il commento al vangelo

VENDI QUELLO CHE HAI E SEGUIMI  

commento al della ventottesima domenica del tempo ordinario (11 ottobre 2015) di p. Alberto Maggi

 

p. Maggi
Mc  10, 17-30

[In quel tempo], mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».
Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».
Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».

Per la comprensione del brano evangelico dobbiamo lasciarci guidare da quelle chiavi di lettura, cioè dai termini che l’evangelista mette nel suo racconto per indicare quello che lui vuole esprimere. Come in questo brano, il capitolo 10 del vangelo di Marco, dal versetto 17 al 30.
L’evangelista scrive: Mentre andava per la strada. Ecco la prima indicazione. “Lungo la strada” è il luogo della semina infruttuosa, dove il seme è stato gettato per terra, ma subito sono venuti gli uccelli. Quindi
l’evangelista ci mette in guardia sul fatto che questo brano sarà all’insegna della semina infruttuosa, la parola non verrà accolta.
Un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio…  ecco sono altri due elementi importanti. Finora è corso incontro a Gesù l’indemoniato, cioè una persona posseduta da qualcosa di più forte di lui che lo tiene prigioniero e si è gettato in ginocchio presso Gesù il lebbroso, cioè la persona impura che si riteneva esclusa da Dio.
Quindi l’evangelista ci sta dicendo che questo tale è più posseduto di un indemoniato e più impuro di un lebbroso. La preoccupazione di questo tale – che è anonimo quindi significa che è un personaggio rappresentativo – è cosa deve fare per ottenere la vita eterna.
Ebbene Gesù gli risponde quasi in maniera seccata, perché lui è venuto ad inaugurare il regno di Dio, una società alternativa, non è venuto a dare indicazioni per la vita eterna. Comunque Gesù lo rimanda a Dio e ai comandamenti e qui Gesù elimina i tre che erano esclusivi di Israele, i comandamenti più importanti, gli obblighi nei confronti di Dio e gli elenca soltanto cinque comandamenti più un precetto che riguardano il comportamento verso gli altri.
Per la vita eterna non importa come e quello che si è creduto, ma importa come si sono amati i fratelli. E Gesù glieli elenca. “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso…”, e qui Gesù inserisce Non frodare che era un precetto e non un comandamento. Perché Gesù lo mette tra i comandamenti, dandogli valore di comandamento?
E’ un brano preso dal libro del Deuteronomio dove si chiede di non imbrogliare i lavoratori, i dipendenti. Allora Gesù insinua che alla base di ogni ricchezza – perché vedremo che questo tale è molto ricco – c’è sempre la frode e l’imbroglio. E poi “Onora il padre e la madre”.
L’individuo afferma di aver fatto tutte queste cose fin dalla giovinezza. Il testo greco fa vedere  che l’individuo si riempie la bocca, fiero, orgoglioso di tutto questo … In greco tutte queste cose si dice Tauta panta. È un’espressione che riempie la bocca.
Allora Gesù lo fissò, lo amò e gli disse: “Uno ti manca”. Traduco letteralmente il testo, non è una cosa sola ti manca, cioè a dire “hai fatto tanto metti anche questo”. No. “Uno ti manca” era un’espressione per indicare “Ti manca tutto”. Tanta osservanza dei comandamenti, tante osservanze religiose, eppure ti hanno reso un individuo – come abbiamo visto – angosciato, preoccupato.
Allora Gesù, che lo ama, gli chiede di essere felici facendo felici gli altri. E’ andato da Gesù per avere di più, per avere un consiglio per la sua vita spirituale e Gesù lo invita a dare di più. E infatti gli dice: “Va’, vendi quello che hai, dallo ai poveri…”, cioè fai felice per essere felice, “ e avrai un tesoro in cielo”, cioè in Dio.
“E vieni! Seguimi!” Non ha portato bene a questo individuo incontrare Gesù. Infatti a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato … e la conclusione dell’evangelista … possedeva infatti molti beni. Ecco perché all’inizio ha presentato l’individuo che corre come un indemoniato e si inginocchia
come un impuro. Costui credeva di possedere i propri beni, in realtà ne era posseduto. E il possesso di questi beni, l’egoismo che nasce lo chiudeva alla comunicazione con Dio.
La sua condizione è più grave del lebbroso che Gesù ha purificato e più grave anche dell’indemoniato che Gesù ha liberato. Allora Gesù ora si rivolge ai suoi discepoli ed esclude tassativamente che nella sua comunità ci possa entrare un ricco perché nella comunità del Regno c’è posto per i signori ma non per i ricchi. Qual è la differenza?
Il signore è colui che dà, condivide con gli altri; il ricco è colui che ha e trattiene per sé.
E Gesù appunto spiega quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio. Questa dichiarazione di Gesù crea sconcerto tra i discepoli. Contenti che finalmente nel suo gruppo entrava un benestante, un ricco che poteva provvedere al sostentamento di questo gruppo di discepoli che aveva lasciato tutto per seguire Gesù, Gesù invece lascia che se ne vada.
Dicevano tra di loro: “E chi potrà essere salvato?” Non si tratta della salvezza eterna, il verbo indica sostentare, sopravvivere, sfuggire ad un pericolo, cioè “Come andiamo avanti se tu uno che ha i soldi non lo vuoi qui con noi?”
E Gesù dice che è impossibile agli uomini ma non a Dio. Gli uomini pensano che la sicurezza stia nell’accumulo, per Gesù la sicurezza, la felicità, stanno nel condividere con gli altri. E allora reagisce il discepolo Pietro, che, con aria di sfida, dice: “Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”. E qui Gesù gli risponde elencando una serie di sette impedimenti che, se ostacolano il seguire Gesù e la pienezza della felicità, devono essere eliminati. Per questo afferma: “Non c’è nessuno che abbia abbandonato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo … “, alla minima rinuncia corrisponde la piena abbondanza, “… cento volte tanto.”
Il numero cento indica la benedizione… “in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni e la vita eterna nel tempo che verrà”. E’ la vita eterna che viene ereditata, non si ottiene per i propri sforzi, ma è un regalo da parte di Dio. Poi c’è un ultimo versetto, che è importante ma non c’è nel testo liturgico.
“Ma tutti anche se primi devono essere ultimi e questi ultimi saranno primi”. Gesù ha incontrato uno che nella società è considerato un primo e lo invita a farsi ultimo in modo che gli ultimi possano sentirsi primi.

