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Vescovo Mogavero: Chiesa accolga coppie gay

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A oltre mille chilometri dai confronti anche ruvidi che scuotono il Sinodo di Roma, monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo, non è sprezzante con il teologo polacco Krzysztof Charamsa che, in abito talare, s’è presentato ai giornalisti con il compagno: «Mi ha colpito il suo travaglio e penso che vada capita la sua sofferenza e la sua scelta da uomo libero. Non mi è piaciuto, però, il colpo di teatro alla vigilia di un Sinodo molto delicato per la Chiesa. È un uomo che lavorava e insegnava in Vaticano, ma rispetto la decisione e non lo giudico».

Monsignore, quanti Charamsa ci sono fra le parrocchie e il Vaticano che non trovano il coraggio?
Sicuramente esistono situazioni simili, ma non saprei dire con che incidenza. Ci sono preti gay che consacrano se stessi nel celibato e lo vivono serenamente in una vita equilibrata. All’ esterno la vita celibataria può apparire limitante e castrante; e sicuramente provoca dei momenti di difficoltà. E questo vale per tutti, per gli eterosessuali e per gli omosessuali. Siamo uomini, non macchine. Ma voglio ripetere, perché non è mai inutile, che l’ omosessualità non è una devianza. E la Chiesa l’ ha ormai quasi capito.

Charamsa non è d’accordo, dice che la Chiesa è spesso omofoba.
In passato forse, ora molto meno. Ma le vocazioni vanno sempre esaminate e curate con attenzione per evitare situazioni spiacevoli.

Il celibato dei preti è un muro invalicabile per la Chiesa?
No, in futuro potrebbe cadere anche questa norma, chissà. Il celibato sacerdotale non è legato al diritto divino. E ci sono preti sposati nelle Chiese orientali, cattoliche e non, e diaconi in quella latina. Io sono favorevole alle scelte libere. Ma per chi è già prete non c’è possibilità di matrimonio: non si può sposare chi è già consacrato al servizio a Cristo.

Come la Chiesa di Francesco può accogliere i gay senza lacerare il Sinodo?
Le unioni omosessuali, da un punto di vista logico e di sostanza, non si possono equiparare a un matrimonio fra un uomo e una donna. Una coppia gay è nel peccato nella stessa misura di una coppia di conviventi di sesso diverso. Mala Chiesa non può ignorare queste realtà e non può emarginare le coppie gay, ma le deve considerare con una dose ancora maggiore di misericordia. Le coppie gay non sono il mondezzaio della società civile. La Chiesa deve aprirsi a questa realtà e garantire ai gay il rispetto della loro dignità e dei loro diritti.

Perché numerosi padri sinodali rifiutano le aperture di papa Francesco sui sacramenti ai divorziati risposati?
Non tutti comprendono l’ evoluzione dei tempi. Io ho fatto mia la posizione di principio di papa Francesco: non possiamo essere una Chiesa che chiude le porte e tradisce se stessa. Ma ci sono dei punti fermi: il matrimonio è indissolubile e coinvolge l’ uomo e la donna; il problema è il trattamento dei singoli casi. Studiando attentamente i testi biblici bisogna capire il senso letterale, contestuale e logico, e riguardare in questa luce la storia della Chiesa antica.

E cosa propone, monsignore?
La premessa è che non si può fare un discorso generale. Ma i matrimoni falliti sono tanti e i pentimenti pure, soprattutto fra coloro che poi mettono su una nuova famiglia con stabilità e non sono produttori seriali di divorzi. Su questa linea si inserisce anche l’innovazione del motu proprio del Papa che affida ai vescovi, senza una procedura processuale in senso stretto, l’esame della nullità dei matrimoni falliti. Un’istruttoria rapida e una valutazione caso per caso. E così ha ragione il cardinale Kasper: possiamo immaginare qualche apertura per un possibile ritorno ai sacramenti per i divorziati risposati, rispettando talune condizioni ispirate ai modelli della Chiesa antica. Io sono favorevole a una prospettiva di questo genere.

“Il celibato può cadere e i gay bisogna accoglierli”
Carlo Tecce
Il Fatto Quotidiano
7 ottobre 2015

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come sintetizzare in modo brillante il pensiero di un grande filosofo senza capirne la sostanza

contro Severino, l’iperfilosofo

una superficiale  ancorché brillante e con buona capacità di sintesi del pensiero di un grande pensatore (tanto di cappello!) questa di A. Berardinelli (su ‘il Foglio’): non ne coglie affatto il senso di fondo e lo trasforma in caricatura; un pizzico di senso della misura non sciuperebbe pur nella legittima libertà di dissenso!

