del mare. Molti, camminando verso i pullman, ti fanno ciao con la mano e ti rivolgono un sorriso a mille denti. Sono felici, e non la felicità che si sente quando mamma ci compra un regalo per Natale. No, lo vedi nei loro occhi, questa è la vera felicità, quella che provano nel realizzare che forse non hanno più nulla, ma hanno ancora la vita. Mentre ti sorridono, è come se una gioia improvvisa quasi insensata e fuori luogo in un momento del genere ti riempisse. Anche perché sopra la vostra testa in quel momento stanno facendo scendere le bare con i cadaveri. Tornando a casa, mi rendo conto che puzzo, i miei vestiti e il mio intero corpo puzzano e mi sento come se qualcuno avesse appoggiato un peso di una tonnellata sulla mia testa. E intanto mentre l’Europa litiga e i francesi vogliono sospendere la libera circolazione nello spazio Schengen, i siciliani, sempre criticati, spesso guardati con arroganza, perché “dai, sono terroni”, perché “la loro isola è sporca, perché sono disorganizzati”, e poi “c’è la mafia”, accolgono queste persone con una generosità che commuove. E riaccende la speranza che forse, in fondo, non è tutto così buio.

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bimba rom di due anni: un sorriso che converte

rom

lezioni di vita

da sud a sud…

Rom-elemosina
Bari, Piazza Mercantile: sono al bar, con due cari amici. Si dialoga sui mali della società, delle cose che non vanno, di quel che si potrebbe cambiare. Idee per un Sud migliore, capace di camminare sulle proprie gambe, senza stampelle. Ho avuto una brutta settimana. E mi è capitato, come a chissà quanti altri, di aver avuto viscido contatto con gente talmente “per bene” da ridurre la propria dignità a raschiare il fondo del barile dell’umano squallore. Si scambiavano impressioni anche su questo, ahimè.

Si avvicina al nostro tavolo una donna rom con bimba in braccio. Noi pronti a fingere di non averla vista. Il solito carosello di venditori di rose, ragazzi addobbati di chincaglierie come abeti natalizi, e altri mendicanti. Lei sorride e ci chiede di prendere un gelato per la bimba, dall’età apparente di 2 anni. Bimba bellissima, che ci guardava con occhi curiosi e vispi. Ci scruta, dalla sua postazione, quasi asettica, probabilmente avvezza a reazioni di ogni tipo, a fronte delle richieste di denaro avanzate dalla mamma.  Così inopinatamente interrotti, noi ci guardiamo e quasi all’unisono diciamo alla mamma: “Va bene, ma solo se prendiamo il gelato”. Lei: “Certo, grazie”. Quasi sorpresa per la nostra richiesta.
Entro, vado alla cassa, mamma e figlia al seguito, acquisto un gelato. Lei aveva già preso lo scontrino dalla cassiera e non me ne ero neanche accorto. Attendevo, come appeso, la bimba mi guardava, forse sorpresa perché mi attardavo. Sorridiamo un attimo, di quel mio indugiare superfluo. Decido che il mio ruolo di accusatore etnico ha già messo a dura prova tutta la mia dignità.
Saluto e vado via. Dopo pochi istanti, la bimba arriva di corsa al nostro tavolo, rimane immobile e ci guarda. Noi le sorridiamo e le diciamo: “Vai da mamma, sù, a prendere il gelato”. Lei attende, inspiegabilmente, sceglie un momento di silenzio, come un bimbo che deve dire la poesia nel giorno di festa, infine sussurra un tenerissimo “Grazie!”. Poi sorride. I nostri cuori si sono sciolti in un istante. Uno di noi, interpretando perfettamente forse il pensiero di tutti e tre, fa notare quanto fossimo prevenuti, anche noi, come tanti altri sporchi razzisti. Proprio come quelli che tanto ribrezzo ci fanno. Anche questi sono i rom che la società preferisce emarginare, anche per creare i grandi affari su cui speculare? Come a Roma?

Tuttavia, non convinto del tutto l’accusatore che è dentro di me, quasi inavvertitamente, con un gesto automatico, ruoto la sedia di quel tanto che mi consente di guardare l’ingresso, per verificare se davvero quella bimba abbia ricevuto il suo cono o meno. Dubitavo, ancora. Partecipando, un po’ distratto, alla nostra conversazione, che nel frattempo è ricominciata. Finché la mamma esce con la bimba trionfante in un braccio, con in mano il suo bel cono gelato. La mamma ci saluta educatamente e va via. La piccolina ci guarda, sorridente.