 

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la favola bella …

La favola del postcapitalismo

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di LELIO DEMICHELIS

Il nesso tecnologia/capitalismo è tornato recentemente alla ribalta, interpretato in termini ottimistici, nel fortunato libro di Paul Mason, “Postcapitalism” (che a breve uscirà anche in Italia). L’errore è pensare che la tecnologia abbia il potere di liberarci dal capitalismo. È piuttosto il contrario: è la tecnologia che permette al capitalismo di sopravvivere ai suoi problemi.

E’ arrivato un nuovo profeta che promette un postcapitalismo meraviglioso, umano, collaborativo, intellettuale, gratuito. Un postcapitalismo che sta nascendo dal capitalismo stesso e che, come il proletariato di Marx cancellerà questo capitalismo e ci porterà gioia, felicità, condivisione libera, la liberazione dalla fatica, eccetera eccetera. Perché si compia il passaggio al postcapitalismo basta confidare nella potenza rivoluzionaria e salvifica delle nuove tecnologie, confidare nel loro potere liberatorio e liberante nonché libertario, nella loro capacità di diffondere nuovi modi di lavorare e di consumare liberando il tempo dal lavoro e permettendo a noi mortali attività in rete finalmente libere e quindi non capitalistiche. Basta credere che il web sia la nuova fabbrica e che svolga la stessa funzione delle fabbriche del XIX° secolo e che il suo proletariato digitale, diverso da quello industriale perché più informato e più connesso, possa abbattere questo capitalismo.