questa la tesi caricaturale di A. Berardinelli nei confronti del pensiero di Severino:

perseguita da quarant’anni i lettori italiani con la favola antica dell’Essere e del Divenire che gli permette di dire tutto non dicendo niente. Perfino di sostenere che lui è migliore di tutti, anche di Leopardi

di Alfonso Berardinelli

Emanuele Severino

Mi ero distratto, avevo dimenticato per un momento (durato un paio d’anni) di dedicarmi a Emanuele Severino, il nostro più tipico e puro iperfilosofo, specializzato nella pretesa di superare ogni altro filosofo dell’intera tradizione occidentale. Dall’alto podio delle edizioni Adelphi, Severino perseguita da quarant’anni i lettori filo-filosofici italiani con la favola antica dell’Essere e del Divenire. Dopo aver distinto nettamente e assolutamente questi due verbi, Severino ha aggiunto, in una cinquantina di libri, che l’essere non è il divenire poiché il divenire non è l’essere. Chi crede il contrario e azzarda anche momentanee e parziali concomitanze fra i due verbi, cade secondo lui nella Follia dell’occidente, cioè è pazzo. Due verbi come quelli, trasformati in realtà metafisica, offrono materia per un eterno conflitto metafisico, di cui Severino è il massimo specialista e arbitro. Mi fermo qui perché dopo poche righe ne ho già abbastanza. Severino invece non si sazia mai di giocare sempre la stessa partita a esito garantito, perché in conclusione lui vince sempre, con l’essere che è la sola realtà mentre il divenire è tutto una bugia.

Potrebbe bastare, ma mi accorgo che nel maggio scorso l’iperfilosofo che batte tutti, ha pubblicato un terzo libro su Leopardi: “In viaggio con Leopardi. La partita sul destino dell’uomo” (Rizzoli, 220 pp., 16 euro). Avendo saputo che due anni fa il nostro grande poeta, dopo la traduzione in inglese dello “Zibaldone”, è stato scoperto in Inghilterra e in America come grande filosofo (naturalmente antimetafisico…), Severino non poteva tacere. Il giudizio finale spetta a lui e immancabilmente lo rivendica.

  Secondo l’iperfilosofo tutti, prima di lui, si sono sbagliati: i greci che hanno messo in giro quella storia fasulla del divenire e dello sparire delle cose, poi il cristianesimo, poi l’umanesimo, poi Hegel, Nietzsche e infine Leopardi, precursore di Nietzsche. Ecco l’occasione da non perdere. Con Leopardi, su Leopardi si poteva fare un nuovo libro, approfittando del suo successo filosofico, per giocare e vincere con lui e contro di lui la solita partita. Per farlo era anzitutto necessario dire che Leopardi sta con il suo pensiero “al culmine della storia del pensiero”. Se Severino scrive su Leopardi è dunque per una sola ragione: perché al culmine in verità non c’è Leopardi, o meglio: c’era. Poi è arrivato Severino e ora al culmine c’è lui.

Senza dubbio una cosa è vera: con Severino la megalomania filosofica, o filosofia del culmine, ha raggiunto il suo culmine. Il “destino della verità” conduce a lui e solo a lui, dopo secoli di errori e di follia. Il culmine è che dove c’è essere non può esserci divenire, perché A è A e B è B. Non può essere dunque che A sia B. Dove non c’è essere c’è il nulla e il nulla non è.

Meravigliosa facoltà di sintesi. Che permette di dire tutto non dicendo niente e di filosofare su qualunque cosa, dal conflitto America-Russia alla tecnica e dalla tecnica all’embrione, dicendo sempre una cosa saputa in anticipo: che l’essere non diviene e il divenire non ha essere. E’ così che Severino vertiginosamente svetta e prende quota su tutti coloro che non si sono impegnati a dire la sola cosa che lui dice. Tutti poco filosofici, tutti incoerenti, deboli, sentimentali. Tutti e Leopardi fra questi.

Dopo qualche citazione (poteva farne altre e poteva anche citare altri autori: era lo stesso) Severino si sente giunto al suo scopo. Leopardi si addolora e piange sulle cose perdute e sulle esistenze sparite. Ma si sbaglia. Eh sì, si sbaglia. Niente sparisce, dice Severino, niente precipita nel nulla, perché il nulla non è, mentre ciò che ha essere non è attaccabile dal nulla.

L’iperfilosofo, per non farsi mancare materia filosofica, non ha voluto capire che dire “nulla” è solo un modo di dire. Indica l’entrare e l’uscire di qualcosa o di qualcuno dall’orizzonte della nostra esperienza. E’ questo che ci fa gioire o piangere. Fosse anche che qualcuno va in paradiso o all’inferno, per noi non c’è più. Il nulla non c’entra niente. 