Predichiamo quotidianamente contro le varie declinazioni della discriminazione, ci indigniamo, e poi compiamo, più o meno inconsapevolmente, i nostri piccoli gesti di razzismo interiore. Non si combatte il razzismo con il cuore gonfio di pregiudizi e alimentando i luoghi comuni. Parola di meridionale.

Forza, piccolina, cambia questo mondo orribile, comincia con la forza irresistibile del sorriso, come hai fatto oggi col mio cuore…

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la ‘parrhesia’ di p. E. Bianchi

‘parrhesia’ di un monaco

colloquio con Enzo Bianchi

Bianchi

a cura di Luigi Guglielmoni
in “Settimana” n. 36 del 18 ottobre 2015

Enzo Bianchi, 72 anni, laico, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose, è noto per le sue conferenze, i suoi articoli e i suoi libri. Prima papa Benedetto e ora papa Francesco lo hanno convocato in importanti eventi e organismi di Chiesa. Gli abbiamo sottoposto alcune domande:

Caro priore, lei è stato invitato da papa Benedetto XVI a ben due sinodi mondiali dei vescovi, sulla parola di Dio e sulla nuova evangelizzazione. Cosa le è rimasto di quella esperienza? E cosa è passato di quelle proposte nel popolo di Dio? Non le pare che la scadenza biennale sia troppo ravvicinata e rischi l’inconcludenza pastorale?

Papa Benedetto XVI, che mi aveva conosciuto, quando era ancora cardinale, in occasione di seminari sul concilio Vaticano II, per due volte mi ha voluto come “esperto” ai sinodi mondiali dei vescovi, su due temi molto correlati tra loro. Ho seguito i lavori con convinzione e dando il mio contributo non solo nella discussione all’interno dei circoli linguistici (avevo scelto il gruppo francese), ma anche preparando tracce per gli interventi di alcuni padri sinodali che volevano prendere la parola pubblicamente nel dibattito. È stata per me un’esperienza molto importante: ho potuto ascoltare le diverse voci delle Chiese locali e mi sono persuaso che, sempre di più, le regioni culturali e linguistiche mostreranno nella Chiesa la loro diversità e ricchezza. Ricordo, inoltre, che gli interventi puntuali di Benedetto XVI, espressi al mattino in forma di lectio divina, erano vere “perle” per un rinnovamento della teologia della Parola e della sua “corsa nel mondo” (cf. 2Ts 3,1). Misurare quanto questi sinodi abbiano inciso sulla vita delle Chiese locali non è facile, e in ogni caso richiede una risposta diversificata. Sono testimone, per fare solo un esempio, che, nella Chiesa francese, essi hanno avuto notevoli ricadute: in diverse diocesi si è presa la decisione di formare alla lectio divina i cattolici “quotidiani”, quelli coinvolti nella sequela nella vita ordinaria, e si è aperta una profonda ricerca su forme e stili possibili in vista di una nuova evangelizzazione. In Italia mi sembra che non vi sia stato un particolare impegno in una recezione dei sinodi che rinnovasse la pratica di fede e raggiungesse i cattolici ordinari, quelli che frequentano la chiesa la domenica, e neanche sempre. Certamente occorrerebbe valutare la frequenza dei sinodi, soprattutto se i temi sono molto diversi e non direttamente coniugabili tra loro. Si ha l’impressione che l’anno della vita consacrata sia stato “contratto” dal sinodo sulla famiglia, dall’annuncio del giubileo sulla misericordia, dall’ostensione della sacra sindone, dai programmi pastorali delle singole Chiese locali… Va riconosciuto che, negli ultimi decenni, la Chiesa sembra temere l’ordinarietà della vita cristiana, e per questo si decidono iniziative diverse e frequenti, si vogliono “eventi” sempre nuovi. Si assiste ad una sorta di bulimia di “assemblee al lavoro”, che certamente sono anche necessarie, ma a condizione di essere “assimilabili” dal popolo di Dio. Questa tendenza va in parallelo a quella che si manifesta nella vita liturgica: inventare giornate o domeniche (della misericordia, del ringraziamento, della pace ecc.), come se si avesse timore della vita ordinaria. A me, monaco, viene da pensare ai padri del deserto che, a volte, vivevano la sequela di Cristo, addirittura per lunghi periodi, senza vita sacramentale, come è avvenuto per sant’Antonio e san Benedetto: sorriderebbero al vedere l’attuale moltiplicazione di iniziative, alle quali i cristiani non riescono neppure a stare dietro… L’anno della vita consacrata ha fatto le spese di questa situazione. È ormai alla fine, e pochi se ne sono accorti, anche tra i religiosi: vi è stato qualche incontro specifico, e nemmeno in tutte le diocesi, ma nessuna meditazione sul fatto che la vita religiosa sta scomparendo, con un conseguente mutamento profondo della vita della Chiesa cattolica. Ormai le suore sono una presenza rarissima, con un’età media molto alta che non consente loro di incidere in modo significativo sulla vita ecclesiale, e le vocazioni religiose sono quasi scomparse per certe forme di vita. Eppure, nessuno sembra preoccuparsene, come se questa fosse la volontà di Dio di fronte alla quale c’è solo la nostra impotenza.