Tutto bello e affascinante. Dimenticando però che se il vecchio proletariato – che era classe in sé ma anche per sé avendo una propria coscienza di classe capace di fare contrasto al capitalismo – è stato ormai in-corporato nel (è parte del corpo politico e culturale del) sistema capitalista, si è progressivamente sciolto nel capitalismo e ne condivide l’egemonia, questo proletariato digitale è nato invece già antropologicamente capitalista, non ha alcuna idea di una possibile alternativa, ha assunto in sé l’imperativo della propria integrazione nel sistema (il dover essere connessi) e pur essendo forse ancora classe in sé (mai così tanti lavoratori precari, della falsa conoscenza, della sharing economy, taylorizzati e fordizzati in rete o uberizzati ovunque) non è classe per sé né potrà mai esserlo perché incapace di una coscienza comune e di una progettualità politica alternativa (perché è ormai convinto che: non ci sono alternative) in quanto ciascun componente di questo metaforico proletariato digitale è stato ormai separato, isolato dagli altri e messo in competizione con gli altri. Difficile immaginare la realizzazione di un postcapitalismo se ormai l’essenza della stessa società è il capitalismo più la tecnica. Difficile immaginare un’alternativa se ogni giorno il sistema ci educa ad essere capitalisti, se la rete stessa è oggi diventata puro capitalismo (in versione non 2.0 ma 0.0).

Eppure oggi circola questa nuova versione aggiornata – da Paul Mason, autore di quel Postcapitalismo che sta occupando le pagine di media pronti a dare voce ai tecno-entusiasti sempre e comunque e mai abbastanza – della vecchia favola del postcapitalismo che verrà. In realtà, leggendo Mason – che pure offre proposte decisamente interessanti e intriganti, come un mondo senza mercato, i banchieri centrali eletti democraticamente, il potere nelle mani della società civile, un reddito di cittadinanza, l’azzeramento (o quasi) del tempo di lavoro, la produzione di macchine beni e servizi a costi marginali nulli – sembra di fare un salto indietro nel tempo, a quando la rete era agli inizi ma già dimostrava la sua sconfinata potenza nel produrre retoriche per sé e per la sua accettazione di massa; a quando la rete era soprattutto una macchina capace di generare uno sconfinato e inarrestabile storytelling capace di abbattere ogni pensiero critico, ogni analisi razionale, ogni anticonformismo tecnologico; a quando la rete si trasformava da mezzo di comunicazione in mezzo di connessione di ciascuno nella rete, in modi simili alla vecchia catena di montaggio anche se globali e virtuali.

Leggere Mason fa l’effetto di un tempo che si è bloccato alle promesse della new economy degli anni ’90 del secolo scorso (che favoleggiava di fine dei fastidiosi cicli economici, prometteva la liberazione dalla fatica e un lavoro immateriale e intellettuale per tutti), alla fine del lavoro (1995) e all’era dell’accesso (2000) di Rifkin, alla wikinomics di Tapscott e Williams (2007), al punkcapitalismo di Matt Mason (2009), passando per l’Howard Rheingold della rete che ci rende intelligenti (2012), al Rifkin (ancora) della società a costo marginale zero (2014), ovvero all’internet delle cose, all’ascesa del commons collaborativo e quindi dell’eclissi del capitalismo. Senza dimenticare Negri e Hardt del Comune (2010). Per non citare che alcuni dei componenti di questo variegato mondo di profeti, di guru del post, abili nell’immaginare il nuovo regno di Dio-tecnica in terra, ma incapaci di fare preliminarmente una doverosa e foucaultiana archeologia dei poteri e dei saperi dominanti nelle società tecno-capitaliste. Quindi, incapaci di vedere come la soluzione da loro proposta per arrivare al postcapitalismo – più tecnologia che, da sola permetterebbe condivisione e libera circolazione delle idee – sia in contraddizione con l’essere la tecnologia ormai strettamente integrata al capitalismo (sono una cosa sola), la tecnologia permettendo al capitalismo di sopravvivere alle sue contraddizioni, il capitalismo essendo la benzina che permette alle nuove tecnologie di essere ciò che sono. Paradossale è dunque immaginare che quella tecnologia che sostiene il capitalismo e che lo ha reso globale (e globale e totalitaria la sua evangelizzazione) e che si serve del capitalismo per accrescere se stessa, possa giocare contro se stessa liberando se stessa (e gli uoimini) dal capitalismo che la sostiene.