 Arrivati al capitolo conclusivo, per chi non l’avesse già previsto, Severino viene allo scoperto. Smette di fare inchini al pensiero culminante di Leopardi e con un colpo solo gli scippa il culmine. Se Leopardi aveva superato tutta la tradizione occidentale, chi supera Leopardi supera tutto e tutti. Nemico del nichilismo come dice di essere, quando si tratta di celebrare il proprio pensiero, Severino diventa il peggiore dei nichilisti. Riduce l’intera cultura occidentale a un pugno di polvere e invece di provocare in noi lo sgomento, pretende di ispirarci un infrangibile stato di gioia. L’essere è invulnerabile, basta saperlo. Tutto ciò che è, contiene l’essere. Dunque tutto ciò che è, sarà sempre. Perché immalinconirsi? Essere è un verbo all’infinito. Perciò siamo al sicuro, infinitamente, per il solo fatto che siamo. Per la cinquantesima volta Severino conclude così il suo cinquantesimo libro.
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il sinodo secondo p. Alberto Maggi

chiesa, omosessuali e coppie di fatto

il sinodo secondo p. Alberto Maggi

 Alberto Maggi     p. Maggi

Alberto Maggi analizza i temi scottanti che si stanno discutendo all’interno del Sinodo e suggerisce un ritorno alle fondamenta della religione cattolica perché

“l’iniziativa è ottima, sempre che le gerarchie ecclesiastiche riconoscano con tutta umiltà e sincerità di non essere competenti in materia…”


Nel Sinodo in corso la Chiesa di papa Francesco vuole trattare importanti temi riguardanti la famiglia. L’iniziativa è ottima, sempre che le gerarchie ecclesiastiche riconoscano con tutta umiltà e sincerità di non essere competenti in materia. Una Chiesa dove ci sono voluti due millenni per ammettere che nel matrimonio oltre la procreazione dei figli è importante anche il mutuo amore dei coniugi (Gaudium et Spes 50), dovrebbe con tutta umiltà tacere su temi verso i quali non ha ricevuto alcun mandato dal Cristo e che, quando li ha voluti trattare, ha causato tremendi danni. Seguendo le indicazioni di papa Francesco, di vedere la Chiesa come un ospedale da campo, si spera che i Padri sinodali seguano il cuore e il buon senso, canali preferiti dallo Spirito santo, e adoperino l’unico linguaggio universalmente riconosciuto, quello dell’amore misericordioso.

Per questo i Padri dovrebbero tornare alle sorgenti cristalline della Scrittura, troppo spesso ignorata o strumentalizzata per essere di supporto a strampalate dottrine tanto assurde quanto disumane (come quella di imporre ai divorziati risposati di vivere come fratello e sorella). La conversione della Chiesa al Vangelo di Gesù farebbe emergere che il problema, così aspramente dibattuto, della comunione da concedere ai divorziati risposati, semplicemente non esiste. La difficoltà non riguarda infatti il secondo matrimonio, ma il significato stesso dell’eucaristia. Nei vangeli appare chiaramente che l’eucaristia non è un premio concesso a quanti lo meritano, ma un dono per i bisogni delle persone: meriti non tutti li possono avere, ma tutti sono bisognosi. Gesù ha cercato di far comprendere ai duri teologi del suo tempo che la medicina e il medico sono per i malati e non per i sani, e che non occorre purificarsi per accogliere il Signore, ma è accoglierlo nella propria vita quel che purifica.

Altro tema scottante, finora sempre evitato, è quello delle unioni omosessuali. Su questo argomento era più logico e comprensibile l’atteggiamento della Chiesa pre-conciliare: gli omosessuali erano tutti peccatori e quando morivano finivano all’inferno per omnia sæcula sæculorum. Le cose si sono complicate con la morale post-conciliare: no, non sono peccatori per il fatto di essere omosessuali, ma per il manifestarlo (come dire a una pianta che può crescere, ma non può fiorire). La soluzione? Anche in questo caso la castità (gira e rigira si finisce sempre lì, sui genitali). La castità, scelta che la Chiesa riconosce essere un carisma, ovvero un dono del Signore per quanti liberamente e volontariamente la scelgono, diventa un obbligo imposto. Il rifiuto dell’omosessualità si basa sul fatto che nella Bibbia si legge che Dio maschio e femmina li creò (Gen 1,27). Nessuno mette in dubbio quest’ asserzione: gli omosessuali non sono un altro sesso, bensì maschi e femmine che orientano la propria affettività su persone dello stesso sesso. I mali della società non sono causati da chi si ama, ma da chi si detesta.

L’AUTORE

maggi Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» (www.studibiblici.it) a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri: Roba da preti; Nostra Signora degli eretici; Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede); Parabole come pietre; La follia di Dio e Versetti pericolosi. E’ in libreria con Garzanti Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita.