L’enfasi retorica e l’apologetica sono tutte dedicate  alla famiglia, ma quale messaggio la Chiesa dà oggi a quanti sono chiamati a lasciare la famiglia in vista del regno di Dio (cf. Mc 10,29- 30 e par.)?

Confesso che, a volte, piango nel pensare a questa diminutio della vita religiosa e a questa quasi scomparsa dei monaci. Ho creduto e credo in questa forma di sequela, non migliore della sequela ordinaria, ma necessaria come segno escatologico, come memoria evangelica nella storia. Ma vedendo che oggi la Chiesa non presta attenzione ad essa, confesso che me ne vado da questo mondo nella sofferenza… L’invecchiamento del clero e la scarsità di vocazioni nei seminari, la crescente presenza di clero di altri paesi e l’avvio delle unità pastorali, i cambiamenti sociali e culturali… ripropongono la centralità della preparazione spirituale-culturale-pastorale dei futuri presbiteri e della formazione permanente degli attuali pastori. Sì, mancano i preti, e le vocazioni, almeno nelle regioni del nord e del centro Italia (come nel mio Piemonte), sono crollate e ormai rarissime: ci sono diocesi che non ordinano più nemmeno un presbitero all’anno! Vi è poi un problema di qualità dei candidati, non solo dal punto di vista culturale e intellettuale ma soprattutto di umanità. A causa dell’angoscia pastorale dettata dalla mancanza di presbiteri, si ordinano troppo facilmente candidati che non hanno una postura di saldezza, una capacità di discernimento, una maturità umana, a volte neppure una capacità di parola, tutti doni essenziali per essere pastori nel popolo di Dio. È vero che l’attuale società mostra molte fragilità, ma si faccia attenzione: i candidati sono presi dalla società, ma poi occorre farli crescere, prepararli e, alla fine, compiere un discernimento assolutamente necessario. In caso contrario, avremo una Chiesa con un numero considerevole di pastori senza qualità umana per stare in medio populi Dei, pastori funzionari con indole impiegatizia, e a volte pastori affetti da un pericoloso narcisismo clericale. Qui occorre una svolta. Ripeto, innanzitutto in termini di discernimento dei candidati, poi nella loro preparazione integrale, umana e cristiana. Occorre, inoltre, fortemente incoraggiare e dare forma a vite comuni di presbiteri, non forgiate sul modello monastico ma compatibili con una vita pastorale, in mezzo al gregge. Troppi presbiteri sono soli e ciò li induce spesso a compensazioni affettive che li pongono in gravi e patologiche contraddizioni con la vocazione e gli impegni assunti davanti alla Chiesa. Si arrivi poi alla convinzione dell’importanza di una formazione continua, lungo tutta la vita, perché occorre non smettere mai di cercare, studiare e pensare in un lavoro non solipsistico ma fatto “insieme”, in una situazione sinodale, con il vescovo, gli altri presbiteri e l’intera comunità cristiana. La vita del presbitero, pur nella necessità di portare la croce dietro al Signore Gesù, deve essere una vita umanamente bella, una vita buona, segnata dal bene, e una vita che conosca la beatitudine, dunque beata.

Papa Francesco viene sempre più percepito come il “parroco del mondo”. In alcune interviste e articoli, lei pare preoccupato della notevole popolarità del papa. Ce ne può spiegare il motivo?