Curioso: le ideologie o le religioni secolari del ‘900, che credevamo morte, sono in realtà più vive che mai e producono incessantemente nuove favole collettive, nuovi tecno-fideismi/tecno-integralismi che si offrono per dare un senso a un mondo apparentemente senza senso perché liquido, in realtà pesantissimo di connessioni obbligatorie, di incessanti pedagogie di adattamento non solo al mercato quanto alle nuove tecnologie. Che come le nuove tecnologie di vent’anni fa ci affascinano e ci promettono molto e continuamente cediamo alla loro richiesta di fede. Sanno di non avere mantenuto le promesse (meno lavoro, meno fatica, più libertà) e provano a rinnovare la promessa, chiedendoci di recitare nuovamente il loro Credo.

Ma cosa scrive Paul Mason, giornalista economico di simpatie laburiste, autore di libri di successo e ora di questo Postcapitalism, in uscita in traduzione italiana nei prossimi mesi? Che il capitalismo finanziario di questi ultimi anni – erede di quello industriale e di quello mercantile – avrebbe i giorni contati, posto che i mutamenti portati dalla rivoluzione informatica determinerebbero una modifica sostanziale dei modi di produzione e di consumo, metterebbero in discussione il sistema basato sulla legge della domanda e dell’offerta, della proprietà e dello scambio e lascerebbero progressivamente spazio ad una economia basata su tempo libero, attività in rete e gratuità.

Scrive Mason: «La tecnologia ha creato una nuova via d’uscita. Quello che resta della vecchia sinistra – e di tutte le forze che ne sono state influenzate – si trova di fronte a una scelta: imboccare questa strada o morire. Il capitalismo non sarà abolito con una marcia a tappe forzate ma grazie alla creazione di qualcosa di più dinamico, che inizialmente prenderà forma all’interno del vecchio sistema, passando quasi inosservato, ma che alla fine aprirà una breccia, ricostruendo l’economia intorno a nuovi valori e comportamenti. Lo chiameremo postcapitalismo».

Questo processo sarebbe già iniziato, grazie a tre grandi cambiamenti:

1) le nuove tecnologie «hanno ridotto il bisogno di lavoro, rendendo meno netto il confine tra lavoro e tempo libero e meno stringente il rapporto tra lavoro e salario». Vero, ma questo non ha liberato il lavoro, semmai lo ha reso indistinguibile dalla vita (quindi siamo meno liberi), ha moltiplicato ritmi e intensità del lavorare e ha favorito forme di lavoro e di sfruttamento (quasi) senza retribuzione mentre, cancellando la distinzione tra vita e lavoro (effetto diretto delle nuove tecnologie) ha prodotto una società a mobilitazione tecno-economica totale e permanente;

2) l’informazione «sta erodendo la capacità del mercato di determinare i prezzi in modo corretto. I mercati si basano sulla scarsità, mentre l’informazione è abbondante. Il meccanismo di difesa del sistema è formare monopoli – le grandi multinazionali tecnologiche di oggi – su una scala che non ha precedenti negli ultimi duecento anni. Ma questo non può durare (…) perché contrasta con il bisogno fondamentale dell’umanità di usare le idee liberamente». Assolutamente falso: il mercato sa benissimo come determinare i prezzi in modo corretto (per i propri profitti), grazie a delocalizzazioni, precarizzazione, sfruttamento, espropriazione della conoscenza altrui e condivisa, taylorismo digitale e rete e usa proprio le nuove tecnologie per farlo, come è altrettanto falso credere che l’informazione e la conoscenza siano abbondanti (siamo piuttosto in una società della semplificazione, non della conoscenza), la conoscenza e l’informazione sono sempre meno libere e sempre più controllate dai motori di ricerca, oltre ad essere fonte (Big Data) di alti profitti per pochi, mentre monopoli sempre più grandi sono sempre più grandi proprio perché noi permettiamo loro di esserlo sempre di più e perché è nella natura di un capitalismo non controllato;