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Marino crocifisso perché ‘cattolico adulto’?

la croce sopra al Campidoglio

campidoglio

 

 

 

in “il manifesto”
11 ottobre 2015

di Luca Kocci

Kocci Luca

nella vicenda della lenta agonia, fino alle dimissioni, del sindaco di Roma Ignazio Marino, alle gerarchie ecclesiastiche (Cei e Vicariato di Roma, più che Vaticano) e a parte dell’associazionismo cattolico (comunità di Sant’Egidio in testa) spetta un ruolo di primo piano.

Non perché sia stato papa Francesco con le sue dichiarazioni “ad alta quota” di ritorno dall’America – «io non ho invitato il sindaco Marino a Philadelphia, chiaro?» – a determinare la caduta del primo cittadino, sebbene gli abbia assestato un duro colpo. Ma perché i vescovi hanno contribuito al logoramento di Marino cinque minuti dopo l’avvenuta elezione. Anzi anche prima.

Vaticano

«Ci si interroga sulle possibili svolte della nuova trazione che potrebbe consegnare all’anima più laicista di largo del Nazareno lo scranno del Campidoglio», scriveva Avvenire all’indomani delle primarie vinte da Marino. E il giorno dopo lanciava l’allarme: «Campidoglio, rischio-deriva sui valori» a causa di «un certo tipo di impostazione sul versante etico, con potenziali ricadute sulle scelte di politica familiare».

Alla vigilia delle elezioni, poi, sempre Avvenire dava ampio spazio ad un documento di una serie di associazioni (fra cui Forum associazioni familiari, Movimento per la vita, Compagnia delle opere, Alleanza cattolica) in cui la patente di “candidato cattolico” veniva assegnata ad Alemanno, e Marino sonoramente bocciato. All’indomani della vittoria del chirurgo, lo ammoniva ad evitare di «progettare e praticare forzature in sedi improprie» e ad «aprire campi di battaglia sulle questioni che investono valori primari». «Ci auguriamo che nessun sindaco si imbarchi in improvvide avventure antropologiche», ribadiva il Sir, l’agenzia dei vescovi, «non ci si fa eleggere per inventare nuovi diritti o metter su improvvisati laboratori sociali».

“Cattolico adulto” assai vicino al card. Martini – con cui pubblicò prima un lungo dialogo sull’Espresso e poi un libro (Credere e conoscere, Einaudi) di grande apertura su temi etici –, Marino è agli antipodi della dottrina cattolica sui «principi non negoziabili», quindi assai temuto dalle gerarchie ecclesiastiche.

La questione esplode ad ottobre 2014, quando il sindaco trascrive nei registri comunali i matrimoni celebrati all’estero da 16 coppie omosessuali. «Scelta ideologica, che certifica un affronto istituzionale senza precedenti», tuona il Vicariato di Roma. E in queste ore si apprende che il giorno prima della trascrizioni, Marino telefonò in Vaticano per informare il papa, che però non parlò con il sindaco e considerò quella telefonata quasi una provocazione.

Negli ultimi giorni il laccio si stringe, fino al soffocamento. Decisivo è “l’incidente” dell’invito-non invito a Philadelphia, sul quale mons. Paglia – storica guida spirituale della Comunità di Sant’Egidio –, alla trasmissione radiofonica La zanzara, dice parole durissime: «Marino si è imbucato, nessuno lo ha invitato, il papa era furibondo». Poco dopo, la Comunità di Sant’Egidio è fra i primi a sbugiardare il sindaco, smentendo che ad una cena registrata dai famosi scontrini siano stati presenti rappresentanti della Comunità, come invece asserito da Marino. Una posizione, quella di Sant’Egidio, che potrebbe nascondere qualche interesse: in passato il nome del fondatore Andrea Riccardi era emerso come possibile candidato a Roma, se ora rispuntasse fuori sarebbero più chiare le ragioni per azzoppare Marino.

Arrivate le dimissioni, Oltretevere non si stracciano le vesti, anzi. «Epilogo inevitabile», scrive L’Osservatore Romano, «la Capitale ha la certezza solo delle proprie macerie», «Roma davvero non merita tutto questo». «Adesso basta», aggiunge Avvenire, che saluta la chiusura di «una parentesi che non sembra destinata a lasciare un segno indelebile nella storia quasi trimillenaria di questa città», ora «Roma merita onesta e decisa cura». «Il tema di una nuova classe dirigente non è più rinviabile», dice ieri sera in una parrocchia il card. Vallini, vicario del papa per Roma. E il Sir traccia l’identikit del nuovo primo cittadino di una città con una «missione storica, quella di porta di ingresso alla sede della cristianità». Un sindaco cattolico quindi. Ma non come Marino.

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