Papa Francesco è un grande dono del Signore alla Chiesa cattolica e alle altre Chiese, perché si è fatto semplicemente voce del Vangelo con parrhesía, convinzione, simpatia verso l’umanità. In realtà, la sua parola si mostra, ogni giorno di più, dotata di una teologia vera, profonda, per nulla debole, anche se semplice nella formulazione, in modo che tutti possano ascoltarla e comprenderla. Ogni giorno incontro gente che mi dice con semplicità: “Siamo contenti che ci sia papa Francesco!”. Si tratta di donne e uomini cattolici, ma anche di cristiani non cattolici e sovente di persone che si definiscono non religiose. Devo riconoscere che ascolto critiche al papa più negli ambienti clericali che tra i non praticanti… La sua notorietà lo ha reso un leader mondiale, soprattutto dopo il suo viaggio a Cuba e negli Stati Uniti. Sembra che tutti possano fare riferimento a lui. Ma io mi sento di dire che, anche se questa approvazione è buona, non si deve essere sicuri che ciò possa continuare. La folla, come ci ricorda anche il Vangelo, muta repentinamente il suo atteggiamento! Oggi ci sono molti adulatori del papa, che millantano rapporti con lui, lo esaltano in pubblico e lo denigrano in privato. E poi molti, pur di conservare la posizione e il posto che avevano nella Chiesa prima di Francesco, con ipocrisia si proclamano fedeli a un papa che dice esattamente il contrario di quello che essi dicevano e imponevano agli altri, a costo di censurare  voci diverse dalla loro. È uno degli spettacoli più tristi: mancanza di libertà nel cristiano, mancanza di parrhesía, di franchezza e di coerenza, mancanza di una postura che obbedisca in primo luogo alla parola di Dio, e quindi alla coscienza dove essa si rivela. Io vado dicendo che, se il papa continua per questa strada, in cui dà il primato al Vangelo, si troverà presto di fronte a un’opposizione, perché le potenze demoniache si scatenano con più forza quando nella vita di un cristiano appare la croce di Cristo. Non può essere diversamente perché – come ha affermato Gesù – «non c’è discepolo che sia più del maestro» (Mt 10,24; Lc 6,40), non c’è vero cristiano che non segua Gesù fino al rigetto, all’opposizione, alla persecuzione. Ad alcuni il tema della carità pare preponderante oggi nella vita della Chiesa, forse a discapito dell’identità di fede, dell’appartenenza ecclesiale e dell’evangelizzazione. Qual è la sua valutazione? No, il tema della carità non può essere mai ritenuto negativamente preponderante nella vita della Chiesa, a meno che la carità non sia un “fare nostro agitato”, perché la carità è il fine della vita cristiana. La carità è un lasciare che l’amore di Cristo effuso nei nostri cuori diventi amore reale, concreto, pratico nella vita. Papa Francesco ha detto recentemente che «è amando gli altri che si impara ad amare Dio» (veglia di preghiera per la famiglia in preparazione al sinodo, 3 ottobre 2015), e io ho sempre detto e scritto che solo chi ha fede nell’umanità, nei fratelli e nelle sorelle che vede, può ricevere il dono della fede in Dio e che «solo chi ama il fratello che vede può amare Dio che non vede» (cf. 1Gv 4,20). Amare Dio, infatti, significa innanzitutto fare la sua volontà (cf. Gv 14,15; 1Gv 5,3), cioè osservare “il comandamento nuovo” (cf. Gv 13,34; 15,12), che non chiede neppure di amare Cristo, ma di amarci gli uni gli altri del suo stesso amore.

Lei collabora da trent’anni con il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, di cui è anche consultore e membro del Consiglio del comitato cattolico per la collaborazione culturale con le Chiese ortodosse e orientali. Quali strade si stanno percorrendo oggi?

Collaboro da decenni con il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e l’anno scorso ne sono stato nominato consultore da papa Francesco. È un organismo in cui si lavora bene, con un desiderio di percorrere vie di comunione con le altre Chiese e comunità cristiane; è un luogo privilegiato per conoscere la vita reale e i problemi delle altre confessioni cristiane. Oggi per il Consiglio è determinante l’impulso ecumenico dato da papa Francesco, il quale ha messo in pratica l’ecumenismo anche verso comunità cristiane così lontane dalla forma della Chiesa cattolica che sovente non erano tenute sufficientemente in considerazione. Il Consiglio lavora per i dialoghi bilaterali tra le Chiese, soprattutto per il dialogo tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa, e per la preparazione dell’anniversario dei cinquecento anni della Riforma (2017), affinché sia per cattolici e riformati un’occasione per interrogarsi sul primato del Vangelo nella vita delle Chiese e per vivere gesti di riconciliazione in vista dell’unità. Certo, l’ecumenismo si è fatto complesso, perché molti non lavorano più per una comunione reale e visibile tra le Chiese, ma solo perché le Chiese riconoscano le diversità attuali: ma questo sarebbe vivere in una separazione resa “indifferente”, dal punto di vista teologico e sacramentale!