3) stiamo assistendo «a una crescita spontanea della produzione condivisa: nascono beni, servizi e organizzazioni che non rispondono più ai principi del mercato e della gerarchia manageriale»; ma anche questo è falso, ormai il mercato è ovunque e in ogni relazione umana (il neoliberismo vive in ognuno di noi come una consolidata disciplina dentro una consolidata biopolitica), il lavoro è sempre più merce e sempre più sfruttato – a meno di considerare produzione condivisa la sharing economy, l’uberizzazione del lavoro, il dover essere imprenditori di se stessi. Certo, ancora Mason: «Quasi inosservati, nelle nicchie e negli angoli più nascosti del sistema di mercato, interi settori economici stanno cominciando a prendere un’altra strada. Monete parallele, banche del tempo, cooperative e spazi autogestiti sono spuntati come funghi», ma in verità sono anni che ci raccontiamo questa bella storia e ciò che è nascosto e inosservato resta nascosto o ai margini, non riesce a scalfire la potenza di fuoco del tecno-capitalismo, oppure si fa parte del sistema come le banane del commercio equo e solidale al supermercato. Intanto i beni comuni vengono aggirati dalle logiche di mercato (come in Italia per l’acqua, nonostante il referendum) e la sharing economy è comunque sotto forma di impresa e agisce secondo il mercato, socializzandolo.

Mason si rifà a Marx e al suo Frammento sulle macchine, all’idea di un intelletto generale, «una sorta di mente collettiva collegata attraverso la conoscenza sociale, in cui ogni progresso va a beneficio di tutti. In breve, Marx immaginava qualcosa di molto simile all’economia dell’informazione in cui viviamo oggi. E aggiunge che la sua venuta farà saltare in aria il capitalismo». Ma è evidente – dovrebbe essere evidente – che l’intelletto generale di Marx non è qualcosa di simile all’economia dell’informazione e soprattutto non farà saltare in aria il capitalismo proprio perché l’economia dell’informazione e della conoscenza è basata anch’essa sulla suddivisione/individualizzazione del lavoro e poi sulla sua integrazione/totalizzazione in qualcosa che è sempre e comunque alienato dal lavoratore stesso e alienante il lavoratore, sia esso uberizzato o lavoratore della conoscenza e dell’informazione.

Ci vuole ben altro, allora, per uscire dal tecno-capitalismo. Occorre una destrutturazione di tutti i meccanismi eteronomi e anti-democratici di messa al lavoro degli uomini (mercato e tecnica); una liberazione dai vincoli di connessione (di rete e mercato) e di alienazione; un anticonformismo digitale;  una laicizzazione della società contro l’integralismo religioso del tecno-capitalismo; una separazione netta (ma decisa dagli uomini, non dalle macchine posto che la loro logica è quella dell’uso esaustivo del tempo e della produttività da accrescere sempre e comunque), tra tempi di vita e tempi di lavoro. Ma occorre soprattutto una riconsiderazione radicale (un rovesciamento) dei rapporti tra economia (che deve tornare ad essere un mezzo) esocietà (che deve tornare ad essere il fine).

Bibliografia essenziale

Demichelis L. (2015), La religione tecno-capitalista, Mimesis, Milano.

Formenti C. (2011), Felici e sfruttati, Egea, Milano.

Hardt. M.- Negri A. (2010), Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano.

Ippolita (2014), La Rete è libera e democratica. Falso!, Laterza, Roma-Bari.

Mason M. (2009), Punkcapitalismo, Feltrinelli, Milano.

Mason P., Postcapitalismo (in uscita da il Saggiatore nel 2016)

Morozov E. (2014), Internet non salverà il mondo, Mondadori, Milano.

Rampini  F. (2014), Rete padrona, Feltrinelli, Milano.

Rheingold  H. (2013), Perché la rete ci rende intelligenti, Cortina, Milano.

Rifkin J. (1995), La fine del lavoro, Baldini&Castoldi, Milano.

Rifkin J. (2000), L’era dell’accesso, Mondadori, Milano.

Rifkin J. (2014), La società a costo marginale zero, Mondadori, Milano.

Tapscott  D. (2011), Net generation, FrancoAngeli, Milano.

Tapscott D. – Williams A. D. (2007), Wikinomics, Rizzoli-Etas, Milano.

(8 ottobre 2015)

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contro la violenza degli sgomberi forzati dei rom

#peccatocapitale, Roberto Saviano firma contro gli sgomberi forzati dei rom

l’autore di Gomorra e dei noti reportage-denuncia sulla criminalità organizzata ha sottoscritto la campagna lanciata dell’Associazione 21 Luglio: “Questo appello è prima di tutto un richiamo al nostro dovere”

Anche lo scrittore partenopeo, noto nel Paese per i suoi scritti-denuncia sul fenomeno della criminalità organizzata, ha sottoscritto #peccatocapitale, la campagna lanciata dall’Associazione 21 Luglio per denunciare la politica di sgomberi forzati ai danni delle comunità rom della città.

Come denunciato nel rapporto presentato il 5 Ottobre alla stampa, se ne contano in sette mesi “già 71”, con “circa 1100 persone” coinvolte e un costo per il Comune di 1.342.850 euro”. Il tutto da marzo 2015, da quando il Papa ha annunciato il Giubileo.

Di seguito riportiamo quanto pubblicato da Roberto Saviano sul suo blog. 

Ci sono persone a Roma che le istituzioni vorrebbero far sparire come la polvere. Sono le famiglie rom e sinti che vivono ai margini della capitale, in baracche fatiscenti. Eppure quelle baracche sono casa. L’unica per i loro figli.

Dal 13 marzo scorso gli sgomberi forzati di comunità rom a Roma sono triplicati. La data coincide con l’annuncio da parte di Papa Francesco del Giubileo della Misericordia. Il Giubileo inizierà l’8 dicembre e sembra che entro quella data si voglia far pulizia degli insediamenti informali in cui i rom vivono, togliendo il problema dalla vista, ma senza affrontarlo, senza provare a risolverlo.

Perché, come denuncia l’Associazione 21 luglio, che da anni si occupa della difesa dei diritti umanitari fondamentali disconosciuti alle comunità rom, gli sgomberi forzati violano i trattati internazionali e spostano il problema un po’ più in là, di qualche settimana o di qualche chilometro.

Gli sgomberi forzati sono una violazione dei diritti umani, avvengono in disaccordo con le procedure legali, contro la volontà di chi occupa gli alloggi, senza alcuna garanzia formale, senza offrire un’alternativa e lasciando intere famiglie senza tetto.

A farne le spese sono soprattutto i più piccoli, i bambini, che perdono continuamente un riferimento abitativo. Ma sono anche i municipi, le amministrazioni comunali, a cui gli sgomberi costano centinaia di migliaia di euro, denaro che potrebbe essere meglio investito nella ricerca di soluzioni definitive.

Invece si preferisce esacerbare le tensioni, creare muri tra queste comunità e le istituzioni. Innalzare barriere sempre più alte di diffidenza e paura, sentimenti che non hanno mai il pregio di risolvere, ma sempre di complicare situazioni complesse.

Impedire gli sgomberi forzati significa difendere il diritto a un alloggio adeguato, riconosciuto dai trattati internazionali sottoscritti anche dall’Italia. Significa impedire che si violi la legge oltre che la dignità umana.

L’Associazione 21 luglio ha lanciato la petizione #PeccatoCapitale contro quanto sta accadendo

 

 

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che cosa può fare a questo punto il papa …

una proposta per il Sinodo

le indicazioni del teologo José Maria Castillo

 All’inizio del Sinodo della Famiglia, crescono e salgono di tono nella Chiesa le voci allarmate che parlano di “scisma bianco”, “scisma rosso” (Jorge Costadoat). O chi, come è il caso del cardinale Kasper, arriva ad insinuare che stiamo entrando in uno “scisma pratico”, ossia (se ho capito bene) uno scisma che nessuno formula in teoria, ma che nella pratica quotidiana della vita funziona dividendo i cattolici e spaccando la Chiesa. 

Per questo, ora più che mai, è il momento di chiedersi: cosa può fare il papa in questa questione, poiché le cose stanno così?