Cosa si aspetta dal giubileo sulla misericordia, tema non facile nella pratica cristiana quotidiana e nella cultura odierna?

Sono intervenuto più volte sul tema della misericordia, nelle diverse diocesi italiane dove i vescovi mi hanno chiamato in occasione di assemblee diocesane o di incontri in preparazione al giubileo. D’altronde, credo di essere stato il primo a scrivere lo scorso anno sull’Osservatore romano, prima ancora dell’annuncio dell’anno santo straordinario, un articolo sul primato della misericordia che intravedevo come continuità tra il papato di Francesco e quello di Giovanni XXIII. Sì, la misericordia vissuta dalla Chiesa è decisiva per sradicare dalle nostre menti e dai nostri cuori l’immagine di un Dio perverso e ridargli la sua vera immagine, quella da lui rivelata a Mosè con la proclamazione del suo Nome santo (cf. Es 34,6-7) e quella che di lui ci ha rivelato definitivamente Gesù Cristo (cf. Gv 1,18). Gesù Cristo è l’immagine visibile dell’invisibile misericordia divina: egli ha sempre fatto misericordia, non ha mai giudicato, castigato, e a tutti quelli che andavano da lui ha concesso la remissione dei peccati. In questo la Chiesa deve conformarsi a lui, imitarlo, perché tutti  vedano il volto di Dio, un Padre con il cuore di Madre. Il vero problema è che la misericordia scandalizza, e scandalizza innanzitutto noi cristiani. Quante volte, leggendo nei vangeli gli incontri di Gesù e l’annuncio della sua misericordia, io stesso sono stato tentato di dire: «Così è troppo!». Davvero, noi siamo scandalizzati dalla misericordia di Gesù, mostrata senza se e senza ma, e ci dimentichiamo che egli è morto non perché si opponeva alla Legge di Mosè, non perché aveva commesso crimini, né perché si era opposto al potere imperiale romano, ma è stato condannato per la sua misericordia verso i peccatori pubblici, verso le prostitute, gente di scarto.

Come inserire nel vissuto quotidiano delle comunità cristiane il convegno ecclesiale nazionale di Firenze? Cosa si attende?

Quanto al convegno ecclesiale nazionale di Firenze, mi sento di dire che non ho visto molta convinzione nella sua preparazione, almeno nelle Chiese del nord Italia. I più non sanno che cosa in esso si farà, ma ne sono a conoscenza solo pochi degli addetti ai lavori e gli invitati possibili o reali. Difficile dire che cosa mi attendo. Mi pare che assomigli tanto agli ultimi due convegni nazionali (Palermo 1995, Verona 2006), dai quali mi chiedo cosa sia uscito per la Chiesa in Italia. Anche papa Francesco ne ha criticato la formula, dicendo che sono sempre le stesse persone a intervenire e che non c’è quel confronto, quel dialogo che oggi si richiede in ogni istituzione che voglia essere sinodale. Vorrei appunto che la Chiesa italiana entrasse in uno stato sinodale, che magari celebrasse un sinodo anche solo per interrogarsi sul primato del Vangelo nelle vite delle nostre Chiese e delle nostre comunità. Non abbiamo bisogno di nuovi documenti, di una relazione di un teologo accompagnata da quella di un sociologo, che saranno dimenticate subito dopo… Abbiamo bisogno di poco: di chiederci che cos’è il Vangelo per noi, per le nostre comunità, di interrogarci su quale Vangelo narriamo agli altri con la nostra vita. In ogni caso io e la mia comunità preghiamo perché ogni assemblea cristiana sia attenta allo Spirito Santo che, secondo la promessa, aleggia ed è presente dove i cristiani sono riuniti nello stesso luogo (cf. Lc 24,49; At 1,8; 2,1-11): è responsabilità dei cristiani ascoltarlo e lasciare che trasformi la loro mente, oppure farlo aleggiare inutilmente sopra le loro teste.

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