Castillo

Come è logico, si dovrà aspettare e vedere come si svolgerà il Sinodo e soprattutto dovremo sapere quello che, dopo il Sinodo, dice e decide il papa. Ma è proprio per questo, per segnalare quello che, secondo la mia modesta opinione, considero come la cosa più opportuna che il papa potrebbe – e forse dovrebbe – fare nella situazione che stiamo vivendo nella Chiesa in questo momento. Per questo oso presentare la proposta seguente.
Prima di tutto, considero che è fondamentale avere molto chiaro il fatto che sul tema della famiglia non siamo di fronte ad una questione di Fede. Per la semplice ragione che, se pensiamo e parliamo della famiglia a partire dalla Fede dogmatica professata dalla Chiesa, non esiste alcuna definizione dogmatica nel Magistero della Chiesa su questa problematica. 
E, se qualcuno trova un documento magisteriale definitorio sul modello di famiglia o persino sull’indissolubilità del matrimonio, lo dica. 
Inoltre, i testi biblici di Mt 19,1-9 e di Mc 10,1-12, ampiamente studiati e discussi dall’esegesi meglio documentata, hanno dimostrato abbondantemente che non si riferiscono alla problematica attuale se il matrimonio sia o no indissolubile. In questi testi, Gesú si oppone al diritto unilaterale che (secondo Dt 24,1), aveva l’uomo per ripudiare la donna, soprattutto se faceva tale cosa “per qualsiasi motivo” (Mt 19,3). Questo indica chiaramente che Gesú non si riferisce all’indissolubilità del matrimonio, ma al diritto unilaterale dell’uomo nei confronti della donna che, secondo la legge di Mosé, non aveva questo diritto. Una mancanza di protezione della donna, che si aggravava a causa degli insegnamenti della scuola di rabbi Hillel, che arrivava a permettere il ripudio della sposa “per qualsiasi motivo” (Mt 19, 3).
D’altra parte, il fatto che per secoli si erano conservate tra i cristiani alcune pratiche ed alcune determinate abitudini su questa questione, non è (né può essere) un argomento determinante per obbligare il papa a conservare, in maniera irrevocabile, alcuni determinati usi o pratiche, per quanto queste pratiche e questi costumi si considerino inamovibili e per quanto rispettabili siano le persone che hanno la pretesa di conservare un determinato modello di famiglia. 
Coloro che affermano che la Chiesa non può in nessun caso ammettere il divorzio, dimostrano un’ignoranza incomprensibile, poiché, nel dire questo, ignorano che la Chiesa per secoli ha ammesso il divorzio in determinati casi. 
Per esempio, nella risposta che il papa Gregorio II, nell’anno 726, invió al vescovo san Bonifacio (PL 89, 525). Così come nella risposta del papa Innocenzo I a Probo (PL 20, 602-603). Dottrina che fu raccolta nel Decretum Gratiani nel secolo XI (R. Metz – J. Schlick, “Matrimonio y divorcio”, Salamanca 1974, 102-103; M. Sotomayor, “Tradición de la Iglesia con respecto al divorcio. Notas históricas”: Proyección 28 (1981) 55). 
Stando cosí le cose, la cosa più ragionevole che si possa suggerire in questo momento, è che il papa debba sentirsi libero per prendere una decisone pastorale che aiuti la Chiesa intera e nel suo insieme a far maturare la dottrina teologica da seguire. E, soprattutto, la pratica pastorale che si deve adottare, almeno finché le cose non si vedano con più chiarezza e precisione. 
Detto ciò e ammesso il confronto che di fatto esiste nella Chiesa su questo problema, mi pare che la cosa più ragionevole da suggerire al papa sarebbe – al momento, almeno – di lasciare i pastori ed i fedeli nella Chiesa nella libertà di procedere secondo la propria coscienza. In maniera tale che nessuno si senta, né possa sentirsi con il diritto ed il dovere di imporre il proprio punto di vista in una questione sulla quale non esiste un insegnamento biblico, né una dottrina magisteriale che lo possano imporre a partire dalla Fede. Così come non esiste nella storia della Chiesa un insegnamento o una pratica uniforme, chiara e ferma con riferimento alla difesa dell’indissolubilità del matrimonio, come ora hanno la pretesa di imporre alcuni vescovi ed altre cariche ecclesiastiche. 
Siamo, quindi, di fronte ad una questione sulla quale sappiamo che esiste un notevole pluralismo tra i credenti in Gesù Cristo, in maniera tale che, esistendo tale pluralismo, il papa non potrebbe prendere la decisione di pronunciare una definizione dogmatica su di un tema sul quale la “Fede della Chiesa” non è uniforme e non ha le condizioni necessarie per il pronunciamento di una definizione dogmatica, come è stato detto nella definizione dell’infallibilità pontificia del concilio Vaticano I (DH 3074) e nella precisazione che su questo punto capitale ha fatto il Vaticano II (LG n. 25).
 
(*) traduzione dallo spagnolo di Lorenzo Tommaselli
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